Roberta
di
Laurencedarabia
genere
trans
Mi è venuta di getto questa storia di cui pubblico la prima parte, è successo tutto 40 anni fa e la racconto come la ricordo oggi senza omettere e aggiungere nulla.
“Scusi non mi ha dato lo statino di chimica” una voce leggermente roca con un vago accento spagnolo. Ero dietro di lei in segreteria studenti, era leggermente inchinata verso lo sportello, non vedevo la faccia ma il culo fasciato dai jeans era un bello spettacolo. Sentii lo sfigato dietro lo sportello biascicare che lo stava cercando, lei girò un po’ la testa indietro e ne vidi una parte del viso di tre quarti. Non era una ragazza… ma non era neanche un ragazzo. Capelli scuri lucenti che scendevano sulle spalle, il viso liscio senza trucco e senza accenno od ombra di barba. L’impiegato le passò lo statino, lei lo ritirò e lo aggiunse agli altri fogli, si girò del tutto e squadrandomi si avviò all’uscita. Mi aveva lasciato interdetto, era una persona che non rientrava in nessuno dei miei stereotipi.
“Hei, ti muovi? Non sono qui al tuo servizio tutto il giorno” lo sfigato non mi aveva dato il tempo di mettermi davanti allo sportello, mi guardò attraverso il vetro, mi riconobbe e cambiò atteggiamento “scusa caro, dimmi” sei mesi prima ero arrivato all’ultimo giorno valido per iscrivermi e aveva cercato di mandarmi via, ero riuscito a infilare una mano nello sportello e a tirarlo contro il vetro, dal suo atteggiamento sembrava che il trattamento avesse avuto effetto. “mio padre sta dicendo che mi scrivo io i voti sul libretto perché ha telefonato qui e qualcuno gli ha detto che il mio voto di analisi non è registrato” prese il mio libretto, si allontanò un attimo bofonchiando “certo che i tuoi si fidano di te…” ed ebbi il tempo di pensare a quegli occhi neri “con le stelline” “ ma era una o uno?” mi chiesi.
Arrivò con il mio libretto, ci aveva messo un timbro “puoi dire a tuo padre di telefonare per controllare, è registrato” mi abbassai per parlare attraverso lo sportello, sussurrai “chi era quell.. di prima? “biascicai la finale, guardò un foglio di registro sul banco “Roberto Cafasso, è venezuelano e fa il primo anno di biologia” lo ringraziai e uscii dalla fila.
Camminando lungo il corridoio rimuginai “sono diventato finocchio, l’ho guardato da dietro e mi è venuto duro” proseguii verso l’uscita, se lo sapevamo solo io e il mio cazzo non era un problema. Nell’androne c’erano quattro telefoni a muro a gettoni. Avvicinandomi lo riconobbi subito girato verso un telefono che parlava, la cornetta in una mano e l’altra che inseriva gettoni a raffica, rallentai e la telefonata finì prima che gli arrivassi davanti.
Fu come se mi muovesse una molla che non conoscevo dentro di me. Mi fermai e gli dissi “sono tre mesi che studio chimica, il programma è lo stesso tuo, vuoi che proviamo a ripassare insieme?” Mi squadrò dalla testa ai piedi “lo so, sono un bel figo “pensai “aprì quella fantastica bocca da donna e mi disse con quel tono da Claudia Cardinale “io ho appena iniziato, non saprei cosa ripeterti” il diavolo dentro di me insistette “forse è meglio, io ti insegno così mi impadronisco meglio della materia” rimase a guardarmi senza parlare “sono una merda, mi sto lasciando suggerire dal cazzo cosa devo dire e in più lo sto facendo con uno che si chiama Roberto “ pensai. Lui mi allungò una mano, io accettai con una stretta “maschia e virile” ebbi la sensazione di stringere la mano di una ragazza. Rispose “Proviamo, potrebbe servire a entrambi”
Anche con questo accento spagnolo parlava un italiano perfetto, non poteva essere spagnolo.
“Oramai è tardi per prepararmi il pranzo, vieni con me in un caffè sotto i portici di via Po e mangiamo un toast?” lo invitai.
Stavo comportandomi come se avessi di fronte una ragazza che mi piaceva, persino lo spuntino da Mulassano gli offrivo.
“Va bene anche per me, dovrei andare in mensa ma non ne ho proprio voglia”
Uscimmo su via Po e dopo qualche passo sotto i portici di sinistra attraversammo e ci dirigemmo verso piazza Castello, mi fermai a comperare un pacchetto di Gauloises azzurre ed entrammo nel caffè più bello di Torino. Ci sedemmo in un angolo, lui si guardò attorno meravigliato “sai che anche a Buenos Aires c’era un locale così? Prima che ci trasferissimo a Caracas mio papà mi portava la domenica a fare colazione e mi piaceva quasi quanto mi piace questo” “In un attimo mi hai svelato il mistero del tuo accento spagnolo” risi divertito
“Ah sì, i miei abitano ancora a Caracas ma mia mamma ha voluto che l’università la frequentassi nella sua città in Italia, però è gallego, un po’ diverso dallo spagnolo”.
Gallego era il Che ma non mi addentrai in un campo in cui brillavo per ignoranza.
Avrei acceso volentieri una Gauloises e avrei ordinato un pastis con acqua e ghiaccio ma fumare rapè noire in un locale chiuso è maleducazione come accendere un toscano, soprattutto se di fronte hai dama Galadriel la regina degli elfi in versione bruna. “Ecchecazzo, ecco perché mi attrae, è un elfo, ne uomo ne donna e se proprio bisogna categorizzare è più Galadriel che Legolas” razionalizzai dentro di me.
Venne Patrizio, serviva come il maggiordomo di un lord, ci chiese la comanda e invece dei toast ordinai alcuni tramezzini con gamberi e altri con il salmone. Lui non esitò e disse che prendeva lo stesso.” Anche due bianchi fermi” ordinai senza chiedergli conferma e non commentò, stette un attimo a guardarmi e mi disse “io bevo anche acqua” “anche io” risposi “ma qui c’è un rito, vedi quella fontanella sul bancone che riversa nei due bicchieri di vetro? Alla fine, ci si alza per il caffè e si beve da quei bicchieri, dicono sia l’acqua del primo acquedotto, quello che serviva palazzo reale ed è buonissima” era solo un mio rito ma lui non poteva saperlo.
Mangiammo di gusto, i tramezzini erano squisiti e il vino anche, finimmo e seguimmo il mio rito poi uscimmo sotto i portici.
Eravamo in mezzo alla gente, gli chiesi quando avrebbe voluto incominciare e rispose “anche subito, solo che non ho con me i libri” “se ti va abito qui dietro nella piazza, ho i libri, le dispense e una fantastica lavagna che mia madre aveva recuperato da una scuola in demolizione”
Annuì “Io sono in collegio, per studiare dovremmo andare in biblioteca e non si potrebbe neanche parlare”.
In due minuti fummo davanti alla casa dove abitavo, rimase colpito, prima di entrare mi chiese “sei un principe?” risi e gli risposi “No, è di un principe squattrinato che non riuscendo ad affittare il piano nobile a un solo inquilino l’ha suddiviso in improbabili monocamere, a me è capitato il salone che da sulla piazza ma condivido il bagno con il mio vicino”.
Mi seguì, ero al primo piano e lo feci salire prima di me, non era galanteria ma voglia di guardargli il culo, arrivammo sul pianerottolo e aprii la porta di ingresso, lo feci entrare e percorremmo l’atrio e il lungo corridoio che portava al mio monolocale. Quando fu dentro fu ancora più affascinato, la stessa sensazione che aveva preso me la prima volta che ci ero entrato. La luce invernale irrompeva dal cielo sulla piazza e il pavimento a palchetto sembrava dorato. Guardò il soffitto affrescato e si affacciò alla porta finestra che dava sul balcone.
Mi guardò e sussurrò “E’ bellissimo, vorrei stare io in un posto così” pensai “see, non fosse che l’ingegnera del piano di sopra mi lascia fare la doccia da lei dopo che l’ho spazzolata due volte la settimana non mi laverei mai “; era una con dieci anni più di me che mi aveva consolato appena arrivato, si era instaurato un bel rapporto da scopamici.
“Proviamo a capire come possiamo studiare insieme” gli proposi “Potresti metterti seduto al tavolino con uno dei quaderni che ci sono lì e io inizierò a illustrarti alla lavagna le cose che ho già imparato. Hai seguito le lezioni?” “parecchie le ho saltate, sono arrivata con un mese di ritardo dal Sud America e non ho trovato nessuno che mi aiutasse a recuperare” non gli dissi che i torinesi sono così, si fanno gli affari loro e se non fai parte della loro cerchia è come se non esistessi, se ne era già accorto da solo.
Iniziai a illustrargli una chimica che al liceo non avevamo mai visto, gli parlai di elettroni e di moli, feci un mucchio di grafici di stato e scrissi alcune reazioni semplici, gli feci vedere a cosa serviva quantificare l’energia che entrava o usciva da una reazione. Ad un certo punto mi accorsi che era molto più utile a me di quanto credessi, finalmente padroneggiavo la materia senza tentennamenti. Nella fase dopo mi accorsi di quanto lui fosse intelligente e della sua rapidità di apprendimento. Spiegavo, prendeva qualche appunto e poi mi ripeteva tutto il ragionamento senza neanche guardare il quaderno.
Due ore passarono in un attimo, mi fermai e dissi “mi hai spompato, pausa, ti va un tè? Magari al gelsomino?” mentre preparavo il bollitore mise in ordine i suoi appunti in cinque minuti e mi disse “dovrò portarti un quaderno nuovo “naa” risposi “la pila da cui l’hai preso l’ho rubata in ufficio da mio padre e lo sai che rubare ai ladri non è peccato?” rise con un sorriso devastante, bei denti, occhi che ridevano, appena finita la fase didattica la malia riprendeva.
Portai al tavolo le tazze di te con la zuccheriera, presi la mia seconda sedia e mi accomodai davanti a lui. Sorseggiammo il tè e chiacchierammo, avevo notato che non fumava e lasciai ancora le Gauloises nel pacchetto. Parlammo di viaggi, di una tesi che avrei voluto per il terzo anno in Grecia o in Turchia, di ragazze (di ragazze parlai io, lui non disse niente) poi gli dissi che non avevo nulla contro gli omosessuali, che la mia preparazione di chimica derivava dalle lezioni di un amico chimico di mio papà che per me era uno zio e che era un gay dichiarato. Lui sorvolò anche questo discorso, ritornammo a parlare di scuola, gli diedi un po’ di esercizi da fare e poi disse che doveva tornare in collegio. Gli chiesi se volesse che lo accompagnassi ma disse di no e mi diede appuntamento per il giorno dopo alle due.
Quando uscì mi resi conto che dopo il mio discorso sulla omosessualità si era un po’ irrigidito ma aveva cercato di trattenersi. Pensai che, come al solito, ero stato una bestia e che a parte la chimica non sarebbe successo nulla, pensai anche che fosse meglio, non avrei saputo come gestire una cosa del genere.
Spostai la sedia davanti alla portafinestra che aprii leggermente, tirai fuori una Gauloises e la accesi tenendo come posacenere una delle tazze di prima. Il pensiero andò a Roberto, solo che non riuscivo a immaginarlo Roberto ma Roberta e tutte le frasi che i miei pensieri componevano contenevano articoli determinativi e pronomi femminili. Lei, la, le. “Mi sa tanto che non la sto pensando da omosessuale, è una donna, dice cose da donna, si muove da donna, sorride da donna” sentii bussare alla porta, da schifoso qual ero spensi la sigaretta nella tazza e andai ad aprire. Era la mia scopamica, entrò vestita come una madamin di Torino, si tolse il soprabito, mi si sedette in braccio “ Sono appena arrivata dall’ufficio con il tredici, non hai idea del casino che c’è in giro stasera a Torino” le infilai una mano sotto la gonna mentre continuava a ciacolare, allargò le gambe, la mia mano proseguì senza preamboli, infilai due dita sotto il bordo degli slip e sentii subito che era bagnata, lei mi baciò io continuai a toccarla e riuscii a infilare entrambe le dita sino in fondo premendo verso l’alto con forza. Sussultò smise di baciarmi e miagolando mi chiese dove avevo imparato, non potevo dirle che ero stato svezzato qualche anno prima da una amica suora di mia mamma.
Le sussurrai in un orecchio “chi ti ha fatta bagnare così prima di venire da me?” mi guardò allargando gli occhioni con stupore poi confessò “un operaio sul tram mi è rimasto appiccicato al culo per quattro fermate, si strusciava e sentivo premere un cazzo enorme” “perché non ti sei fatta scopare da lui?” “sono mica una cagna, io non vado con gli operai” vera madamin di Torino degli anni “80 sei una cagna solo se scopi con uno di una classe sociale inferiore “anche se ce l’hanno più grosso di me?” e aumentai il ritmo delle dita, strabuzzò di nuovo gli occhi “Mi fai impazzire così” stava già colando, la feci alzare, le premetti il collo da dietro sino a farla piegare sul tavolo, le sollevai la gonna, le scostai lo slip e glielo infilai dentro da dietro in un colpo solo. Ruggì “bastardo mi tratti come una troia” intanto colava ancora di più, c’erano già delle gocce sul mio parquet lucido, le diedi un po’ di colpi forti ma ero scomodo, lei era alta come me senza i tacchi, dovevo sollevarmi sulla punta dei piedi per prenderla bene. Per non perdere tempo uscii, con la gamba destra le diedi due pedate ai piedi per divaricarle le gambe e portarle la figa alla altezza giusta. Glielo infilai di nuovo dentro in un colpo solo. Oramai sbarellava, stava urlando come una invasata. Per non mettere in allarme tutto il piano uscii, la feci girare, la misi con il culo sul tavolo e glielo infilai di nuovo dentro. Lei mi afferrò il collo baciandomi, gemeva forte ma almeno non urlava.
Smise di baciarmi e mi ordinò “adesso sborrami dentro” io proseguii a montarla ” ho detto sborrami dentro, lo sai che prendo la pillola” smisi di pensare alla vernice bianca su una parete che si asciugava e subito venni copiosamente “vengo anch’io “urlò “vengo anch’io” “ see perché le altre quattro o cinque volte che sei venuta nel quarto d’ora prima non le contiamo “ mi dissi tra me e me.
Le passai il rotolo dello scottex dopo averne preso un bel pezzo con cui mi asciugai il cazzo, l’inguine e le gambe bagnate dai suoi colamenti. Lei era ancora seduta sul tavolo con la gonna su e le gambe larghe, sembrava in catalessi. “Meno male che aveva le autoreggenti, se avesse indossato un collant avrei dovuto strapparglielo” mi dissi ridacchiando dentro di me.
“Paola” feci una pausa “lo sai che oggi per ripassare chimica non ho fatto la spesa? E quando sei arrivata stavo per andarci ma oramai è troppo tardi”
Mi guardò come se fosse uscita dalla tranche di un mago “ma tu dopo una cosa del genere pensi alla spesa?” “guarda che sono appena uscito dall’età dello sviluppo devo dormire e mangiare “le dissi ridendo
“stronzo, questo per dirmi che rispetto a te sono vecchia?” “no per dirti che spero che tu abbia qualcosa nel frigo e che se mi inviti cucinerò per entrambi” il vero motivo era che volevo farmi una doccia calda e nel bagno che condividevo con Dimitri, il greco scarsamente igienico, se non pulivo io non puliva nessuno. Sapevo che avrei dovuto prenderla un’altra volta quella sera ma avevo 22 anni.
“Ma guarda, ho una calza smagliata e ho bagnato dappertutto, come mi riduci” mi venne da ridere, era una che si riduceva volentieri da sola.
“Mi è piaciuta quella mossa che hai fatto per farmi allargare le gambe, dove l’hai imparata?” “ti ho accennato dove è venuto a recuperarmi mio padre l’anno scorso per iscrivermi all’università?”
“Mi avevi detto che eri nell’esercito da un anno ““ Si qualcosa di simile, una specie di esercito, comunque quando perquisisci i negri per strada prima di tutto gli allarghi le gambe perché all’interno delle cosce nascondono di tutto, dal machete al coltello”.
“Togliti le mutande e asciugati meglio, poi saliamo di sopra e le cambi, anzi.” le andai davanti, le afferrai e gliele abbassai sino a terra lei scostò i piedi, le afferrai e le portai al naso.
“Sei proprio un porco” non parlai, la misi di nuovo seduta sul tavolo, mi inginocchiai e iniziai a leccarla tenendole le gambe larghe, aveva un bel clitoride pronunciato ed era facile capire quando si eccitava. Si eccitò subito, mentre la leccavo le infilai due dita dentro e iniziai a premere i punti che sapevo che la facevano impazzire.
Impiegai quasi un cazzo, mugolò un po’ poi mi fece uno schizzo in faccia come avesse aperto un rubinetto. Adesso la doccia era indispensabile.
La mattina la prima lezione era cristallografia alle otto e mezza, non capivo un cazzo, sto povero uomo alla lavagna disegnava assi di accrescimento dei cristalli, parlava di sistemi di cristallizzazione, io niente, mi distraevo e distraendomi il mio pensiero andava sempre a lei, Roberta, oramai per me era una donna a dispetto della realtà ed era una donna che occupava i miei pensieri e ancora più grave non erano pensieri che riguardavano le mie erezioni ma soprattutto il suo sorriso e i suoi sguardi, le sue mani piccole da pianista il suo modo di parlarmi.
Finì cristallografia e ci spostammo per seguire due ore di Paleontologia in un altro palazzo, impiegai un quarto d’ora a piedi e arrivai in aula che il professore era già alla cattedra. Estrassi le dispense e a fatica raggiunsi la pagina su cui erano descritti i fossili che stava dettagliando, ero così impegnato che a malapena sentii una persona che entrava tra i banchi e si sistemava di fianco a me. Mi girai e il cuore fece nel mio petto un salto come avevo visto fare a un delfino nell’acquario quando ero piccolo. Galadriel era lì, stava posando di fianco un borsone e aveva appoggiato un quaderno sul banco con l’intenzione di prendere appunti. Salutai e lei fece un cenno poi mi girai verso il professore e cercai di seguire la storia della migrazione dell’ano negli echinodermi. Era la mattina in cui non capivo un cazzo, lei faceva biologia, di solito non danno paleo, lui la guardò dalla cattedra e le disse “scusi, lei fa parte di questo corso di geologia?” capii che anche lui non aveva identificato con certezza il genere. Roberto con quella voce che mi faceva tremare qualcosa dentro gli spiegò con calma “sono iscritto al suo corso a biologia solo che ho scoperto che sono l’unico del mio corso e mi hanno chiesto di cambiare complementare perché per un solo studente il corso non si tiene, sono venuto a chiederle se posso frequentare con i geologi” il professore fece una faccia dubbiosa poi si rivolse a quella trombona dell’assistente e le disse “ Prepari un foglio presenze per biologia, faccia firmare lo studente e comunichi alla segreteria che terrò il corso a lui con i geologi” Lei si girò verso di me con una espressione soddisfatta sul viso e guardando il professore lo ringraziò.
Quando uscimmo due ore dopo era mezzogiorno, si portava dietro il borsone misterioso, ci avviammo lungo la via e guardandosi attorno indicò casa mia e disse “ma tu abiti li, potresti venire a scuola in pigiama!”
“Sorrisi, non avrei neanche la scusa dello sciopero dei mezzi” aggiunsi con voce da duro “non indosso il pigiama, mai” sorrise come avrebbe fatto una ragazza alla smargiassata di un ragazzo.
“Dovrei usare il bagno, possiamo andare un momento a casa tua?” “Avrei un’altra proposta, ti do le chiavi e vai a casa mia, questa è quella del bagno, se non è tornato quello sporcaccione di Dimitri, è pulito, io intanto vado a fare la spesa altrimenti finisce come ieri. Tanto oramai conosci la strada”.
Feci in fretta, quando avevo realizzato che avrebbe pranzato da me avevo messo assieme un menù rapido: risotto con lo zafferano, insalata di finocchi e arance, zabaione caldo.
Raggiunsi l’ultima bottega aperta nel quartiere, la teneva una vecchina delle mie parti e quando andavo da lei mi tratteneva a parlare nel nostro dialetto. Comperai arance, finocchi, un peperoncino rosso fresco e una confezione di zafferano. Uscii e entrai nella panetteria di via Bogino, comperai grissini rubatà, una pagnotta, due etti di prosciutto crudo, le uova e una bottiglia di dolcetto. Guardai l’orologio e mi accorsi che era mezzora che avevo lasciato Roberta davanti a casa. Mi affrettai a tornare e arrivato sul pianerottolo suonai, aspettai un po’ e suonai di nuovo, venne ad aprirmi quella che aveva l’ufficio di assistenza agli invalidi, mi guardò stupito e mi chiese se avessi perso le chiavi, le risposi che le avevo date a un amico che era in casa ma non mi sentiva. Ringraziai e imboccai il corridoio, arrivato davanti alla mia porta mi accorsi che le mie chiavi erano appese all’esterno. “Proprio una sbadata, ha lasciato le chiavi fuori” entrai e dopo uno sguardo all’ampio stanzone constatai che non era li. Rimasi perplesso “Sarà ancora in bagno? Non si sarà sentita male?” Uscii e andai alla porta del bagno in fondo, toccai la maniglia ma era chiusa a chiave. Sforzandomi di pensare al maschile chiamai “Roberto, sei lì?” quella voce che mi piaceva tanto suonò ruvida come la lingua di un gattino che lecca un dito “Si scusa, ho avuto un contrattempo e sono arrivato al bagno da dieci minuti, inizia che tra poco arrivo”.
Un po’ sconcertato tornai in casa, guardai l’ora e decisi che se volevamo studiare sarebbero stati più adatti due panini con il crudo, il risotto l’avrei fatto per cena. Bussarono alla porta, istintivamente andai ad aprire e davanti me vidi una bellissima ragazza. Era vestita con una camicetta bianca, un gonnellone a fiori, calze di lana sottili bianche e aveva degli zoccoli olandesi neri come le ragazze fighe indossavano allora, i capelli lunghi erano un po’ mossi. Entrò, la mia parte razionale sapeva che era lui ma stavo vedendo una lei bellissima. Era un po’ più piccola di me. Entrò, chiuse la porta e mi venne vicina di fronte. Guardandomi dal basso con quei due occhioni mi disse ferma “non sono un omosessuale, sono una donna!” la abbracciai e la baciai a lungo sulla bocca poi la scostai e dissi “lo so che sei una donna, non sono attratto dagli uomini” mi si strinse al petto e sussurrò “tu non sai cosa mi hai provocato ieri, tutte le volte che mi guardavi lo facevi vedendo una donna, mentre mi spiegavi chimica avrei voluto alzarmi ed abbracciarti e stringerti perché sentivo una cosa che non avevo mai sentito”. Non sei Tadzio che attrae Gustav per la sua bellezza puberale maschile sei una bella donna che vedo anche quando è travestita da uomo. Questa volta mi baciò lei con passione e sussurrò “un ragazzo che ti bacia parlandoti di Mann non l’avevo mai immaginato.
La allontanai un po’ con le braccia, la guardai in faccia, nella realtà aveva solo un’ombra di trucco la bellezza era tutta farina del suo sacco.
Non sapevo come proseguire, mi attraeva ma avevo paura di fare la mossa sbagliata. Mi trasse lei d’impiccio. “Non metterti a ridere, non ho mai fatto l’amore anche se ho diciannove anni, so baciare perché mi ha insegnato una estate mia cugina”. La guardai serio e le risposi “allora un panino con il prosciutto crudo potremmo mangiarlo” scoppiò a ridere con quella espressione che mi aveva conquistato. Avevo capito da bambino che per conquistare una donna bisogna farla ridere.
Mi misi a tagliare la pagnotta in due poi la spaccai e imbottii entrambe le metà con tutto il prosciutto. Ci mettemmo a mangiare seduti ai due lati del tavolo, un raggio di sole invernale le illuminava il volto e non smettevamo di guardarci masticando.
Io sembravo un cane lupo davanti alla ciotola piena, lei sbocconcellava e masticava lentamente. “Tra dieci secondi avrai inghiottito anche il tovagliolo di carta e del mio panino non ti cederò nulla” mi disse ridendo. Aveva anche questa dote, ridendo sapeva guidarmi. “Questa mi fa fare ciò che vuole” dissi tra me rallentando il mio ritmo di masticazione.
Mi alzai posando il panino, aprii la porta del frigo ed estrassi una bottiglia di cortese a metà ben tappata, girandole la schiena riempii due calici da bianco e li portai al tavolo.
“Mi hai già conquistata, non è necessario farmi bere “mi disse sorridendo sorniona
“Non beviamo perché devo conquistarti ma perché il prosciutto crudo richiede un po’ di acidità per essere gustato meglio. Non sempre mangio come un cane lupo”.
Finimmo, ci guardammo intensamente per un attimo, esordì lei “bisogna subito mettersi a studiare?”
“l’alternativa è il lettone con il piumone che vedi dietro il paravento, potremmo metterci li e conoscerci senza alcuna meta od obbligo”.
Si alzò e andò a stendersi di traverso sul piumone gonfio delle piume ereditate dalla nonna. Non la vedevo dietro il paravento cinese, prima di andarle dietro inserii nello stereo una cassetta di Piazzolla che mi aveva lasciato un mese prima una cilena matta che richiederebbe un’altra storia.
Mi avvicinai sulle note di Por una cabeza, lei rise “è un omaggio alla mia infanzia?” “no alla tua pronunzia, mi sembra un buon omaggio”
Aveva i piedi piccoli, sarà stato un 39, senza gli zoccoli risaltavano sulla trapunta colorata coperti dalle calze bianche. Mi stesi di fianco a lei e la strinsi da dietro, misi il naso tra i suoi capelli e sentii un buon profumo di bambina, la girai e la baciai con trasporto stringendola a me “non mi farai male?” “non farò niente che tu non mi chieda di fare “dissi piano. Iniziai a slacciarle i bottoni della camicetta, lei portò una mano alla scollatura come per fermarmi “non c’è niente di quello che ti aspetti se togli tutto” “ cosa pensi che mi aspetti?” dissi proseguendo. Rimase con il reggiseno, sembrava avesse un bel seno ma non mi facevo illusioni e non me ne fregava nulla. Le aprii il gonnellone, mi misi in ginocchio e glielo sfilai dai piedi, rimase con un paio di slippini bianchi e le calze che a sorpresa si rivelarono lunghe sino alle cosce. Mi piaceva tutto ciò che vedevo. La feci alzare, sollevai il piumone e la feci distendere sotto, in piedi mi spogliai in due mosse, cercai di non farle vedere che ero già eretto e duro come di legno. Lo vide ed ebbi l’impressione che le desse sicurezza vedermi eccitato per lei.
La abbracciai sotto le coperte e sentii la sua pelle liscia di ragazza contro la mia piena di peli. La baciai, il mio cazzo duro strusciava contro la sua pancia e lei mi strinse ancora più forte. Slacciai il reggiseno, glielo sfilai e lo feci cadere dal letto poi fu la volta degli slip che rimasero tra le lenzuola in fondo al letto. Sentii un cazzetto duro che strusciava contro il mio e iniziai a muovermi con un ritmo lento che sentii che gradiva.
Smisi di baciarla, infilai la testa sotto le coperte e cercai un suo capezzolo, lo leccai e mordicchiai e prima sorpresa mi accorsi che era grosso e si irrigidiva diventando come la gomma di una matita, lei iniziò a sospirare e passai all’altro capezzolo, intanto raccolsi un po’ di saliva nel palmo destro e scesi a toccarla tra le gambe, era senza peli anche li e quando iniziai a scorrere la mano lubrificata sull’asta strabuzzò gli occhi. Intanto che le toccavo il cazzo risalii a baciarla in bocca e rispose con una veemenza che sembrava una bella promessa. “Cosa mi fai? È bellissimo mi fai girare la testa”. Scesi di nuovo sotto le coperte, arrivai al suo inguine, sputai di nuovo un grumo di saliva nella destra e presi il cazzo in bocca, intanto feci scorrere le dita insalivate lungo il perineo e raggiunsi il suo buco del culo. Ogni affondo nella mia bocca mi faceva sentire sulla punta dell’indice una contrazione del suo ano che stavo lubrificando da fuori. Si contorceva come una anguilla emettendo dei gemiti molto femminili. Risalii a baciarla tenendo l’indice appoggiato all’ingresso del suo ano pieno della mia saliva “ empuja como si te fueras a cagar “ le sussurrai, sentii che spingeva e entrai con la prima falange, continuò a spingere e io inserii tutto il dito, premetti la falange verso la parete anteriore del suo intestino e sentii come una piccola castagna dura che toccai con la stessa forza con cui toccavo il punto G delle genetiche, mi guardò con stupore e poi il suo viso fu stravolto dal piacere, aveva sollevato le coperte e adesso completamente nuda si stava agitando come qualunque donna che goda con il cazzo dentro alla figa. Le presi in mano il cazzo e dopo tre volte che andai su e giù in sincronia con il dito nel culo iniziò a sborrare con dei getti come una fontana. Fece quattro o cinque spruzzi e anche se non sborrava più, per un po’ fu scossa da una serie di contrazioni mentre io lentamente le estraevo il dito dall’ano. La coprii e la strinsi a me, eravamo entrambi pieni di schizzi, lei tremava e si mise a piangere “cosa mi hai fatto? Non mi era mai successo, mi hai dato un ordine in castigliano, allora sai la mia lingua, chi sei?”
“Andiamo per ordine, ti ho fatto delle cose che mi sono venute spontanee, non le avevo mai fatte prima e mi sembra ti siano piaciute, non so lo spagnolo, solo qualche frase, ho uno zio argentino e da bambino sono stato un po’ a Baires, la frase che ti ho detto me la diceva sempre Anita, la tata che avevo in General Belgrano. Per chiudere, farti godere mi è piaciuto da matti e se non fossi troppo scossa ricomincerei subito.”
Sollevò la faccia dal mio petto, sorrise e mi baciò. Mi alzai e andai a lavarmi le mani. Mi piaceva ma non avevo mai ficcato le dita nel culo a nessuno.
Tornai nel letto e lei mi si raggomitolò contro come una gatta che fa le fusa. “ Mi farai smettere di fumare, quando sono con te non mi viene neanche voglia” “ se lo desideri fuma , non mi dà fastidio “ “ rischierei di perdere un po’ del tuo odore, a proposito” mi alzai e andai a prendere una pezzuola da doccia, la bagnai sotto l’acqua bollente del lavandino della cucina e la strizzai, tornai con il sapone intimo nell’altra mano la scoprii e la girai manovrandola come una bambola, le misi qualche goccia di sapone tra i glutei , lo spalmai sull’ano tenendo divaricate quelle chiappe fantastiche e con la pezzuola portai via il sapone. Per verificare mi abbassai e le leccai l’ano. Mi sollevai e la guardai distesa e indifesa. In un attimo eravamo arrivati a una intimità che non avevo mai avuto con nessuna. Lei aveva la faccia serena e teneva gli occhi chiusi.
“Scusi non mi ha dato lo statino di chimica” una voce leggermente roca con un vago accento spagnolo. Ero dietro di lei in segreteria studenti, era leggermente inchinata verso lo sportello, non vedevo la faccia ma il culo fasciato dai jeans era un bello spettacolo. Sentii lo sfigato dietro lo sportello biascicare che lo stava cercando, lei girò un po’ la testa indietro e ne vidi una parte del viso di tre quarti. Non era una ragazza… ma non era neanche un ragazzo. Capelli scuri lucenti che scendevano sulle spalle, il viso liscio senza trucco e senza accenno od ombra di barba. L’impiegato le passò lo statino, lei lo ritirò e lo aggiunse agli altri fogli, si girò del tutto e squadrandomi si avviò all’uscita. Mi aveva lasciato interdetto, era una persona che non rientrava in nessuno dei miei stereotipi.
“Hei, ti muovi? Non sono qui al tuo servizio tutto il giorno” lo sfigato non mi aveva dato il tempo di mettermi davanti allo sportello, mi guardò attraverso il vetro, mi riconobbe e cambiò atteggiamento “scusa caro, dimmi” sei mesi prima ero arrivato all’ultimo giorno valido per iscrivermi e aveva cercato di mandarmi via, ero riuscito a infilare una mano nello sportello e a tirarlo contro il vetro, dal suo atteggiamento sembrava che il trattamento avesse avuto effetto. “mio padre sta dicendo che mi scrivo io i voti sul libretto perché ha telefonato qui e qualcuno gli ha detto che il mio voto di analisi non è registrato” prese il mio libretto, si allontanò un attimo bofonchiando “certo che i tuoi si fidano di te…” ed ebbi il tempo di pensare a quegli occhi neri “con le stelline” “ ma era una o uno?” mi chiesi.
Arrivò con il mio libretto, ci aveva messo un timbro “puoi dire a tuo padre di telefonare per controllare, è registrato” mi abbassai per parlare attraverso lo sportello, sussurrai “chi era quell.. di prima? “biascicai la finale, guardò un foglio di registro sul banco “Roberto Cafasso, è venezuelano e fa il primo anno di biologia” lo ringraziai e uscii dalla fila.
Camminando lungo il corridoio rimuginai “sono diventato finocchio, l’ho guardato da dietro e mi è venuto duro” proseguii verso l’uscita, se lo sapevamo solo io e il mio cazzo non era un problema. Nell’androne c’erano quattro telefoni a muro a gettoni. Avvicinandomi lo riconobbi subito girato verso un telefono che parlava, la cornetta in una mano e l’altra che inseriva gettoni a raffica, rallentai e la telefonata finì prima che gli arrivassi davanti.
Fu come se mi muovesse una molla che non conoscevo dentro di me. Mi fermai e gli dissi “sono tre mesi che studio chimica, il programma è lo stesso tuo, vuoi che proviamo a ripassare insieme?” Mi squadrò dalla testa ai piedi “lo so, sono un bel figo “pensai “aprì quella fantastica bocca da donna e mi disse con quel tono da Claudia Cardinale “io ho appena iniziato, non saprei cosa ripeterti” il diavolo dentro di me insistette “forse è meglio, io ti insegno così mi impadronisco meglio della materia” rimase a guardarmi senza parlare “sono una merda, mi sto lasciando suggerire dal cazzo cosa devo dire e in più lo sto facendo con uno che si chiama Roberto “ pensai. Lui mi allungò una mano, io accettai con una stretta “maschia e virile” ebbi la sensazione di stringere la mano di una ragazza. Rispose “Proviamo, potrebbe servire a entrambi”
Anche con questo accento spagnolo parlava un italiano perfetto, non poteva essere spagnolo.
“Oramai è tardi per prepararmi il pranzo, vieni con me in un caffè sotto i portici di via Po e mangiamo un toast?” lo invitai.
Stavo comportandomi come se avessi di fronte una ragazza che mi piaceva, persino lo spuntino da Mulassano gli offrivo.
“Va bene anche per me, dovrei andare in mensa ma non ne ho proprio voglia”
Uscimmo su via Po e dopo qualche passo sotto i portici di sinistra attraversammo e ci dirigemmo verso piazza Castello, mi fermai a comperare un pacchetto di Gauloises azzurre ed entrammo nel caffè più bello di Torino. Ci sedemmo in un angolo, lui si guardò attorno meravigliato “sai che anche a Buenos Aires c’era un locale così? Prima che ci trasferissimo a Caracas mio papà mi portava la domenica a fare colazione e mi piaceva quasi quanto mi piace questo” “In un attimo mi hai svelato il mistero del tuo accento spagnolo” risi divertito
“Ah sì, i miei abitano ancora a Caracas ma mia mamma ha voluto che l’università la frequentassi nella sua città in Italia, però è gallego, un po’ diverso dallo spagnolo”.
Gallego era il Che ma non mi addentrai in un campo in cui brillavo per ignoranza.
Avrei acceso volentieri una Gauloises e avrei ordinato un pastis con acqua e ghiaccio ma fumare rapè noire in un locale chiuso è maleducazione come accendere un toscano, soprattutto se di fronte hai dama Galadriel la regina degli elfi in versione bruna. “Ecchecazzo, ecco perché mi attrae, è un elfo, ne uomo ne donna e se proprio bisogna categorizzare è più Galadriel che Legolas” razionalizzai dentro di me.
Venne Patrizio, serviva come il maggiordomo di un lord, ci chiese la comanda e invece dei toast ordinai alcuni tramezzini con gamberi e altri con il salmone. Lui non esitò e disse che prendeva lo stesso.” Anche due bianchi fermi” ordinai senza chiedergli conferma e non commentò, stette un attimo a guardarmi e mi disse “io bevo anche acqua” “anche io” risposi “ma qui c’è un rito, vedi quella fontanella sul bancone che riversa nei due bicchieri di vetro? Alla fine, ci si alza per il caffè e si beve da quei bicchieri, dicono sia l’acqua del primo acquedotto, quello che serviva palazzo reale ed è buonissima” era solo un mio rito ma lui non poteva saperlo.
Mangiammo di gusto, i tramezzini erano squisiti e il vino anche, finimmo e seguimmo il mio rito poi uscimmo sotto i portici.
Eravamo in mezzo alla gente, gli chiesi quando avrebbe voluto incominciare e rispose “anche subito, solo che non ho con me i libri” “se ti va abito qui dietro nella piazza, ho i libri, le dispense e una fantastica lavagna che mia madre aveva recuperato da una scuola in demolizione”
Annuì “Io sono in collegio, per studiare dovremmo andare in biblioteca e non si potrebbe neanche parlare”.
In due minuti fummo davanti alla casa dove abitavo, rimase colpito, prima di entrare mi chiese “sei un principe?” risi e gli risposi “No, è di un principe squattrinato che non riuscendo ad affittare il piano nobile a un solo inquilino l’ha suddiviso in improbabili monocamere, a me è capitato il salone che da sulla piazza ma condivido il bagno con il mio vicino”.
Mi seguì, ero al primo piano e lo feci salire prima di me, non era galanteria ma voglia di guardargli il culo, arrivammo sul pianerottolo e aprii la porta di ingresso, lo feci entrare e percorremmo l’atrio e il lungo corridoio che portava al mio monolocale. Quando fu dentro fu ancora più affascinato, la stessa sensazione che aveva preso me la prima volta che ci ero entrato. La luce invernale irrompeva dal cielo sulla piazza e il pavimento a palchetto sembrava dorato. Guardò il soffitto affrescato e si affacciò alla porta finestra che dava sul balcone.
Mi guardò e sussurrò “E’ bellissimo, vorrei stare io in un posto così” pensai “see, non fosse che l’ingegnera del piano di sopra mi lascia fare la doccia da lei dopo che l’ho spazzolata due volte la settimana non mi laverei mai “; era una con dieci anni più di me che mi aveva consolato appena arrivato, si era instaurato un bel rapporto da scopamici.
“Proviamo a capire come possiamo studiare insieme” gli proposi “Potresti metterti seduto al tavolino con uno dei quaderni che ci sono lì e io inizierò a illustrarti alla lavagna le cose che ho già imparato. Hai seguito le lezioni?” “parecchie le ho saltate, sono arrivata con un mese di ritardo dal Sud America e non ho trovato nessuno che mi aiutasse a recuperare” non gli dissi che i torinesi sono così, si fanno gli affari loro e se non fai parte della loro cerchia è come se non esistessi, se ne era già accorto da solo.
Iniziai a illustrargli una chimica che al liceo non avevamo mai visto, gli parlai di elettroni e di moli, feci un mucchio di grafici di stato e scrissi alcune reazioni semplici, gli feci vedere a cosa serviva quantificare l’energia che entrava o usciva da una reazione. Ad un certo punto mi accorsi che era molto più utile a me di quanto credessi, finalmente padroneggiavo la materia senza tentennamenti. Nella fase dopo mi accorsi di quanto lui fosse intelligente e della sua rapidità di apprendimento. Spiegavo, prendeva qualche appunto e poi mi ripeteva tutto il ragionamento senza neanche guardare il quaderno.
Due ore passarono in un attimo, mi fermai e dissi “mi hai spompato, pausa, ti va un tè? Magari al gelsomino?” mentre preparavo il bollitore mise in ordine i suoi appunti in cinque minuti e mi disse “dovrò portarti un quaderno nuovo “naa” risposi “la pila da cui l’hai preso l’ho rubata in ufficio da mio padre e lo sai che rubare ai ladri non è peccato?” rise con un sorriso devastante, bei denti, occhi che ridevano, appena finita la fase didattica la malia riprendeva.
Portai al tavolo le tazze di te con la zuccheriera, presi la mia seconda sedia e mi accomodai davanti a lui. Sorseggiammo il tè e chiacchierammo, avevo notato che non fumava e lasciai ancora le Gauloises nel pacchetto. Parlammo di viaggi, di una tesi che avrei voluto per il terzo anno in Grecia o in Turchia, di ragazze (di ragazze parlai io, lui non disse niente) poi gli dissi che non avevo nulla contro gli omosessuali, che la mia preparazione di chimica derivava dalle lezioni di un amico chimico di mio papà che per me era uno zio e che era un gay dichiarato. Lui sorvolò anche questo discorso, ritornammo a parlare di scuola, gli diedi un po’ di esercizi da fare e poi disse che doveva tornare in collegio. Gli chiesi se volesse che lo accompagnassi ma disse di no e mi diede appuntamento per il giorno dopo alle due.
Quando uscì mi resi conto che dopo il mio discorso sulla omosessualità si era un po’ irrigidito ma aveva cercato di trattenersi. Pensai che, come al solito, ero stato una bestia e che a parte la chimica non sarebbe successo nulla, pensai anche che fosse meglio, non avrei saputo come gestire una cosa del genere.
Spostai la sedia davanti alla portafinestra che aprii leggermente, tirai fuori una Gauloises e la accesi tenendo come posacenere una delle tazze di prima. Il pensiero andò a Roberto, solo che non riuscivo a immaginarlo Roberto ma Roberta e tutte le frasi che i miei pensieri componevano contenevano articoli determinativi e pronomi femminili. Lei, la, le. “Mi sa tanto che non la sto pensando da omosessuale, è una donna, dice cose da donna, si muove da donna, sorride da donna” sentii bussare alla porta, da schifoso qual ero spensi la sigaretta nella tazza e andai ad aprire. Era la mia scopamica, entrò vestita come una madamin di Torino, si tolse il soprabito, mi si sedette in braccio “ Sono appena arrivata dall’ufficio con il tredici, non hai idea del casino che c’è in giro stasera a Torino” le infilai una mano sotto la gonna mentre continuava a ciacolare, allargò le gambe, la mia mano proseguì senza preamboli, infilai due dita sotto il bordo degli slip e sentii subito che era bagnata, lei mi baciò io continuai a toccarla e riuscii a infilare entrambe le dita sino in fondo premendo verso l’alto con forza. Sussultò smise di baciarmi e miagolando mi chiese dove avevo imparato, non potevo dirle che ero stato svezzato qualche anno prima da una amica suora di mia mamma.
Le sussurrai in un orecchio “chi ti ha fatta bagnare così prima di venire da me?” mi guardò allargando gli occhioni con stupore poi confessò “un operaio sul tram mi è rimasto appiccicato al culo per quattro fermate, si strusciava e sentivo premere un cazzo enorme” “perché non ti sei fatta scopare da lui?” “sono mica una cagna, io non vado con gli operai” vera madamin di Torino degli anni “80 sei una cagna solo se scopi con uno di una classe sociale inferiore “anche se ce l’hanno più grosso di me?” e aumentai il ritmo delle dita, strabuzzò di nuovo gli occhi “Mi fai impazzire così” stava già colando, la feci alzare, le premetti il collo da dietro sino a farla piegare sul tavolo, le sollevai la gonna, le scostai lo slip e glielo infilai dentro da dietro in un colpo solo. Ruggì “bastardo mi tratti come una troia” intanto colava ancora di più, c’erano già delle gocce sul mio parquet lucido, le diedi un po’ di colpi forti ma ero scomodo, lei era alta come me senza i tacchi, dovevo sollevarmi sulla punta dei piedi per prenderla bene. Per non perdere tempo uscii, con la gamba destra le diedi due pedate ai piedi per divaricarle le gambe e portarle la figa alla altezza giusta. Glielo infilai di nuovo dentro in un colpo solo. Oramai sbarellava, stava urlando come una invasata. Per non mettere in allarme tutto il piano uscii, la feci girare, la misi con il culo sul tavolo e glielo infilai di nuovo dentro. Lei mi afferrò il collo baciandomi, gemeva forte ma almeno non urlava.
Smise di baciarmi e mi ordinò “adesso sborrami dentro” io proseguii a montarla ” ho detto sborrami dentro, lo sai che prendo la pillola” smisi di pensare alla vernice bianca su una parete che si asciugava e subito venni copiosamente “vengo anch’io “urlò “vengo anch’io” “ see perché le altre quattro o cinque volte che sei venuta nel quarto d’ora prima non le contiamo “ mi dissi tra me e me.
Le passai il rotolo dello scottex dopo averne preso un bel pezzo con cui mi asciugai il cazzo, l’inguine e le gambe bagnate dai suoi colamenti. Lei era ancora seduta sul tavolo con la gonna su e le gambe larghe, sembrava in catalessi. “Meno male che aveva le autoreggenti, se avesse indossato un collant avrei dovuto strapparglielo” mi dissi ridacchiando dentro di me.
“Paola” feci una pausa “lo sai che oggi per ripassare chimica non ho fatto la spesa? E quando sei arrivata stavo per andarci ma oramai è troppo tardi”
Mi guardò come se fosse uscita dalla tranche di un mago “ma tu dopo una cosa del genere pensi alla spesa?” “guarda che sono appena uscito dall’età dello sviluppo devo dormire e mangiare “le dissi ridendo
“stronzo, questo per dirmi che rispetto a te sono vecchia?” “no per dirti che spero che tu abbia qualcosa nel frigo e che se mi inviti cucinerò per entrambi” il vero motivo era che volevo farmi una doccia calda e nel bagno che condividevo con Dimitri, il greco scarsamente igienico, se non pulivo io non puliva nessuno. Sapevo che avrei dovuto prenderla un’altra volta quella sera ma avevo 22 anni.
“Ma guarda, ho una calza smagliata e ho bagnato dappertutto, come mi riduci” mi venne da ridere, era una che si riduceva volentieri da sola.
“Mi è piaciuta quella mossa che hai fatto per farmi allargare le gambe, dove l’hai imparata?” “ti ho accennato dove è venuto a recuperarmi mio padre l’anno scorso per iscrivermi all’università?”
“Mi avevi detto che eri nell’esercito da un anno ““ Si qualcosa di simile, una specie di esercito, comunque quando perquisisci i negri per strada prima di tutto gli allarghi le gambe perché all’interno delle cosce nascondono di tutto, dal machete al coltello”.
“Togliti le mutande e asciugati meglio, poi saliamo di sopra e le cambi, anzi.” le andai davanti, le afferrai e gliele abbassai sino a terra lei scostò i piedi, le afferrai e le portai al naso.
“Sei proprio un porco” non parlai, la misi di nuovo seduta sul tavolo, mi inginocchiai e iniziai a leccarla tenendole le gambe larghe, aveva un bel clitoride pronunciato ed era facile capire quando si eccitava. Si eccitò subito, mentre la leccavo le infilai due dita dentro e iniziai a premere i punti che sapevo che la facevano impazzire.
Impiegai quasi un cazzo, mugolò un po’ poi mi fece uno schizzo in faccia come avesse aperto un rubinetto. Adesso la doccia era indispensabile.
La mattina la prima lezione era cristallografia alle otto e mezza, non capivo un cazzo, sto povero uomo alla lavagna disegnava assi di accrescimento dei cristalli, parlava di sistemi di cristallizzazione, io niente, mi distraevo e distraendomi il mio pensiero andava sempre a lei, Roberta, oramai per me era una donna a dispetto della realtà ed era una donna che occupava i miei pensieri e ancora più grave non erano pensieri che riguardavano le mie erezioni ma soprattutto il suo sorriso e i suoi sguardi, le sue mani piccole da pianista il suo modo di parlarmi.
Finì cristallografia e ci spostammo per seguire due ore di Paleontologia in un altro palazzo, impiegai un quarto d’ora a piedi e arrivai in aula che il professore era già alla cattedra. Estrassi le dispense e a fatica raggiunsi la pagina su cui erano descritti i fossili che stava dettagliando, ero così impegnato che a malapena sentii una persona che entrava tra i banchi e si sistemava di fianco a me. Mi girai e il cuore fece nel mio petto un salto come avevo visto fare a un delfino nell’acquario quando ero piccolo. Galadriel era lì, stava posando di fianco un borsone e aveva appoggiato un quaderno sul banco con l’intenzione di prendere appunti. Salutai e lei fece un cenno poi mi girai verso il professore e cercai di seguire la storia della migrazione dell’ano negli echinodermi. Era la mattina in cui non capivo un cazzo, lei faceva biologia, di solito non danno paleo, lui la guardò dalla cattedra e le disse “scusi, lei fa parte di questo corso di geologia?” capii che anche lui non aveva identificato con certezza il genere. Roberto con quella voce che mi faceva tremare qualcosa dentro gli spiegò con calma “sono iscritto al suo corso a biologia solo che ho scoperto che sono l’unico del mio corso e mi hanno chiesto di cambiare complementare perché per un solo studente il corso non si tiene, sono venuto a chiederle se posso frequentare con i geologi” il professore fece una faccia dubbiosa poi si rivolse a quella trombona dell’assistente e le disse “ Prepari un foglio presenze per biologia, faccia firmare lo studente e comunichi alla segreteria che terrò il corso a lui con i geologi” Lei si girò verso di me con una espressione soddisfatta sul viso e guardando il professore lo ringraziò.
Quando uscimmo due ore dopo era mezzogiorno, si portava dietro il borsone misterioso, ci avviammo lungo la via e guardandosi attorno indicò casa mia e disse “ma tu abiti li, potresti venire a scuola in pigiama!”
“Sorrisi, non avrei neanche la scusa dello sciopero dei mezzi” aggiunsi con voce da duro “non indosso il pigiama, mai” sorrise come avrebbe fatto una ragazza alla smargiassata di un ragazzo.
“Dovrei usare il bagno, possiamo andare un momento a casa tua?” “Avrei un’altra proposta, ti do le chiavi e vai a casa mia, questa è quella del bagno, se non è tornato quello sporcaccione di Dimitri, è pulito, io intanto vado a fare la spesa altrimenti finisce come ieri. Tanto oramai conosci la strada”.
Feci in fretta, quando avevo realizzato che avrebbe pranzato da me avevo messo assieme un menù rapido: risotto con lo zafferano, insalata di finocchi e arance, zabaione caldo.
Raggiunsi l’ultima bottega aperta nel quartiere, la teneva una vecchina delle mie parti e quando andavo da lei mi tratteneva a parlare nel nostro dialetto. Comperai arance, finocchi, un peperoncino rosso fresco e una confezione di zafferano. Uscii e entrai nella panetteria di via Bogino, comperai grissini rubatà, una pagnotta, due etti di prosciutto crudo, le uova e una bottiglia di dolcetto. Guardai l’orologio e mi accorsi che era mezzora che avevo lasciato Roberta davanti a casa. Mi affrettai a tornare e arrivato sul pianerottolo suonai, aspettai un po’ e suonai di nuovo, venne ad aprirmi quella che aveva l’ufficio di assistenza agli invalidi, mi guardò stupito e mi chiese se avessi perso le chiavi, le risposi che le avevo date a un amico che era in casa ma non mi sentiva. Ringraziai e imboccai il corridoio, arrivato davanti alla mia porta mi accorsi che le mie chiavi erano appese all’esterno. “Proprio una sbadata, ha lasciato le chiavi fuori” entrai e dopo uno sguardo all’ampio stanzone constatai che non era li. Rimasi perplesso “Sarà ancora in bagno? Non si sarà sentita male?” Uscii e andai alla porta del bagno in fondo, toccai la maniglia ma era chiusa a chiave. Sforzandomi di pensare al maschile chiamai “Roberto, sei lì?” quella voce che mi piaceva tanto suonò ruvida come la lingua di un gattino che lecca un dito “Si scusa, ho avuto un contrattempo e sono arrivato al bagno da dieci minuti, inizia che tra poco arrivo”.
Un po’ sconcertato tornai in casa, guardai l’ora e decisi che se volevamo studiare sarebbero stati più adatti due panini con il crudo, il risotto l’avrei fatto per cena. Bussarono alla porta, istintivamente andai ad aprire e davanti me vidi una bellissima ragazza. Era vestita con una camicetta bianca, un gonnellone a fiori, calze di lana sottili bianche e aveva degli zoccoli olandesi neri come le ragazze fighe indossavano allora, i capelli lunghi erano un po’ mossi. Entrò, la mia parte razionale sapeva che era lui ma stavo vedendo una lei bellissima. Era un po’ più piccola di me. Entrò, chiuse la porta e mi venne vicina di fronte. Guardandomi dal basso con quei due occhioni mi disse ferma “non sono un omosessuale, sono una donna!” la abbracciai e la baciai a lungo sulla bocca poi la scostai e dissi “lo so che sei una donna, non sono attratto dagli uomini” mi si strinse al petto e sussurrò “tu non sai cosa mi hai provocato ieri, tutte le volte che mi guardavi lo facevi vedendo una donna, mentre mi spiegavi chimica avrei voluto alzarmi ed abbracciarti e stringerti perché sentivo una cosa che non avevo mai sentito”. Non sei Tadzio che attrae Gustav per la sua bellezza puberale maschile sei una bella donna che vedo anche quando è travestita da uomo. Questa volta mi baciò lei con passione e sussurrò “un ragazzo che ti bacia parlandoti di Mann non l’avevo mai immaginato.
La allontanai un po’ con le braccia, la guardai in faccia, nella realtà aveva solo un’ombra di trucco la bellezza era tutta farina del suo sacco.
Non sapevo come proseguire, mi attraeva ma avevo paura di fare la mossa sbagliata. Mi trasse lei d’impiccio. “Non metterti a ridere, non ho mai fatto l’amore anche se ho diciannove anni, so baciare perché mi ha insegnato una estate mia cugina”. La guardai serio e le risposi “allora un panino con il prosciutto crudo potremmo mangiarlo” scoppiò a ridere con quella espressione che mi aveva conquistato. Avevo capito da bambino che per conquistare una donna bisogna farla ridere.
Mi misi a tagliare la pagnotta in due poi la spaccai e imbottii entrambe le metà con tutto il prosciutto. Ci mettemmo a mangiare seduti ai due lati del tavolo, un raggio di sole invernale le illuminava il volto e non smettevamo di guardarci masticando.
Io sembravo un cane lupo davanti alla ciotola piena, lei sbocconcellava e masticava lentamente. “Tra dieci secondi avrai inghiottito anche il tovagliolo di carta e del mio panino non ti cederò nulla” mi disse ridendo. Aveva anche questa dote, ridendo sapeva guidarmi. “Questa mi fa fare ciò che vuole” dissi tra me rallentando il mio ritmo di masticazione.
Mi alzai posando il panino, aprii la porta del frigo ed estrassi una bottiglia di cortese a metà ben tappata, girandole la schiena riempii due calici da bianco e li portai al tavolo.
“Mi hai già conquistata, non è necessario farmi bere “mi disse sorridendo sorniona
“Non beviamo perché devo conquistarti ma perché il prosciutto crudo richiede un po’ di acidità per essere gustato meglio. Non sempre mangio come un cane lupo”.
Finimmo, ci guardammo intensamente per un attimo, esordì lei “bisogna subito mettersi a studiare?”
“l’alternativa è il lettone con il piumone che vedi dietro il paravento, potremmo metterci li e conoscerci senza alcuna meta od obbligo”.
Si alzò e andò a stendersi di traverso sul piumone gonfio delle piume ereditate dalla nonna. Non la vedevo dietro il paravento cinese, prima di andarle dietro inserii nello stereo una cassetta di Piazzolla che mi aveva lasciato un mese prima una cilena matta che richiederebbe un’altra storia.
Mi avvicinai sulle note di Por una cabeza, lei rise “è un omaggio alla mia infanzia?” “no alla tua pronunzia, mi sembra un buon omaggio”
Aveva i piedi piccoli, sarà stato un 39, senza gli zoccoli risaltavano sulla trapunta colorata coperti dalle calze bianche. Mi stesi di fianco a lei e la strinsi da dietro, misi il naso tra i suoi capelli e sentii un buon profumo di bambina, la girai e la baciai con trasporto stringendola a me “non mi farai male?” “non farò niente che tu non mi chieda di fare “dissi piano. Iniziai a slacciarle i bottoni della camicetta, lei portò una mano alla scollatura come per fermarmi “non c’è niente di quello che ti aspetti se togli tutto” “ cosa pensi che mi aspetti?” dissi proseguendo. Rimase con il reggiseno, sembrava avesse un bel seno ma non mi facevo illusioni e non me ne fregava nulla. Le aprii il gonnellone, mi misi in ginocchio e glielo sfilai dai piedi, rimase con un paio di slippini bianchi e le calze che a sorpresa si rivelarono lunghe sino alle cosce. Mi piaceva tutto ciò che vedevo. La feci alzare, sollevai il piumone e la feci distendere sotto, in piedi mi spogliai in due mosse, cercai di non farle vedere che ero già eretto e duro come di legno. Lo vide ed ebbi l’impressione che le desse sicurezza vedermi eccitato per lei.
La abbracciai sotto le coperte e sentii la sua pelle liscia di ragazza contro la mia piena di peli. La baciai, il mio cazzo duro strusciava contro la sua pancia e lei mi strinse ancora più forte. Slacciai il reggiseno, glielo sfilai e lo feci cadere dal letto poi fu la volta degli slip che rimasero tra le lenzuola in fondo al letto. Sentii un cazzetto duro che strusciava contro il mio e iniziai a muovermi con un ritmo lento che sentii che gradiva.
Smisi di baciarla, infilai la testa sotto le coperte e cercai un suo capezzolo, lo leccai e mordicchiai e prima sorpresa mi accorsi che era grosso e si irrigidiva diventando come la gomma di una matita, lei iniziò a sospirare e passai all’altro capezzolo, intanto raccolsi un po’ di saliva nel palmo destro e scesi a toccarla tra le gambe, era senza peli anche li e quando iniziai a scorrere la mano lubrificata sull’asta strabuzzò gli occhi. Intanto che le toccavo il cazzo risalii a baciarla in bocca e rispose con una veemenza che sembrava una bella promessa. “Cosa mi fai? È bellissimo mi fai girare la testa”. Scesi di nuovo sotto le coperte, arrivai al suo inguine, sputai di nuovo un grumo di saliva nella destra e presi il cazzo in bocca, intanto feci scorrere le dita insalivate lungo il perineo e raggiunsi il suo buco del culo. Ogni affondo nella mia bocca mi faceva sentire sulla punta dell’indice una contrazione del suo ano che stavo lubrificando da fuori. Si contorceva come una anguilla emettendo dei gemiti molto femminili. Risalii a baciarla tenendo l’indice appoggiato all’ingresso del suo ano pieno della mia saliva “ empuja como si te fueras a cagar “ le sussurrai, sentii che spingeva e entrai con la prima falange, continuò a spingere e io inserii tutto il dito, premetti la falange verso la parete anteriore del suo intestino e sentii come una piccola castagna dura che toccai con la stessa forza con cui toccavo il punto G delle genetiche, mi guardò con stupore e poi il suo viso fu stravolto dal piacere, aveva sollevato le coperte e adesso completamente nuda si stava agitando come qualunque donna che goda con il cazzo dentro alla figa. Le presi in mano il cazzo e dopo tre volte che andai su e giù in sincronia con il dito nel culo iniziò a sborrare con dei getti come una fontana. Fece quattro o cinque spruzzi e anche se non sborrava più, per un po’ fu scossa da una serie di contrazioni mentre io lentamente le estraevo il dito dall’ano. La coprii e la strinsi a me, eravamo entrambi pieni di schizzi, lei tremava e si mise a piangere “cosa mi hai fatto? Non mi era mai successo, mi hai dato un ordine in castigliano, allora sai la mia lingua, chi sei?”
“Andiamo per ordine, ti ho fatto delle cose che mi sono venute spontanee, non le avevo mai fatte prima e mi sembra ti siano piaciute, non so lo spagnolo, solo qualche frase, ho uno zio argentino e da bambino sono stato un po’ a Baires, la frase che ti ho detto me la diceva sempre Anita, la tata che avevo in General Belgrano. Per chiudere, farti godere mi è piaciuto da matti e se non fossi troppo scossa ricomincerei subito.”
Sollevò la faccia dal mio petto, sorrise e mi baciò. Mi alzai e andai a lavarmi le mani. Mi piaceva ma non avevo mai ficcato le dita nel culo a nessuno.
Tornai nel letto e lei mi si raggomitolò contro come una gatta che fa le fusa. “ Mi farai smettere di fumare, quando sono con te non mi viene neanche voglia” “ se lo desideri fuma , non mi dà fastidio “ “ rischierei di perdere un po’ del tuo odore, a proposito” mi alzai e andai a prendere una pezzuola da doccia, la bagnai sotto l’acqua bollente del lavandino della cucina e la strizzai, tornai con il sapone intimo nell’altra mano la scoprii e la girai manovrandola come una bambola, le misi qualche goccia di sapone tra i glutei , lo spalmai sull’ano tenendo divaricate quelle chiappe fantastiche e con la pezzuola portai via il sapone. Per verificare mi abbassai e le leccai l’ano. Mi sollevai e la guardai distesa e indifesa. In un attimo eravamo arrivati a una intimità che non avevo mai avuto con nessuna. Lei aveva la faccia serena e teneva gli occhi chiusi.
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