Il Romanzo Grafico di Edoardo
di
Dora
genere
etero
Occhi cerchiati da ombre violacee, guance emaciate, zigomi affilati come coltelli su cui si arrampica una barba trascurata. Mi ci volle qualche minuto per realizzare che il tipo macilento riflesso nello specchio ero io. Seminudo, in una casa sconosciuta, con addosso delle mutande non mie. Di chi saranno mai stati quei boxer di cotone a righine bianche e azzurre?
Guardando ancora una volta in quegli occhi scuri, sentii i tentacoli dell’inquietudine risvegliarsi. Il panico mi assalì e mi girai di scatto. Mi colpì dolorosamente l’immagine di una donna nuda che dormiva su un materasso senza lenzuola. La visione di quell’attempata sconosciuta dagli orridi capelli ossigenati mi gettò in uno stato di vuoto esistenziale. La nausea si sommò al panico, all’inquietudine. Quel corpo butterato, la bocca aperta, la bava che colava, goccia dopo goccia sul materasso lurido, come un coltello che scava la pelle.
Tic.
Tic.
Tic.
Mossi un passo sulla moquette unta e molliccia, con orrore scorsi un preservativo usato a pochi centimetri dal mio alluce.
Mi sentivo stordito, mi sentivo male. Quella stanza mi soffocava, quella donna assurda mi soffocava, la mia vita mi soffocava. Non ricordavo ciò che avevo fatto nella notte appena passata, non sapevo dove mi trovavo.
L’unica frase di senso che continuava a sbattere tra le pareti del mio cervello era: “Edoardo, sono Edoardo. Devo andare via di qui”.
Alla mia destra, come una visione provvidenziale, scorsi una porta con accanto un mucchio di vestiti. Sollevato mi calai addosso dei jeans scoloriti e una camicia a righe dall’aspetto familiare. A parte un triste tubino leopardato e un perizoma nero di pizzo non trovai altro.
Scappai via da quella stanza scalzo, lasciandomi alle spalle quella donna che non conoscevo e l’idea irreale di aver condiviso il mio corpo con lei. Nella penombra dell’abitazione intuii la forma di pochi mobili di cattivo gusto, ma nessun ricordo e nessun indizio sull’identità della proprietaria mi giunsero da lì. Poco importava, volevo dimenticare il più in fretta possibile l’accaduto. Lasciai l’appartamento trascinandomi per le scale del condominio.
L’alba sorgeva nel maledetto cielo di Copenaghen, con i suoi giochi di grigi e di bianchi, mi pugnalava gli occhi, si scontrava sulle mie tempie, mi trafiggeva il cranio. Con sconforto crescente mi resi conto di essere nella zona portuale, a cinque chilometri dal centro, in uno spiazzo d’asfalto deserto, davanti a un condominio dove dormiva una donna nuda da cui fuggivo, indossando delle mutande non mie. Prima che l’idea di buttarmi nel Mare del Nord si facesse concreta, iniziai a trascinarmi verso sud, verso il mio triste monolocale, forse meno triste del posto in cui mi ero risvegliato.
Camminare mi restituiva lucidità, lo aveva sempre fatto. Il movimento lento e costante, il calore del sangue che viaggia attraverso i muscoli, il respiro regolare. Tutto ricordava quei momenti di pace e concentrazione intensi che si hanno solo da bambini, mentre si disegna o si è assorti in qualche gioco tutto mentale.
Nonostante fossi scalzo, in una giornata umida e nuvolosa, con una vita incasinata, potevo ancora camminare. E se potevo camminare, ero anche in grado di pensare. Se ero in grado di pensare, almeno biologicamente, ero vivo.
Cominciai con lentezza a ricostruire gli avvenimenti della notte passata. Ero uscito di casa all’imbrunire e mi ero immerso nella vivacità del quartiere di Vesterbro. Ricordavo chiaramente di essere andato in un locale a mangiare qualcosa, cercando di riempire il mio vuoto interiore con la birra chiara e le patatine fritte. Non mi curavo di chi mi circondava, non cercavo compagnia.
Stranamente le successive immagini che mi tornarono in mente mi vedevano in una discoteca affollata, col culo della tipa col vestito leopardato che mi si strusciava addosso a tempo di musica.
E ancora, lei che mi trascinava per la strada, verso casa sua, le mani dalle unghie aguzze che mi stritolavano il braccio. Niente aveva un senso, come ero passato da una birra in solitudine ad essere rimorchiato da una donna matura? E soprattutto di chi erano i boxer che avevo addosso?
Intorno a me erano tornate a scorrere strade familiari, mi sentivo rassicurato, ma fu in quel momento che mi ricordai del sesso. Una nuova ondata di disgusto e vergogna mi attanagliò.
La donna che mi spogliava con i suoi artigli, mi usava e poi si girava dall’altro lato, cadendo in un sonno comatoso. Io ero assente, un involucro vuoto che non rispondeva agli stimoli, non la toccavo neanche. Lo avevo fatto per cercare di risvegliarmi dalla mia apatia? Per avere un po’ di calore umano? Possibile che fossi caduto così in basso?
Nel tentativo di scacciare quelle immagini squallide, la mia mente reagì riportandomi nel mondo malinconico dai toni seppia in cui avevo relegato Lei. Lei che avevo amato così tanto.
Rivivevo il suo corpo perfetto. La pelle pallida e compatta, che dovevo andarmi a cercare sotto mille strati di vestiti. I lunghi capelli bruni, morbidi e profumati. I seni piccoli dai capezzoli scuri e appuntiti. Le sue mutandine bianche, così diverse dagli opulenti slip di pizzo della sconosciuta. Quell’aura di purezza che l’avvolgeva e si scontrava con le sue voglie passionali. Il modo unico che aveva di amarmi, baciandomi lungamente su tutto il corpo, facendomi sentire l’uomo più fortunato al mondo. La donna della mia vita.
Perduta.
Dopo un anno il senso di colpa mi strangolava ancora con le sue mani possenti. Il nome di Lei aleggiava nella mia vita senza che trovassi mai il coraggio di pronunciarlo.
Avevamo vent’anni appena, le ero caduto accidentalmente addosso sul pavimento di una libreria. Era uno scricciolo con due occhioni tristi e la caparbietà di cento direttori di banca. Per i due anni successivi non l’avevo più lasciata. Dividevamo tutto: esperienze, libri, musica, emozioni e corpi.
Ad un certo punto però avevo preso a chiudermi in me stesso, parlavo poco e la trattavo con freddezza. La gioia mi aveva abbandonato e svegliarsi la mattina era diventato un monotono supplizio. Odiavo tutti, i miei compagni di corso all’università, i docenti, i passanti per strada, i giovani, gli anziani, i bambini e persino gli animali. E nonostante Lei fosse l’unica persona autentica che frequentavo, finiva ostaggio del mio nervosismo, della mia amarezza. Ogni volta che sputavo una delle mie sentenze al vetriolo vedevo i suoi occhioni castani rabbuiarsi, le labbra carnose curvarsi all’ingiù, le sopracciglia accigliarsi formando una ruga di preoccupazione sulla fronte.
Anche quando avrei voluto accarezzarla, farle sentire il mio amore, il senso di colpa mi immobilizzava. La rabbia cieca verso il mondo e il disprezzo per me stesso ci ferivano entrambi.
Per questo, in una cupa giornata di settembre, decisi di mettere fine all’emorragia che ci stava prosciugando. Avevo preso un biglietto per l’Interrail ed ero deciso a fermarmi nella prima capitale europea che mi avesse dato asilo. Fuggivo.
Le spiegai ogni cosa, il mio bisogno di evasione e il fatto che meritasse di essere felice. Io, ormai, ero solo un essere vuoto che le mutilava la giovinezza.
Un borsone da viaggio, pochi abiti, un paio di romanzi, il mio portfolio dei lavori da fumettista e lasciai il paese. Passai un mese a bighellonare, il mio zaino aveva baciato i pavimenti dei bagni più sporchi d’Europa. Conobbi una moltitudine di persone, andai a letto con bellissime sconosciute. Era tutto nuovo e a portata di mano, mi sentivo finalmente vivo. A volte al calare del buio il senso di colpa per averla lasciata in maniera così repentina si faceva sentire, ma l’alcool e l’euforia mi venivano in aiuto, le mani delle altre donne mi anestetizzavano.
Dopo un mese di viaggio e cinque grandi città europee visitate, arrivai a Copenaghen e trovai che fosse il posto per me. Aveva la mia stessa essenza mutevole, avvolta di luci e misteriosi sorrisi nordici.
Passai il primo periodo a fare il lavapiatti, poi per caso trovai un ingaggio da illustratore in un giornale, tutto girava per il verso giusto. Ed in quel momento, dopo mesi che non tornavo nella mia città natale mi sentii solo, non avevo ancora nessun vero amico in quella città straniera, né riuscivo ad innamorarmi davvero di qualcuno.
Sarà stata la nostalgia, l’insicurezza, ma mi ritrovavo ancora alla sera, raggomitolato nel mio letto minuscolo, con una nuvola malinconica sulle palpebre. Quella nuvola aveva i suoi grandi occhi castani, illanguiditi dal mio abbandono, le labbra tremanti e le spalle infreddolite. Era più facile immaginarla fragile, da stringere e consolare. In realtà era probabilmente una giovane universitaria che conquistava tutti con il suo sorriso e le sue argomentazioni sagaci. Me la figuravo a passeggiare sotto i portici di Bologna insieme ad uno di quei falsi alternativi, a Firenze sottobraccio ad un giovane studente straniero appassionato d’arte rinascimentale. Roma, relazione con un carismatico professore di letteratura, vent’anni più grande. Napoli, sul retro di un motorino con le mani di qualche fortunato giovanotto sulla coscia.
Mi torturavo ogni notte con quelle immagini, eppure era come biforcare la mia personalità, essere centinaia di uomini con la sola costante di avere lei al mio fianco.
Durante quella camminata non avevo solo attraversato la città, scalzo e inerme, avevo visitato anfratti della mia memoria che cercavo di tenere nascosti in profondità.
Uscii da quel mondo atemporale e mi rituffai nel presente, davanti al portone austero del mio condominio. Mi sembrò di tornare alla civiltà dopo anni passati ad errare nel deserto. Istintivamente portai le mani alle tasche e trovando in quella sinistra il portafogli e le chiavi mi sentii in vena di ringraziare gli dei di tutte le religioni del mondo.
Salito in casa mi accasciai sul divano, ma non feci in tempo a rasserenarmi, uno strano rilievo animava la mia tasca destra. Un piccolo contenitore di metallo al cui interno qualcosa tintinnava.
Una minuscola pillola biancastra cadde nella mia mano, rabbrividii al solo ricordo degli esaltati nei club che ne facevano uso: metanfetamina. Quella bruciante presenza spiegava molte cose.
L’unica persona che conoscevo a farne uso era Bo, lo spacciatore del quartiere, un tizio allampanato che si calava di tutto. Più volte aveva cercato di rifilarmi qualcosa ma avevo sempre rifiutato, mi limitavo occasionalmente a comprare dell’erba.
A pensarci, mi sembrava vagamente di ricordare il suo volto, tra la luce calda del locale e i riflessi dei bicchieri pieni di birra. Possibile che avessi ceduto?
Presi a collegare i ricordi, in preda all’euforia mi ero fiondato nella discoteca più vicina e avevo iniziato a ballare come un folle. L’ambiente era colorato e stimolante, tutti erano attraenti, donne e uomini, avrei fatto sesso con chiunque in quel momento tanta era l’elettricità che mi percorreva il corpo. Quando la bionda leopardata si era avvicinata avevo di certo incentivato le sue provocazioni, ubriaco e strafatto com’ero, quella tipa almeno vent’anni più grande di me doveva essermi sembrata una visione angelica.
Poi ricordai il caldo, il sudore che mi colava sulla fronte e la sensazione di soffocamento, deve essere stato allora che la donna mi ha trascinato a casa sua.
E i boxer? Di solito uso dei calzoncini di cotone bianco, stile antico, tanto che Lei mi prendeva in giro di gusto ogni volta che me li sfilava, mordendosi quelle labbra carnose che mi facevano impazzire. In realtà le adorava, semplici e pulite nel loro candore.
Immagini sovrapposte, sensazioni confuse. Alla bionda non erano piaciute le mie mutande? Mi aveva deriso? Le aveva lanciate dalla finestra? Quelle che indossavo erano del marito?
Non riuscivo a raccapezzarmi, per quanto ne sapevo in preda al delirio potevo averle scambiate con qualcuno altrettanto folle nei bagni della discoteca.
Le ultime forze che avevo mi abbandonarono e una forte emicrania mi invase, fui incapace di elaborare qualsiasi altra ricostruzione. Chiusi gli occhi e il sonno mi prese all’istante.
A quel risveglio seguirono mesi frenetici.
Nel corso della mia vita quando mi capita di non comprendere ciò che mi circonda lo disegno, anche per quello avevo deciso di diventare un fumettista. Gli avvenimenti di quella notte, la più assurda di sempre, a furia di abbozzarli e rifinirli, tavole dopo tavola, divennero il mio primo romanzo grafico. Riempii i vuoti di memoria con la fantasia. Ne venne fuori un delirante viaggio nella mente del protagonista, zeppo di insidie e pericoli. Tra tinte fosche e intrecci psichedelici, alle ultime pagine, il mio alter ego, fuggiva dalla “Tana della Leoparda” e si tuffava in un mare di nuvole. L’odissea terminava in quel posto sicuro, al di sopra della città e le sue tentazioni, in una normalità ritrovata che aveva gli occhi castani di una donna ormai perduta.
Dopo quei mesi di lavoro estenuante scesi nuovamente le scale del mio condominio, mi scontrai sulla soglia con il mio fantasma depresso e in hangover, mi venne da ridere.
Il cielo era sempre uguale, bianco, abbacinante, con quella luce violenta che sembrava urlarmi in faccia di prendere finalmente in mano la mia vita. Così la assecondai, feci un passo, poi dieci, poi cento, poi mi misi a bussare alle porte di tutte le case editrici di Copenaghen.
Sei rifiuti.
Ogni ometto di mezza età seduto a una scrivania polverosa aveva un’opinione terribile sul mio fumetto. Essere pestato a sangue da sei culturisti sarebbe stato meno doloroso che ascoltare uno sconosciuto che accoltella il tuo progetto. Non mi arresi solo perché, da quando mi ero risvegliato sul mio divano, avevo la certezza che quella notte da incubo avesse un senso. Se ero sopravvissuto a quello potevo davvero realizzare i miei piani.
Proprio quando i dubbi si intensificarono un editore danese, giovane e alle prime armi, decise di darmi una possibilità. Stentavo a crederci, mi sembrò di essere un altro. Non ero più Edoardo, ero un fumettista dalla vita folle che era stato pubblicato in Danimarca. Leggendo la mail con l’allegato del contratto mi sentii davvero appagato, felice. Corsi fuori, per le strade, tra la gente che mi guardava infastidita e impaurita. Corsi a baciare Bo, sulle labbra screpolate che si ritrovava, perché lui non lo sapeva, ma la notte che avrebbe potuto ammazzarmi con quelle pasticche del cazzo, mi aveva cambiato l’esistenza in meglio.
Quell’euforia così materica aumentò ancora quando appresi che il volume stava avendo successo. Si preparava già la seconda ristampa. Arrivarono poi una terza e una quarta. E l’editore, Peter, mi propose di tradurre il fumetto, prima in inglese e poi in italiano, per i lettori del mio paese d’origine.
“Le impronte della notte”, il mio romanzo grafico, venne pubblicato in Italia nella primavera dell’anno successivo. Un mese dopo ero a Bologna per il primo firma-copie.
Tornare nel mio paese dopo tre anni mi mise addosso una strana malinconia, insieme alla felicità e alla sensazione di familiarità, diventava una strana brodaglia, liquida nello stomaco, che con i succhi gastrici si metteva a digerire il cibo che ingurgitavo.
I fan erano entusiasti, mi facevano mille domande, sorridevano, alcune ragazze vollero abbracciarmi. Era una bella sensazione, l’affetto, la curiosità verso di me, le mie insicurezze si erano rintanate tra le unghie più brutte dei piedi, in attesa di tempi peggiori.
Camminavo sorridendo sotto i portici di Via Zamboni, tra gli studenti con la chitarra e qualche anziano con le buste della spesa.
Lì la vidi.
I capelli lunghi, un maglione arancione e una gonna a pieghe marrone. Si alzava gli occhiali con l’indice per essere sicura che fossi io, immobile, incredula, meravigliosa. Anche io ero fermo, anche il tempo lo era, mentre ci guardavamo ai due capi del portico, mentre la gente ci scorreva accanto.
Improvvisamente si mise a correre verso di me, con la borsa di tela che le penzolava dal braccio e i capelli che andavano da tutte le parti. Piazzò i suoi grandi occhi castani di fronte ai miei e poi fece qualcosa che non scorderò mai. Mi accarezzò il viso, gli zigomi, le labbra, il mento, le tempie. Con una dolcezza e un amore che non avrei mai pensato di meritarmi. Mentre una lacrima le scendeva sul viso, lasciò che le sue labbra sfiorassero le mie. Poi si voltò e corse via, proprio come era arrivata. E in quel momento la amai alla follia, sarei morto per lei, avrei fatto qualsiasi cosa.
Ma se quel bacio aveva un significato era che noi eravamo stati, continuavamo ad essere da qualche parte, insieme, indissolubili. E anche se nel presente non c’è spazio per noi, posso tornare a dire il suo nome, a ripeterlo con affetto, come un bambino e il suo vecchio peluche.
Ambra.
In quel posticino a sinistra, sotto i taschini delle camicie, continuiamo ad amarci.
Guardando ancora una volta in quegli occhi scuri, sentii i tentacoli dell’inquietudine risvegliarsi. Il panico mi assalì e mi girai di scatto. Mi colpì dolorosamente l’immagine di una donna nuda che dormiva su un materasso senza lenzuola. La visione di quell’attempata sconosciuta dagli orridi capelli ossigenati mi gettò in uno stato di vuoto esistenziale. La nausea si sommò al panico, all’inquietudine. Quel corpo butterato, la bocca aperta, la bava che colava, goccia dopo goccia sul materasso lurido, come un coltello che scava la pelle.
Tic.
Tic.
Tic.
Mossi un passo sulla moquette unta e molliccia, con orrore scorsi un preservativo usato a pochi centimetri dal mio alluce.
Mi sentivo stordito, mi sentivo male. Quella stanza mi soffocava, quella donna assurda mi soffocava, la mia vita mi soffocava. Non ricordavo ciò che avevo fatto nella notte appena passata, non sapevo dove mi trovavo.
L’unica frase di senso che continuava a sbattere tra le pareti del mio cervello era: “Edoardo, sono Edoardo. Devo andare via di qui”.
Alla mia destra, come una visione provvidenziale, scorsi una porta con accanto un mucchio di vestiti. Sollevato mi calai addosso dei jeans scoloriti e una camicia a righe dall’aspetto familiare. A parte un triste tubino leopardato e un perizoma nero di pizzo non trovai altro.
Scappai via da quella stanza scalzo, lasciandomi alle spalle quella donna che non conoscevo e l’idea irreale di aver condiviso il mio corpo con lei. Nella penombra dell’abitazione intuii la forma di pochi mobili di cattivo gusto, ma nessun ricordo e nessun indizio sull’identità della proprietaria mi giunsero da lì. Poco importava, volevo dimenticare il più in fretta possibile l’accaduto. Lasciai l’appartamento trascinandomi per le scale del condominio.
L’alba sorgeva nel maledetto cielo di Copenaghen, con i suoi giochi di grigi e di bianchi, mi pugnalava gli occhi, si scontrava sulle mie tempie, mi trafiggeva il cranio. Con sconforto crescente mi resi conto di essere nella zona portuale, a cinque chilometri dal centro, in uno spiazzo d’asfalto deserto, davanti a un condominio dove dormiva una donna nuda da cui fuggivo, indossando delle mutande non mie. Prima che l’idea di buttarmi nel Mare del Nord si facesse concreta, iniziai a trascinarmi verso sud, verso il mio triste monolocale, forse meno triste del posto in cui mi ero risvegliato.
Camminare mi restituiva lucidità, lo aveva sempre fatto. Il movimento lento e costante, il calore del sangue che viaggia attraverso i muscoli, il respiro regolare. Tutto ricordava quei momenti di pace e concentrazione intensi che si hanno solo da bambini, mentre si disegna o si è assorti in qualche gioco tutto mentale.
Nonostante fossi scalzo, in una giornata umida e nuvolosa, con una vita incasinata, potevo ancora camminare. E se potevo camminare, ero anche in grado di pensare. Se ero in grado di pensare, almeno biologicamente, ero vivo.
Cominciai con lentezza a ricostruire gli avvenimenti della notte passata. Ero uscito di casa all’imbrunire e mi ero immerso nella vivacità del quartiere di Vesterbro. Ricordavo chiaramente di essere andato in un locale a mangiare qualcosa, cercando di riempire il mio vuoto interiore con la birra chiara e le patatine fritte. Non mi curavo di chi mi circondava, non cercavo compagnia.
Stranamente le successive immagini che mi tornarono in mente mi vedevano in una discoteca affollata, col culo della tipa col vestito leopardato che mi si strusciava addosso a tempo di musica.
E ancora, lei che mi trascinava per la strada, verso casa sua, le mani dalle unghie aguzze che mi stritolavano il braccio. Niente aveva un senso, come ero passato da una birra in solitudine ad essere rimorchiato da una donna matura? E soprattutto di chi erano i boxer che avevo addosso?
Intorno a me erano tornate a scorrere strade familiari, mi sentivo rassicurato, ma fu in quel momento che mi ricordai del sesso. Una nuova ondata di disgusto e vergogna mi attanagliò.
La donna che mi spogliava con i suoi artigli, mi usava e poi si girava dall’altro lato, cadendo in un sonno comatoso. Io ero assente, un involucro vuoto che non rispondeva agli stimoli, non la toccavo neanche. Lo avevo fatto per cercare di risvegliarmi dalla mia apatia? Per avere un po’ di calore umano? Possibile che fossi caduto così in basso?
Nel tentativo di scacciare quelle immagini squallide, la mia mente reagì riportandomi nel mondo malinconico dai toni seppia in cui avevo relegato Lei. Lei che avevo amato così tanto.
Rivivevo il suo corpo perfetto. La pelle pallida e compatta, che dovevo andarmi a cercare sotto mille strati di vestiti. I lunghi capelli bruni, morbidi e profumati. I seni piccoli dai capezzoli scuri e appuntiti. Le sue mutandine bianche, così diverse dagli opulenti slip di pizzo della sconosciuta. Quell’aura di purezza che l’avvolgeva e si scontrava con le sue voglie passionali. Il modo unico che aveva di amarmi, baciandomi lungamente su tutto il corpo, facendomi sentire l’uomo più fortunato al mondo. La donna della mia vita.
Perduta.
Dopo un anno il senso di colpa mi strangolava ancora con le sue mani possenti. Il nome di Lei aleggiava nella mia vita senza che trovassi mai il coraggio di pronunciarlo.
Avevamo vent’anni appena, le ero caduto accidentalmente addosso sul pavimento di una libreria. Era uno scricciolo con due occhioni tristi e la caparbietà di cento direttori di banca. Per i due anni successivi non l’avevo più lasciata. Dividevamo tutto: esperienze, libri, musica, emozioni e corpi.
Ad un certo punto però avevo preso a chiudermi in me stesso, parlavo poco e la trattavo con freddezza. La gioia mi aveva abbandonato e svegliarsi la mattina era diventato un monotono supplizio. Odiavo tutti, i miei compagni di corso all’università, i docenti, i passanti per strada, i giovani, gli anziani, i bambini e persino gli animali. E nonostante Lei fosse l’unica persona autentica che frequentavo, finiva ostaggio del mio nervosismo, della mia amarezza. Ogni volta che sputavo una delle mie sentenze al vetriolo vedevo i suoi occhioni castani rabbuiarsi, le labbra carnose curvarsi all’ingiù, le sopracciglia accigliarsi formando una ruga di preoccupazione sulla fronte.
Anche quando avrei voluto accarezzarla, farle sentire il mio amore, il senso di colpa mi immobilizzava. La rabbia cieca verso il mondo e il disprezzo per me stesso ci ferivano entrambi.
Per questo, in una cupa giornata di settembre, decisi di mettere fine all’emorragia che ci stava prosciugando. Avevo preso un biglietto per l’Interrail ed ero deciso a fermarmi nella prima capitale europea che mi avesse dato asilo. Fuggivo.
Le spiegai ogni cosa, il mio bisogno di evasione e il fatto che meritasse di essere felice. Io, ormai, ero solo un essere vuoto che le mutilava la giovinezza.
Un borsone da viaggio, pochi abiti, un paio di romanzi, il mio portfolio dei lavori da fumettista e lasciai il paese. Passai un mese a bighellonare, il mio zaino aveva baciato i pavimenti dei bagni più sporchi d’Europa. Conobbi una moltitudine di persone, andai a letto con bellissime sconosciute. Era tutto nuovo e a portata di mano, mi sentivo finalmente vivo. A volte al calare del buio il senso di colpa per averla lasciata in maniera così repentina si faceva sentire, ma l’alcool e l’euforia mi venivano in aiuto, le mani delle altre donne mi anestetizzavano.
Dopo un mese di viaggio e cinque grandi città europee visitate, arrivai a Copenaghen e trovai che fosse il posto per me. Aveva la mia stessa essenza mutevole, avvolta di luci e misteriosi sorrisi nordici.
Passai il primo periodo a fare il lavapiatti, poi per caso trovai un ingaggio da illustratore in un giornale, tutto girava per il verso giusto. Ed in quel momento, dopo mesi che non tornavo nella mia città natale mi sentii solo, non avevo ancora nessun vero amico in quella città straniera, né riuscivo ad innamorarmi davvero di qualcuno.
Sarà stata la nostalgia, l’insicurezza, ma mi ritrovavo ancora alla sera, raggomitolato nel mio letto minuscolo, con una nuvola malinconica sulle palpebre. Quella nuvola aveva i suoi grandi occhi castani, illanguiditi dal mio abbandono, le labbra tremanti e le spalle infreddolite. Era più facile immaginarla fragile, da stringere e consolare. In realtà era probabilmente una giovane universitaria che conquistava tutti con il suo sorriso e le sue argomentazioni sagaci. Me la figuravo a passeggiare sotto i portici di Bologna insieme ad uno di quei falsi alternativi, a Firenze sottobraccio ad un giovane studente straniero appassionato d’arte rinascimentale. Roma, relazione con un carismatico professore di letteratura, vent’anni più grande. Napoli, sul retro di un motorino con le mani di qualche fortunato giovanotto sulla coscia.
Mi torturavo ogni notte con quelle immagini, eppure era come biforcare la mia personalità, essere centinaia di uomini con la sola costante di avere lei al mio fianco.
Durante quella camminata non avevo solo attraversato la città, scalzo e inerme, avevo visitato anfratti della mia memoria che cercavo di tenere nascosti in profondità.
Uscii da quel mondo atemporale e mi rituffai nel presente, davanti al portone austero del mio condominio. Mi sembrò di tornare alla civiltà dopo anni passati ad errare nel deserto. Istintivamente portai le mani alle tasche e trovando in quella sinistra il portafogli e le chiavi mi sentii in vena di ringraziare gli dei di tutte le religioni del mondo.
Salito in casa mi accasciai sul divano, ma non feci in tempo a rasserenarmi, uno strano rilievo animava la mia tasca destra. Un piccolo contenitore di metallo al cui interno qualcosa tintinnava.
Una minuscola pillola biancastra cadde nella mia mano, rabbrividii al solo ricordo degli esaltati nei club che ne facevano uso: metanfetamina. Quella bruciante presenza spiegava molte cose.
L’unica persona che conoscevo a farne uso era Bo, lo spacciatore del quartiere, un tizio allampanato che si calava di tutto. Più volte aveva cercato di rifilarmi qualcosa ma avevo sempre rifiutato, mi limitavo occasionalmente a comprare dell’erba.
A pensarci, mi sembrava vagamente di ricordare il suo volto, tra la luce calda del locale e i riflessi dei bicchieri pieni di birra. Possibile che avessi ceduto?
Presi a collegare i ricordi, in preda all’euforia mi ero fiondato nella discoteca più vicina e avevo iniziato a ballare come un folle. L’ambiente era colorato e stimolante, tutti erano attraenti, donne e uomini, avrei fatto sesso con chiunque in quel momento tanta era l’elettricità che mi percorreva il corpo. Quando la bionda leopardata si era avvicinata avevo di certo incentivato le sue provocazioni, ubriaco e strafatto com’ero, quella tipa almeno vent’anni più grande di me doveva essermi sembrata una visione angelica.
Poi ricordai il caldo, il sudore che mi colava sulla fronte e la sensazione di soffocamento, deve essere stato allora che la donna mi ha trascinato a casa sua.
E i boxer? Di solito uso dei calzoncini di cotone bianco, stile antico, tanto che Lei mi prendeva in giro di gusto ogni volta che me li sfilava, mordendosi quelle labbra carnose che mi facevano impazzire. In realtà le adorava, semplici e pulite nel loro candore.
Immagini sovrapposte, sensazioni confuse. Alla bionda non erano piaciute le mie mutande? Mi aveva deriso? Le aveva lanciate dalla finestra? Quelle che indossavo erano del marito?
Non riuscivo a raccapezzarmi, per quanto ne sapevo in preda al delirio potevo averle scambiate con qualcuno altrettanto folle nei bagni della discoteca.
Le ultime forze che avevo mi abbandonarono e una forte emicrania mi invase, fui incapace di elaborare qualsiasi altra ricostruzione. Chiusi gli occhi e il sonno mi prese all’istante.
A quel risveglio seguirono mesi frenetici.
Nel corso della mia vita quando mi capita di non comprendere ciò che mi circonda lo disegno, anche per quello avevo deciso di diventare un fumettista. Gli avvenimenti di quella notte, la più assurda di sempre, a furia di abbozzarli e rifinirli, tavole dopo tavola, divennero il mio primo romanzo grafico. Riempii i vuoti di memoria con la fantasia. Ne venne fuori un delirante viaggio nella mente del protagonista, zeppo di insidie e pericoli. Tra tinte fosche e intrecci psichedelici, alle ultime pagine, il mio alter ego, fuggiva dalla “Tana della Leoparda” e si tuffava in un mare di nuvole. L’odissea terminava in quel posto sicuro, al di sopra della città e le sue tentazioni, in una normalità ritrovata che aveva gli occhi castani di una donna ormai perduta.
Dopo quei mesi di lavoro estenuante scesi nuovamente le scale del mio condominio, mi scontrai sulla soglia con il mio fantasma depresso e in hangover, mi venne da ridere.
Il cielo era sempre uguale, bianco, abbacinante, con quella luce violenta che sembrava urlarmi in faccia di prendere finalmente in mano la mia vita. Così la assecondai, feci un passo, poi dieci, poi cento, poi mi misi a bussare alle porte di tutte le case editrici di Copenaghen.
Sei rifiuti.
Ogni ometto di mezza età seduto a una scrivania polverosa aveva un’opinione terribile sul mio fumetto. Essere pestato a sangue da sei culturisti sarebbe stato meno doloroso che ascoltare uno sconosciuto che accoltella il tuo progetto. Non mi arresi solo perché, da quando mi ero risvegliato sul mio divano, avevo la certezza che quella notte da incubo avesse un senso. Se ero sopravvissuto a quello potevo davvero realizzare i miei piani.
Proprio quando i dubbi si intensificarono un editore danese, giovane e alle prime armi, decise di darmi una possibilità. Stentavo a crederci, mi sembrò di essere un altro. Non ero più Edoardo, ero un fumettista dalla vita folle che era stato pubblicato in Danimarca. Leggendo la mail con l’allegato del contratto mi sentii davvero appagato, felice. Corsi fuori, per le strade, tra la gente che mi guardava infastidita e impaurita. Corsi a baciare Bo, sulle labbra screpolate che si ritrovava, perché lui non lo sapeva, ma la notte che avrebbe potuto ammazzarmi con quelle pasticche del cazzo, mi aveva cambiato l’esistenza in meglio.
Quell’euforia così materica aumentò ancora quando appresi che il volume stava avendo successo. Si preparava già la seconda ristampa. Arrivarono poi una terza e una quarta. E l’editore, Peter, mi propose di tradurre il fumetto, prima in inglese e poi in italiano, per i lettori del mio paese d’origine.
“Le impronte della notte”, il mio romanzo grafico, venne pubblicato in Italia nella primavera dell’anno successivo. Un mese dopo ero a Bologna per il primo firma-copie.
Tornare nel mio paese dopo tre anni mi mise addosso una strana malinconia, insieme alla felicità e alla sensazione di familiarità, diventava una strana brodaglia, liquida nello stomaco, che con i succhi gastrici si metteva a digerire il cibo che ingurgitavo.
I fan erano entusiasti, mi facevano mille domande, sorridevano, alcune ragazze vollero abbracciarmi. Era una bella sensazione, l’affetto, la curiosità verso di me, le mie insicurezze si erano rintanate tra le unghie più brutte dei piedi, in attesa di tempi peggiori.
Camminavo sorridendo sotto i portici di Via Zamboni, tra gli studenti con la chitarra e qualche anziano con le buste della spesa.
Lì la vidi.
I capelli lunghi, un maglione arancione e una gonna a pieghe marrone. Si alzava gli occhiali con l’indice per essere sicura che fossi io, immobile, incredula, meravigliosa. Anche io ero fermo, anche il tempo lo era, mentre ci guardavamo ai due capi del portico, mentre la gente ci scorreva accanto.
Improvvisamente si mise a correre verso di me, con la borsa di tela che le penzolava dal braccio e i capelli che andavano da tutte le parti. Piazzò i suoi grandi occhi castani di fronte ai miei e poi fece qualcosa che non scorderò mai. Mi accarezzò il viso, gli zigomi, le labbra, il mento, le tempie. Con una dolcezza e un amore che non avrei mai pensato di meritarmi. Mentre una lacrima le scendeva sul viso, lasciò che le sue labbra sfiorassero le mie. Poi si voltò e corse via, proprio come era arrivata. E in quel momento la amai alla follia, sarei morto per lei, avrei fatto qualsiasi cosa.
Ma se quel bacio aveva un significato era che noi eravamo stati, continuavamo ad essere da qualche parte, insieme, indissolubili. E anche se nel presente non c’è spazio per noi, posso tornare a dire il suo nome, a ripeterlo con affetto, come un bambino e il suo vecchio peluche.
Ambra.
In quel posticino a sinistra, sotto i taschini delle camicie, continuiamo ad amarci.
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