Iniziazione anale

di
genere
gay

INIZIAZIONE ANALE


Con questo racconto, di oltre diecimila parole, narrerò della mia iniziazione anale con un crescendo di erotismo. Suggerisco pertanto di leggere le mie confessioni completamente, senza farsi prendere dal desiderio di saltare parti della narrazione per andare a cercare i momenti salienti. Sono convinto che questa storia, per essere gustata completamente, si debba assaporarla centellinandola. Buona lettura e soprattutto, se sarò riuscito ad arraparvi, vi auguro un’abbondante sbor….!

Avevo quasi vent’anni quando incominciai ad avere i primi dubbi sulla mia vera natura sessuale. Indossavo jeans attillatissimi e i capelli, biondi naturali, mi lambivano le spalle. Il mio carattere era un po’ introverso, sensibile all’arte, alla poesia, mi piaceva la musica dei cantautori moderni ma non disdegnavo quella classica ed ero schivo alle comitive troppo numerose.
Il mio era un bel viso: pelle chiara, senza l’accenno di un brufolo, occhi azzurri e labbra ben disegnate. Non ero particolarmente alto (un metro e sessantotto) ma la mia figura era resa slanciata dal mio aspetto snello. A detta di quel che mormoravano i miei amici, il mio passo era sinuoso. Qualche volta li sentivo bisbigliare che sarei potuto essere scambiato per una bella gnocca se mi fossi travestito e truccato ma, a parte qualche allusione, stavo volentieri in loro compagnia. Erano tre amici sinceri, con cui condividevo le serate nei pub o in pizzeria. Mi davano grandi pacche sulle spalle e mi ripetevano che di ragazze ne avrei trovate quante ne avessi volute. Bastava mi fossi fatto crescere un paio baffetti, avessi frequentato un po’ di palestra, e imparato a camminare da Macio. Al contrario avrei fatto girare la testa a molti uomini amanti dei trans, se mi fossi fatto un po’ di ceretta e crescere un bel paio di tette. Uno di loro mi suggeriva, scherzosamente, che se mi fossi travestito da donna, avessi calzato scarpe con tacco undici, indossato minigonna a metà coscia e se fossimo andati a passeggiare in un’altra città, non ci avrebbe pensato due volte a mettermi il braccio sulle spalle perché mi scambiassero per la sua ragazza, poi divertirsi a fare schiattare d’invidia gli altri maschi. Giungeva addirittura ad abbracciarmi quando eravamo in macchina, seduti assieme nel sedile posteriore. Poi simulava di baciarmi sulla bocca ponendo la mano tra le sue labbra e le mie, strappando fragorose risate agli altri. Dentro di me ho sempre pensato che gli piacessi davvero e che dietro il suo sorriso scanzonato ci fosse un cuore che soffrisse per essere costretto a far passare per burla gesti e frasi. Per carnevale, durante un veglione in maschera, m’indusse a travestirmi da Mariliyn Monroe con gonna a pieghe ampie, corta sul ginocchio e, credetemi se scrivo che dovette darsi un gran daffare per levarmi di torno ragazzi troppo intraprendenti. Ma io mi sentivo femmina davvero, dentro.
Molte volte mi sono masturbato pensando di essere sodomizzato da un bel maschio. A volte mi è capitato di andare al cinema e farmi avvicinare da qualche sconosciuto al quale facevo capire che poteva osare ma quando lui metteva la mano sulle mie gambe, finivo sempre per cambiare posto. Poi la svolta. All’inizio del 2004 lasciai la famiglia e mi traferii in una grande città per motivi di lavoro. Fu così che cominciai a incontrare Ciro e nella primavera di quello stesso anno mi concessi a lui per la prima volta. Oggi che dal mio sfintere passerebbe un treno e godo se mi soggiogano usandomi come oggetto dei più bizzarri giochi erotici, provo ancora un’intensa emozione quando rievoco quel giorno.
Ciro, allora ventisettenne, era un uomo dalla corporatura possente, che sfiorava il metro e novantacinque e mi superava di una testa abbondante in altezza. Aveva i capelli scuri e gli occhi che cangianti dal verde al marrone. Portava, come porta ancora, una barba corta, ben curata, di quelle che non celavano del tutto le fattezze del viso. La bocca, di una carnosità sensuale, gli conferiva un’espressione quasi aggraziata che il tocco virile della barba e la corporatura robusta non riuscivano a celare. Camminava e si muoveva con fare quasi lezioso.
Era venuto ad abitare a cento metri dalla mia residenza, in un grande condominio, di quelli che nemmeno dopo vent’anni riesci a conoscere i tuoi vicini di pianerottolo. Faceva il rappresentante di commercio. Siccome il suo non era un lavoro a orario fisso lo incontravo per strada in tempi diversi. Ogni tanto lo vedevo accompagnato da un uomo di colore, che avevo immaginato fosse un suo collega, perché vestiva in modo elegante e portava una borsa di cuoio, di quelle professionali adatta a tenere incartamenti di rappresentanza.
Ci scambiavamo sguardi rapidi, sorrisi appena accennati, fuggenti, che rivelavano a entrambi una sorta d’istintiva empatia e quanto desiderio avessimo di rivolgerci la parola. M’indirizzava un saluto quasi timido e in quegli istanti avevo la sensazione che i suoi occhi volessero supplire a una sorta di pudore che gli impediva di chiedermi qualcosa per iniziare a conversare. Del primo “ciao” che ci siamo detti, rammento il suo tono gioviale e un sorriso che i denti, candidi, rendevano luminoso.
Un giorno capitò che lo aiutassi a fare manovra per posteggiare la sua auto in uno spazio stretto, tra un fuoristrada e un furgone. Fu così che iniziammo a scambiarci qualche frase: del tempo e dei nostri interessi alcuni dei quali collimavano, come per la musica classica e la letteratura. Fu così che m’invitò a casa sua a prendere un caffè e ascoltare qualche brano di Chopin.
Mi recavo a fargli visita la sera dopo cena o il sabato pomeriggio. Viveva da single in un ambiente arredato sobriamente, nel quale non mancava il tocco femminile del vaso di fiori veri e sempre freschi. Mi riceveva in uno studio ampio, ammobiliato sobriamente, con una larga scrivania, un PC portatile, una spaziosa libreria e un divano che proteggeva con un plaid perché il suo gatto non lo graffiasse, ma anche, come scoprii in seguito, per evitare si macchiasse di liquidi organici. In un angolo teneva un attrezzo da ginnastica, di quelli che possono modificarsi alle esigenze dell’esercizio, e un paio di bilancieri da braccia. Appesa al muro, racchiusa in una cornice dorata e scritta in bella calligrafia su quella che sembrava carta pergamena, c’era la famosa frase in rime di Lorenzo il Magnifico:

Com’è bella giovinezza
Che si fugge tuttavia
Chi vuol esser lieto sia
Del doman non c’è certezza.

Le prime volte furono incontri all’insegna di un comportamento cordiale ma nulla di più. Mi offriva caffè, tè o succhi di frutta e mentre ascoltavamo musica, prendeva in braccio il suo gatto, una bestiola docile, invitandomi ad accarezzarlo e tenerlo in grembo. Poi le nostre mani incominciarono a sfiorarsi sopra il pelo del micio. All’inizio erano tocchi che a me sembravano casuali, ma le sue dita tendevano a indugiare sulle mie con sempre maggiore insistenza. A volte Ciro sfiorava col viso il musino della bestiola che reagiva facendo le fusa e strusciando la testolina sul suo naso. Quei momenti d’affetto tra uomo e animale erano così dolci da farmi tenerezza. Cominciò poi, accarezzando il gatto fino alla coda, a sconfinare sulle mie ginocchia e le sue dita si soffermavano a premere le mie gambe. Erano palpeggiamenti brevi, prudenti, come per capire le mie reazioni e allo stesso tempo volesse dargli il significato di accidentalità e proposito assieme. Accortosi che non facevo mosse ritrose, cominciò a essere più ardito. Fu quella volta in cui gli dissi che il giorno successivo avrei compiuto vent’anni a scoprire quanto fossi ricettivo alle sue attenzioni. Mi aveva accarezzato le cosce fino a sfiorarmi l’inguine senza che lo avessi respinto.
Difatti provai un’emozione che mi pervase lo stomaco, come un sottile languore, poi brividi, sensazione di rossore in faccia e impressione di sentirmi accapponare la pelle. Finalmente capivo appieno perché non provavo una particolare attenzione per le ragazze. Istintivamente cercai di celare alla sua vista la sporgenza che si formava all’altezza della mia patta stringendo le gambe e poggiando il bacino allo schienale della sedia, al contrario suo che faceva di tutto perché osservassi quanto fosse grosso il suo rigonfiamento. Era un sabato pomeriggio intorno alle 15,30 e si avvicinava un temporale. Mi chiese se avessi paura dei fulmini. Al mio assenso si accostò di più posando il braccio sullo schienale della mia sedia ma senza toccarmi. Il rossore che sicuramente notava sulle mie gote lo faceva sorridere e il suo sorriso mi consentiva di intravedere la punta della sua lingua rosea. Erano espressioni dalle quali capivo quanto bramasse accarezzarmi.
Accostò la sua gamba sinistra alla mia. Da un cassetto della scrivania tolse una minuscola scatola che conteneva granuli di menta e liquirizia e me ne offrì. Notavo quanto non volesse apparire frettoloso sebbene gli inviassi segnali consenzienti, o forse intendeva solo attendere di vedermi trascinato ancora di più in quel sottile gioco di seduzione? Insomma friggermi al punto giusto per gustarmi caldo? Mi domandò se avessi mai baciato una persona del mio sesso e al cenno negativo che ricevette, si mise il cappuccio di una bic in bocca e soffiò aria sul forellino di sicurezza, dando alle labbra un movimento di risucchio. Io mi sentivo stregato dal carnoso movimento di quelle labbra così piene, morbide e talmente ben disegnate che la sua, sembrava la bocca di una bellissima donna. A un tratto posò il cappuccio, umido di saliva, sul tavolo e accostò il viso al mio. Il suo alito profumava di menta e liquirizia. Avvertivo un gran desiderio di baciarlo e il mio cervello iniziò a dare impulsi allo sfintere di contrarsi e rilassarsi. Il mio ano mai aveva reagito così fortemente e a ritmo cadenzato come per mandarmi segnali che anelasse qualcosa. Ciro, notando quanto fossi emozionato, mi domandò se gradissi bere qualcosa. «Acqua», gli risposi.
Mi accarezzò il viso annuendo e sorridendomi. «Già», mi disse «immagino quanto ti senta la bocca asciutta per l’emozione. Frizzante o normale?»
«Frizzante.»
Poco dopo tornò dalla cucina con una bottiglia da un litro e mezzo, piena. Mi riempì lui il bicchiere. Bevvi avidamente.»
«Ancora sete?»
Bevvi ancora. Lo vidi sorridere pienamente, come fosse soddisfatto che avessi bevuto tanto. Mi riempì ancora il bicchiere.
«No, grazie. Basta così.»
«Berrai dopo. Io sorseggerò la tua birra.»
Solo più tardi compresi il senso di quella frase.
Ciro rimase col viso accostato al mio come se, dalla percezione del mio respiro alterato, volesse carpirmi le emozioni che provavo. Una terza persona che avesse assistito alla scena avrebbe visto un ragazzo ventenne, magrolino, biondo naturale, col viso incendiato dall’emozione e tanto aggraziato da avere un aspetto effeminato, alle prese con un atletico uomo alto quasi due metri, cingerlo dappresso bramante quella carne tenera e calda.
Avvertii la sua mano poggiarsi sul mio ginocchio poi risalire lentamente fino alla patta dei jeans. Sentii un rumore e mi voltai. L’uomo di colore che ogni tanto si accompagnava a Ciro, era accanto a noi e stringeva tra le mani una videocamera digitale. Sussultai intimorito.
«Non temere», mi rassicurò Ciro. «Lui è Mukaba, un amico molto “intimo” per me. Lo conosco da alcuni anni. È una persona discreta, fidatissima ed ha un attributo che farebbe sfigurare il mio se lo vedessi, ma avremo tempo perché tu lo possa apprezzare. Oggi desidero che tu sia soltanto mio! Gli ho chiesto se per questa volta poteva limitarsi a riprendere il nostro primo incontro. Naturalmente con il tuo consenso. Ti assicuriamo entrambi la massima discrezione.»
Rimasi titubante, incerto se restare o andarmene. Notando quanto mi avesse turbato l’intrusione di un’altra persona, Ciro mi rivolse uno sguardo amareggiato.
«Danilo, ti chiedi di scusarmi. Non ti ho avvertito perché temevo non accettassi la presenza di un altro maschio. Scusami, suppongo che voglia andartene.»
Fissai Ciro, poi guardai Mukaba che mi porgeva la mano.
«Me ne vado io se non vuoi che rimanga», disse pronunciando un ottimo italiano con voce calda. Seguitò a tendermi la mano, sorridendo. Aveva un sorriso gioviale, che la pelle scura del volto esaltava. I suoi denti, bianchissimi, spiccavano tra le labbra carnosissime. Esitai a porgli la mano, poi lo feci. La stretta energica che avvertii mi trasmise la sensazione che fosse una persona leale. Gli dissi che poteva rimare ma che avrei preferito non fotografasse.
«Ti do la parola che non riprenderò mai il tuo volto, se mi permetterai di filmare», mi propose.
L’incertezza mi rodeva. Fissai Ciro come per fargli capire di non saper che cosa decidere. Mi voltai perché avevo sentito dei passi. Era Mukaba che si dirigeva verso la porta del salotto. «Mukaba, rimani», gli dissi con voce un po’ esitante. Mi voltai verso Ciro. Mi rivolgeva un soddisfatto sorriso.
«Danilo, ti accorgerai che sarà più intrigante se qualcuno riprenderà ciò che vorremo fare.»
Detto ciò cominciò a massaggiarmi mia patta. Sul suo viso apparve un’espressione trasognata quando avvertì la mia erezione. Sollevò la mano per carezzarmi la fronte, come volesse tranquillizzarmi comunicandomi che nulla avrebbe fatto che non avessi voluto. Poi, abbracciandomi le spalle con la sinistra tornò ad accarezzarmi il pene sopra il tessuto dei pantaloni e quando avvertì il mio turgore aumentare fermò la mano e mi fissò con uno sguardo all’apparenza tranquillo ma immaginavo come fremesse dentro. Le sue dita cercarono la linguetta della chiusura lampo:
«Vuoi?» mi bisbigliò.
Annuii. Diedi una rapida occhiata a Mukaba che aveva messo in funzione la video camera. Essere ripreso mentre un uomo stava per prendermi in mano il pene mi turbava, ma allo stesso tempo mi pervadeva di emozione. La mia prima esperienza omosessuale iniziava in un modo che mai avrei immaginato.
Ciro fece scorrere in basso cerniera e la sua grande mano mi accarezzò il pene sopra gli slippini. Mi sentivo rimescolare il sangue e l’emozione aveva reso il mio stomaco liquido. Avvertivo il cuore galoppare. Sentii le sue dita risalire oltre il bordo dell’elastico. Mi palparono l’addome con un tocco leggero. Poi scesero in basso e s’insinuarono negli slip. Mi sfiorarono il pene quindi me lo avvolsero delicatamente. Il mio respiro si fece più veloce ma non per vergogna o timore di essere ripreso da Mukaba, piuttosto per il desiderio di abbandonarmi tra le braccia di quel colosso. Mi avvicinò le labbra all’orecchio per sussurrarmi:
«Ti piace?»
«Sì… »
«Vuoi che continui?»
Assentii ancora con un cenno, come se l’emozione m’impedisse di esprimermi a parole. Mi scappellò il pene tirando in basso la pelle del prepuzio. Prese a titillarmi il frenulo con il polpastrello del pollice ansando di piacere nell’avvertire quanto la mia erezione si facesse più decisa. Contemporaneamente i suoi denti mi strinsero il lobo dell’orecchio. I morsi si fecero rapidi ma delicati come battesse i denti per il freddo e, tra essi, sibilava il suo respiro, poi incominciò a leccarmi tutto l’orecchio con la lingua. La sua mano destra mi avvolgeva completamente la parte sinistra del volto e del collo, talmente era grande, e premeva sulla pelle come volesse aiutare la lingua a penetrare un millimetro di più nel mio orifizio auricolare. Era calda, umida, lunga, morbida la sua lingua, e mi provocava brividi di piacere che mi scorrevano lungo la schiena. Ne avvertii la punta indurirsi e premere sul condotto auricolare, torcendosi e avvitandosi a mo’ di cacciavite, come volesse svitare l’orecchio per entrarmi nella mente e leccare quella che aveva scoperto essere la mia natura. La sua bocca si spalancava completamente per avvolgermi tutto il padiglione auricolare per poi tornare a leccarmelo, a momenti con impeto, altri con delicatezza e si fermava per sussurrarmi se mi piacesse. Annuivo col cuore che palpitava a mille. Volle che glielo ripetessi con le parole. Gli rispondevo con un sì sospirato.
«Tu ed io siamo fatti l’uno per l’altro, sai?»
Rimasi a fissarlo negli occhi. Per un attimo ebbi la certezza che mi avrebbe baciato in bocca, poi abbassò lo sguardo per osservare il mio pene. Fissò con desiderio la goccia di lubrificante che compariva dal forellino dell’uretra. «Il tuo uccello non sarà grosso ma ha una qualità che mi piacerà mungere», mi disse. «Non ne ho mai visto uno bagnarsi tanto copiosamente di nettare.»
Così Ciro chiamava il liquido lubrificate. Detto questo, abbassò il viso. Rabbrividii per la sensazione che mi provocava la sua lingua che leccava il mio glande come fosse un gelato. Ne percepì la punta sul forellino dell’uretra come cercasse di raccogliere altro liquido pre spermatico. Sentii che premeva le dita alla base dell’asta, poi risalirla tenendole compresse. Capii ciò che voleva fare: spremere dal canale dell’uretra altre gocce di pre sperma che non erano ancora fuoriuscite.
Seguitò a succhiarmi il pene con la smania di un vitellino che aspira, affamato, il capezzolo della vacca. Di lì a poco sarei naufragato. Mi stavo persino dimenticando che Mukaba seguitava a filmare. Il mio respiro divenne affannoso, non riuscii a reprimere due gridolini. L’acme si avvicinava come un treno ad alta velocità. Alcuni secondi ancora e avrei eiaculato in bocca a Ciro ma lui sollevò la testa come avesse capito quanto fossi prossimo all’orgasmo.
«Non voglio farti entrare nel periodo refrattario», disse. «Il pomeriggio è ancora lungo e dobbiamo protrarre i godimenti mentali sorseggiando il sesso come fosse una coppa di spumante DOCG. Se ci scaricassimo subito, calerebbe la voglia e i nostri atti non li godremmo con libidine. Il piacere fisico è meno importante di quello mentale perché non dura che qualche secondo. L’orgasmo dovrà essere soltanto il compimento di un lungo viaggio nella delizia dei sensi.»
Capii quanto quel gigante fosse Maestro dell’arte erotica: un saggio libidinoso che voleva pungolare i sensi per prolungare l’ansia che li caricava di bramosa lussuria.
«Ora desidero baciarti in bocca. Vuoi? Non insisto se non vuoi.»
«Voglio», gli sussurrai. Il suo volto era tanto vicino al mio da non distinguerne i lineamenti. Le sue labbra sfiorarono la mia guancia all’altezza dello zigomo. Chiusi gli occhi. La sua bocca si posò sulle mie palpebre, poi più giù, su un lato delle mie. Voleva che rosolassi nei carboni di una smania irrefrenabile. Sentivo il mio sfintere contrarsi come le branchie di un pesce fuori dell’acqua e il mio pene seguitare a secernere liquido lubrificante. Avvertivo sulle labbra lo sbuffo del suo respiro. Un desiderio incontrollabile di sentire la sua bocca nella mia, mi attanagliava il petto ma lui insisteva a rimanere fermo, con le labbra che sfioravano appena le mie. Il suo gioco era sottile e m’infiammava perché faceva emergere in me l’irresistibile lato femminile della mia natura che avevo sempre represso e che adesso voleva riprendersi lo spazio che pretendeva. Fui io che, preso da smania bramosa, premetti le labbra sulle sue, ancora serrate. Ciro voleva pregustare fino all’ultima stilla di piacere mentale quanto mi avesse sedotto, tanto da obbligarmi a prendere l’iniziativa. Finalmente decise di mollare un po’ la stretta, come per darmi la speranza che forse mi avrebbe concesso il privilegio di giungere a un bacio profondo. La mia lingua si aprì un varco. Me la strinse tra denti, come per impedirne l’avanzata, poi d’improvviso aprì la bocca e la sua lingua saettò nella mia, prepotente e ingorda. Era insipida liscia e morbida; mi sembrava enorme e lui la faceva ruotare perché giungesse a lapparmi la saliva in ogni più recondito anfratto delle mucose. Quei risucchi, che mi aspiravano l’anima, mi provocavano una tale mollezza che avvertivo venire meno anche le forze. Ogni tanto scostava la bocca per consentire a entrambi di riprendere fiato. Fili di saliva ci univano ancora quando ci staccavamo, poi la sua lingua tornava a immergersi nella mia bocca fino a titillarmi l’ugola.
Fu un bacio lungo, a tratti dolcissimo, spesso impetuoso, di quelli che lasciano con le mandibole indolenzite. Guardammo entrambi Mukaba che sorrideva mentre ci riprendeva. Ci sorridemmo pure noi, lieti di esserci trovati e capiti. Ciro mi versò ancora da bere. Gli ubbidii lasciando che fosse lui a portarmi il bicchiere alla bocca. Poi tolse scarpe e calze. Mi disse alzandosi dalla sedia: «Spogliami.»
Rimasi titubante non perché non volessi, ma vedere quell’uomo imponente, che la mia posizione seduta mi faceva apparire gigantesco, mi soggiogava.
«Dai, coraggio», disse sfilandosi la cintola dei calzoni.
Allungai le mani. Esitavo. Avvertivo il labbro superiore vibrarmi per l’emozione. Giunsi a toccare il bottone posto sopra la cerniera. Tremavano al punto che dovette aiutarmi a toglierlo dall’asola. Il rigonfiamento del suo pene, che premeva sulla patta, mi faceva intuire quali dimensioni avesse. Feci scorrere la cerniera in basso e gli calai i calzoni. Indossava ampi boxer che mostravano un notevole bozzo. Emozionato al punto di avvertire un groppo in gola, feci scivolare i boxer dai suoi fianchi, Ciò che apparve ai miei occhi fu emozionante. Tra una folta peluria bruna ondeggiò un maestoso pene che, appena presi a fissarlo, si distese, parallelo al pavimento, per una lunghezza che superava sicuramente i venti centimetri. Mi ricordava quelli scenici dei siti internet erotici ma vederne uno di carne, che emanava effluvio di sesso, pulsante per il sangue che lo riempiva, dava una sensazione infinitamente più forte e intensa. Il glande, fuori del prepuzio, tumido e sporgente dall’asta come le cupole a cipolla che sovrastano i campanili delle cattedrali russe, era grandioso ed emozionante di là da ogni confronto. Avvertii come un senso di riverenza di fronte a tanta possanza. Sembrava il totem della virilità.
Ciro, rendendosi conto di quanto fossi rimasto sorpreso, terminò di spogliarsi rivelando un fisico asciutto e muscoloso. Poi mi disse, con una punta di compiacenza, che il suo pene si era eretto, pur senza aiuto manuale, perché provava per me un’attrazione particolare, ma che poteva ancora ergersi. Allungò la mano sul mio capo procurandomi un senso di soggezione.
«Danilo, permetti che usi un linguaggio scurrile? Intriga di più», mi propose con un tono accattivante.
Gli risposi con un sì tremolante.
«Sei affascinato dal mio cazzo, lo vedo. Misura ventidue centimetri di lunghezza, cinque e mezzo di diametro all’inizio dell’asta, sei e mezzo alla base dell’asta: quasi sette e mezzo la cappella. Adesso spogliati, ma devi farlo lentamente perché voglio centellinare la tua nudità, poi accarezzami e baciami il petto, prendimi i capezzoli tra i denti e mordili.»
Avevo le mutande bagnate di nettare quando me le tolsi. Dal mio pene eretto colava un filo viscoso trasparente. In seguito compresi che secernere molto di quel succo, era una mia particolarità perché ebbi a vedere molti altri peni da quel giorno ma tutti secernevano meno sostanza lubrificante. Indubbiamente la mia prostata era molto produttiva.
Intanto Ciro mi guidava con parole suadenti, coinvolgenti, tranquillizzanti. La sua statura e la muscolatura possente, che discordavano dai suoi movimenti aggraziati, mi seducevano. Gli accarezzai il petto villoso, facendo scivolare i peli tra le dita, poi li sentii sul viso, morbidi e setosi, che profumavano di colonia. Divenni ardito. Volli sentire la sua peluria strusciarmi sulle labbra, sulla lingua. Avvertivo il suo torace sollevarsi e abbassarsi al ritmo del respiro, il suo cuore battere regolare e potente. Gli presi i capezzoli tra l’indice e il medio, poi li strinsi entrambi, dapprima leggermente, quindi con maggiore vigore. Ciro sussultò, mi bisbigliò un complimento, mi chiese di seguitare a stringerglieli senza timore che sentisse dolore. Ubbidii, emise un gemito di piacere, poi un altro e un altro ancora.
«Danilo», mi disse col respiro alterato «sei bravo, bravissimo, seguita cos… sì così! Ora prendili tra i denti e mordili.»
Lo fece, badando bene di addentarli con una stretta non troppo energica.
«Mordi più forte!», m’incoraggio Ciro.
I miei incisivi addentarono, con maggiore pressione, le piccole protuberanze carnose. Lo feci mugolare di piacere. Avevo sempre pensato che fossero sensibili soltanto i capezzoli delle donne, invece… Seguitai a mordicchiargli i capezzoli, strizzarglieli e torcerglieli fin a che non divennero insensibili.
«Ora, inginocchiati», mi disse sospirando «voglio sentire la tua lingua sulla cappella, sui peli, sui coglioni. Accarezzami l’uccello, succhialo bacialo, slinguazzalo.»
Mi abbassai lentamente, come Ciro avrebbe voluto facessi. Feci scorrere la lingua sulla sua peluria folta del torace, poi giù verso lo stomaco e più giù sotto l’ombelico. Ciò che vidi mi fece strabuzzare gli occhi. Il suo pene aveva assunto davvero dimensioni maggiori.
Svettava verso il soffitto teso e duro come il braccio di un attaccapanni. Non sapevo quale punto scegliere per iniziare a leccarlo.
«Avvolgilo con la mano sinistra e succhiami i coglioni», mi disse Ciro.
Iniziai a dare dei bacetti su quei testicoli da toro, grossi come uova di tacchino, pelosi, duri come sassi e profumati di maschio. Con la destra strinsi un testicolo fino a farlo sporgere dallo scroto.
Incominciavo a essere padrone delle mie azioni. Premetti delicatamente lo scroto, feci sporgere un testicolo e lo presi in bocca. Me la riempiva tutta. Scoprii quanto fosse mentalmente appagante avere la bocca piena di un coglione sodo e rotondo che immaginavo fosse gonfio di sperma.
Lasciai il testicolo, lustro di saliva, con i peli appiccicati allo scroto, e presi in bocca l’altro ma non prima di averlo leccato a lunghe linguate sollevando gli occhi per leggere nel volto di quel gigante nudo quanta goduria gli procurassi. Scoprivo la mia natura omosessuale con voluttà di esserlo e quanto mi affascinasse il corpo maschile.
Ciro seguitava a emettere gridolini femminei che contraddicevano la sua imponente stazza e virilità. Mi accorgevo quanto misteriose fossero le pulsioni sessuali: somigliavano a un arcobaleno formato da infinite tonalità di colori diversi.
La mia testa era un mare nel quale navigava il piacere cagionato dal gusto che procuravo a Ciro, un piacere che nutriva se stesso e allo stesso tempo affamava la mente di ricerca della voluttà. E i gemiti languidi, i gridolini mozzi che Ciro emetteva erano come colpi di frustino col quale il fantino batteva il cavallo per invogliarlo a galoppare. Ed io galoppavo. Lasciai i testicoli e presi a leccare la verga, su e giù, come per assaporare ogni attimo che mi divideva dall’atto di prendergli in bocca il glande. Poi venne l’agognato istante.
Trassi la pelle del prepuzio completamente in basso, fino a che il frenulo lo consentiva. Avvertivo gli impulsi erettili, che la mente di Ciro, inondata di piacere psichico, inviava all’asta e al glande dilatati per il sangue pompato nelle caverne che li formavano. Una goccia di nettare uscì dall’orifizio dell’uretra, scivolò dal glande verso la verga. La fermai con la lingua. Leccai verso l’alto per recuperare il liquido della scia. Il sapore di quella sostanza viscosa e filante non mi era nuovo perché l’avevo raccolta sovente, con un dito, dal mio pene, e la assaporavo perché mi eccitassi al massimo prima di masturbarmi mentre osservavo immagini di maschi che sodomizzavano altri. Assaggiare il liquido prespermatico di un altro uomo mi fece però scoprire quanta bramosia potesse scatenarmi dentro.
«Prendimi in bocca il cazzo! Baciami la cappella, leccala, succhiala.»
Le parole di Ciro mi giungevano roche di lussurioso godimento. Gli strinsi la verga, posai le labbra sul glande, le aprii e dovetti spalancarle per ospitarlo in bocca.
Me la colmava tutta ed era morbido e caldo. Col tempo quello che in quel momento mi sarebbe sembrato impossibile sarei riuscito a farlo: sono divenuto una gola tanto profonda da toccare a Ciro la base del pene con le labbra così da consentirgli di eiacularmi in profondità: un pene di ventidue centimetri che inghiottivo completamente.
Iniziai a muovere la bocca avanti e indietro, dapprima un po’ impacciato poi sempre più padrone dei movimenti. Com’era emozionante avvertire il sapore di un pene vero, dopo averlo immaginato molte volte, mentre Ciro mi diceva quanto fosse calda la mia bocca e più avvolgente della figa.
«Leccami il frenulo, titillalo, fammi rimanere sulla cresta dell’onda. Ecco così! Danilo, sei bravissimo. Sembra che tu sia nato per fare pompini. Ancora, ancora… ecco lì, adagio, adagio, adesso fermati un po’ tenendo la cappella in bocca, poi torna a leccarmi il frenulo.»
Ed io gli leccavo l’asta per tutta la lunghezza lasciando una scia di saliva schiumosa, poi tornavo a ciucciargli il maestoso glande. Ero letteralmente affascinato da quella cupola gonfia di sangue. A ogni ciucciata avvertivo quanto il cervello di Ciro inviasse all’asta del pene ritmici impulsi erettili.
«Danilo, ora prendimi in bocca più cazzo che puoi. Dammi la sensazione che lo voglia inghiottire.»
Sollevai lo sguardo, come per fargli intendere che ci avrei provato. Intuivo che nei miei occhi leggeva lussuria.
«Prova Danilo», insisté con gli occhi socchiusi, come se la sua mente si fosse messa a dondolare in una culla di libidine.
Provai ma dovetti desistere dopo essermi sforzato di infilarmi in bocca glande e forse meno di metà dell’asta.
Mi domandai come facessero quelle persone che ingoiavano peni veramente fuori del comune, senza rischiare di soffocare. Lo tolsi dalla bocca ed emisi qualche colpo di tosse. Forse si trattava solo di una questione di pratica. Mi venne di raschiarmi la gola. Danilo sorrise e mi fece bere ancora mezzo bicchiere d’acqua dicendomi che sicuramente mi era rimasto un pelo in gola.
Ripresi in bocca il glande per succhiarlo con avidità muovendo la mano che abbrancava l’asta con un movimento semicircolare, come avevo visto fare nei video porno. Sentivo Ciro emettere gridolini di piacere sempre più continui, e il suo ansimare farsi corto. Attendevo gli schizzi di sperma che mi avrebbero riempito la bocca. La mia voglia di sentirne il sapore era divenuta smania. Aumentai il ritmo delle ciucciate. Danilo gemeva. Chiusi gli occhi per accogliere gli spruzzi. Decisi che i primi zampilli li avrei inghiottiti e lasciato che i successivi mi allagassero lingua e palato.
Improvvisamente Ciro si trasse indietro, lasciandomi a bocca vuota e con un’ espressione sorpresa stampata in faccia.
«Danilo», mi disse passandomi le dita sulle labbra umide di saliva «suppongo tu abbia fatto molti pompini. Sei troppo bravo.»
«È il primo», gli dissi con la voce un po’ roca.»
«Caspita, non posso crederci! Succhi l’uccello in un modo stupendo», mi disse accarezzandomi. «Per un istante ho desiderato scaricarti in bocca tutta la sborra che i miei coglioni stanno stivando da nove giorni ma il pensiero che stasera avrei potuto sborrarti in culo, mi ha trattenuto.»
Osservai il cazzo di Danilo. Si ergeva tanto eretto da sembrare che guardasse il soffitto. Francamente avrei voluto iniziare a farmi sverginare da un pene di più modeste dimensioni, come le carote e le zucchine con cui davo effimeri appagamenti alla mia parte femminile. Quell’affare di carne pulsante, lungo quanto il cilindro di cartone su cui è avvolto il rotolo della carta da cucina, e di diametro ancora maggiore m’intimoriva. Qualche lettore obbietterà che i peni possono raggiungere anche dimensioni superiori, ma provate a infilare il vostro in uno di quei cilindri affinché possa imitare quello vero che avreste voluto avere, poi guardate la sua lunghezza e pensate che qualcuno voglia sodomizzarvi per la prima volta con un uccello di lunghezza identica al cilindro di carta e con il diametro maggiore. Vi assicuro che c’è da rimanere titubanti.
«Vogliamo provare?» mi propose Ciro scompigliandomi i capelli.
Vedendomi indeciso mi promise che avrebbe rinunciato qualora avessi sentito troppo male.
«Ho una crema lubrificante che ci aiuterà molto. L’ho preparata io stesso», mi rassicurò Ciro.
«Che cos’è?»
«Stai tranquillo, l’ho fatta con ingredienti semplici ma efficaci: acqua saponata densa e polpa di banana. Lubrifica benissimo. Adopero sempre quella.»
Ero intimorito ma tentato. Fissavo quell’asta di carne rosea, avviluppata da vene gonfie di sangue. Avvertivo il mio sfintere contrarsi e rilasciarsi, come volesse dirmi: “Sono pronto a tentare”. Guardai Ciro negli occhi e gli chiesi di promettermi che avrebbe rinunciato se avessi sentito troppo male.
«Non preoccuparti. Rinuncerò appena me lo chiederai», mi accarezzò di nuovo il viso con le sue grandi mani che sapevano lambire la pelle con la leggerezza di un tenero amante e mi sospirò che avevo il volto di un angiolino e le voglie di un maialino. Come potevo negargli di provarci? I suoi occhi erano dolci ed espressivi. Acconsentii.
«Vado a prendere il vasetto», mi disse indirizzandomi un sorriso beato.
Di lì a poco tornò con un piccolo barattolo di vetro che conteneva una sostanza cremosa dal colore giallo biancastro e un contenitore di cioccolata spalmabile. Mi domandai a che cosa gli sarebbe servita la crema di cioccolata. Forse era un dolce premio per ripagarmi anticipatamente del dolore che avrei sentito?
Intanto però la mia vescica m’inviava impellenti segnali di avere, per le bevute di acqua che avevo fatto, impellenti necessità di essere svuotata. «Prima dovrei andare in bagno a fare pipì», dissi a Ciro. Vidi i suoi occhi brillare di una luce lasciva mentre posava il vasetto sulla scrivania. Poi si abbassò per sussurrarmi, in un orecchio, che lui sarebbe stato il mio bagno.
«Pisciami in bocca!» esclamò con un’espressione avida. «È la tua urina, la birra di cui ti ho parlato.»
Rimasi interdetto ma solo un attimo. Ormai avevo capito quale animo lascivo avesse: una miscellanea di tenerezza e oscenità, turpitudini e dolcezza. Mi venne di pensare alle sconcezze che mi avrebbe insegnato se i nostri incontri fossero seguitati, e in cuor mio c’era il desiderio di continuare a frequentarlo.
Si sdraiò sul pavimento e mi disse di sovrastarlo, con le gambe divaricate poste ai lati del suo possente torace. Che sensazione strana vedere quell’uomo possente, alla mia mercé, che attendeva di vedere lo zampillo di urina uscire dal mio pene. Me lo presi in mano per indirizzare il getto, ma la mia erezione era così vigorosa che l’asta non ne voleva saper di piegarsi a sufficienza verso il basso. In quel modo avrei zampillato verso l’alto e non mi sarebbe stato possibile dirigere alla meglio il getto. Retrocedetti fino a porgli le gambe di lato ai fianchi. Guardai con ammirazione il suo pene che gli giungeva all’ombelico. Poi l’impellenza di urinare fu più forte che qualsiasi altro pensiero. Il getto fu tanto copioso da schizzare verso l’alto, poi cadere in basso dopo avere fatto un ampio semicerchio. Il primo schizzo di urina cadde sulla fronte di Ciro frangendosi in gocce dorate.
Cercai di dirigere meglio lo zampillo maneggiando il pene. Gli schizzai urina sul torace, poi sul collo. Mi resi conto di quanto fosse difficile centrare una bocca da quella distanza. Ciro attendeva, la bocca aperta e la lingua sporta fuori essa. Finalmente riuscii a centrargliela. Sentii l’urina gorgogliargli in gola, poi la vidi che fuoriusciva dai lati delle labbra, colargli dal viso a rivoletti e finire sul pavimento.
Seguitai a urinare col piacere di sentire la vescica svuotarsi e un godimento di dominio nel vedere quel maschio poderoso farsi pisciare in gola con la sola accortezza di tenere gli occhi chiusi. Più di una volta lo vidi chiudere le labbra per inghiottire, poi riaprirle per accogliere altra “birra”.
Quando terminai Ciro aveva volto, capelli e torace intrisi di urina. Grosse pozze si erano formate sul pavimento. Si leccò le labbra con un movimento sensuale della lingua. Poi asciugatosi alla meglio gli occhi col dorso delle mani, si sollevò e la sua figura possente incombette ancora su di me.
«Ora; Danilo, preparati a essere inculato», mi disse scappellandosi completamente il pene.
Me lo fece ballonzolare davanti agli occhi perché intendessi che quel nerbo di carne me lo avrebbe infilato negli intestini ma il mio buchino si sarebbe allargato tanto da far entrare la nerchia di Ciro? «Voglio sperare di non sentire troppo male», gli dissi.
«Agirò con delicatezza, non preoccuparti. Al primo dolore che avverti, ti prometto che mi fermo.»
Gli risposi che poteva tentare. Ora la verga di Ciro mi pareva divenuta la proboscide di un elefante e la cappella si era riempita talmente di sangue da divenire di un turgore paonazzo. Qualcosa, sebbene tremassi all’idea di ricevere quella proboscide in corpo, mi diceva quanto fosse magnifica. La mia natura femminile soggiogava quella maschile. Lui si accorse quanto guardassi affascinato il suo pene e mi sussurrò:
«Danilo il mio cazzo ti affascina, eh?»
«S… sì!» la mia voce era stata tremolante come la fiammella di una candela sbatacchiata da vento.
«Dimmelo, Danilo! Voglio ascoltarlo dalla tua voce.»
«Il… tuo… », l’emozione mi tagliava le parole.
«Coraggio, Danilo», m’incoraggiò facendo ondeggiare quel magnifico randello di carne davanti agli occhi.
«Il tuo ca… cazzo è magnifico.» Mi era ancora difficile esprimermi con parole volgari.
«Vuoi che te lo metta nel culo?»
«Sì… »
«Dimmelo con le parole, Dany!»
Quell’abbreviativo mi mandò in brodo di giuggiole e le mie parole uscirono dalla bocca, finalmente libere dai legacci del pudore. «Mettimelo nel culo, Ciro! Non resisto più!»
Avvertii che mi accarezzava la nuca teneramente. Un brivido mi percorse la schiena. Dopo tanti preliminari stava giungendo il fatidico momento. Il mio sfintere continuava a contrarsi e rilassarsi nervosamente. Fissai Ciro per fargli capire che doveva essere delicato ma la brama di sodomizzarmi glie la leggevo nello sguardo, una foia esaltata da un’irrefrenabile voglia di possedermi. Tolse gli oggetti dalla scrivania poi mi prese in braccio come fossi una piuma e mi sistemò sopra di essa, facendomi inginocchiare nella posizione che desiderava: quella che consentisse al suo pene di essere all’altezza giusta per il mio sfintere.
Sentii che mi spalmava qualcosa di denso nell’ano. Capii che lo aveva cosparso di cioccolata spalmabile quando ne avvertii l’aroma. Che diavolo d’uomo! Voleva ancora giocare con i preliminari per permettere alla mente di succhiare altro godimento da un’attesa che ingigantiva la voglia di giungere a quella manciata di secondi durante i quali esplodevano le supernove del piacere fisico. Quante cose avrei imparato da quell’artista del sesso? Trassi un sospiro di goduria quando iniziò a leccarmi tra le natiche, emettendo nasali gemiti che mi comunicavano quanto gli piacesse. Davanti a me c’era una finestra con la persiana aperta. Dalle tendine potevo scorgere, giù in basso, un tratto di strada, le auto che passavano e la gente che camminava sui marciapiedi. Quanto mi pareva arrapante vedere che fuori la vita si svolgeva normalmente e la gente ignorava che di là dalle tendine di una delle molte finestre che si affacciavano sulla strada, due maschi facevano l’amore e uno si accingeva a possedere l’altro. Sentii Ciro sedersi. Immaginai volesse mettersi comodo per seguitare a leccarmi l’ano. Infatti avvertii che mi stendeva ancora la cioccolata spalmabile. Poi seguitò a leccarmi, con calma. Com’era sublime sentire una lingua umana giocare col mio sfintere, talmente bello che mi veniva di socchiudere gli occhi mentre le grandi mani di Ciro mi allargavano le natiche per mettere le mie intimità in evidenza. Avvertivo la sua lingua cercare di introdursi nell’ano. E ci riusciva, solo per qualche centimetro ma c’entrava. Avrei voluto vederlo con la faccia tra i miei glutei e la sua lingua che si muoveva come un serpentello e il mio sfintere che si rilassava perché guadagnasse qualche millimetro in più.
Non so quanto si fosse trattenuto, sicuramente molto perché cominciavo ad avere le ginocchia indolenzite quando cessò. Iniziò a spalmarmi sul buco la casalinga crema lubrificante. Che fosse molto viscida lo avvertivo dalle sue dita scivolose. Ciro compì l’operazione con calma, senza scambiare una sola parola quasi con me se il momento imponesse un silenzio religioso. Attendevo col pene che colava liquido prespermatico sul ripiano della scrivania. L’emozione mi serrava la gola.
«Rilassati Danilo», sto per incularti. Respira profondo e non contrarti. Vedrai, ci riusciremo.» Si alzò in piedi, poggiò il glande sul mio sfintere tenendomi i glutei ben allargati. Iniziò a premere dapprima con premura, poi con sempre maggiore vigore. All’inizio avvertii una pressione leggera, poi sempre più decisa. Iniziai a sentire male ma cercai di resistere. Strinsi i denti. Il glande di Ciro faticava ad aprirsi un varco. Emisi un gemito di dolore. Gli dissi di fermarsi. Lo fece immediatamente. Poi approfittò di quella pausa per accarezzarmi la schiena e dirmi frasi tenere mentre le sue dita seguivano la linea della mia colonna vertebrale. «Dany, vuoi diventare il mio amante?»
«Sì, lo voglio Ciro.» In quel momento compresi quanto fosse gentiluomo: un porco ma tollerante e comprensivo. Fu il tono gentile della sua voce che mi fece decidere a tentare ancora. «Prova ancora», gli dissi. Avvertii che aumentava la lubrificazione. M’infilò mezzo indice nello sfintere rigirandolo per preparare la penetrazione. Poi il suo glande premette di nuovo.
«Se riesco a fare passare la cappella tutto sarà più facile», disse aumentando la pressione della spinta. Ero intenzionato a resistere. Sentivo il glande avanzare, guadagnare spazio e dilatarmi. Cercai di sopportare il dolore stringendo i denti. Il glande sembrava volessi spaccarmi in due.
«Danilo, dimmelo se ti faccio troppo male. Non contrarti. Respira profondamente e rilassati. Sta andando bene. Il tuo buchino è un paradiso e lo conquisterò.»
Io godevo, pur nel dolore che si faceva sempre più acuto. Godevo nel pensare che i miei intestini si sforzassero di accogliere un cazzo vero e grosso ma non riuscii a trattenere un altro lamento. Avvertii Ciro fermarsi e accarezzarmi la nuca.
«Ce la fai a resistere?» mi disse premuroso.
«Non lo so.» Qualcosa dentro di me mi faceva però bramare che seguitasse.
«Vuoi che continui?»
«Sì ma lentamente… »
Spinse ancora facendomi riempire gli occhi di lacrime. La pressione di Danilo si fece più poderosa. Emisi un altro gemito di dolore.»
«Danilo, non voglio rischiare di lacerarti.»
«Allora spalmami di più con quella crema, poi riprova.»
«D'accordo, ma se avverti troppo male, tenteremo un’altra volta. Dobbiamo andarci piano in queste cose.»
«No! Voglio sentirmelo tutto dentro, stasera.»
«Danilo, hai il volto di un angiolino e le voglie di un maialino. Vedrai quanto ci divertiremmo insieme.»
«Dai, Ciro, ungiti tutto il cazzo. Mentre lui compiva l’operazione, stetti lì, in ginocchio sopra la scrivania a riflettere sulla scoperta della mia vera natura sessuale e a goderne con una tale intensità mentale da farmi sentire lo stomaco liquido. E intanto attendevo che Ciro terminasse di lubrificarsi l’ariete per scardinare le resistenze del mio retto.
Poco dopo avvertii la cappella di Ciro tornare a premermi sullo sfintere. «Ora, spingi Ciro, spingi! Il fatto che fossi io a incoraggiarlo mi faceva sentire conduttore della situazione. «Sì, così, premi ancora, di più!» Il dolore e il piacere m’invadevano la mente e me la scavavano. Emisi un altro gemito di dolore.
«Danilo, vuoi che mi fermi, che rinunciamo?»
«No!» esclamai ansimando. «Continua, adagio ma continua!» Avvertii che si ritraeva. Gli stavo per dire che dovesse continuare quando sentii un’inaspettata, vigorosa pressione. Repressi un grido tra i denti, lacrimai, poi avvertii il dolore attenuarsi. Danilo si piegò sulla mia schiena per sussurrarmi all’orecchio che la cappella era passata.
Ora voglio sprofondarti il cazzo nel culo: tutto! Vuoi che lo faccia?»
«Sì, Ciro, sfondami!»
Centimetro dopo centimetro il pene di Ciro avanzò nei miei intestini come una trivella nella crema pasticciera, fino a che non sentii i testicoli sbattermi sulla parte superiore delle cosce. Quel randello di carne, lungo ventidue centimetri, mi era entrato in corpo e mi dava un senso d’incantevole pienezza, sebbene avvertissi ancora un po’ di dolore. Finalmente provavo quanto fosse fantastico, essere sodomizzato.
Ciro rimase fermo, dentro di me, come volesse farmi riprendere dal dolore iniziale, poi iniziò a muoversi avanti e indietro, dapprima lentamente, poi con maggiore vigore. Fuori il rimbombo di un tuono sembrò rotolare sui tetti delle case. Accertai che corrispondeva al vero quel che avevo letto in internet, cioè che la prostata maschile, sollecitata dalla dilatazione sfinterica, provocava una deliziosissima sensazione e questo era il motivo per cui i maschi rispetto alle femmine godevano un piacere particolare a essere sodomizzati. Presi a mormorargli, “ancora, ancora” Poi frasi che mai mi sarei immaginato di dire ad alta voce: «Più su, più su, Ciro, rompimi il culo!» Lui reagì pompando ancora più forte. Faceva entrare e uscire il suo cazzo dal mio culo con stantuffate che mi toglievano il fiato. Volevo mi giungesse in gola quella mazza di carne soda e il mio retto sembrava essersi trasformato in un antro senza fondo che la inghiottiva.
Il tuo cazzo Ciro, è meraviglioso.» Mugolavo dal piacere che ormai sovrastava il dolore. «Impalami Ciro, sfond…sìììì! È bello, sublime. Ancora, ancora! Non fermarti.» Il randello di Ciro passava con sempre maggiore facilità, mi trivellava gli intestini come fosse un martello pneumatico. «Io sto sognando, sto sogn…!
«Non stai sognando», m’interruppe Ciro con un affondo che mi strappò un prolungato mugolio «ti faccio quel che hai sempre sognato. Quello che ti sta trapanando è un cazzo vero», ringhiò stringendomi ancor di più i fianchi e dirigere per linea diretta un altro poderoso affondo, «non le solite zucchine e cetrioli larghi tre centimetri che avrai certamente usato per surrogare un uccello vero. Ammettilo che ci hai provato!»
«Sì… sì… ci ho provato.»
«Quante volte?»
«Tante», dissi affannosamente.
«Pure con le banane?»
«Specie quelle», ammisi in un ansito di eccitazione.
«È mentre te le schiaffi in culo ti masturbi, eh?»
Un micidiale affondo mi tolse il fiato.
«Rispondi» insisté Ciro.
«Si mi masturbo!» ansimai.
«È sborri come una fontana.»
«Sì… Sì!»
«Ecco perché ti ho penetrato con minore difficoltà di quel che pensassi. Avevi iniziato a sverginarti in solitario. Questo significa che spasimavi immaginando di prendere in culo un cazzo vero, caldo e grosso. Ti farò diventare non soltanto un gay compiuto ma t’insegnerò a godere nel sentirti una troia, una vacca da monta, sempre pronto a farti inculare da me e da tanti altri, un pompinaro mai sazio di sborra.» Ciro socchiuse gli occhi in un profondo godimento mentale per ciò che diceva e per quel che riusciva a farmi provare, accalorato dalla prospettiva che mi sarei fatto inculare tante, tante volte ancora.
Avvertii un altro micidiale affondo che mi scosse tutto e mi strappò un altro prolungato gemito di goduria.
«Danilo», mi disse ansimando «la avverti una sensazione fisica deliziosa mentre ti stantuffo?»
«Sì, in continuazione», risposi boccheggiando.»
«È il mio cazzo che preme sulla tua prostata. Ecco perché chi si fa inculare una volta, vorrà riprovarci, anche se è etero.
«È me… meraviglio», risposi con un sospiro.
Le ginocchia a contatto col duro pianale della scrivania cominciavano a dolermi, ma non volevo che interrompesse i suoi potenti affondi che proiettavano il mio animo al settimo cielo. Frammisti al rumore di un altro tuono, avvertii i suoi respiri farsi affannosi di goduria, le sue stantuffate divenire rapide e corte. Immaginando che stesse per eruttare mi preparai ad accogliere i suoi fiotti di sperma nelle viscere, ma lo sentii fermarsi come volesse interrompere di proposito l’eiaculazione. Ne approfittai per dirgli che avevo le ginocchia indolenzite.
«Rimediamo subito», mi rispose. Sentii che sfilava l’uccello dal mio intestino e quando la cappella uscì, lo fece con un rumore che somigliò a quello di un tappo tolto da una bottiglia di spumante. Avvertii aria fresca entrarmi nell’ano. Evidentemente lo sfintere era rimasto dilatato ma fu una sensazione che durò poco perché Ciro, mi disse di mettermi supino sulla scrivania, e portare le natiche vicino al bordo.
«Allarga le cosce», mi disse «e tieni le gambe sollevate.» Aveva la faccia arrossata per l’eccitazione e lo sguardo carico di libidine. «T’inculerò guardandoti negli occhi.» Poggiò la cappella sul mio sfintere e spinse. Il suo randello entrò tutto nelle mie viscere con una facilità incredibile. Poi ricominciò a stantuffarmi con affondi fino ai testicoli. Poteva vedere la mia faccia tesa in una smorfia di piacere che aumentò la sua fregola. Seguitò a incularmi con un ritmo a tratti lento, altre volte frenetico. Ogni tanto toglieva tutto il cazzo dal mio culo, mi faceva vedere quanto fosse gonfia e violacea la sua maestosa cappella, striata da qualche traccia di feci. Guardava, rapito, il mio sfintere rimasto dilatato, poi tornava ad affondarmi i suoi ventidue centimetri di nerchia nel corpo, costringendomi a mugolare.
Mukaba, intanto, seguitava a riprenderci variando le inquadrature. I suoi Jeans avevano un grosso bozzo all’altezza dei genitali. Evidentemente più filmava più si eccitava. Vedevo la sua figura ondeggiare al ritmo degli affondi di Ciro che imprimevano al mio corpo un movimento sussultorio. Mukaba si toccò il bozzo che aumentò notevolmente. Immaginai che dopo il “trattamento” al quale mi sottoponeva Ciro, volesse seguitare lui consentendo a Ciro di filmare a sua volta. Un brivido mi corse lungo la schiena a quella prospettiva ma Ciro rimandò per il momento le mie trepidazioni togliendomi il cazzo da culo e, alzandomi come fossi una piuma, mi prese in braccio. Le sue grandi mani mi sostennero per le natiche e il suo uccello, eretto verso l’alto, non ci mise molto a imboccare la strada giusta per entrare nel suo nido caldo. Lo sentii infilato tutto, grosso, duro e prepotente. Sicuramente Mukaba mi paragonava a una ranocchietta abbarbicata al tronco di un albero. Cirò iniziò a sollevarmi e abbassarmi con un movimento sempre più rapido e con una facilità che sembrava sollevasse un passero. Il mio viso andava su e giù. Vedevo il suo teso nello spasimo che precedeva il godimento fisico. Strinse i denti per resistere ancora qualche istante, aumentò il ritmo delle stantuffate, la sua bocca si aprì per fare uscire un gemito che presentiva un godimento talmente intenso da sfociare in una sorta di sofferenza, un piacere che gli attraversava i sensi con un’intensità quasi insopportabile.
Ero sballottato su e giù come un fuscello al vento di una tempesta. Anche il mio pene, che strofinava contro il corpo di Ciro, m’inviava segnali che lo sperma sarebbe straripato di lì a qualche istante. Avvertivo l’orgasmo avvicinarsi irruento come un fiume in piena. Finalmente , con il pene di quel gigante che mi saturava l’addome, stavo per sublimare i miei desideri inconsci repressi. Uno schianto secco di tuono presagiva che anche le cateratte del cielo, stavano per aprirsi.
«Vengo, Dany, vengo! Sto per sborrarti in culo!»
«Sì, riempimelo tutto, Ciro!»
Mugolammo, all’unisono stringemmo i denti, i nostro volti s’incorniciarono di voluttà, poi lui si lasciò finalmente andare e il suo fu un grido roco, strozzato, senza interruzioni, durato una decina di secondi, seguito in coda dai miei gemiti che uscivano da una bocca contratta in uno spasimo di godimento. Avvertii gli schizzi del mio sperma bagnargli la pancia: uno, due, tre, quattro, cinque, sei. Mai i miei testicoli ne avevano emesso tanto. Fuori la pioggia scrosciava sui tetti.
Il mio rammarico? Non avere percepito i fiotti dello sperma di Ciro inondarmi il ventre! Rimanemmo abbracciati stretti, accarezzandoci l’un l’altro, il respiro che tornava regolare, il cazzo di Ciro rimasto ancora duro nelle mie viscere.
Ciro seguitò a tenermi in braccio ancora per un po’, come fossi un orsacchiotto di peluche. Avvertivo il suo uccello farsi sempre meno consistente, fin a che, mezzo moscio, si sfilò dalle mie interiora. Avvertii ancora una sensazione d’aria fresca nell’ano, seguita dalla percezione che lo sperma, trattenuto dentro dal “tappo”, cominciasse a colare sul pavimento. Ciro non sembrava avermi eiaculato in culo, bensì fatto un clistere di sperma.
Mi voltai verso Mukaba e quel che vidi mi fece strabuzzare gli occhi. Aveva cessato di riprenderci e si era messo semisdraiato sul divano ad attendere il suo momento. Un cazzo imponente, nero come l’ebano, nei confronti del quale quello di Ciro sfigurava, si ergeva dal suo basso ventre, grosso e massiccio come la torre di Pisa. Quale randello mi aspettava ancora! Non misurava meno di ventisei, ventisette centimetri di lunghezza ma a differenza di quello di Ciro aveva un glande più proporzionato all’asta ma verso la base il suo diametro si allargava a non meno di otto, nove centimetri. Pressappoco il doppio del diametro di un cilindro di cartone sul quale è avvolta la carta da cucina: impressionante!
Ciro mi guardò sorridendomi rassicurante, come per farmi intendere che i miei intestini ce l’avrebbero fatta a ospitare quella nerchia. Pure Mukaba sfoggiava un gran sorriso. Lo vidi abbrancare con la mano destra la parte alta dell’asta e iniziare a menarsi l’enorme uccello lentamente, come per mantenerne l’erezione e farmelo ammirare in tutta la sua imponenza. Mi avvicinai stupefatto ad ammirare quel fallo di proporzioni spettacolari. Intanto Ciro si era avvicinato con un oggetto in mano. Era un metro a nastro da sarto. Mi domandò se volessi misurargli la circonferenza alla base. Annuii. Le mani mi tremavano dall’emozione ma la curiosità vinse. Mi chinai e circondai il cazzo di Mukaba con la fettuccia. Alla base il metro segnava 27 centimetri abbondanti di circonferenza. Feci un rapido calcolo mentale. L’asta alla base superava gli 8,5 centimetri di diametro: impressionante. Il buco del culo mi bruciava ma la voglia di cazzo l’avevo tanto agognata in passato da non avvertire affatto il periodo refrattario e poi l’uccello di Mukaba mi ammaliava al punto che il mio sfintere aveva preso di nuovo a contrarsi e rilassarsi.
«Vuoi ancora essere inculato?» mi disse Mukaba.
Annuii socchiudendo gli occhi. Volevo trasformare il mio intestino nella calda e ospitale custodia del cazzo di qualsiasi dimensione esso fosse stato e quella torre di ebano che svettava davanti ai miei occhi era il mezzo per riuscirci; sarei stato veramente in grado di prenderla tutta in culo?
«Voltati e siediti sopra il mio cazzo», mi disse Mukaba. «Ti calerai fino a che ti sentirai di sopportare il dolore. Guiderai tu la musica.»
Nonostante il desiderio di provare mi pervadesse, esitai. Mukaba e Ciro m’incoraggiarono. Voltai le spalle a Mukaba e mi chinai. Avvertii che mi sosteneva i glutei per aiutarmi a reggere il peso del corpo e trovare la posizione giusta. Sentivo la cappella di quella mazza bruna premermi lo sfintere abbondantemente lubrificato dallo sperma di Ciro. Mi calai sopra. Il glande entrò facilmente. Mi calai ancora. Stavo letteralmente impalandomi. Chissà quanti centimetri erano entrati. Forse dieci? Piegai le braccia che avevo appoggiato sul divano per calarmi, Mukaba mi agevolò e il peso del mio corpo fece il resto. Sentii penetrare il cazzo su per il culo ancora più in profondità.
«Calati ancora», mi spronò Mukaba «metà cazzo è ancora fuori.»
Feci una smorfia di dolore, ma la voglia di sentirmi in corpo quella lunga nerchia nera mi faceva sopportare il bruciore. La brama di sentirmela, tutta, negli intestini si fece più acuta quando vidi Ciro riprendere avidamente l’amplesso anale e il suo cazzo che tornava a dare segnali di erezione, ma ero giunto al punto in cui l’asta di Mukaba superava il diametro di quella di Ciro perché sentivo il mio sfintere giungere ai limiti della sopportazione. Mi sollevai un po’ per alleviare la dolenza. «Non ce la faccio», sospirai. Sollevandomi fui pervaso da una sensazione di fallimento nel sentire il cazzo di Mukaba sfilarsi dal mio ventre. Mi voltai a guardarlo in tutta la sua imponenza. Era magnifico!
«Dovremmo provare a cambiare posizione?» propose Mukaba. Mi suggerii di tornare a mettermi in ginocchio sulla scrivania. Ero talmente infoiato di libidine che mi sarei messo in qualsiasi posizione mi avesse voluto mettere. Fu così zelante che i due cuscini guarnenti i lati del divano me li pose sotto le ginocchia. Avrebbe provato a incularmi nella posizione della pecorina così come aveva iniziato Ciro. Mentre Mukaba mi spalmava di lubrificante, giungendo a infilarmi due dita nel culo, Ciro, posata la videocamera, aveva raggiunto la parte opposta della scrivania. Con la mano destra stringeva il suo cazzo e lo agitava per favorirne un ritorno alla completa erezione. Me lo mise a mezzo metro dal viso perché lo ammirassi in tutta la sua potenza. La cappella era magnifica, somigliava alla capocchia di un fungo e tanto lustra che in un punto rifletteva la luce esterna.
«Danilo, sei così arrapante che il mio periodo refrattario si è dissolto come neve al sole», mi disse con gli occhi tornati accesi di lussuria.
Guardavo, affascinato, la mazza di Ciro e sentivo Mukaba che, terminata la minuziosa lubrificazione, mi poneva la cappella all’imboccatura dello sfintere. Strinsi i denti quando iniziò la pressione. Avvertii una parte del batacchio nero penetrare nelle mie viscere con facilità.
«Vuoi che continui?» mi domandò Mukaba. Lo capì dal cenno d’assenso della mia nuca.
Avvertii che iniziava ad aumentare la pressione progressivamente. Mi sentivo sempre più pieno, dilatato e dolorante, ma era come se i miei intesti la bramassero quella torre di carne pulsante. Erano le mie viscere o la mia testa a volerlo? Era la mia testa. Finalmente potevo sfogare la mia voglia di maschio repressa e non volevo perdere l’occasione di farmi rompere il culo da un maglio di quella mole.
Eccitato dalle espressioni di goduria frammiste a dolenza che si alternavano sul mio viso, Ciro aveva avvicinato la sua regale cappella alla mia bocca e la faceva dondolare. Dietro, sentivo Mukaba sbuffare e spingere. Avvertivo di avere due terzi del suo cazzo affondato in corpo. Gli dissi di fare una pausa, di rimanere dentro, fermo fino a che non mi passasse un’acuta dolenza. Mukaba assecondò il mio desiderio ma, stretto dal mio sfintere, il suo cazzo inviava al suo cervello impulsi eiaculatori. Lo avvertivo, lo sentivo dalle pulsioni che s’irradiavano al pene e che divenivano sempre più frequenti. Temevo eiaculasse senza essere riuscito a penetrarmi completamente. Lo sollecitai a insistere. Nel frattempo Ciro aveva avvicinato il cazzo alla mia bocca ancora di più, tanto vicino che ne avvertivo l’odore. Mi strusciò la cappella sulle labbra invitandomi ad aprire la bocca. Lo feci, infoiato dalla mia capacità di tenere testa a due solidi cazzi contemporaneamente. Dovetti spalancare la bocca per ospitare il glande di Ciro. Poi, da tergo, sentii una pressione poderosa. La cappella di Ciro, che mi riempiva la bocca, mi obbligò a emettere un prolungato gemito nasale, ma i grossi coglioni del nero, che sentivo finalmente sbattere sulle mie cosce, mi ricompensarono della sofferenza. Mukaba iniziò il movimento a stantuffo che mi obbligò a spompinare Ciro senza che lui si muovesse. Lo scotimento durò forse mezzo minuto, poi Mukaba, gemette, gemette, gemette e fece mugolare pure me. Godevo in una maniera indescrivibile per l’appagamento mentale di sapere che un super dotato di quella stazza mi stesse riversando negli intestini un torrentello di sperma e un altro si accingeva a sborrami in bocca. Il mio piacere era ingigantito dalla consapevolezza di essere stato sverginato in un modo che mai avrei immaginato, non in un cesso pubblico, come spesso accade ai novizi ma in un salotto e da due mazze formidabili: un’iniziazione magnifica. Mukaba mi tenne ancora il cazzo nel culo senza che perdesse l’erezione e, con le mani, all’altezza dei miei fianchi, mi dondolava per assecondare il pompino.
Approfittando del movimento, Ciro, stava immobile ma il suo volto tradiva quanto fosse prossimo a una sua seconda eiaculazione. Emise un mugolio sordo, poi lo sperma m’inondò la bocca: era caldo, aspro e sapeva di bosco. Volevo ingerirlo ma la grossa cappella di Ciro m’impediva di fare il movimento necessario per inghiottire. Ritrassi la bocca, sentii un rivoletto di sborra colarmi giù per il mento. Tenni una parte dello sperma tra lingua e palato, guardai Ciro con occhi sedotti dalla sua imponenza, poi inghiotti in un solo sorso il latte dei suoi coglioni. Forse la seconda sborrata non fu copiosa quanto la prima, ma era stata sufficiente per appagarmi.
Ciro, col cazzo ancora semieretto, si portò alle mie spalle e volle che mi allargassi le natiche per evidenziare quanto fosse rimasto dilatato il mio culo dopo i colpi d’ariete della mazza di Mukaba, e quel che ne veniva fuori. Infatti quanto avesse eiaculato l’amico nero, lo avvertii quando mi alzai. Lo Sperma colò a rivoli giù per le mie gambe, copioso. Pure da quello trassi godimento.
I giorni seguenti feci molti sciacqui di camomilla prima che mi passasse il bruciore all’ano ma raggiante nel pensare che quelle due mazze mi avrebbero ancora penetrato. Avevo scoperto che il mio sfintere era tanto plasmabile da potermelo permettere: un perfetto porta uccello.
In quel pomeriggio che mi piace definire stellare, perché il dolore frammisto al godimento mi fecero vedere tutto il firmamento, ebbi la conferma di quanto mi piacesse il cazzo, mi affascinasse la sua forma, mi ammaliasse la cappella che svettava sull’asta e le vene che l’avvolgevano diramandosi in tutte le direzioni come il delta di un fiume e i testicoli grossi e turgidi, instancabili produttori di sperma che non aspettavano altro se non di schizzarlo fuori, denso e chiaro come latte. Sì, lo sperma era proprio il latte dei coglioni. Ora bramavo di tornare a sentirne l’odore, spalmarmelo sul palato per gustarne il sapore aspro, muschioso e selvaggio. Anelavo di vederlo mentre mi schizzava in bocca, a fiotti copiosi, osservare quando fuoriusciva dal forellino dell’uretra e mi colpiva il viso. Mi domandai che cosa si provasse a sentirsi la bocca colmata di quel magico liquido, per poi inghiottirlo in una sola sorsata. Disgusto o una sferzata di goduria mentale? E quante sborrate sarebbero occorse per riempirmi la bocca? Forse lo saprete dalle prossime confessioni.
Posso soltanto anticipare che, con Ciro e Mukaba, come partner fissi, avrei iniziato un lungo viaggio nei gironi del sesso in cerca di nuove esperienze bizzarre ed estreme, che appagassero prima la mente poi il corpo. Più di una volta ho avuto la tentazione di masturbarmi mentre scrivevo questo racconto, ma ho resistito. Non eiaculo da una decina di giorni, perché domani sera andrò con Ciro e l’amico Mukaba a fare l’ennesima incursione nel mondo dell’eros più ardito e intendo essere caricato al massimo. Sei maschi bisex ci attendono in periferia. Saremo in otto. Il luogo in cui si svolgerà l’incontro di gruppo avverrà in un grosso furgone senza finestrini sul cui fondo saranno distesi due materassi a due piazze. Una gang bang mobile! Uno guiderà a turno, prudentemente, per le strade secondarie di campagna mentre gli altri si scateneranno in una bolgia di sesso che sicuramente durerà non meno di tre ore ma anche questa è un’altra storia.

BRUKEN ANUS






scritto il
2012-01-23
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