In Vetta 7^ Parte

di
genere
trio

la luce del pomeriggio illuminava l’ufficio quando Lorena alzò lo sguardo dallo schermo, sospirando.
Era martedì, metà pomeriggio, una riunione da preparare e una call in ritardo. Il solito vortice.
Prese la tazzina di caffè e si portò una mano ai capelli, cercando un attimo di quiete tra l’ennesima scadenza e l’agenda che si aggiornava da sola.
Poi il suono secco della notifica.
Un nuovo messaggio, nessun oggetto.
Mittente: Thomas.
Il suo cuore ebbe un sussulto impercettibile, ma il viso rimase immobile.
Cliccò.
Lorena,
Non userò giri di parole.
Voglio solo chiederti questo:
Se ti proponessi un’esperienza in cui non ti è concesso sapere nulla, se non che è pensata per te... accetteresti?
Quella notte non era un punto d’arrivo. Era l’inizio di qualcosa che possiamo scoprire solo insieme, un passo alla volta.
Sabato. Ore 20:00.
Un autista ti attenderà.
Nessun cellulare.
Un abito da cocktail nero.
Niente biancheria.
Capelli sciolti.
Trucco appena accennato.
Tutto è già pronto.
Nulla ti sarà imposto.
Ma ogni dettaglio è stato pensato per condurti dove non sei mai stata.
Non per toglierti nulla.
Ma per farti scoprire cos’altro puoi provare.
Se non ti presenterai, non ci sarà alcuna conseguenza.
Ma se sceglierai di venire, saprò che vuoi continuare.
Thomas
Lorena rimase lì, in silenzio. Lo schermo illuminava appena il suo volto, ma gli occhi erano altrove.
Le dita tamburellavano sul bordo della tazzina.
Era passata da poco mezz’ora, ma Lorena non aveva ancora ripreso il ritmo del pomeriggio.
La mail di Thomas le si era incollata addosso come un profumo tenace, e per quanto cercasse di scrollarsela di dosso — rispondendo a un collega, firmando un documento — il pensiero tornava lì, ostinato, vivo.
Si tolse gli occhiali e si allungò indietro sulla sedia, incerta se sorridere o sospirare. Poi, senza rileggere né rivedere nulla, aprì la finestra di risposta e iniziò a digitare.
Scrisse che avevano un accordo, e che lei lo aveva rispettato fino all’ultimo. Che quella notte in albergo — forte, intensa, completa — doveva essere esattamente ciò che era stata: un cerchio chiuso, un’esperienza piena, senza aspettative, senza alcun seguito. Gli ricordò, con cortese fermezza, che aveva scelto lei di concluderla, e che il modo stesso in cui lui aveva scritto, senza preavviso e sul canale professionale, dava l’impressione netta che stesse violando quel patto.
Premette invio senza esitare. Aveva scritto esattamente ciò che voleva. Un messaggio pulito, elegante, definitivo.
La risposta di Thomas arrivò il mattino dopo. Era breve, senza oggetto, senza formule di apertura. Ma lei la riconobbe subito. Non nel tono, ma nella precisione.
Lui le scriveva che nessun patto era stato infranto. Che aveva compreso perfettamente il significato di quella chiusura. E proprio per questo, ora le proponeva qualcosa di diverso. Non sarebbe stato presente, né fisicamente né in alcun ruolo attivo. Le scriveva che non l’avrebbe toccata, non le avrebbe parlato, ma che l’avrebbe vista. Per tutto il tempo.
Poi, la frase che la colpì più di ogni altra:
"E saprò riconoscere il momento in cui il tuo corpo inizierà a parlare da solo. Quando non serviranno parole per sapere che hai scelto tu, ancora una volta."
Nessuna imposizione. Nessuna pressione. Solo un’offerta lucida, calibrata, quasi chirurgica.
Concludeva così:
"Hai tutto il tempo che vuoi. Ma non farti domande di principio. Chiediti solo questo: ti stai accontentando?"
Lorena rimase ferma, lo sguardo fisso sullo schermo.
La mail non la infastidiva, non davvero. Semmai la sfidava. Le si infilava sotto pelle, ma con eleganza.
Aveva tutto il diritto di ignorarla. Bastava chiudere, dimenticare, sorridere e dire a se stessa che Thomas era solo un ricordo, uno sfogo controllato, una parentesi chiusa con dignità.
Ma non era vero.
Dentro di lei si muoveva qualcosa di più profondo.
Il pensiero che lui avesse visto tutto. Che avesse diretto ogni cosa, anche l’illusione della libertà. Che sapesse quanto, proprio in quel lasciarsi condurre, lei avesse ritrovato parti sepolte da anni.
Non si trattava di fiducia. Non era più nemmeno desiderio.
Era un istinto affilato, un richiamo sottile verso un luogo ignoto.
Non sapeva dove, né come, né chi. Ma sapeva che se fosse salita su quell’auto, non avrebbe potuto mentire a se stessa.
E la domanda restava lì, limpida, nuda, impossibile da ignorare.
“Ti stai accontentando?”
Il sabato arrivò lentamente e la giornata scorse ancora più pesante, ma l’ora era arrivata.
La porta dell’armadio si richiuse con un lieve scatto.
Lorena si osservò un’ultima volta nello specchio dell’ingresso. Non stava cercando conferme, solo equilibrio.
L’abito da cocktail nero le accarezzava il corpo come un guanto cucito su misura. Nessuna scollatura eccessiva, nessuna provocazione apparente. Solo aderenza. Linee pulite. Un’eleganza nuda e silenziosa che lasciava intendere più di quanto mostrasse.
Sotto, nulla.
Né reggiseno né mutandine. Solo pelle, e il ricordo preciso della mail.
Aveva lasciato il cellulare spento in camera, chiuso in un cassetto.
Un gesto che, al momento, le era parso ovvio. Ma ora, mentre scendeva lentamente le scale del suo palazzo, sentiva il vuoto che lasciava. Un vuoto che sapeva di libertà.
Fuori, l’aria della sera era tiepida e quasi immobile.
In fondo alla via, una berlina nera, lucida, parcheggiata con precisione. Il motore acceso, discreto. Il conducente non scese, ma quando la vide avvicinarsi, spalancò automaticamente la portiera posteriore.
Lei non esitò.
Un solo istante per sistemare l’orlo dell’abito sulle cosce e poi salì. Il sedile era morbido, profumato di pelle nuova e qualcosa di più indefinito — legno, ambra, memoria.
L’autista non le rivolse la parola.
Fece solo partire l’auto, lasciandosi alle spalle i lampioni della sua zona residenziale.
Lei restò in silenzio. Le mani unite in grembo, lo sguardo rivolto fuori dal finestrino. Le luci della città scorrevano lente, riflettendosi sul vetro come riverberi d’acqua. Non conosceva la destinazione, ma non voleva saperla. Non questa volta.
Dopo circa venti minuti, l’auto si fermò.
Il conducente scese, aprì la portiera posteriore e fece un semplice gesto con la mano, come a invitarla a uscire. Nessun hotel, nessuna insegna. Solo una porta di legno lucido in fondo a un breve vialetto, tra due pareti di vetro smerigliato. Nessun nome, nessun suono.
Lorena scese con passo lento, calcolato.
Ogni rumore dei tacchi sull’acciottolato sembrava misurato, deciso, inevitabile.
Si avvicinò alla porta.
Non dovette suonare.
Al suo arrivo, si aprì.
La porta si chiuse dolcemente alle sue spalle. Nessun rumore, nessun clic metallico. Solo il silenzio denso di un luogo chiuso al mondo.
Davanti a lei, una stanza rettangolare, illuminata da luci morbide ma precise.
Non era un ambiente teatrale. Né un salotto da ricevimento.
Sembrava una stanza di passaggio.
Di svuotamento.
Di trasformazione.
Alle pareti, specchi.
Una parete era occupata da un mobile basso con piccoli cassetti.
Una sedia imbottita, al centro.
Appesi su una barra, accappatoi di spugna bianchi perfettamente piegati.
E due donne.
Non giovani.
Né anonime.
Vestite con tuniche nere, morbide, senza cintura. Entrambe con i capelli raccolti, pelle curata, mani ferme.
Nessuna emozione sul volto, solo precisione.
La guardarono. E le fecero un cenno.
Una parlò con voce piana, quasi medica:
— Benvenuta, Lorena. Ti aiuteremo a lasciare ciò che non serve.
— Qui non ti serve nulla di ciò che hai indosso. Nemmeno il tuo nome.
La seconda aprì un cassetto, estrasse un elastico e si avvicinò.
Lorena non si mosse.
La donna le sciolse i capelli, li raccolse in una coda alta, stretta.
Le fece segno di togliere le scarpe.
Poi, con una calma assoluta, iniziò a sbottonarle l’abito, dal collo alla coscia, mentre l’altra lo prendeva sul fondo.
Nessuna esitazione, nessuna lentezza studiata.
Solo movimenti secchi, silenziosi, esperti.
L’abito scivolò giù.
Lorena restò nuda.
Le due donne non mostrarono alcuna reazione.
Solo professionalità.
Uno degli accappatoi le fu passato.
Bianco, spesso, pulito ma impersonale.
— Copriti, se vuoi — disse una delle due, già alle sue spalle. — Ma sarà solo per poco.
La fecero accomodare sulla sedia.
E lì iniziò la preparazione.
Depilazione. Cura della pelle. Controllo dei piedi.
Ogni zona venne ispezionata, rasata, idratata.
Con guanti sottili. Con rispetto. Ma senza chiedere il permesso.
Poi il trucco.
Marcato, evidente, quasi teatrale.
Occhi carichi di ombre scure e brillanti.
Eyeliner netto, lunghissimo.
Labbra lucide, piene, disegnate con precisione chirurgica.
Quando le passarono il pennello finale sulle guance, una delle due le sussurrò:
— Ora non sei più quella che è entrata.
E tra poco, non sarai ancora quella che verrà guardata.
Il pavimento era morbido sotto i piedi nudi, ricoperto da una moquette chiara che sembrava attutire ogni suono.
Lorena percorse il corridoio senza fretta. La pelle, ancora calda per il trattamento appena ricevuto, sembrava reagire a ogni spostamento d’aria, a ogni riflesso di luce dorata lungo le pareti.
Il suo volto, truccato come mai prima, si rifletteva appena nei pannelli lucidi. Non si riconosceva del tutto.
E non era un errore.
Davanti a lei, la porta si aprì senza un suono.
Oltre la soglia, la sala.
Non immensa, ma sorprendente.
Lorena si trovava su un ballatoio sospeso, una passerella sottile che correva lungo le pareti alte, come un anello sopraelevato.
Le luci erano basse, ma precise.
Al centro, sotto di lei, una pedana rotonda, vuota, di circa tre metri di diametro, illuminata da un fascio diretto che sembrava tagliare il buio circostante.
Tutto il resto era ombra.
Ma lei sapeva, lo sentiva in ogni fibra, che non era sola.
C’erano presenze.
Non si vedevano volti, ma forme statiche, sedute in nicchie ricavate lungo le pareti.
Alcune gambe accavallate.
Braccia incrociate.
Sguardi invisibili puntati solo su di lei.
Il silenzio era assoluto.
Non imbarazzato.
Carico.
Poi, una voce femminile, calma, profonda, riempì la sala senza provenire da alcun punto preciso.
— Benvenuta.
Una pausa.
— Sei stata preparata. Ora puoi scegliere.
Quando sarai pronta, scendi.
Quella luce al centro… è tua.
E chi è qui, lo è per vederti.
Solo se vorrai.
Lorena deglutì.
Il suo corpo era già teso.
Le gambe leggere sotto l’accappatoio, la pelle viva, i capezzoli già rigidi contro la spugna.
La passerella si apriva in una scala stretta, che scendeva con eleganza e lentezza verso il cuore della sala.
Il punto dove tutto sarebbe cominciato.
Ma non c’era nessuna musica.
Nessuna pressione.
Solo silenzio. E lei.
Lorena fece il primo passo.
Il piede nudo toccò il gradino con fermezza, senza esitazioni.
La scala, in legno scuro e satinato, scendeva dolce, curva, guidandola verso la pedana illuminata al centro della sala.
Nessuno parlava.
Nessuno si muoveva.
Ma ogni presenza nell’ombra tratteneva il fiato.
Come se quel gesto — quel semplice gesto — valesse più di qualunque parola.
Al secondo gradino, Lorena portò le mani alla cintura dell’accappatoio.
Non si fermò.
Non cambiò espressione.
Sciolse il nodo.
Il tessuto bianco si aprì appena, seguendo il movimento lento del corpo.
Le spalle, poi il seno.
La curva dei fianchi.
Il ventre teso.
Nulla fu esibito: tutto fu svelato.
Al quarto gradino, l’accappatoio le scivolò via.
Cadde all’indietro, silenzioso come neve, e restò impigliato tra i gradini alti, come un testimone abbandonato.
Lorena non si voltò.
Non lo raccolse.
Non ne ebbe bisogno.
Il suo corpo, nudo, esposto, perfetto nella tensione della scelta, avanzava lentamente verso la luce.
I seni pieni, liberi, seguivano il ritmo dei suoi passi.
Il ventre piatto e contratto si apriva nella linea sottile delle anche.
Il pube liscio, teso, lucido.
Il trucco sul volto era netto, implacabile.
Maschera e verità insieme.
Le luci seguirono la sua discesa come fossero vive.
Il centro della sala l’attendeva.
Lei vi entrò senza più nulla addosso.
Né stoffa.
Né ruolo.
Né protezione.
Quando il piede toccò la pedana, un battito sordo risuonò nella sala.
Forse un suono, forse un riflesso del cuore di tutti quelli che erano lì.
O forse il suo.
Appena posato il piede sulla pedana, Lorena sentì la superficie cedere leggermente sotto il suo peso.
Non in modo instabile — piuttosto come se il pavimento avesse riconosciuto la sua presenza.
Un cerchio luminoso si accese sotto di lei, accompagnato da un suono delicato, profondo, come un respiro elettronico.
Al centro della pedana, pochi centimetri davanti a lei, notò un piccolo vassoio circolare, in metallo satinato.
Sopra, un paio di auricolari neri.
Minimalisti. Lucidi.
Posizionati con precisione chirurgica, come fossero parte di una cerimonia.
Non c’era nessun biglietto.
Nessuna spiegazione.
Solo attesa.
Lorena si chinò, senza fretta.
Sentì l’aria muoversi tra le cosce nude, il riflesso della luce colpirle la pelle tesa del ventre.
Raccolse gli auricolari e li osservò un attimo.
Erano leggeri, caldi. Come se qualcuno li avesse tenuti tra le mani fino a un secondo prima.
...Li indossò.
Uno per volta.
Il clic morbido del silicone contro l’orecchio.
Poi… silenzio.
Ma non era silenzio vero.
Era attesa.
E infine, la voce.
Bassa.
Riconoscibile.
Precisa.
Thomas.
— Lorena.
Sei bellissima.
E ora… sei dentro.
Un respiro profondo. Il suo. Lei lo riconobbe: non finto, non studiato. Vero.
— Nessuno in questa sala potrà parlarti.
Nessuno potrà toccarti.
Se non lo richiederai tu.
Una pausa lunga.
Quel silenzio che nella sua mente aveva un suono preciso: quello del potere che ora era tutto nelle sue mani.
— Ogni tuo gesto sarà osservato.
Ogni respiro, amplificato.
Ogni segnale del tuo corpo, raccolto.
Ma nessuno potrà sfiorarti se non sarà il tuo desiderio a farlo accadere.
Un altro respiro.
— Non sei sola.
Lorena era ferma al centro della pedana.
Le gambe leggermente divaricate, la schiena eretta, il mento sollevato.
Non si copriva.
Non si muoveva.
Ma il suo respiro aveva già cambiato ritmo.
Dagli auricolari, la voce di Thomas era tornata.
Non forte, ma piena.
Non urgente, ma lenta come una lama calda sulla pelle.
— Resta così.
Non fare nulla.
Ascolta quello che sei.

— I tuoi capezzoli sono tesi.
Li vedo anche da qui.
Non servono mani, Lorena.
Il tuo corpo sta già reagendo.
Come se la sala ti stesse toccando tutta insieme.
Lei chiuse gli occhi un istante.
Avvertì un brivido netto salire dalla base della schiena fino alle scapole.
Le luci non si mossero.
Ma l’aria sembrava stringerle i polsi.
La voce continuava, più bassa.
Quasi intima.
— Le tue cosce sono lucide.
Hai caldo, lo sento.
Hai cominciato a bagnarti.
Non per qualcosa che hai fatto…
Ma per come stai venendo guardata.
Lorena deglutì, appena.
La gola secca, il ventre contratto.
Avvertì la pelle tesa sulle labbra della vulva, come se ogni sguardo la stesse aprendo poco a poco, centimetro dopo centimetro.
Senza contatto.
Solo desiderio.
Un fremito le attraversò il pube.
Una fitta lenta, carnale.
Come un’onda pronta a montare.
Si voltò appena, con gli occhi.
E lì, nell’ombra, vide qualcosa muoversi.
Una figura seduta. Una donna.
Vestita, ma con la mano tra le gambe.
Immobile.
Ma la stava guardando.
E stava godendo.
Guardando lei.
Solo lei.
Lorena sentì le ginocchia cedere appena.
Nulla di visibile.
Solo una vibrazione interna.
Un moto profondo che stava salendo, lento, dal centro esatto del suo sesso.
La voce di Thomas tornò.
— Ora lo senti.
Il tuo corpo non ti appartiene più.
Lo hai consegnato.
Ma sei ancora tu a decidere.
Puoi continuare così.
Puoi lasciarlo crescere.
O puoi…
cedere.
Lorena non si coprì.
Non si trattenne.
Sapeva di essere vista.
E in quel preciso istante, volle esserlo davvero.
La mano scese tra le cosce con un gesto deciso.
Poi, senza alcuna esitazione, abbassò il bacino e si accucciò, piantando bene i piedi sulla pedana.
Le gambe si aprirono larghe.
Molto.
I talloni ben fermi, le ginocchia divaricate, la schiena dritta.
Il suo pube, bagnato, lucido, si aprì davanti alla sala intera.
Le piccole labbra tese, gonfie, palpitanti, erano ora il centro geometrico dell’intero spazio.
Le dita cominciarono a muoversi.
Lente.
Precise.
Entravano appena, scivolavano sul clitoride, lo sfioravano, lo stringevano, poi tornavano a scavare nella piega più profonda.
Il microfono ambientale captò ogni cosa.
Ogni respiro.
Ogni gemito.
Ogni suono bagnato, osceno, reale.
E tutto fu amplificato.
Nella sala — sospesa in un silenzio ipnotico — le casse iniziarono a restituire la sua voce.
Ma non solo fuori.
Anche dentro.
Gli auricolari nelle orecchie la rispedivano a se stessa.
I suoi gemiti — sempre più rotti, sempre più affannati — le rimbalzavano nel cranio.
La sua lingua umida, la gola socchiusa, la sua stessa voce la stava facendo impazzire.
Era come essere fuori dal proprio corpo e dentro allo stesso tempo.
Gemette.
Poi ancora.
Più forte.
Le cosce tremavano.
Le dita non si fermavano più.
Il viso, inondato dalla luce calda, era deformato dal piacere: bocca spalancata, fronte imperlata, sopracciglia inarcate.
Non aveva più pudore.
Non aveva più protezione.
Solo piacere.
Solo carne.
Solo eco.
Aveva quasi perso il controllo.
Accucciata al centro della pedana, con le gambe larghe, il sesso in piena vista, le dita affondate e bagnate fino al palmo. I suoi gemiti, sparati nelle casse e rimbalzati dentro le orecchie, sembravano provenire da un’altra donna. Una creatura che respirava sopra e sotto di lei. Dentro e fuori.
Il ventre si contraeva, il pube si tendeva verso le mani. Le cosce tremavano. Il piacere la attraversava a ondate sempre più violente, sempre più vicine.
Ancora un gesto, uno soltanto, e sarebbe stata travolta.
Ma non arrivò.
In quell’ultimo istante, quando sentì il calore risalirle la spina dorsale e il respiro schiantarsi nel petto, qualcosa la riportò indietro.
Un’immagine precisa, troppo viva per essere solo un ricordo.
Il corpo di lei. La donna.
La bocca che si muoveva tra le sue cosce con lentezza inumana, divorandola senza rabbia, solo con metodo. Le dita, forti e fluide, che la tenevano aperta. La voce, assente, perché il linguaggio era un altro.
Lorena si fermò.
Senza teatralità.
Tirò via la mano dal sesso con un gesto secco, la lasciò sospesa accanto alla coscia. Le dita erano lucide, brillanti.
Ma il suo viso non era più quello di prima.
Era acceso. Aperto. Vivo.
E lucido.
Si sollevò lentamente, con grazia felina, ancora tremante, ma non più in balìa di nulla.
Il pubblico, immerso nel silenzio, non sapeva se trattenere il fiato o iniziare a respirare.
Il corpo di Lorena, nudo, teso, pieno di piacere interrotto, brillava sotto la luce come una statua di carne. Ma ora non sembrava più sul punto di cedere.
Sembrava sul punto di scegliere.
Nelle orecchie, la voce di Thomas arrivò sottile, quasi stupita.
“Ti sei fermata.”
Nessun rimprovero. Nessun dubbio.
Solo un attimo di silenzio, poi un’inflessione appena accennata, più calda.
“Brava.”
E infine, con un tono basso, come se stesse sorridendo da lontano:
“Allora vuoi che sia qualcun altro… a portarti dove stavi per arrivare da sola.”
Lorena non rispose.
Ma qualcosa nel suo corpo si rilassò, come se l’avesse appena fatto.
Poi alzò appena il mento e guardò verso la sala, verso le ombre ferme che la circondavano.
Non c’era più paura, né vergogna, né urgenza.
Lorena era ancora ferma al centro della pedana. Il respiro le attraversava il petto con lentezza, come se volesse restare lì, sospesa tra l’orgasmo mancato e il potere appena conquistato. Le cosce ancora brillavano di umori, ma non tremavano più. Il corpo non era più in balìa. Era pronto.
La luce rimase fissa su di lei per un lungo momento, e nel silenzio assoluto della sala si sentì un suono secco, un colpo appena percettibile, come uno scatto. Dal soffitto, qualcosa cadde. Scese dritto, con la leggerezza di un gesto studiato. Nessun rumore brusco. Solo un oggetto che atterrava dolcemente ai suoi piedi.
Lorena abbassò lo sguardo e lo vide. Piegato con precisione, trattenuto da un nastro, posato come un segno. Si chinò e lo raccolse, sentendo sotto le dita il tessuto teso, elastico, appena tiepido. Lo aprì senza fretta, senza bisogno di chiedersi cosa fosse: un body nero, lucido come vernice bagnata, tagliato a perizoma, altissimo sui fianchi, con due sole strisce che salivano a coprire i seni, per poi incrociarsi e chiudersi dietro il collo.
Nessuna voce, nessuna istruzione. Ma il gesto era già dentro di lei. Infilò una gamba, poi l’altra. Tirò su il tessuto e sentì il perizoma insinuarsi tra le labbra gonfie, già umide, come se il tessuto stesso volesse sostituirsi alla mano che poco prima l’aveva fatta vibrare. Le strisce nere salirono lungo il busto, si posarono sui seni ancora tesi e scivolarono fino alla nuca. Le annodò con calma, con precisione. Non per coprirsi. Ma per completarsi.
Ora era vestita. Eppure più nuda di prima.
Il body aderiva come una pelle artificiale, lucente, ostentata. Non lasciava spazio all’immaginazione, ma le regalava una nuova identità: non più solo la donna che si era mostrata, ma quella che ora veniva scelta, accolta, trasformata.
Nel silenzio della sala, i suoi occhi cercarono qualcosa nel buio. Nessuno parlava. Nessuno si muoveva. Ma lei sapeva che, in quel momento, ogni sguardo era su di lei. Non sulla nudità che aveva mostrato, ma su ciò che stava per diventare.
Stava ancora legando l’ultima parte del body dietro il collo quando, quasi senza pensarci, mormorò qualcosa. La voce uscì bassa, incerta se rompere davvero il silenzio. “Posso scegliere chi voglio?” Non sapeva se qualcuno l’avesse sentita, o se fosse stato solo un pensiero detto troppo a voce alta. Ma la risposta arrivò, netta, immediata, senza esitazione. “Certo. A meno che chi scegli non abbia intenzione di rifiutarti.”
Lorena rimase immobile per un battito. Quelle parole non erano un permesso. Erano una chiave. Un’apertura. Un invito. Loro potevano guardarla, ma ora sarebbe stata lei a guardare loro.
Scese dalla pedana con una lentezza felina, il corpo incorniciato dalla luce che ancora la seguiva a ogni passo. Il body nero, teso, lucido, rifletteva ogni piega del suo ventre, dei suoi seni, dei glutei. Ogni centimetro del suo corpo sembrava pronto a dichiararsi. I piedi nudi toccavano il pavimento con sicurezza, le anche si muovevano appena, con una flessuosità naturale, silenziosa, letale. Non cercava di farsi guardare. Era inevitabile.
Si addentrò nella sala. Le luci non cambiavano, ma ora sembrava che l’ombra stessa si spostasse al suo passaggio. Guardava. Osservava. Penetrava gli angoli bui con lo sguardo. Alcune figure sedevano dritte, con il volto fermo, altre si voltavano appena, altre ancora abbassavano gli occhi.
Poi lo vide.
Era seduto in fondo, un po’ più nell’ombra degli altri. Le gambe divaricate, il busto proteso in avanti, come se il corpo volesse andare incontro a lei, ma la testa non ne avesse il coraggio. Non si muoveva. Ma la sua fame era evidente. La fissava. Poi, quando i loro occhi si incrociarono, distolse lo sguardo.
Non fu un gesto teatrale, né timido. Fu un istinto. Come quello di un animale che teme il predatore più di quanto desideri la preda.
Lorena si fermò.
Il petto si sollevava appena.
Lentamente, piegò il capo da un lato.
Non sorrideva.
Non provocava.
Valutava.
E lui…
non riusciva a guardarla.
Ma non riusciva nemmeno a smettere.
Fu allora che lei fece il primo passo verso di lui.
I suoi passi si fecero più lenti man mano che si avvicinava. Lui restava seduto, immobile, ma il respiro era cambiato. Le mani afferravano con forza i braccioli, quasi a cercare un appiglio mentre la figura lucida e nera di lei si faceva sempre più vicina. Il collo contratto, lo sguardo basso. Non era paura, ma tensione. Una tensione che sapeva di desiderio al limite.
Lorena gli si fermò davanti. Non disse nulla. Allungò una mano e gli accarezzò il viso con le dita nude, con un tocco che fu insieme dolce e inesorabile. Non gli chiese di guardarla. Non cercò risposta. Lo sfiorò appena, scendendo con il palmo lungo la guancia fino al mento. Poi si voltò, dandogli la schiena.
Con un gesto fluido e perfettamente calcolato, si abbassò lentamente e si sedette sul suo grembo. Sentì il suo respiro spezzarsi all’istante. Le natiche nude, lasciate scoperte dal perizoma tagliato altissimo, entrarono in contatto diretto con l’evidente eccitazione che premeva sotto il tessuto. Non si mosse subito. Restò seduta così, appena appoggiata, come se stesse valutando quel corpo sotto di sé. Poi, senza voltarsi, senza una parola, infilò le mani tra di loro.
Le dita esperte cercarono, trovarono, liberarono. Lo sentì caldo, duro, pronto, come se il solo peso del suo desiderio avesse bastato ad eccitarlo. Non c’era bisogno di altro. Era già completamente nelle sue mani.
Con un movimento lento, deciso, si sollevò appena e lo guidò dentro di sé. Nessun tremore. Nessuna esitazione. Solo un respiro profondo, e la carne che accoglie la carne. Si calò su di lui fino in fondo, con un gemito soffocato che non fu trattenuto ma accolto, amplificato dagli auricolari nelle orecchie. Sentì la propria voce rimbombarle dentro. Sentì la penetrazione diventare totale, concreta, viva.
Lui l’abbracciò da dietro, finalmente. Le mani tremavano appena, ma trovarono la strada sotto il body. Scivolarono sul ventre, poi salirono con lentezza fino ai seni, pieni, tesi, intrappolati dalle strisce nere lucide. Le dita li liberarono, li presero, li accarezzarono. I pollici sui capezzoli, la bocca vicina al collo ma senza osare baciarla. Lei restò immobile per un momento, con lui dentro, ferma sopra il suo desiderio, mentre le mani la esploravano con una fame che si tratteneva a fatica.
Restò così per alcuni lunghi secondi, immobile, mentre lui la teneva tra le braccia e i suoi seni venivano massaggiati con una lentezza che contrastava con la tensione evidente del corpo sotto di lei. Il respiro di lui si faceva più affannoso, più irregolare. Il suo membro era rigido, sepolto fino in fondo dentro di lei, ma ancora inutilizzato. Lorena si lasciava attraversare, senza dargli nulla. Nessun movimento, solo presenza.
Poi si mosse.
Poco.
Appena un ondeggiamento del bacino.
Un’inclinazione minima che fece scivolare il corpo di lui lungo le pareti interne del suo piacere.
Lo fece con precisione, con controllo.
E il gemito che le sfuggì fu più profondo, più vero, amplificato nell’impianto e rimbombante nella sua testa come un’eco di se stessa.
I muscoli delle cosce si tesero.
Si sollevò di pochi centimetri, lo lasciò quasi uscire, poi tornò giù con lentezza, facendolo sprofondare in lei ancora una volta.
Un gesto deliberato.
Un atto di volontà.
Non era il piacere che cercava.
Era la costruzione. Il crescendo.
Continuò così, con lentezza crudele.
Ogni affondo era misurato, perfettamente calcolato per mantenerlo sull’orlo, per tenere entrambi sull’orlo.
E ogni gemito, ogni singolo respiro che sfuggiva dalle sue labbra, rimbalzava nell’aria e tornava nelle sue orecchie, moltiplicandosi dentro di lei.
Era come essere doppia.
Come essere il soggetto e lo spettatore.
Come se il piacere stesso si fosse fatto carne, e adesso stesse parlando attraverso di lei.
Lui le strinse i seni con più forza, le dita si chiusero sui capezzoli tesi, li pizzicò appena. Lei non si voltò. Non gli concesse neppure il privilegio del suo sguardo.
Ma mosse i fianchi con un ritmo diverso. Più profondo. Più lento.
Come un segnale.
La sala restava in silenzio.
Ma il silenzio era carico di tensione, come se ogni spettatore fosse costretto a trattenere il fiato per non esplodere.
Perché quella donna, così nuda, così vestita, così esposta eppure inaccessibile, stava facendo qualcosa che nessuno avrebbe potuto fermare.
E lei?
Non era ancora vicina.
Il ritmo cambiò.
Lorena si muoveva più decisa, i fianchi che affondavano sul corpo sotto di lei con una cadenza più profonda, più carnale, come se la lentezza iniziale fosse servita solo ad amplificare il piacere ora diventato urgenza. Sentiva l’uomo sotto tremare, trattenersi a fatica, aggrapparsi ai suoi fianchi come a un’ancora troppo viva, troppo potente per essere tenuta. Ma lei non cercava ancora la fine. Cercava il fuoco.
Girò il capo lentamente verso la sala, i capelli le scivolarono sulle spalle, lucidi, tesi come il suo corpo. Gli occhi passarono da un volto all’altro, come se stesse scegliendo un oggetto prezioso da usare.
Poi si fermarono.
Uno sguardo. Un uomo. Il suo respiro si interruppe all’istante. Era seduto, immobile, quasi pietrificato da quel richiamo silenzioso.
Lei non disse nulla.
Sollevò la mano, lentamente. Le dita tese, aperte, come un invito impossibile da ignorare.
Lui si alzò.
Il cuore gli batteva forte, lo sentiva fin nella gola. Attraversò la sala mentre la guardava, ma non osava affrettare il passo. Sembrava temere di spezzare qualcosa, di rovinare l’incanto.
Lorena non lo guardò più.
Si voltò di nuovo in avanti, ancora seduta sull’uomo sotto di lei, che gemeva sommesso.
Appena sentì l’altro arrivarle davanti, si sollevò appena. Affondò ancora una volta sul primo, con più lentezza, poi si lasciò andare in avanti.

Lorena sollevò lo sguardo verso di lui, ma non per cercare un volto: cercava desiderio, puro, senza volto.
Allungò la mano, aprì il suo pantalone con una lentezza studiata, senza alcuna fretta.
Poi abbassò il capo.
Lo prese tra le labbra con decisione, senza esitazioni.
Era caldissimo, duro, già pronto.
Cominciò a muovere la testa con la stessa cadenza con cui affondava il bacino dietro di sé.
Un ritmo doppio.
Un’onda continua.
Sentiva la bocca riempirsi e stringere, mentre il sesso sotto di lei la penetrava in profondità.
Ogni volta che scendeva con il bacino, le labbra stringevano.
Ogni volta che la testa si sollevava, il piacere dietro aumentava.
Era un crescendo.
Un rituale.
Una danza oscena e perfetta.
Le mani del primo uomo le stringevano i fianchi, poi i seni, poi ancora la vita. Ma era lei a decidere.
Il secondo, davanti, si lasciava guidare, incapace di credere di essere davvero lì, dentro quella bocca che sembrava fatta per annientarlo.
E lei?
Chiusa tra due corpi.
Calda, gonfia, bagnata, sazia e ancora affamata.
Ogni gemito che le usciva dalla gola si trasformava in vibrazione per chi aveva tra le labbra.
Ogni spinta ricevuta si faceva eco tra le cosce.
E stavolta, stavolta, non voleva fermarsi.
Il ritmo si fece più veloce, più urgente, più disordinato.
Le mani dell’uomo sotto di lei afferravano i suoi fianchi con forza crescente, i colpi diventavano più profondi, meno misurati, come se avesse perso ogni possibilità di trattenersi.
Davanti, tra le sue labbra, l’altro gemeva ormai senza ritegno, piegato in avanti, una mano tra i suoi capelli rossi, come se cercasse ancora un contatto più profondo, più totale.
Lorena non cercava nulla.
Era tutto.
Il suo corpo era aperto, attraversato, teso come una corda pronta a spezzarsi, eppure ancora saldo. I movimenti erano diventati automatici, puramente carnali, privi di strategia.
Non stava conducendo.
Stava lasciandosi attraversare.
Poi accadde.
Un gemito gutturale, quello dell’uomo sotto di lei, le mani che si strinsero come morse, il corpo che s’irrigidì.
E subito dopo, davanti a lei, un sussulto profondo, la bocca che gemeva tra i denti, il sesso che le si contraeva tra le labbra.
Vennero insieme.
Dentro di lei.
Entrambi.
Contemporaneamente.
Il corpo di Lorena fu l’unico contenitore.
Il luogo esatto dove il piacere esplodeva.
E fu allora che, senza alcun preavviso, anche il suo si accese.
Non una costruzione lenta.
Non una scalata.
Un’esplosione.
Un orgasmo improvviso, profondo, violento, che la scosse dal ventre fino alla gola.
Un grido le sfuggì dalle labbra, strozzato dal piacere e dai resti dell’uomo che ancora le tremava davanti.
Sentì le pareti del suo ventre contrarsi con forza attorno all’altro, ancora dentro, ancora vivo.
Il corpo si piegò all’indietro, le mani afferrate a entrambi, in una torsione che era tutta estasi, tutta verità.
Poi il silenzio.
Rimase immobile, con il respiro spezzato, il sudore che le colava sulla schiena, il corpo che tremava ancora leggermente per le onde residue.
Sentiva i due uomini ancora addosso, dentro, attorno.
Sentiva se stessa piena.
Ma non sazia.
Chiuse gli occhi.
Pensò solo una frase, senza pronunciarla.
“Forse, per ora… è abbastanza.”
Poi, mentre il respiro si placava e la sala restava immobile attorno a lei, qualcosa in fondo al petto bruciava ancora.
Un’assenza.
Una fame.
Una certezza.
Voleva molto di più.

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scritto il
2025-07-18
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