Qualcuno dirà che non sono una brava persona
di
Joe Cabot
genere
dominazione
Qualcuno dirà che non sono una brava persona, ed in effetti non me la sento davvero di affermare il contrario. In effetti però, so solo quello che sento, e non so spiegarmi altro di questa mania, se non che essa mi domina. Che mi domina nei più profondi strati della mia anima. Come è vero Dio.
Scoprii questa mia propensione al penultimo anno di liceo e, credetemi, fu come se un fulmine mi si fosse ficcato dentro, non appena la formulazione di un desiderio si fuse con la comprensione che tale desiderio, per quanto depravato o vigliacco fosse, potevo realizzarlo, e che l’avrei fatto.
Il fulmine mi colpì davanti alla porta di una camera di albergo, la 324, una mattina di primavera. La porta era socchiusa quel che bastava per vedere, riflessa nello specchio che stava appena di lato, dentro la camera, la professoressa Martini che, in tutta fretta, prima di scendere con tutti gli altri a prendere l’autobus, si preparava una striscia di cocaina sul comodino accanto al letto. Fu come un fulmine, ho detto, perché come realizzai quel che avrei potuto farle, realizzai che lo desideravo assurdamente, e che potevo ottenerlo perché in mano avevo la vecchia telecamera superotto che i miei mi avevano dato per riprende monumenti e ruderi ma che io, in quel momento, usai per filmare la mia professoressa di inglese che tirava della coca con una cannuccia nel naso. Riuscii a riprendere non più di una decina di secondi, poi lei si ricompose stropicciandosi il naso e io proseguii verso l’ascensore pensando che ormai era mia.
La Martini all’epoca aveva 35 anni ed era senz’altro uno dei sogni proibiti del liceo salesiano che frequentavo. Castana chiara, non molto alta ma formosa, e con una bocca che, quando infilava la lingua tra i denti per mostrarci il modo corretto per pronunciare la parola “thing”, faceva sorgere tanti brutti pensieri in tutti noi. Era una tipa simpatica, ma anche severa e, quando ci si metteva, pure rompicoglioni. Per tutto il giorno la guardai e pensai a come filare la mia ragnatela e man mano che la trama prendeva forma i miei sguardi, di solito bassi e timidi, si facevano più sfacciati. Quel giorno aveva una gonna larga che le scendeva sotto al ginocchio, roba a trame scozzesi, le calze color carne, un maglioncino leggero, con il collo a “V” e ad un certo punto non poté non accorgersi che la stavo fissando, immaginandomi le sue curve sotto a quei vestiti, e che intimo usasse. Per un attimo mi fissò interrogativa ed io, solitamente timido e schivo, ricambiai il suo sguardo divertito.
-Silvestri, che c’è da ridere?- mi disse indispettita, visto che per lei ero solo uno dei peggiori studenti della classe.
-Niente prof, niente.
Lei fece spallucce. Non si notava per niente che si era drogata quella mattina, ma questo, per quel poco che sapevo, significava solo che lo faceva abitualmente.
Dormivo in camera con altri tre tizi che di sicuro sarebbero scesi al bar non appena i salesiani di guardia se ne sarebbero andati a dormire. Così accadde e, poiché non ero molto popolare in classe, non si sognarono neanche di invitarmi. Ma stavolta la cosa non mi ferì e, appena loro se ne andarono, io presi la cornetta e feci il numero 324.
-Si può sapere che hai a quest’ora, Silvestri?- mi disse seccata, aprendomi la porta alcuni minuti dopo.
-È una cosa personale, professoressa, non potrei entrare un attimo?
Lei mi guardò indagatrice, ben conscia che non gliela raccontavo giusta ma anche incuriosita da quel mio comportarmi in modo strano. Aveva indosso una vestaglia lilla da cui spuntavano le gambe nude.
-E non puoi andare da Don Roberto?
-No, mi creda, è meglio che ne parli prima con lei- dissi. E poi aggiunsi perfido: - da Don Roberto magari ci andiamo dopo.
Due minuti dopo lei crollava a sedere sul letto, sconvolta. Io ero stato tenero, come se la cosa mi dispiacesse. Le avevo detto come l’avevo sorpresa, che l’avevo vista bene, e lei era sbiancata ben sapendo che non solo una cosa del genere poteva farla cacciare da quell’istituto, ma le avrebbe rovinato la vita. Mi sedetti accanto a lei e le posai un braccio sulla schiena. Lei si teneva la faccia tra le mani e pareva sul punto di piangere, non si accorse nemmeno che la mia mano, dalla schiena era scesa sotto l’ascella, ormai conscia che la donna era senza reggiseno. D’un tratto si riprese e si allontanò.
-Ma che stai facendo?
Io allungai una mano e presi la sua.
-Non capisce? Io ho il filmato...- mi portai la sua mano alle labbra e le baciai le dita.
-Ma, che cazzo!- disse furente -come ti permetti!
Si alzò in piedi e si piantò davanti a me indicandomi la porta: -Vattene subito da qui, piccolo bastardo!
Io mi alzai e feci come mi aveva detto.
-Io sto alla camera 319. Se non mi chiama entro le 11 in punto, io vado da Don Roberto.
-VATTENE!- gridò.
32 minuti dopo mi riaprì la porta della camera. Per telefono aveva detto solo “vieni” in un tono così afflitto, da donna spezzata, che il solo suono metallico di quella parola mi aveva pompato il cazzo di sangue come non mi era mai capitato. Ma il vederla lì, umiliata, con gli occhi ancora arrossati dal pianto, mi diede un senso di potere, di viscido e schifoso potere addosso, di cui ancora oggi non riesco a fare a meno.
Mi ero fatto un’idea abbastanza precisa di ciò che sarebbe accaduta quella notte e quindi, si può dire che, com’era nel mio carattere, non lasciai nulla al caso. La seguii all’interno della camera assaporando già la sua carne sotto la vestaglia. Lei si voltò e, in un sussulto di orgoglio, mi disse: - Sia ben chiaro che stasera... è un’eccezione.-
Io mi avvicinai mentre lei indietreggiava verso la finestra.
-Non hai portato la pellicola...- disse.
Io mi avvicinai ancora e le posai le mani sui fianchi. Erano opulenti, riempivano le mani. La tirai a me e lei scostò il viso.
-No. La bocca no- disse con un filo di voce.
Io le presi il mento tra le dita e la voltai verso di me. Io ero già un omaccione goffo, alto, non bello e se i compagni di classe si limitavano ad ignorarmi era perché ero piuttosto robusto. Le feci sollevare il viso verso il mio e le dissi: - Senta, giusto per chiarire le cose. Mancano quattro notti per la fine della gita e lei, se non vuole che io vada a dire tutto ai preti, agli sbirri, ai giornali..., se lei non vuole tutto questo, professoressa Martini, in queste notti sarà la mia puttana. Ha capito?, la mia puttana. E, giusto per capirsi meglio, ora le farò capire che con quella sua bocca farà quello che dico io.
La spinsi a sedere sul letto godendomi l’effetto che le mie parole avevano ottenuto su di lei. I suoi occhi mi dissero che si sentiva persa, timorosa di tutto e disposta a tutto pur di salvarsi. Sedendosi, la vestaglia le si era aperta sulla canottiera bianca che copriva i bei seni maturi. Con mia sorpresa notai che aveva i capezzoli sporgenti. Risi, quando cercò di coprirsi, e senza altri complimenti abbassai la zip dei jeans e tirai fuori l’uccello.
Da quel poco che sapevo di uccelli, il mio non era un mostro quanto a dimensioni, e forse nemmeno quanto a resistenza. Tuttavia, come ebbi modo di capire in seguito, aveva la stimata qualità di ricaricarsi molto in fretta (e parecchio), e questa era un dote che Silvia, la ragazzina dal culo grosso che aveva fatto la cortesia di darmela alcuni mesi prima, non aveva ancora l’età per apprezzare.
La Martini invece, ne avrebbe approfittato in pieno.
-Ora lei me lo succhia per bene- le dissi -o quant’è vero Dio chiamo i carabinieri adesso. Scommetto che ha ancora polverina da qualche parte. E se non ce l’ha, gliela troveranno nel sangue.
Oh, certo che qualcuno dirà che non sono affatto una brava persona, ma se aveste potuto vedere la faccia della mia cara insegnante davanti al mio cazzo, mentre lo prendeva con un mano e se lo portava alla bocca.... Le sue belle labbra si aprirono e fecero passare il mio glande, grosso e teso da scoppiare. La sensazione fu magnifica, davvero sorprendente, anche se come bocchinara non pareva granché. Pensai che fosse una questione di impegno e la sollecitai a succhiarmelo per bene. “Succhialo bene, puttana” le dissi. C’è da dire, in proposito che io non sono decisamente il tipo che si gioverebbe delle prestazioni di un prostituta: dietro ognuna di esse mi sembra che ci sia un storia di enorme tristezza. Come non mi farei mai una ragazza usandole violenza fisica. Ma una donna del genere..., colta sul fatto e sottomessa, costretta a piegarsi alla mia volontà. Glielo presi di mano con la mia destra e l’altra gliela posai sulla nuca e iniziai a sbatterle il cazzo in bocca ad un ritmo più sostenuto. Glielo ficcavo fino a sbatterle sul palato, sentendo la sua lingua sotto al glande, mentre lei mugolava soffocata, con le lacrime agli occhi. Non ci misi molto a sbatterle in gola il mio primo schizzo, poi lei riuscì a ritrarsi con il mio sperma che le colava dalle labbra, mentre altri schizzi le finivano in faccia, sulle guance e poi giù nel decoltè, sporcandole la vestaglia.
-Sei un bastardo...- mi disse ancora mezza soffocata, pulendosi la faccia con la manica della vestaglia.
Io le risi in faccia.
-Questo e solo l’inizio- le dissi. -Ora vai pure a sciacquarti la bocca.
Quando tornò aveva preso un’aria strafottente. Avevamo rotto il ghiaccio e si era fatta l’idea che ormai avrebbe sopportato tutto quello che potevo farle. L’avrebbe fatto, ma non le sarebbe stato facile come pensava in quel momento.
-Ecco,- mi disse. -Ora che altro vuoi, cazzetto.
Fu in quel momento che decisi che le avrei rotto il culo.
-Ora ti fai ammirare un po’, mentre ricarico le pile- le dissi sedendomi sulla brutta poltroncina a righe bianche blu. Le ordinai di togliersi la vestaglia, poi le dissi di ruotare su se stessa. Le feci fare da giostra, da pollo allo spiedo, per un po’. Aveva delle mutandine leggere, anonime, e la canottierina con uno schizzo di sperma sul seno destro. Quando mi stancai le disse di appoggiarsi con le mani al letto, per il gusto di guardarle il culo.
-Sei proprio una gran vacca da monta- le dissi. -Ora stai ferma.
Mi avvicinai e le posai la mano sul culo, con le dita che scivolavano nel solco, verso l’ano e giù verso la fica.
-E ora vediamo che c’è qui sotto.
Le feci scendere le mutandine fino a mezza coscia, chinandomi dietro di lei. Io non so granché di come funzionano certe cose, e per di più quella era la prima fica che vedevo così da vicino. Comunque sia, credetemi, molte donne, in quella situazione, si bagnano schifosamente. Il romanticismo condiziona le menti, ma i corpi di certe donne reclamano pura e semplice sottomissione. Non che le capissi, queste cose, allora, ma non posso certo ignorare il modo in cui le mie dita scivolarono dentro quel favo di miele.
-Bene bene, professoressa Martini. Sembra proprio che si stia eccitando.
-Vaffanculo, stronzo!
Le appioppai un bel sculaccione sonoro. Me lo godetti anche questo, assieme al gemito che le sfuggì.
-È meglio che tu inizi a portarmi un po’ di rispetto, puttana. Ora stenditi, che ho voglia di sbatterti.
Lei obbedì.
Obbedì anche quando le dissi, standomene ritto ai piedi del letto, di allargare le gambe. Aveva una fica che mi parve bellissima, tutta aperta. Le fui sopra lentamente, dopo avergliela annusata, dopo averci ficcato dentro il naso e la lingua, dopo essermi impregnato le labbra del suo miele. Quando arrivai a bussare alla sua fica con il mio cazzo le ordinai di aprirsela. Lei si guidò la mia cappella sull’ingresso e io mi fermai sopra di lei.
-Ora ti scopo- le dissi. Afferrai i suoi polsi e li portai sopra la sua testa. Li tenni così con la mano sinistra mentre con la destra le presi la mascella, forzandola a guardami dritto negli occhi. Ancora con la punta del cazzo appena sulla sua porticina, avvicinai il mio viso al suo.
-Mi fai male,- disse.
-Zitta- le risposi,- e apri la bocca.
Fissandola negli occhi le infilai la mia lingua in bocca e solo allora spinsi il mio uccello dentro di lei. Ci entrò come nel burro, a quella puttana della Martini. La scopai così per un bel po’, con più foga che mestiere, dopo averle lasciate libere le mani. Mi avvinghiai al suo corpo cercando di ficcarle dentro quanto più cazzo mi riusciva. D’un tratto le ripresi il viso tra le mani e le dissi di dirmi che era la mia puttana, la mia grande puttana.
-Sono la tua puttana, la tua grande puttana – disse con la voce rotta. Tirai fuori il cazzo per il gusto di schizzarle sulla pancia e sui seni.
[continuo? By Cabot]
Scoprii questa mia propensione al penultimo anno di liceo e, credetemi, fu come se un fulmine mi si fosse ficcato dentro, non appena la formulazione di un desiderio si fuse con la comprensione che tale desiderio, per quanto depravato o vigliacco fosse, potevo realizzarlo, e che l’avrei fatto.
Il fulmine mi colpì davanti alla porta di una camera di albergo, la 324, una mattina di primavera. La porta era socchiusa quel che bastava per vedere, riflessa nello specchio che stava appena di lato, dentro la camera, la professoressa Martini che, in tutta fretta, prima di scendere con tutti gli altri a prendere l’autobus, si preparava una striscia di cocaina sul comodino accanto al letto. Fu come un fulmine, ho detto, perché come realizzai quel che avrei potuto farle, realizzai che lo desideravo assurdamente, e che potevo ottenerlo perché in mano avevo la vecchia telecamera superotto che i miei mi avevano dato per riprende monumenti e ruderi ma che io, in quel momento, usai per filmare la mia professoressa di inglese che tirava della coca con una cannuccia nel naso. Riuscii a riprendere non più di una decina di secondi, poi lei si ricompose stropicciandosi il naso e io proseguii verso l’ascensore pensando che ormai era mia.
La Martini all’epoca aveva 35 anni ed era senz’altro uno dei sogni proibiti del liceo salesiano che frequentavo. Castana chiara, non molto alta ma formosa, e con una bocca che, quando infilava la lingua tra i denti per mostrarci il modo corretto per pronunciare la parola “thing”, faceva sorgere tanti brutti pensieri in tutti noi. Era una tipa simpatica, ma anche severa e, quando ci si metteva, pure rompicoglioni. Per tutto il giorno la guardai e pensai a come filare la mia ragnatela e man mano che la trama prendeva forma i miei sguardi, di solito bassi e timidi, si facevano più sfacciati. Quel giorno aveva una gonna larga che le scendeva sotto al ginocchio, roba a trame scozzesi, le calze color carne, un maglioncino leggero, con il collo a “V” e ad un certo punto non poté non accorgersi che la stavo fissando, immaginandomi le sue curve sotto a quei vestiti, e che intimo usasse. Per un attimo mi fissò interrogativa ed io, solitamente timido e schivo, ricambiai il suo sguardo divertito.
-Silvestri, che c’è da ridere?- mi disse indispettita, visto che per lei ero solo uno dei peggiori studenti della classe.
-Niente prof, niente.
Lei fece spallucce. Non si notava per niente che si era drogata quella mattina, ma questo, per quel poco che sapevo, significava solo che lo faceva abitualmente.
Dormivo in camera con altri tre tizi che di sicuro sarebbero scesi al bar non appena i salesiani di guardia se ne sarebbero andati a dormire. Così accadde e, poiché non ero molto popolare in classe, non si sognarono neanche di invitarmi. Ma stavolta la cosa non mi ferì e, appena loro se ne andarono, io presi la cornetta e feci il numero 324.
-Si può sapere che hai a quest’ora, Silvestri?- mi disse seccata, aprendomi la porta alcuni minuti dopo.
-È una cosa personale, professoressa, non potrei entrare un attimo?
Lei mi guardò indagatrice, ben conscia che non gliela raccontavo giusta ma anche incuriosita da quel mio comportarmi in modo strano. Aveva indosso una vestaglia lilla da cui spuntavano le gambe nude.
-E non puoi andare da Don Roberto?
-No, mi creda, è meglio che ne parli prima con lei- dissi. E poi aggiunsi perfido: - da Don Roberto magari ci andiamo dopo.
Due minuti dopo lei crollava a sedere sul letto, sconvolta. Io ero stato tenero, come se la cosa mi dispiacesse. Le avevo detto come l’avevo sorpresa, che l’avevo vista bene, e lei era sbiancata ben sapendo che non solo una cosa del genere poteva farla cacciare da quell’istituto, ma le avrebbe rovinato la vita. Mi sedetti accanto a lei e le posai un braccio sulla schiena. Lei si teneva la faccia tra le mani e pareva sul punto di piangere, non si accorse nemmeno che la mia mano, dalla schiena era scesa sotto l’ascella, ormai conscia che la donna era senza reggiseno. D’un tratto si riprese e si allontanò.
-Ma che stai facendo?
Io allungai una mano e presi la sua.
-Non capisce? Io ho il filmato...- mi portai la sua mano alle labbra e le baciai le dita.
-Ma, che cazzo!- disse furente -come ti permetti!
Si alzò in piedi e si piantò davanti a me indicandomi la porta: -Vattene subito da qui, piccolo bastardo!
Io mi alzai e feci come mi aveva detto.
-Io sto alla camera 319. Se non mi chiama entro le 11 in punto, io vado da Don Roberto.
-VATTENE!- gridò.
32 minuti dopo mi riaprì la porta della camera. Per telefono aveva detto solo “vieni” in un tono così afflitto, da donna spezzata, che il solo suono metallico di quella parola mi aveva pompato il cazzo di sangue come non mi era mai capitato. Ma il vederla lì, umiliata, con gli occhi ancora arrossati dal pianto, mi diede un senso di potere, di viscido e schifoso potere addosso, di cui ancora oggi non riesco a fare a meno.
Mi ero fatto un’idea abbastanza precisa di ciò che sarebbe accaduta quella notte e quindi, si può dire che, com’era nel mio carattere, non lasciai nulla al caso. La seguii all’interno della camera assaporando già la sua carne sotto la vestaglia. Lei si voltò e, in un sussulto di orgoglio, mi disse: - Sia ben chiaro che stasera... è un’eccezione.-
Io mi avvicinai mentre lei indietreggiava verso la finestra.
-Non hai portato la pellicola...- disse.
Io mi avvicinai ancora e le posai le mani sui fianchi. Erano opulenti, riempivano le mani. La tirai a me e lei scostò il viso.
-No. La bocca no- disse con un filo di voce.
Io le presi il mento tra le dita e la voltai verso di me. Io ero già un omaccione goffo, alto, non bello e se i compagni di classe si limitavano ad ignorarmi era perché ero piuttosto robusto. Le feci sollevare il viso verso il mio e le dissi: - Senta, giusto per chiarire le cose. Mancano quattro notti per la fine della gita e lei, se non vuole che io vada a dire tutto ai preti, agli sbirri, ai giornali..., se lei non vuole tutto questo, professoressa Martini, in queste notti sarà la mia puttana. Ha capito?, la mia puttana. E, giusto per capirsi meglio, ora le farò capire che con quella sua bocca farà quello che dico io.
La spinsi a sedere sul letto godendomi l’effetto che le mie parole avevano ottenuto su di lei. I suoi occhi mi dissero che si sentiva persa, timorosa di tutto e disposta a tutto pur di salvarsi. Sedendosi, la vestaglia le si era aperta sulla canottiera bianca che copriva i bei seni maturi. Con mia sorpresa notai che aveva i capezzoli sporgenti. Risi, quando cercò di coprirsi, e senza altri complimenti abbassai la zip dei jeans e tirai fuori l’uccello.
Da quel poco che sapevo di uccelli, il mio non era un mostro quanto a dimensioni, e forse nemmeno quanto a resistenza. Tuttavia, come ebbi modo di capire in seguito, aveva la stimata qualità di ricaricarsi molto in fretta (e parecchio), e questa era un dote che Silvia, la ragazzina dal culo grosso che aveva fatto la cortesia di darmela alcuni mesi prima, non aveva ancora l’età per apprezzare.
La Martini invece, ne avrebbe approfittato in pieno.
-Ora lei me lo succhia per bene- le dissi -o quant’è vero Dio chiamo i carabinieri adesso. Scommetto che ha ancora polverina da qualche parte. E se non ce l’ha, gliela troveranno nel sangue.
Oh, certo che qualcuno dirà che non sono affatto una brava persona, ma se aveste potuto vedere la faccia della mia cara insegnante davanti al mio cazzo, mentre lo prendeva con un mano e se lo portava alla bocca.... Le sue belle labbra si aprirono e fecero passare il mio glande, grosso e teso da scoppiare. La sensazione fu magnifica, davvero sorprendente, anche se come bocchinara non pareva granché. Pensai che fosse una questione di impegno e la sollecitai a succhiarmelo per bene. “Succhialo bene, puttana” le dissi. C’è da dire, in proposito che io non sono decisamente il tipo che si gioverebbe delle prestazioni di un prostituta: dietro ognuna di esse mi sembra che ci sia un storia di enorme tristezza. Come non mi farei mai una ragazza usandole violenza fisica. Ma una donna del genere..., colta sul fatto e sottomessa, costretta a piegarsi alla mia volontà. Glielo presi di mano con la mia destra e l’altra gliela posai sulla nuca e iniziai a sbatterle il cazzo in bocca ad un ritmo più sostenuto. Glielo ficcavo fino a sbatterle sul palato, sentendo la sua lingua sotto al glande, mentre lei mugolava soffocata, con le lacrime agli occhi. Non ci misi molto a sbatterle in gola il mio primo schizzo, poi lei riuscì a ritrarsi con il mio sperma che le colava dalle labbra, mentre altri schizzi le finivano in faccia, sulle guance e poi giù nel decoltè, sporcandole la vestaglia.
-Sei un bastardo...- mi disse ancora mezza soffocata, pulendosi la faccia con la manica della vestaglia.
Io le risi in faccia.
-Questo e solo l’inizio- le dissi. -Ora vai pure a sciacquarti la bocca.
Quando tornò aveva preso un’aria strafottente. Avevamo rotto il ghiaccio e si era fatta l’idea che ormai avrebbe sopportato tutto quello che potevo farle. L’avrebbe fatto, ma non le sarebbe stato facile come pensava in quel momento.
-Ecco,- mi disse. -Ora che altro vuoi, cazzetto.
Fu in quel momento che decisi che le avrei rotto il culo.
-Ora ti fai ammirare un po’, mentre ricarico le pile- le dissi sedendomi sulla brutta poltroncina a righe bianche blu. Le ordinai di togliersi la vestaglia, poi le dissi di ruotare su se stessa. Le feci fare da giostra, da pollo allo spiedo, per un po’. Aveva delle mutandine leggere, anonime, e la canottierina con uno schizzo di sperma sul seno destro. Quando mi stancai le disse di appoggiarsi con le mani al letto, per il gusto di guardarle il culo.
-Sei proprio una gran vacca da monta- le dissi. -Ora stai ferma.
Mi avvicinai e le posai la mano sul culo, con le dita che scivolavano nel solco, verso l’ano e giù verso la fica.
-E ora vediamo che c’è qui sotto.
Le feci scendere le mutandine fino a mezza coscia, chinandomi dietro di lei. Io non so granché di come funzionano certe cose, e per di più quella era la prima fica che vedevo così da vicino. Comunque sia, credetemi, molte donne, in quella situazione, si bagnano schifosamente. Il romanticismo condiziona le menti, ma i corpi di certe donne reclamano pura e semplice sottomissione. Non che le capissi, queste cose, allora, ma non posso certo ignorare il modo in cui le mie dita scivolarono dentro quel favo di miele.
-Bene bene, professoressa Martini. Sembra proprio che si stia eccitando.
-Vaffanculo, stronzo!
Le appioppai un bel sculaccione sonoro. Me lo godetti anche questo, assieme al gemito che le sfuggì.
-È meglio che tu inizi a portarmi un po’ di rispetto, puttana. Ora stenditi, che ho voglia di sbatterti.
Lei obbedì.
Obbedì anche quando le dissi, standomene ritto ai piedi del letto, di allargare le gambe. Aveva una fica che mi parve bellissima, tutta aperta. Le fui sopra lentamente, dopo avergliela annusata, dopo averci ficcato dentro il naso e la lingua, dopo essermi impregnato le labbra del suo miele. Quando arrivai a bussare alla sua fica con il mio cazzo le ordinai di aprirsela. Lei si guidò la mia cappella sull’ingresso e io mi fermai sopra di lei.
-Ora ti scopo- le dissi. Afferrai i suoi polsi e li portai sopra la sua testa. Li tenni così con la mano sinistra mentre con la destra le presi la mascella, forzandola a guardami dritto negli occhi. Ancora con la punta del cazzo appena sulla sua porticina, avvicinai il mio viso al suo.
-Mi fai male,- disse.
-Zitta- le risposi,- e apri la bocca.
Fissandola negli occhi le infilai la mia lingua in bocca e solo allora spinsi il mio uccello dentro di lei. Ci entrò come nel burro, a quella puttana della Martini. La scopai così per un bel po’, con più foga che mestiere, dopo averle lasciate libere le mani. Mi avvinghiai al suo corpo cercando di ficcarle dentro quanto più cazzo mi riusciva. D’un tratto le ripresi il viso tra le mani e le dissi di dirmi che era la mia puttana, la mia grande puttana.
-Sono la tua puttana, la tua grande puttana – disse con la voce rotta. Tirai fuori il cazzo per il gusto di schizzarle sulla pancia e sui seni.
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