“Un amore troppo forte” parte 2
di
Isabella91
genere
etero
Durante il primo mese mi ero ritrovata ad immaginare altre facce tra le mie gambe. Era triste, ma accadeva. L’orgasmo era una meta, uno sfinimento, la necessità di una conclusione obbligata. Chiamavo in aiuto i miei ricordi passati più eccitanti, che ogni volta apparivano alla mia memoria più sbiaditi, più scarni. Mi arrabbiavo per ogni dettaglio perso. Ormai ero anestetizzata anche da essi. Mi concentravo sulla lingua di Carlo, sulla sua consistenza morbida e bagnata, sulla sua saliva che mi bagnava i seni. Non cercavo nulla nei suoi occhi, li evitavo.
Erano pezzi sezionati, lontani da un insieme.
Non lo baciavo spesso. Carlo li chiamava “baci a metà”, e sorrideva.
Mi dispiaceva per la mia sterilità, ma non avevo nulla da offrirgli, nulla da fingere.
Una volta immaginai che oltre a lui ci fosse un altro uomo, nel letto. Non gli diedi un volto, immaginai solo il suo cazzo e le sue mani. L’uomo immaginario mi scopava la bocca, mentre Carlo mi leccava alla luce della lampada.
Questo pensiero non mi aiutò.
Richiamai supplichevole la mia fantasia. Immaginai allora una donna con i capelli lunghi e neri, come i miei, prendere il suo posto tra le mie gambe.
Aveva le dita affusolate e le unghie corte, e con sapienza ne infilava due dentro di me, con un sorriso bieco. Le muoveva prima lentamente, a fondo, facendole scorrere tra i miei umori, per poi accelerare, soffiandomi addosso il suo fiato caldo ed eccitato.
Mi avvicinai all’orgasmo con una facilità quasi sconosciuta, per poi essere riportata alla realtà dalla barba di Carlo che, ispida, premeva contro le mie cosce.
Odiai la sua barba, odiai me.
Quell’orgasmo perso di un soffio mi innervosì. Lo spinsi a proseguire internamente con le dita, sempre più in fondo, accarezzandomi io stessa il clitoride, con tocchi pieni ed arrabbiati.
Venni dopo poco, senza pensare a niente. Fu la risposta fisiologica ad uno stimolo manuale controllato da me.
Poco tempo dopo, Carlo mi fece una confessione. “Spesso mi deconcentro mentre scopiamo. Non sento più niente, sono avvolto dall’anestetico”.
Quelle parole così avvilenti mi permisero di sentirlo d’un tratto più vicino.
“Anch’io”, risposi. E gli sorrisi.
“Sei meccanica quando mi tocchi, e a me non piace”.
Lo ero, aveva ragione. La sua sincerità mi scosse, mi trasse per un attimo fuori dal torpore.
Con una mano mi abbassò gli slip e mi toccò un istante, ritraendo poi le dita asciutte dalle mie forme perfettamente lisce e depilate.
“Sei finta anche qui”, mi disse con tristezza. “Sei perfetta, senza un pelo, sai sempre di sapone. Io non voglio questo. Io voglio che tu mi offra le tue imperfezioni”.
Quel giorno non fui in grado di capire che cosa intendesse davvero. Eravamo acerbi, del resto, dell’uva ancora verde e dura attaccata ad una vite. Eravamo due pezzetti lontani.
Mesi dopo, mi volle distesa sul suo letto sopra due asciugamani. Avevo il ciclo, il ventre contratto dai crampi e da un desiderio prorompente e colpevole nel dolore.
Una lieve peluria era ricresciuta sul mio monte di Venere.
Carlo mi guardava dall’alto, dopo avermi spalancato le cosce con lentezza. Sentii l’istinto di coprirmi il pube disordinato e vi accostai una mano. Me la spostò e continuò a guardarmi.
“E' questo che ti rende imperfetta”, mi disse.
Mi toccò il ventre gonfio e teso, come per scaldarlo e darvi sollievo, mi strinse i seni, mi pizzicò i capezzoli.
Osservai l’estensione della mia pelle d’oca lungo le braccia, il petto, le gambe.
Le sue mani erano un guanto caldo. Sentivo il suo respiro entrarmi nelle narici.
Entrò dentro di me con una spinta quasi disperata, tenendomi stretta e avvolgendomi il viso, piantandomi dentro gli occhi.
Sentivo i brividi corrermi sul corpo come granelli, riempita dalla sua carne, in un gusto agrodolce di piacere e crampi.
Poi si ritrasse per un attimo dalle mie cosce. Sentii colarmi addosso un liquido caldo, un misto di sangue e umori. Un odore pungente e metallico invase la stanza.
Carlo respirò a fondo. Mi asciugò con un panno. “Mi piaci sporca. Di te mi piace perfino il tuo sangue”.
Si masturbò in ginocchio sul letto, guardandomi negli occhi. Aveva uno sguardo buio, arreso.
“Tu mi fai paura”, soffiò. “Mi fa paura quello che mi susciti”.
Respirai forte. Non mi stava toccando, ma sentii il suo piacere come se fosse il mio.
Respirai con lui, trattenendo l’aria nello stesso momento.
Con una mano si stringeva con forza, con movimenti veloci, con l’altra mi cingeva il viso, carezzevole ma amaro.
“Maledetta”, ripeteva. “Maledetta”.
I suoi occhi si persero, ruotarono per un attimo verso un’immagine lontana. Mantenni lo sguardo con violenza per non abbandonare un attimo del suo conflitto.
Venne. Fu come un pugno, una spinta su una strada. Fu come un pianto.
E lo abbracciai. Lo strinsi su di me, sulla mia pancia, sul sangue, sul suo stesso sperma, come una morsa.
Vi restò respirando a bocca aperta, come un rantolo, gli occhi serrati.
Tornò alla vita, il suo sguardo riprese forma. “Toccati”, mi ordinò. Aveva una voce greve, diversa.
Eseguii, lui mi prese il collo. Mi toccai dapprima piano, quasi con pudore, senza guardarlo.
“Guardami”, disse a voce più alta.
Lo feci.
Mi strinse più forte. Mi mossi più velocemente, lui strinse ancora.
“Di più”, proseguì.
Sentivo l’orgasmo incombere, pieno, invadente, e desideravo ritardarlo il più possibile.
Iniziò a mancarmi l'aria, fui costretta a toccarmi con più forza. Carlo avrebbe aumentato la presa.
Venni. Lui mi lasciò il collo. L’aria mi pervase d’un tratto, aprii i polmoni, respirai a grandi boccate. Sentivo il cuore martellarmi in petto.
Mi accarezzò i capelli scostandomeli dalla fronte.
“Brava amore mio”.
Erano pezzi sezionati, lontani da un insieme.
Non lo baciavo spesso. Carlo li chiamava “baci a metà”, e sorrideva.
Mi dispiaceva per la mia sterilità, ma non avevo nulla da offrirgli, nulla da fingere.
Una volta immaginai che oltre a lui ci fosse un altro uomo, nel letto. Non gli diedi un volto, immaginai solo il suo cazzo e le sue mani. L’uomo immaginario mi scopava la bocca, mentre Carlo mi leccava alla luce della lampada.
Questo pensiero non mi aiutò.
Richiamai supplichevole la mia fantasia. Immaginai allora una donna con i capelli lunghi e neri, come i miei, prendere il suo posto tra le mie gambe.
Aveva le dita affusolate e le unghie corte, e con sapienza ne infilava due dentro di me, con un sorriso bieco. Le muoveva prima lentamente, a fondo, facendole scorrere tra i miei umori, per poi accelerare, soffiandomi addosso il suo fiato caldo ed eccitato.
Mi avvicinai all’orgasmo con una facilità quasi sconosciuta, per poi essere riportata alla realtà dalla barba di Carlo che, ispida, premeva contro le mie cosce.
Odiai la sua barba, odiai me.
Quell’orgasmo perso di un soffio mi innervosì. Lo spinsi a proseguire internamente con le dita, sempre più in fondo, accarezzandomi io stessa il clitoride, con tocchi pieni ed arrabbiati.
Venni dopo poco, senza pensare a niente. Fu la risposta fisiologica ad uno stimolo manuale controllato da me.
Poco tempo dopo, Carlo mi fece una confessione. “Spesso mi deconcentro mentre scopiamo. Non sento più niente, sono avvolto dall’anestetico”.
Quelle parole così avvilenti mi permisero di sentirlo d’un tratto più vicino.
“Anch’io”, risposi. E gli sorrisi.
“Sei meccanica quando mi tocchi, e a me non piace”.
Lo ero, aveva ragione. La sua sincerità mi scosse, mi trasse per un attimo fuori dal torpore.
Con una mano mi abbassò gli slip e mi toccò un istante, ritraendo poi le dita asciutte dalle mie forme perfettamente lisce e depilate.
“Sei finta anche qui”, mi disse con tristezza. “Sei perfetta, senza un pelo, sai sempre di sapone. Io non voglio questo. Io voglio che tu mi offra le tue imperfezioni”.
Quel giorno non fui in grado di capire che cosa intendesse davvero. Eravamo acerbi, del resto, dell’uva ancora verde e dura attaccata ad una vite. Eravamo due pezzetti lontani.
Mesi dopo, mi volle distesa sul suo letto sopra due asciugamani. Avevo il ciclo, il ventre contratto dai crampi e da un desiderio prorompente e colpevole nel dolore.
Una lieve peluria era ricresciuta sul mio monte di Venere.
Carlo mi guardava dall’alto, dopo avermi spalancato le cosce con lentezza. Sentii l’istinto di coprirmi il pube disordinato e vi accostai una mano. Me la spostò e continuò a guardarmi.
“E' questo che ti rende imperfetta”, mi disse.
Mi toccò il ventre gonfio e teso, come per scaldarlo e darvi sollievo, mi strinse i seni, mi pizzicò i capezzoli.
Osservai l’estensione della mia pelle d’oca lungo le braccia, il petto, le gambe.
Le sue mani erano un guanto caldo. Sentivo il suo respiro entrarmi nelle narici.
Entrò dentro di me con una spinta quasi disperata, tenendomi stretta e avvolgendomi il viso, piantandomi dentro gli occhi.
Sentivo i brividi corrermi sul corpo come granelli, riempita dalla sua carne, in un gusto agrodolce di piacere e crampi.
Poi si ritrasse per un attimo dalle mie cosce. Sentii colarmi addosso un liquido caldo, un misto di sangue e umori. Un odore pungente e metallico invase la stanza.
Carlo respirò a fondo. Mi asciugò con un panno. “Mi piaci sporca. Di te mi piace perfino il tuo sangue”.
Si masturbò in ginocchio sul letto, guardandomi negli occhi. Aveva uno sguardo buio, arreso.
“Tu mi fai paura”, soffiò. “Mi fa paura quello che mi susciti”.
Respirai forte. Non mi stava toccando, ma sentii il suo piacere come se fosse il mio.
Respirai con lui, trattenendo l’aria nello stesso momento.
Con una mano si stringeva con forza, con movimenti veloci, con l’altra mi cingeva il viso, carezzevole ma amaro.
“Maledetta”, ripeteva. “Maledetta”.
I suoi occhi si persero, ruotarono per un attimo verso un’immagine lontana. Mantenni lo sguardo con violenza per non abbandonare un attimo del suo conflitto.
Venne. Fu come un pugno, una spinta su una strada. Fu come un pianto.
E lo abbracciai. Lo strinsi su di me, sulla mia pancia, sul sangue, sul suo stesso sperma, come una morsa.
Vi restò respirando a bocca aperta, come un rantolo, gli occhi serrati.
Tornò alla vita, il suo sguardo riprese forma. “Toccati”, mi ordinò. Aveva una voce greve, diversa.
Eseguii, lui mi prese il collo. Mi toccai dapprima piano, quasi con pudore, senza guardarlo.
“Guardami”, disse a voce più alta.
Lo feci.
Mi strinse più forte. Mi mossi più velocemente, lui strinse ancora.
“Di più”, proseguì.
Sentivo l’orgasmo incombere, pieno, invadente, e desideravo ritardarlo il più possibile.
Iniziò a mancarmi l'aria, fui costretta a toccarmi con più forza. Carlo avrebbe aumentato la presa.
Venni. Lui mi lasciò il collo. L’aria mi pervase d’un tratto, aprii i polmoni, respirai a grandi boccate. Sentivo il cuore martellarmi in petto.
Mi accarezzò i capelli scostandomeli dalla fronte.
“Brava amore mio”.
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