Francesca: il gioco della seduzione - capitolo secondo
di
Alex 88
genere
esibizionismo
Che cos’è l’esibizionismo? Un gioco, una malattia? Forse entrambi. Francesca non sapeva dare una risposta precisa a quella domanda, anzi, cercava di capire con tutta se stessa cosa il suo corpo le stesse chiedendo da quell’ultima, stranissima, avventura sul bus. Era passata poco più di una settimana da quando, presa da un impeto di pura follia, aveva spalancato oscenamente le cosce nel mezzo che la stava riaccompagnando a casa. Il suo gesto sconsiderato non era caduto nel vuoto, era stato ponderato, studiato, ed aveva come vittima un povero ragazzino imberbe a cui aveva mostrato senza pudore di essere senza mutandine. Quell’avventura era stato il massimo a cui si fosse spinta finora; non che ne andasse fiera. Si era ripromessa di non assecondare mai più quel suo lato esibizionista o avrebbe potuto cacciarsi nei guai, grossi guai; eppure…
Eppure ogni qualvolta ripensasse a quella storia qualcosa si accendeva dentro di lei: un ardore, primigenio e impellente, che la scuoteva sin nelle viscere; portandola a bagnarsi come non mai. Un fuoco sacro, prometeico, che avvampava imperterrito dentro di lei facendole dimenticare chi fosse, la sua posizione sociale e tutto ciò che avrebbe dovuto fare davvero per mantenerla tale. Il vaso di Pandora, dunque, era stato scoperchiato. Il genio al suo interno era stato ridestato e a nulla valeva opporsi. Ne sarebbe stata soverchiata? Quel fuoco la sovrastava, la dominava, la spingeva a volere, anzi, ad esigere sempre di più. Pensare che tutto era nato da un semplice imprevisto, una distrazione con cui si era ritrovata nuda e vulnerabile sotto lo sguardo famelico di quel muratore… Francesca non riusciva a capacitarsi. Quell’essere vittima, preda sacrificale sull’altare del ludibrio di un uomo, era una sensazione strana, forte, irresistibile; una sensazione che voleva imparare a dominare. Perché quella era la vera differenza tra quella prima esperienza e tutte le altre: la dominazione. Sottile, impalpabile, e molto allettante. Non c’è seduzione senza dominazione, questo lo capirebbe anche un bambino. Gli uomini si illudono di “conquistare” una donna ma non hanno ancora capito che a condurre il gioco sono sempre loro: le donne. Sono loro a decidere da chi farsi corteggiare, loro a scegliere a chi mostrarsi, sempre loro a prediligere colui a cui concedersi. La puttanata del maschio alfa era, per l’appunto, una puttanata.
Francesca rimuginava proprio su questo mentre era intenta a riordinare per l’ennesima volta quella miriade di scatole e flaconi che Alfredo non aveva ancora imparato a disporre negli scaffali. Mettere a posto i farmaci era un lavoro lungo, tedioso, degno di un maniaco con un disturbo ossessivo – compulsivo per l’ordine, ma dava modo di starsene da soli con i propri pensieri. Era proprio lì, intenta a risistemare le “lancette” per la misura del diabete, quando qualcosa, o meglio qualcuno, catturò la sua attenzione. Era il signor Fausto, un simpatico pensionato che abitava lì vicino e che ogni mattina passava in farmacia per il controllo della pressione. Fausto era un uomo all’antica, sempre gentile, sempre cortese e gioviale, che non perdeva mai occasione per regalare a lei e alle altre “ragazze”, come le chiamava lui, una caramella Rossana appena comperata al tabacchi.
Qualcuno avrebbe potuto storcere il naso sul fatto che le chiamasse “ragazze” e non “dottoresse”, ma nella sua voce non v’era alcuna traccia di disprezzo, e il suo sguardo era più dolce delle leccornie che era solito regalare.
– Il dottore mi ha proibito di mangiarle – sentenziava ogni volta – ma nessuno può impedirmi di regalarle a chi dico io.
Portava una corona di candidi capelli lanosi, e un folto paio di baffi bianchi che ne copriva in parte le labbra. Indossava sempre un immancabile gilet con le tasche, uno di quelli di un blu indefinibile e con la fodera in tartan, da cui sbucava quasi sempre un’immancabile camicia di cotone leggera, anch’essa a quadretti.
Francesca gli sorrise, rivedendo anche stavolta in lui una specie di nonno putativo. Ma Fausto, stavolta, non fece altrettanto. Vide il volto dell’uomo avvampare per l’imbarazzo e distogliere lo sguardo su di lei per rivolgerlo lesto verso la fila per la macchinetta della pressione. Che cosa gli sarà successo? – si chiese Francesca intrigata. L’uomo continuava a tenere lo sguardo basso, rasente il terreno, ma ogni tanto frugava con la coda degli occhi nella sua direzione.
-Che cosa aveva visto?
Francesca seguì con interesse lo sguardo sfuggevole del pensionato, notando, divertita, che si fermava proprio sulle sue gambe. Quel giorno indossava un pratico vestitino a fiori, nulla di pretenzioso, e per stare più comoda aveva deciso ancora una volta di lasciare il camice slacciato. Per mettere a posto le “lancette” per il diabete, era stata costretta a piegarsi sulle ginocchia, divaricando leggermente le gambe per non perdere l’equilibrio, mettendo in mostra parte delle gambe e dell’interno coscia.
-Hai capito il nonnino – pensò di sfuggita – fa tutto il puro e il casto ma anche a lui piace guardare!
La cosa, inspiegabilmente, ebbe su Francesca un effetto galvanizzante. Ancora una volta era stata, suo malgrado, oggetto delle attenzioni di un uomo. Che fosse questa la causa scatenante? Un turbinio di emozioni si impossessò di lei, provocandole un brivido che scorreva dritto lungo la schiena. Fausto la guardava, la desiderava, e anche se tutto questo lo metteva fortemente a disagio, era qualcosa a cui non poteva sottrarsi. Vedere quell’uomo anziano, quel nonnino, di solito così integerrimo e irreprensibile nel suo comportamento, arrossire come un ragazzino beccato con le dita nella marmellata, la mandò in visibilio. Subito pensò di rincarare la dose, di prendere in mano le redini del gioco, spingendo la cosa fino ai limiti del possibile. Ne avrebbe avuto il coraggio? Diamine sì!
Aprì le gambe per quel poco che poteva senza dare nell’occhio, girandosi per bene in direzione di Fausto perché avesse una visione completa e precisa delle sue mutandine verdi. Il signor Fausto deglutì a fatica, cavando un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni per asciugarsi la fronte imperlata di sudore. Francesca, indomita, continuava quell’esasperante gioco esibizionista e nel mentre fingeva di sistemare al meglio le scatole delle lancette. Che ogni suo gesto fosse dettato da questo e non dal bisogno impellente di mostrare a quel dolce vecchietto la biancheria intima era qualcosa di cui prendere coscienza poco a poco, a piccole dosi; un farmaco balsamico a cui attingere con parsimonia e che l’avrebbe costretta, prima o poi, a correre in bagno a toccarsi. La sua calda micina reclamava la sua dose di coccole, mentre una macchiolina scura andava allargandosi sul fresco tessuto delle mutandine. Sì, il gioco era tutto lì, si trattava di dominare ed essere dominati, mostrare ed essere guardati. La vittima diventava carnefice e il carnefice vittima, in un turbinio di emozioni contrastanti che rendevano il tutto ancor più accattivante. Francesca finse di accorgersi di “dare spettacolo” tardivamente; chiudendo repentinamente le cosce e gustandosi sul volto di Fausto la prova tangibile di una dilagante frustrazione. Quella sua esibizione avrà sicuramente risvegliato nel cordiale vecchino appetiti sopiti da tempo, e il malcontento scaturito dall’improvvisa interruzione, così palese sul volto di Fausto, aveva in sé il sapore della vittoria. Il cuore a Francesca prese a battergli all’impazzata. La patatina, ben chiusa fra le cosce serrate mentre si rialzava in piedi, reclamava agognante la sua dose di attenzioni; doveva correre in bagno, doveva toccarsi, o avrebbe finito per impazzire! Il signor Fausto fu presto distratto da Massimo e dal consueto controllo pressorio; controllo che quel giorno, chissà poi perché, diede come esito una pressione ben più alta del normale e un conteggio dei battiti accelerato. L’evento inspiegabile impensierì non poco l’avvenente collega, sempre così attento alla salute dei propri clienti, che sovente raccomandò all’anziano di ripetere la misurazione, consigliando, cionondimeno, un controllo presso uno specialista. Francesca, osservò la scena divertita, provando un misto di soddisfazione e rammarico di cui era difficile venire a capo, ma fu presto distratta anche lei dal giovane tirocinante, Alfredo, piombato lì da lei con le braccia e le tasche del camice ricolme di scatole, un paio di esse persino sotto il mento, come un pirata all’arrembaggio; ci mancava solo che se le mettesse anche in bocca a mo di scimitarra.
- Ma che fai? – gli chiese Francesca con tono ancor più divertito
- Ti aiuto a mettere a posto – rispose il ragazzo laconico
- Guarda che dobbiamo sistemare lo scaffale, mica dare l’assalto a una feluca spagnola!
- Arrr, ai suoi ordini mio capitano! – riprese il ragazzo faceto mettendosi goffamente sull’attenti. Nel farlo un paio di scatole sfuggirono dalle tasche finendo per terra.
- Ecco, appunto. Da bravo, dammi una mano a raccoglierle.
Francesca non ci aveva pensato. Davvero. Anche sotto tortura avrebbe potuto giurare che stavolta non l’aveva fatto apposta. Si piegò nuovamente sulle ginocchia, divaricando leggermente le gambe per stare più comoda. Lo fece automaticamente, senza rendersene neppure conto, ma la cosa non era sfuggita all’attenzione del butterato pirata che, con la scusa di raccogliere una scatola di compresse caduta vicino alle punte delle sue scarpe fucsia, ne approfittò per darle una sbirciatina in mezzo alle gambe. Si sa: l’occasione fa l’uomo ladro, ma la donna? Francesca si rese conto di tutto ciò quando era ormai troppo tardi: lo sguardo rapito di Alfredo si era posato tra le sue cosce socchiuse, nel vano tentativo di intravedere ciò che solo Fausto e pochi altri avevano avuto il privilegio di guardare. Che cosa avrebbe dovuto fare ora? Spalancare le cosce ancora una volta? Mostrare a quell’imberbe e incauto collega la macchia dilagante sul verde cotone delle sue mutandine? Spingere la faccia di Alfredo sul suo monte di venere intriso d’umori? Strofinarci su la micina bagnata affinché godesse del contatto di quelle soffici labbra frementi di desiderio? La cosa le diede un senso di vertigine; un’inusitata ebbrezza che la spingeva a far finta di niente, a godersi a pieno quel momento inaspettato che la voleva oggetto e non fautrice di quell’ultima esibizione. Lo spettacolo regalò ad Alfredo un dono che solo la giovinezza possiede: un’immediata risposta ormonale che ne fece assottigliare la stoffa dei pantaloni, compressi come non mai dalla spinta dell’erezione.
- Però… mica male Alfredo! – pensò Francesca mentre fissava spudoratamente il turgore tra le gambe del tirocinante. – Chissà cosa si prova a cavalcare una verga di quelle dimensioni…
Francesca si morse le labbra, chiudendo saldamente le cosce per evitare che un rivoletto di umori le colasse via. Quel gesto improvviso ridestò Alfredo dalla trance, spingendo l’incauto ragazzo a perdersi negli occhi indagatori della sua avvenente collega.
- Tutto bene?
- S…sì, certo. – bofonchiò il pirata avvampando di vergogna e precipitandosi a raccogliere quel che rimaneva delle scatole cadute prima di essere linciato da Francesca.
- S…scusa – si affrettò a balbettare senza avere il coraggio di alzare lo sguardo.
- Non l’hai mica fatto apposta – sentenziò Francesca allusiva. Il ragazzo alzò lo sguardo, il sorriso cortese della donna fugò da lui ogni incertezza.
- Capita a tutti, ogni tanto, di far cadere qualche scatola. Basta che non sia un abitudine!
Il ragazzo sembrò risollevato. Pensava sicuramente di averla fatta franca, che Francesca non si fosse accorta di quel suo improvviso atto di voyeurismo, anche se se n’era accorta eccome, e riprese il suo tipico atteggiamento tranquillo e gioviale, ricominciando a scherzare con lei come se nulla fosse. Il bozzo nei suoi pantaloni, però, raccontava una storia ben diversa, una storia che non si sarebbe fermata certo lì e di cui non avevano scritto che il capitolo iniziale. I due ricominciarono a mettere a posto i medicinali, così come erano soliti fare da un paio di mesi a questa parte. Stavolta, però, lo sguardo di Alfredo non si limitava ad osservare i gesti della procace collega, anzi, ogni pretesto era buono per dare una sbirciatina alle belle gambe affusolate o alla prorompente scollatura, messa ancora più in risalto dal reggiseno a balconcino, che la bella Francesca mostrava con tanta disinvoltura. A Francesca tutte quelle attenzioni non dispiacevano affatto e la dicotomia incessante dell’essere preda/carnefice aveva su di lei un effetto a dir poco taumaturgico. Quel gioco… quel gioco si faceva sempre più spinto, audace e indomabile e Francesca non vedeva l’ora di passare al livello successivo. Gli sguardi di Alfredo erano un continuo saettare tra tette, culetto e gambe ed era sicura che, se non fosse riuscita a dominare i suoi istinti più reconditi, avrebbe finito per dare a quel ragazzo una visione ben più esaustiva delle sue sole mutandine bagnate. Progettava infatti di correre in bagno, di sfilarsi gli slip inzuppati, di approfittare della scusa della scaletta, adoperata per raggiungere i piani più alti della scaffalatura, per mostrare al ragazzo la sua bella micina pelosa. Sapeva che quella scusa sarebbe suonata quantomeno banale, per non dire scontata, ma in quei giorni si era presa molto cura del folto boschetto rossiccio che ricopriva il suo monte di venere, depilandolo fino a che non ne rimase una bella striscia di peletti sbarazzini. Era giunto il momento che qualcuno si beasse del suo lavoro, che vedesse fin nei minimi dettagli le rosee labbra rigonfie della sua figa dischiudersi e mettere a nudo la sottile ogiva della vulva, perdendosi tra le pieghe della piccole labbra che portavano alla clitoride dura e tesa come la corda di un violino. Il pretesto c’era, sebbene un po’ banale e scontato, ma avrebbe fatto sicuramente al caso suo. Con una scusa corse in bagno a sfilarsi le mutandine che, come l’altra volta, ripose delicatamente nella borsa dopo averle chiuse in un cofanetto d’acciaio che di solito adoperava per gli assorbenti di scorta. Al sol contatto con l’aria fresca ed umida dell’ambiente, la sua vagina le strappò un gridolino di soddisfazione, un fremito improvviso che ne percosse la schiena; preludio di un orgasmo imminente.
Francesca serrò le gambe. Non era ancora il momento. Voleva godere a pieno del frutto di quella nuova, indescrivibile, situazione che, irrimediabilmente, sfumò una volta tornata da Alfredo. Impeccabile nel suo nuovo tailleur Missoni, Luana, la moglie di Massimo, riponeva con solerzia sul ripiano più alto dello scaffale l’ultimo flacone di colluttorio, allungatole dal torvo tirocinante, il quale non poté fare a meno di rivolgere a Francesca uno sguardo sconsolato.
- sarà per la prossima volta – pensò Francesca rassegnata, ma in cuor suo sapeva benissimo che quella gatta morta di Luana, ancora una volta, aveva mandato all’aria tutti i suoi piani.
Eppure ogni qualvolta ripensasse a quella storia qualcosa si accendeva dentro di lei: un ardore, primigenio e impellente, che la scuoteva sin nelle viscere; portandola a bagnarsi come non mai. Un fuoco sacro, prometeico, che avvampava imperterrito dentro di lei facendole dimenticare chi fosse, la sua posizione sociale e tutto ciò che avrebbe dovuto fare davvero per mantenerla tale. Il vaso di Pandora, dunque, era stato scoperchiato. Il genio al suo interno era stato ridestato e a nulla valeva opporsi. Ne sarebbe stata soverchiata? Quel fuoco la sovrastava, la dominava, la spingeva a volere, anzi, ad esigere sempre di più. Pensare che tutto era nato da un semplice imprevisto, una distrazione con cui si era ritrovata nuda e vulnerabile sotto lo sguardo famelico di quel muratore… Francesca non riusciva a capacitarsi. Quell’essere vittima, preda sacrificale sull’altare del ludibrio di un uomo, era una sensazione strana, forte, irresistibile; una sensazione che voleva imparare a dominare. Perché quella era la vera differenza tra quella prima esperienza e tutte le altre: la dominazione. Sottile, impalpabile, e molto allettante. Non c’è seduzione senza dominazione, questo lo capirebbe anche un bambino. Gli uomini si illudono di “conquistare” una donna ma non hanno ancora capito che a condurre il gioco sono sempre loro: le donne. Sono loro a decidere da chi farsi corteggiare, loro a scegliere a chi mostrarsi, sempre loro a prediligere colui a cui concedersi. La puttanata del maschio alfa era, per l’appunto, una puttanata.
Francesca rimuginava proprio su questo mentre era intenta a riordinare per l’ennesima volta quella miriade di scatole e flaconi che Alfredo non aveva ancora imparato a disporre negli scaffali. Mettere a posto i farmaci era un lavoro lungo, tedioso, degno di un maniaco con un disturbo ossessivo – compulsivo per l’ordine, ma dava modo di starsene da soli con i propri pensieri. Era proprio lì, intenta a risistemare le “lancette” per la misura del diabete, quando qualcosa, o meglio qualcuno, catturò la sua attenzione. Era il signor Fausto, un simpatico pensionato che abitava lì vicino e che ogni mattina passava in farmacia per il controllo della pressione. Fausto era un uomo all’antica, sempre gentile, sempre cortese e gioviale, che non perdeva mai occasione per regalare a lei e alle altre “ragazze”, come le chiamava lui, una caramella Rossana appena comperata al tabacchi.
Qualcuno avrebbe potuto storcere il naso sul fatto che le chiamasse “ragazze” e non “dottoresse”, ma nella sua voce non v’era alcuna traccia di disprezzo, e il suo sguardo era più dolce delle leccornie che era solito regalare.
– Il dottore mi ha proibito di mangiarle – sentenziava ogni volta – ma nessuno può impedirmi di regalarle a chi dico io.
Portava una corona di candidi capelli lanosi, e un folto paio di baffi bianchi che ne copriva in parte le labbra. Indossava sempre un immancabile gilet con le tasche, uno di quelli di un blu indefinibile e con la fodera in tartan, da cui sbucava quasi sempre un’immancabile camicia di cotone leggera, anch’essa a quadretti.
Francesca gli sorrise, rivedendo anche stavolta in lui una specie di nonno putativo. Ma Fausto, stavolta, non fece altrettanto. Vide il volto dell’uomo avvampare per l’imbarazzo e distogliere lo sguardo su di lei per rivolgerlo lesto verso la fila per la macchinetta della pressione. Che cosa gli sarà successo? – si chiese Francesca intrigata. L’uomo continuava a tenere lo sguardo basso, rasente il terreno, ma ogni tanto frugava con la coda degli occhi nella sua direzione.
-Che cosa aveva visto?
Francesca seguì con interesse lo sguardo sfuggevole del pensionato, notando, divertita, che si fermava proprio sulle sue gambe. Quel giorno indossava un pratico vestitino a fiori, nulla di pretenzioso, e per stare più comoda aveva deciso ancora una volta di lasciare il camice slacciato. Per mettere a posto le “lancette” per il diabete, era stata costretta a piegarsi sulle ginocchia, divaricando leggermente le gambe per non perdere l’equilibrio, mettendo in mostra parte delle gambe e dell’interno coscia.
-Hai capito il nonnino – pensò di sfuggita – fa tutto il puro e il casto ma anche a lui piace guardare!
La cosa, inspiegabilmente, ebbe su Francesca un effetto galvanizzante. Ancora una volta era stata, suo malgrado, oggetto delle attenzioni di un uomo. Che fosse questa la causa scatenante? Un turbinio di emozioni si impossessò di lei, provocandole un brivido che scorreva dritto lungo la schiena. Fausto la guardava, la desiderava, e anche se tutto questo lo metteva fortemente a disagio, era qualcosa a cui non poteva sottrarsi. Vedere quell’uomo anziano, quel nonnino, di solito così integerrimo e irreprensibile nel suo comportamento, arrossire come un ragazzino beccato con le dita nella marmellata, la mandò in visibilio. Subito pensò di rincarare la dose, di prendere in mano le redini del gioco, spingendo la cosa fino ai limiti del possibile. Ne avrebbe avuto il coraggio? Diamine sì!
Aprì le gambe per quel poco che poteva senza dare nell’occhio, girandosi per bene in direzione di Fausto perché avesse una visione completa e precisa delle sue mutandine verdi. Il signor Fausto deglutì a fatica, cavando un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni per asciugarsi la fronte imperlata di sudore. Francesca, indomita, continuava quell’esasperante gioco esibizionista e nel mentre fingeva di sistemare al meglio le scatole delle lancette. Che ogni suo gesto fosse dettato da questo e non dal bisogno impellente di mostrare a quel dolce vecchietto la biancheria intima era qualcosa di cui prendere coscienza poco a poco, a piccole dosi; un farmaco balsamico a cui attingere con parsimonia e che l’avrebbe costretta, prima o poi, a correre in bagno a toccarsi. La sua calda micina reclamava la sua dose di coccole, mentre una macchiolina scura andava allargandosi sul fresco tessuto delle mutandine. Sì, il gioco era tutto lì, si trattava di dominare ed essere dominati, mostrare ed essere guardati. La vittima diventava carnefice e il carnefice vittima, in un turbinio di emozioni contrastanti che rendevano il tutto ancor più accattivante. Francesca finse di accorgersi di “dare spettacolo” tardivamente; chiudendo repentinamente le cosce e gustandosi sul volto di Fausto la prova tangibile di una dilagante frustrazione. Quella sua esibizione avrà sicuramente risvegliato nel cordiale vecchino appetiti sopiti da tempo, e il malcontento scaturito dall’improvvisa interruzione, così palese sul volto di Fausto, aveva in sé il sapore della vittoria. Il cuore a Francesca prese a battergli all’impazzata. La patatina, ben chiusa fra le cosce serrate mentre si rialzava in piedi, reclamava agognante la sua dose di attenzioni; doveva correre in bagno, doveva toccarsi, o avrebbe finito per impazzire! Il signor Fausto fu presto distratto da Massimo e dal consueto controllo pressorio; controllo che quel giorno, chissà poi perché, diede come esito una pressione ben più alta del normale e un conteggio dei battiti accelerato. L’evento inspiegabile impensierì non poco l’avvenente collega, sempre così attento alla salute dei propri clienti, che sovente raccomandò all’anziano di ripetere la misurazione, consigliando, cionondimeno, un controllo presso uno specialista. Francesca, osservò la scena divertita, provando un misto di soddisfazione e rammarico di cui era difficile venire a capo, ma fu presto distratta anche lei dal giovane tirocinante, Alfredo, piombato lì da lei con le braccia e le tasche del camice ricolme di scatole, un paio di esse persino sotto il mento, come un pirata all’arrembaggio; ci mancava solo che se le mettesse anche in bocca a mo di scimitarra.
- Ma che fai? – gli chiese Francesca con tono ancor più divertito
- Ti aiuto a mettere a posto – rispose il ragazzo laconico
- Guarda che dobbiamo sistemare lo scaffale, mica dare l’assalto a una feluca spagnola!
- Arrr, ai suoi ordini mio capitano! – riprese il ragazzo faceto mettendosi goffamente sull’attenti. Nel farlo un paio di scatole sfuggirono dalle tasche finendo per terra.
- Ecco, appunto. Da bravo, dammi una mano a raccoglierle.
Francesca non ci aveva pensato. Davvero. Anche sotto tortura avrebbe potuto giurare che stavolta non l’aveva fatto apposta. Si piegò nuovamente sulle ginocchia, divaricando leggermente le gambe per stare più comoda. Lo fece automaticamente, senza rendersene neppure conto, ma la cosa non era sfuggita all’attenzione del butterato pirata che, con la scusa di raccogliere una scatola di compresse caduta vicino alle punte delle sue scarpe fucsia, ne approfittò per darle una sbirciatina in mezzo alle gambe. Si sa: l’occasione fa l’uomo ladro, ma la donna? Francesca si rese conto di tutto ciò quando era ormai troppo tardi: lo sguardo rapito di Alfredo si era posato tra le sue cosce socchiuse, nel vano tentativo di intravedere ciò che solo Fausto e pochi altri avevano avuto il privilegio di guardare. Che cosa avrebbe dovuto fare ora? Spalancare le cosce ancora una volta? Mostrare a quell’imberbe e incauto collega la macchia dilagante sul verde cotone delle sue mutandine? Spingere la faccia di Alfredo sul suo monte di venere intriso d’umori? Strofinarci su la micina bagnata affinché godesse del contatto di quelle soffici labbra frementi di desiderio? La cosa le diede un senso di vertigine; un’inusitata ebbrezza che la spingeva a far finta di niente, a godersi a pieno quel momento inaspettato che la voleva oggetto e non fautrice di quell’ultima esibizione. Lo spettacolo regalò ad Alfredo un dono che solo la giovinezza possiede: un’immediata risposta ormonale che ne fece assottigliare la stoffa dei pantaloni, compressi come non mai dalla spinta dell’erezione.
- Però… mica male Alfredo! – pensò Francesca mentre fissava spudoratamente il turgore tra le gambe del tirocinante. – Chissà cosa si prova a cavalcare una verga di quelle dimensioni…
Francesca si morse le labbra, chiudendo saldamente le cosce per evitare che un rivoletto di umori le colasse via. Quel gesto improvviso ridestò Alfredo dalla trance, spingendo l’incauto ragazzo a perdersi negli occhi indagatori della sua avvenente collega.
- Tutto bene?
- S…sì, certo. – bofonchiò il pirata avvampando di vergogna e precipitandosi a raccogliere quel che rimaneva delle scatole cadute prima di essere linciato da Francesca.
- S…scusa – si affrettò a balbettare senza avere il coraggio di alzare lo sguardo.
- Non l’hai mica fatto apposta – sentenziò Francesca allusiva. Il ragazzo alzò lo sguardo, il sorriso cortese della donna fugò da lui ogni incertezza.
- Capita a tutti, ogni tanto, di far cadere qualche scatola. Basta che non sia un abitudine!
Il ragazzo sembrò risollevato. Pensava sicuramente di averla fatta franca, che Francesca non si fosse accorta di quel suo improvviso atto di voyeurismo, anche se se n’era accorta eccome, e riprese il suo tipico atteggiamento tranquillo e gioviale, ricominciando a scherzare con lei come se nulla fosse. Il bozzo nei suoi pantaloni, però, raccontava una storia ben diversa, una storia che non si sarebbe fermata certo lì e di cui non avevano scritto che il capitolo iniziale. I due ricominciarono a mettere a posto i medicinali, così come erano soliti fare da un paio di mesi a questa parte. Stavolta, però, lo sguardo di Alfredo non si limitava ad osservare i gesti della procace collega, anzi, ogni pretesto era buono per dare una sbirciatina alle belle gambe affusolate o alla prorompente scollatura, messa ancora più in risalto dal reggiseno a balconcino, che la bella Francesca mostrava con tanta disinvoltura. A Francesca tutte quelle attenzioni non dispiacevano affatto e la dicotomia incessante dell’essere preda/carnefice aveva su di lei un effetto a dir poco taumaturgico. Quel gioco… quel gioco si faceva sempre più spinto, audace e indomabile e Francesca non vedeva l’ora di passare al livello successivo. Gli sguardi di Alfredo erano un continuo saettare tra tette, culetto e gambe ed era sicura che, se non fosse riuscita a dominare i suoi istinti più reconditi, avrebbe finito per dare a quel ragazzo una visione ben più esaustiva delle sue sole mutandine bagnate. Progettava infatti di correre in bagno, di sfilarsi gli slip inzuppati, di approfittare della scusa della scaletta, adoperata per raggiungere i piani più alti della scaffalatura, per mostrare al ragazzo la sua bella micina pelosa. Sapeva che quella scusa sarebbe suonata quantomeno banale, per non dire scontata, ma in quei giorni si era presa molto cura del folto boschetto rossiccio che ricopriva il suo monte di venere, depilandolo fino a che non ne rimase una bella striscia di peletti sbarazzini. Era giunto il momento che qualcuno si beasse del suo lavoro, che vedesse fin nei minimi dettagli le rosee labbra rigonfie della sua figa dischiudersi e mettere a nudo la sottile ogiva della vulva, perdendosi tra le pieghe della piccole labbra che portavano alla clitoride dura e tesa come la corda di un violino. Il pretesto c’era, sebbene un po’ banale e scontato, ma avrebbe fatto sicuramente al caso suo. Con una scusa corse in bagno a sfilarsi le mutandine che, come l’altra volta, ripose delicatamente nella borsa dopo averle chiuse in un cofanetto d’acciaio che di solito adoperava per gli assorbenti di scorta. Al sol contatto con l’aria fresca ed umida dell’ambiente, la sua vagina le strappò un gridolino di soddisfazione, un fremito improvviso che ne percosse la schiena; preludio di un orgasmo imminente.
Francesca serrò le gambe. Non era ancora il momento. Voleva godere a pieno del frutto di quella nuova, indescrivibile, situazione che, irrimediabilmente, sfumò una volta tornata da Alfredo. Impeccabile nel suo nuovo tailleur Missoni, Luana, la moglie di Massimo, riponeva con solerzia sul ripiano più alto dello scaffale l’ultimo flacone di colluttorio, allungatole dal torvo tirocinante, il quale non poté fare a meno di rivolgere a Francesca uno sguardo sconsolato.
- sarà per la prossima volta – pensò Francesca rassegnata, ma in cuor suo sapeva benissimo che quella gatta morta di Luana, ancora una volta, aveva mandato all’aria tutti i suoi piani.
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