Uomini
di
Dora
genere
sentimentali
Sono una persona piuttosto insignificante. In un gruppo non credo che qualcuno mi noterebbe. Non è mai successo del resto.
Sono la ragazza con gli occhiali, i capelli in disordine e le giacche da uomo. Mi piacerebbe fumare per darmi un tono, ma non so fare nemmeno quello. Ho troppo autocontrollo per distruggermi davvero.
Sono un’emarginata perché scelgo di esserlo. In fondo mi piace essere diversa, alternativa, mi fa sentire speciale. Tutti vogliono sentirsi speciali, non me ne faccio una colpa.
Mi piacciono gli emarginati, gli alternativi come me. Ragazzi bassini con la barba, pieni di musica e di problemi. Passano il loro tempo a confondermi i sentimenti. Ammorbidiscono il mio esoscheletro a poco a poco, si insidiano con gradualità. Poi lo abbandonano repentinamente lacerandolo. Mi fanno fiorire. Poi mi negano il sole.
Mi ritrovo a leggere una vecchia poesia di Herman Hesse:
Io ti chiesi perché i tuoi occhi
si soffermano nei miei
come una casta stella del cielo
in un oscuro flutto.
Mi hai guardato a lungo
come si saggia un bimbo con lo sguardo,
mi hai detto poi, con gentilezza:
ti voglio bene, perché sei tanto triste.
A volte vorrei anche io una casta stella a saggiare il mio oscuro flutto. Uno sguardo che mi renda nuovamente libera di essere piccola piccola piccola. Anche io come Corazzini sono solo una fanciulla che piange, vorrei solo la gentilezza di una flebile voce nel buio: «Ti voglio bene, perché sei tanto triste».
Cammino per le strade ricoperta da un velo di solitudine. Guardo le persone negli occhi alla ricerca di significati. In una vita di ripetizione si imparano tante cose, anche senza volerlo.
Nel treno delle 7:30, ogni mattina, nel primo vagone siede un uomo. Va al lavoro. È ancora giovane ma i suoi capelli sono grigi. Sembra un fiore d’asfalto.
I nostri occhi si sono incrociati per la prima volta alla fine di settembre. Non c’era posto, un solo vecchio vagone, zeppo di adolescenti. Ero in piedi, lui seduto. I nostri sguardi si interrogavano. L’uomo che va al lavoro, la studentessa universitaria troppo cresciuta per un vagone di liceali.
Continuo a sedermi nei suoi dintorni e ad osservarlo. Di sbieco, spuntano le mani e il corpo, talvolta il viso di profilo. L’ultima volta leggeva. Con sorpresa ho notato "Il mondo nuovo" di Aldous Huxley. Sapevo con certezza che sarebbe stato un uomo da romanzi.
Nelle orecchie "Made of Stone" degli Stone Roses. Chissà perché mi sono immaginata seduta sulle sue ginocchia, con indosso solo un paio di mutandine rosa. Lui vestito, in silenzio, mi guarda e mi sfiora. Gli zigomi, la mascella, il collo, le spalle. E lentamente ogni singola vertebra. I fianchi e l’interno coscia. Le ossa delle ginocchia. La pelle sensibile dietro ai polsi. Lo stesso percorso ancora e ancora, prima con i polpastrelli, poi con le labbra e la lingua; mentre le mutandine si bagnano sempre di più e i capezzoli turgidi lo implorano per essere toccati. Allora china la testa e ci gioca delicatamente con la lingua, mentre finalmente con una mano sotto il tessuto rosa accarezza i riccioli scuri e si immerge nella mia umidità.
Lo dicevano sempre gli Stone Roses "I wanna be adored", ancora non è il mio momento.
Sono uscita dalla stazione, sovrappensiero e con le cuffiette ancora nelle orecchie. Camminavo sul marciapiede e ho visto arrivare in lontananza un ragazzo con un lungo giubbotto di pelle marrone, i baffi e gli occhiali da sole. Impossibile distogliere lo sguardo, ed è così che ho scoperto di conoscerlo. Stava parlando al cellulare ma ha mimato un “ciao” con le labbra. Vincenzo. Trentenne in cerca della sua strada. L’ ho sentito sospirare sotto la doccia, una mattina, in una casa non mia. Va da sé che aveva appena fatto sesso, ma non con me.
Come sarebbe avere una stanza e farcelo entrare? Al buio, tra tutte le mie cose, l’aria calda consumata dai nostri respiri. Come sarebbe averlo dentro di me, mentre mi bacia con le sue labbra di sangue, mentre mi guarda con i suoi occhi profondi d’abisso? Non lo scoprirò mai.
Sono andata avanti, ho superato il semaforo, attraversato la strada. Sono passata davanti al bar dove lavora Giulio. Non dovrei conoscere il suo nome, ma il mio amico lo ha origliato per me. Uno dei miei più grandi divertimenti del sabato sera è salire i due gradini del bar perché so che lui mi farà sorridere un po’, se non con le sue battute almeno con la Sambuca.
Come farebbe una ragazza senza il suo barista di fiducia?
Qualche settimana fa ha voluto salutarmi “per bene”, mi ha dato due baci sulle guance. “Ecco la birra, cuore mio”, “Ci vediamo dopo, bella”. Non so perché lo fa, è molto diverso da me, ha il fascino del brigante. La barba scura, gli occhi vispi. Si muove veloce e sicuro tra bicchieri, vassoi e tazzine.
Ho il dubbio che si tratti di una strategia di marketing per costringermi a tornare a consumare lì. Se fossi la padrona del bar sarei fiera di lui. Eppure sentire la sua voce roca che mi chiama “cuoricino mio” mi provoca un piacere quasi perverso. È come se parlasse alle mie vulnerabilità, a quella parte di me che non si è mai sentita “vista”. Mi lusinga come uno spiritello tentatore. Ma credo che proprio questa natura di potenzialità e non di realtà sia quello che mi attrae. Il sesso reale è sempre imprevedibile e non so ancora controllarlo.
Dubito che sussurrerebbe “oh cuoricino mio” mentre passo le labbra e la lingua sul suo cazzo, con le sue mani intrecciate ai capelli e una live pressione sulla testa.
Premuroso o sprezzante? Dolce o violento? Memorabile o da dimenticare?
Non ho il coraggio di correre questo rischio, di guastare nel concreto il suo potenziale immaginifico.
Forse dopo tutto mi manca Marco. Lui sì, è reale, se ne sta nella sua città, distante. E non capisco più se mi vuole bene, se il mio corpo avrà altri baci di miele.
A volte sono tanto triste.
Sono la ragazza con gli occhiali, i capelli in disordine e le giacche da uomo. Mi piacerebbe fumare per darmi un tono, ma non so fare nemmeno quello. Ho troppo autocontrollo per distruggermi davvero.
Sono un’emarginata perché scelgo di esserlo. In fondo mi piace essere diversa, alternativa, mi fa sentire speciale. Tutti vogliono sentirsi speciali, non me ne faccio una colpa.
Mi piacciono gli emarginati, gli alternativi come me. Ragazzi bassini con la barba, pieni di musica e di problemi. Passano il loro tempo a confondermi i sentimenti. Ammorbidiscono il mio esoscheletro a poco a poco, si insidiano con gradualità. Poi lo abbandonano repentinamente lacerandolo. Mi fanno fiorire. Poi mi negano il sole.
Mi ritrovo a leggere una vecchia poesia di Herman Hesse:
Io ti chiesi perché i tuoi occhi
si soffermano nei miei
come una casta stella del cielo
in un oscuro flutto.
Mi hai guardato a lungo
come si saggia un bimbo con lo sguardo,
mi hai detto poi, con gentilezza:
ti voglio bene, perché sei tanto triste.
A volte vorrei anche io una casta stella a saggiare il mio oscuro flutto. Uno sguardo che mi renda nuovamente libera di essere piccola piccola piccola. Anche io come Corazzini sono solo una fanciulla che piange, vorrei solo la gentilezza di una flebile voce nel buio: «Ti voglio bene, perché sei tanto triste».
Cammino per le strade ricoperta da un velo di solitudine. Guardo le persone negli occhi alla ricerca di significati. In una vita di ripetizione si imparano tante cose, anche senza volerlo.
Nel treno delle 7:30, ogni mattina, nel primo vagone siede un uomo. Va al lavoro. È ancora giovane ma i suoi capelli sono grigi. Sembra un fiore d’asfalto.
I nostri occhi si sono incrociati per la prima volta alla fine di settembre. Non c’era posto, un solo vecchio vagone, zeppo di adolescenti. Ero in piedi, lui seduto. I nostri sguardi si interrogavano. L’uomo che va al lavoro, la studentessa universitaria troppo cresciuta per un vagone di liceali.
Continuo a sedermi nei suoi dintorni e ad osservarlo. Di sbieco, spuntano le mani e il corpo, talvolta il viso di profilo. L’ultima volta leggeva. Con sorpresa ho notato "Il mondo nuovo" di Aldous Huxley. Sapevo con certezza che sarebbe stato un uomo da romanzi.
Nelle orecchie "Made of Stone" degli Stone Roses. Chissà perché mi sono immaginata seduta sulle sue ginocchia, con indosso solo un paio di mutandine rosa. Lui vestito, in silenzio, mi guarda e mi sfiora. Gli zigomi, la mascella, il collo, le spalle. E lentamente ogni singola vertebra. I fianchi e l’interno coscia. Le ossa delle ginocchia. La pelle sensibile dietro ai polsi. Lo stesso percorso ancora e ancora, prima con i polpastrelli, poi con le labbra e la lingua; mentre le mutandine si bagnano sempre di più e i capezzoli turgidi lo implorano per essere toccati. Allora china la testa e ci gioca delicatamente con la lingua, mentre finalmente con una mano sotto il tessuto rosa accarezza i riccioli scuri e si immerge nella mia umidità.
Lo dicevano sempre gli Stone Roses "I wanna be adored", ancora non è il mio momento.
Sono uscita dalla stazione, sovrappensiero e con le cuffiette ancora nelle orecchie. Camminavo sul marciapiede e ho visto arrivare in lontananza un ragazzo con un lungo giubbotto di pelle marrone, i baffi e gli occhiali da sole. Impossibile distogliere lo sguardo, ed è così che ho scoperto di conoscerlo. Stava parlando al cellulare ma ha mimato un “ciao” con le labbra. Vincenzo. Trentenne in cerca della sua strada. L’ ho sentito sospirare sotto la doccia, una mattina, in una casa non mia. Va da sé che aveva appena fatto sesso, ma non con me.
Come sarebbe avere una stanza e farcelo entrare? Al buio, tra tutte le mie cose, l’aria calda consumata dai nostri respiri. Come sarebbe averlo dentro di me, mentre mi bacia con le sue labbra di sangue, mentre mi guarda con i suoi occhi profondi d’abisso? Non lo scoprirò mai.
Sono andata avanti, ho superato il semaforo, attraversato la strada. Sono passata davanti al bar dove lavora Giulio. Non dovrei conoscere il suo nome, ma il mio amico lo ha origliato per me. Uno dei miei più grandi divertimenti del sabato sera è salire i due gradini del bar perché so che lui mi farà sorridere un po’, se non con le sue battute almeno con la Sambuca.
Come farebbe una ragazza senza il suo barista di fiducia?
Qualche settimana fa ha voluto salutarmi “per bene”, mi ha dato due baci sulle guance. “Ecco la birra, cuore mio”, “Ci vediamo dopo, bella”. Non so perché lo fa, è molto diverso da me, ha il fascino del brigante. La barba scura, gli occhi vispi. Si muove veloce e sicuro tra bicchieri, vassoi e tazzine.
Ho il dubbio che si tratti di una strategia di marketing per costringermi a tornare a consumare lì. Se fossi la padrona del bar sarei fiera di lui. Eppure sentire la sua voce roca che mi chiama “cuoricino mio” mi provoca un piacere quasi perverso. È come se parlasse alle mie vulnerabilità, a quella parte di me che non si è mai sentita “vista”. Mi lusinga come uno spiritello tentatore. Ma credo che proprio questa natura di potenzialità e non di realtà sia quello che mi attrae. Il sesso reale è sempre imprevedibile e non so ancora controllarlo.
Dubito che sussurrerebbe “oh cuoricino mio” mentre passo le labbra e la lingua sul suo cazzo, con le sue mani intrecciate ai capelli e una live pressione sulla testa.
Premuroso o sprezzante? Dolce o violento? Memorabile o da dimenticare?
Non ho il coraggio di correre questo rischio, di guastare nel concreto il suo potenziale immaginifico.
Forse dopo tutto mi manca Marco. Lui sì, è reale, se ne sta nella sua città, distante. E non capisco più se mi vuole bene, se il mio corpo avrà altri baci di miele.
A volte sono tanto triste.
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