La pecora nera
di
bianca_
genere
incesti
[DLIN-DLON]
Il giorno in cui Matilde discusse la tesi di laurea i suoi genitori non erano presenti.
Non che fossero persone poco affettuose o distanti ma il fatto è che, molto semplicemente, lei non li avvisò.
Sapeva già che ci sarebbero rimasti male, era fin troppo facile intuire il disappunto ferreo con cui avrebbe reagito suo padre e le lacrimucce dispiaciute di sua madre, ma Matilde era fatta così.
Per quel giorno non voleva chissà quali cerimonie intorno a lei, non era di certo come sua sorella che, solo pochi anni prima, era stata protagonista di una grande festa che neanche una quinceañera sudamericana, coi parenti arrivati da lontano, il ristorante sfarzoso e i confetti rossi tutti infiocchettati.
C’è anche da dire che a differenza di Letizia, che l’università l’aveva finita grazie all’oneroso contributo dei loro genitori, Matilde lavorava già da qualche anno e poteva quindi, con un certo orgoglio, dichiarare che la sua laurea l’aveva conquistata col proprio sudore.
Ogni mattina si alzava presto per andare a fare i caffè al bar, il pomeriggio si divideva fra i libri, le ripetizioni a qualche ragazzino e un lavoretto in un call center, che le aveva permesso di pagarsi anche l’affitto di un piccolo appartamento, così che fosse ancora più netta la sua indipendenza.
Ai genitori lo avrebbe detto poi, buttandolo lì come se niente fosse, si immaginava una cosa tipo “tra l’altro mi sono laureata la settimana scorsa” pregustandosi la loro espressione sbalordita e rassegnata, neanche troppo sorpresi dall’ennesima delle sue stravaganze da anticonformista.
Non era una sadica, non provava chissà quale soddisfazione nel dare dispiacere alla sua famiglia ma aveva, ormai da qualche anno, raggiunto la consapevolezza che i suoi vivessero su un pianeta totalmente diverso dal suo.
Suo padre e sua madre avevano passato la vita a costruire un castello di sicurezza e benessere (soprattutto economico) così che alle loro principesse non mancasse mai nulla e se l’impresa era ben riuscita con l’adorata primogenita non si poteva di certo dire lo stesso con la seconda arrivata, che da quel rifugio solido era ben presto volata via, grazie a un nutrito gruppo di amici invisibili, scoprendo insieme a loro gli innumerevoli significati della parola “evasione”.
Musicisti, scrittori, artisti di ogni tempo, un mondo intero di immagini, colori, suoni e parole che le sembrarono infinitamente più preziose di qualsiasi bene materiale. Scie nebbiose di magia che irradiavano da quella che divenne la sua passione più grande: il Cinema.
“Inchieste di celluloide – ispirazione civile e denuncia sociale nel cinema italiano degli anni ‘70” questo il titolo della sua tesi, un modo un po’ bizzarro di rispondere a suo padre, che l’avrebbe voluta magistrato.
Così, quel giorno importante, ad attenderla fuori dalla facoltà trovo solo Claudia, la sua migliore amica, armata di un mazzolino di fiori profumati che niente avevano a che vedere con lo sfarzo e proprio per questo risultarono ancora più preziosi e graditi.
Claudia non le chiese neanche com’era andata, sapeva bene quanto la sua amica cervellona si fosse impegnata ed era fin troppo sicura che avesse preso il massimo dei voti, si limitò quindi a ribadire la sua esigenza più impellente:
«Stasera si fa festa? Ho già chiamato un po’ di gente!».
«Ehi – rispose Matilde rigirandosi il mazzolino fra le mani – ti ricordo che sono una neo laureata!».
«Ha ragione, “Dottoressa”, che ne direbbe di una sbronza colossale in compagnia di alcuni dei peggiori ceffi della città?».
Scoppiarono a ridere insieme, si presero sottobraccio che quasi sembrarono una coppia di sposine, in marcia verso il paese dei balocchi, per la luna di miele, ovviamente.
[DLIN-DLON]
Verso le dieci di quella stessa sera si ritrovarono al Macondo, alle prese con il terzo giro di cocktail.
C’erano alcuni compagni di università, colleghi di lavoro e gli amici di sempre.
C’era anche Francesco, che lavorava al call center, in forma davvero smagliante. Continuava a far battute un po’ su tutto, alleggerito dall’alcol, finalmente lontano dalla grigia routine dell’ufficio.
Matilde lo ascoltava, ridendo, distratta da un pensiero che le ronzava in testa già dalla mattina e che ora, in mezzo a tutta quella euforia, sembrava chiedere finalmente concretezza. Perché la verità è che c’era qualcuno nella sua famiglia a cui sentiva il bisogno di comunicare di essersi appena laureata, l’unica persona con cui condividere un momento così importante.
Così prese il telefono, cercò il contatto e digitò un messaggio, breve ed efficace:
“Ho preso 110”.
Poi si scolò il resto del suo White Russian e si alzò in piedi, iniziando a duellare con Francesco a suon di frecciatine che monopolizzarono l’attenzione e l’ilarità di tutti.
Una giostra di bicchieri e voci sempre più alte, fra i “mi accompagni a fumare una sigaretta?” e i baci di chi pian piano si congedava dalla festa “ancora congratulazioni, Mati, io vado a casa, ti chiamo domani”, un altro giro di bevute, la passeggiata al chiaro di luna, gli echi delle ultime risate fino a che, poco dopo le due del mattino, Matilde entrò barcollando nel suo bagno, si guardò allo specchio riconoscendo lo sguardo languido e il rossore sulle guance tipico della festa, sorrise, poi sbuffò e si sedette sulla tazza per lasciar defluire un po’ di tutta quella marea alcolica.
Di nuovo prese il telefono e constatò, senza sorpresa, che il messaggio che aveva inviato mentre era al locale non era stato ancora visualizzato.
I gesti automatici del corpo la portarono a sfilarsi via il reggiseno dalla canottiera, poi si spostò sul bidè per una sacrosanta rinfrescata e infine si lavò i denti.
Erano ormai le quattro quando il suo smartphone vibrò illuminandosi nel buio, Matilde era ancora sveglia, lo prese e lesse il messaggio di chi la conosceva fin troppo bene:
“Lo hai detto ai tuoi?”.
“Non ancora.. ma tu che ci fai sveglio a quest’ora?”.
“Sono fuori con degli amici, tu hai festeggiato?”.
Matilde si voltò appena, vide il profilo del corpo nudo di Francesco, steso accanto a lei, sbronzo com’era aveva appena fatto in tempo a farsi una mezza scopata prima di crollare addormentato.
“Neanche tanto..” scrisse lei ghignando nel buio.
Adelmo, fratello di suo padre, non ricordava di averlo mai chiamato “zio”. Sarà che da sempre aveva avuto con lui un rapporto che sembrava molto più un’amicizia, così libera e scanzonata che in quel momento, ancora annebbiata com’era, pensò che avrebbe anche potuto dirglielo di aver appena fatto sesso con un suo collega che la tampinava da tempo ma lo scambio di messaggi continuò, lui le chiese di raccontare l’esame e come mai avesse mancato la lode al voto finale.
Matilde rispose che uno dei professori era evidentemente uno “stronzo fascista” e si era irritato quando lei aveva iniziato a parlare dei film di Petri e dei collegamenti fra la DC e la destra di quegli anni.
Risero insieme, a distanza di chissà quanti chilometri l’uno dall’altra, era già passato quasi un anno dall’ultima volta che si erano sentiti eppure avevano un codice tutto loro, che li portava a capirsi al volo, in un’intesa naturale che avevano sempre avuto.
Prima di salutarla Adelmo accennò al fatto che sarebbe tornato in Italia prima della fine dell’estate per sistemare “delle cose”.
“Beh.. voglio vedere se stavolta ti degni di passare a trovarmi!”.
“Aperitivo da Gianni?”.
“Guarda che Gianni ha chiuso da tempo, puoi venire a cena qui.. così ti faccio vedere la casa!”.
Rimasero così, senza un impegno preciso, un’altra delle cose che avevano in comune era il bisogno di non sentirsi mai pressati, liberi di poter sgusciare via da qualsiasi impegno. Una caratteristica per cui, tutti quelli che li conoscevano, finivano spesso per snervarsi.
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Adelmo e il padre di Matilde non avevano mai avuto un buon rapporto. Fin da quando erano piccoli avevano sviluppato caratteri troppo diversi per poter instaurare la complicità tipica di due fratelli, sembravano quasi figli di famiglie differenti.
Uno sempre ligio, con cucito addosso l’abito del bravo ragazzo, che si impegna a scuola per ottenere il massimo dei risultati.
L’altro nato ribelle, mai allineato alle regole ferree dei genitori, così curioso e intelligente da non aver bisogno di studiare chissà quanto per apprendere le sfumature della vita.
Le donne poi, col primo che a vent’anni aveva già conosciuto quella che sarebbe diventata sua moglie e il secondo, affamato di esperienze, incapace a fermarsi in una storia sola.
Le liti erano frequenti, come fossero incapaci di comprendere un essere così tanto diverso da sé. Quando il padre di Matilde si sposò e uscì di casa perse qualsiasi interesse per la vita di quel fratello tanto ingrato, sperando che la vita, prima o poi, gli desse la lezione che tanto meritava.
Adelmo era un solitario, tutto preso dal suo mondo, stare lontano dalla famiglia non gli pesava, sapeva che nessuno di loro avrebbe mai potuto comprendere le sue esigenze.
Quando la seconda figlia di suo fratello iniziò a crescere le cose cambiarono, anno dopo anno quella ragazza sembrò sviluppare con lui un’affinità che nessuno aveva, come fosse l’unica in grado di capirlo davvero.
Iniziarono a passare molto tempo insieme, dopo la scuola lei si presentava a casa sua e quei pomeriggi divennero terreno fertile per la fioritura del loro rapporto.
Ogni giorno guardavano un film, fermandosi poi per ore a commentarlo, discutendo sulle scelte del regista e l’interpretazione degli attori.
Fellini, Welles, Hitchcock, Kurosawa, Truffaut poi la malinconica ironia di Allen, le visioni di Kubrick e l’epica di Leone; divennero i loro compagni immaginari in quei simposi che non volevano avere mai fine.
Il cinema era sempre stata la grande passione di Adelmo, anzi di più, era il suo sogno, pensava di avere delle cose da dire e che la pellicola fosse il miglior modo per farlo.
Abbandonò l’università e iniziò a frequentare dei corsi, girò anche un paio di cortometraggi ma, così come per tante altre cose nella sua vita, il suo sogno non divenne mai concreto.
Poco prima di compiere quarant’anni decise di partire, in cerca di nuovi stimoli e storie da raccontare, si disse di lui che era stato in America e per un po’ aveva collaborato con un’artista mezza pazza di San Francisco, quando la storia finì si rimise in viaggio, perennemente a caccia di sé stesso.
Negli ultimi anni sembrava essersi quietato, si era trasferito nel sud della Spagna e aveva addirittura sposato una donna, iniziando a lavorare nel piccolo albergo della famiglia di lei.
Matilde era l’unica persona con cui era rimasto in contatto, si vedevano raramente ma tornavano sempre a cercarsi, al telefono, per un consiglio o un aggiornamento sulle reciproche vite.
La notizia della laurea lo riempì di orgoglio, era certo che quella ragazza così brillante sarebbe stata in grado di fare grandi cose, comprese quelle che lui non era mai riuscito a realizzare.
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Per quell’estate Matilde non aveva niente in programma, voleva solo godersi il meritato riposo di chi ha compiuto una grande impresa.
Qualche serata con gli amici, un bel weekend in Liguria, una puntata alle terme con Claudia e qualsiasi altra cosa non fosse stata troppo dispendiosa; nei suoi progetti c’era l’idea di regalarsi finalmente un bel viaggio nella primavera successiva, per questo aveva soprattutto un gran bisogno di risparmiare.
Erano già passate un paio di settimane dal giorno della laurea, aveva rivisto Francesco e le cose erano andate decisamente meglio. Non aveva alcuna necessità di chiedersi se quella fosse una semplice frequentazione o l’inizio di una storia, era bello passare del tempo insieme, che fosse in un bar, al cinema o in un letto madido di sudore.
La chiacchierata con suo zio era scivolata via con la brezza dell’estate, aveva smesso di pensarci e non era neanche certa che si sarebbero davvero rivisti.
Sapeva bene come era fatto lui e soprattutto quanto fosse simile a lei, era sempre stato così e forse proprio per questo nessuno si era mai lamentato della fuggevolezza dell’altro.
Ricordava bene che, quando era piccola e il pomeriggio si presentava da suo zio per vedere un film, con grandi resistenze da parte dei suoi genitori, soprattutto di sua madre che non sopportava di saperla passare il tempo con quello sconsiderato, erano capitate un paio di volte in cui lui aveva aperto appena uno spiraglio di porta, facendole capire che non era solo e avrebbero dovuto saltare il loro amato cineclub.
Lei ci era rimasta anche male, all’epoca aveva poca dimestichezza coi sentimenti ma sapeva di provare per suo zio un affetto particolare che, crescendo, si limitò poi a catalogare come un classico caso di cotta adolescenziale.
Per quanto fosse indubbiamente un uomo affascinante, di cui tra l’altro tutte le sue amiche erano invaghite, Matilde conosceva anche l’altro lato della medaglia, i tanti difetti che Adelmo aveva e che le fecero dichiarare, più di una volta, che mai avrebbe voluto un uomo del genere accanto a sé.
Successe un pomeriggio, verso la fine di luglio, mentre era in piscina con Claudia, Matilde ricevette un nuovo messaggio di suo zio che la sorprese, le disse che era arrivato in città da qualche giorno e che, se per lei andava bene, sarebbe passato a trovarla la sera stessa.
Le ci volle un po’ a realizzare che il preavviso era davvero poco per organizzare qualsiasi cosa, che avrebbe dovuto correre a casa, renderla presentabile e imbastire una parvenza di cena.
Lui le propose allora di ordinare una pizza ma lei la prese quasi come una sfida, forse aveva una gran voglia di fargli vedere che era cresciuta e che, ancora una volta, fosse una donna indipendente e autosufficiente.
Così lo salutò con un ultimo messaggio prima di iniziare a correre come una matta, ripetendo a mente tutto quello che aveva da fare, non che sentisse il bisogno di organizzare chissà quale serata di lusso, per carità, ma quello era pur sempre suo zio, gli voleva bene e aveva piacere nel rivederlo, voleva chiedergli della Spagna e di Verónica, magari, chissà, avrebbe anche raccontato di Francesco, ma la cena? Cosa avrebbe potuto preparare, aveva giusto il tempo di andare al supermercato, magari qualcosa di fresco, il vino poi, doveva anche metterlo in frigo e la casa, certo, era sempre fuori ultimamente e il suo piccolo appartamento era assolutamente impresentabile, il pesce, ecco, avrebbe potuto prendere quello, forse una pasta, chissà, ma che ore erano? Doveva correre, mandare il nastro a velocità raddoppiata senza mai fermarsi, con quel caldo, dio, certo che avrebbe potuto avvertirla con un po’ più di anticipo, diamine, chissà, chissà se avrebbe fatto in tempo a fare tutto prima del momento, di questo momento, in cui:
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«Arrivo!» dice Matilde pulendosi le mani con uno strofinaccio, il soffritto sfrigola che è una meraviglia, l’acqua bolle, i gamberi sono stati già puliti e aspettano di indorarsi nella padella rovente, un ultimo sguardo nello specchio all’ingresso per poi aprire la porta ed eccolo lì.
La prima cosa che colpisce di lui è sempre lo sguardo, quella luce negli occhi, l’alone elettrico di uno che potrebbe tranquillamente essere un pazzo, oppure un genio, oppure tutte e due le cose insieme.
La barba incolta, i capelli appena sfumati di bianco, la camicia chiara e la pelle abbronzata danno a Matilde l’impressione di trovarsi davanti al Giancarlo Giannini naufragato in un isola deserta nell’azzurro mare d’agosto.
Forse un po’ appesantito, ma da uomo pronto a indossare i cinquanta con un certo innegabile stile.
Restano a guardarsi per un po’, sorridendo, misurando gli anni che hanno smosso i loro volti e i loro corpi.
Poi però si abbracciano, palesemente felici di ritrovarsi.
«Quanti capelli bianchi!» dice lei con le guance rosa, accaldate dall’estate e dai fornelli.
«Ti ho portato il gelato – risponde il naufrago esibendo la vaschetta – nocciola, giusto?».
Poi è tutta una scena di caldo imbarazzo e luoghi comuni. Pochi, per fortuna pochissimi.
Lui che guarda la casa mentre lei torna ai fornelli «Che buon profumino», osservando un paio di foto appese al muro di lei con i suoi amici, di lei che non riesce mai a essere seria, per ogni scatto una smorfia o una linguaccia, in ogni espressione un piccolo gesto di ribellione.
«È quasi pronto, ti va di aprire il vino?».
Adelmo rientra in cucina, prende la bottiglia in frigorifero e si ferma, per un attimo, a guardare sua nipote che armeggia con le pentole.
Un paio di pantaloncini e una canottiera, così come qualsiasi ragazza alle prese con il caldo dell’estate, una ragazza che, in ogni gesto che fa, dimostra però di essere già una donna.
È cresciuta Matilde, con quei fianchi stretti e le forme morbide, non c’è dubbio alcuno sul fatto che sia il sogno di molti uomini e chissà, pensa Adelmo, quanti di loro sono stati in quella casa.
Il modo con cui si muove, quella grazia innata, quella femminile leggerezza di chi sembra sempre danzare nella propria luce, oscurando tutto il resto, un po’ come Silvana Mangano che balla il mambo in quel vecchio film di Lattuada.
Seduti uno di fronte all’altra, a sciogliersi di chiacchiere, fra i complimenti alla cena e i bicchieri che si riempiono.
La tesi, i progetti per il futuro e il racconto dettagliato del momento in cui i genitori di Matilde hanno saputo della laurea.
Lui la rimprovera un po’, ci prova a fare la parte dell’adulto ma poi non riesce a non ridere, immaginandosi la faccia ingessata di suo fratello.
Gli ultimi film visti, un paio di registi coreani dal nome impronunciabile che devi assolutamente recuperare e poi, d’un tratto, il motivo per cui lui è tornato in italia.
«Mi servono i documenti per il divorzio».
Matilde si dispiace, gli chiede di raccontare, vuole sapere cosa è successo ma, in cuor suo, non è poi così stupita, quell’uomo di fronte a lei ha un’anima inquieta, chissà cosa farà adesso, in quali altre impossibili avventure e in quali altri letti andrà a infilarsi.
«E tu? Non dirmi che sei sola perché non ci credo!».
«In realtà esco con uno..».
E via una nuova storia da raccontare, di un ragazzo quasi uomo che sicuramente è già stato lì a cena e che quel corpo luminoso lo ha avuto tutto per sé. In effetti, pensa Adelmo sorridendo, sarebbe strano immaginare il contrario.
«Prendo il gelato?».
«Sì, lo mangiamo sul divano, io vado un attimo in bagno e arrivo subito».
Matilde si guarda nello specchio, si sistema appena i capelli e poi si siede sulla tazza per lasciar defluire un po’ della bottiglia che ha appena scolato insieme a suo zio.
Guarda il telefono, risponde a un messaggio di Francesco che le chiede come va la serata dicendogli che lo chiamerà più tardi, appena Adelmo sarà andato via.
I gesti automatici del corpo la portano poi a sfilarsi via il reggiseno dalla canottiera e a spostarsi sul bidè per una sacrosanta rinfrescata.
Appena esce dal bagno vede suo zio intento a ispezionare la sua collezione di DVD, ne prende uno, lo esamina e poi chiede:
«”La pecora nera”? Cos’è.. un remake del film con Gassman?».
«Di quell’orrore con Gassman vorrai dire – dice lei franando sul divano – comunque no, è un film di Celestini».
«Ma Celestini non faceva teatro?».
«Fa ancora teatro! Fa anche dei bei film e anni fa ha inciso anche un disco!».
«Ma perché tutti si sono messi in testa che devono fare di tutto? Col risultato che poi non fanno bene nessuna cosa!».
«Vale per molti, è vero – risponde lei – ma quelli “bravi” fanno bene qualsiasi cosa!».
Botta e risposta al ritmo incalzante di chi trova un piacere immenso nel confrontarsi, una di quelle intese rare, che se uno non ha mai trovato in vita sua allora sì, ha perso davvero qualcosa.
«Lo mettiamo su?» propone Adelmo e lei accetta, lo ha già visto ovviamente ma tornare a guardare un film con suo zio le fa piacere, ancor di più pensare di essere lei, per una volta, a conoscere meglio di lui il lavoro di un regista.
Mentre Adelmo si siede sul divano osserva incuriosito sua nipote che traffica un po’ sotto al tavolino, fino ad estrarre una piccola scatola di legno con certi intarsi africani.
«Che fai?».
«Non vorrai mica spararti un polpettone simile senza un po’ di preparazione!».
E poi, con incredibile naturalezza, apre la scatola e tira fuori tutto il necessario per fare una canna, che non esiste modo migliore per aprire la mente ai “polpettoni” intellettuali, può far ridere, ma la verità è che dopo aver fumato il cervello gira che è una meraviglia, disegna idee illuminanti che sarebbero state impossibili in qualsiasi altra situazione.
Poi, è l’ipnosi iridescente del cinema, fotogrammi a rincorrersi per ricomporre le dinamiche di una storia, i personaggi che emergono dal nulla e ti sembra di averli sempre conosciuti, gli spettatori, che cedono all’inganno dello schermo, se lo lasciano brillare negli occhi, con bocche appena aperte e cuori rallentati, come se, ogni cosa, lì intorno, smettesse di esistere, per circa un paio d’ore.
Matilde e Adelmo seguono il film in silenzio, sanno bene che i commenti è meglio farli “dopo”, ogni tanto si passano il piccolo cilindro di carta fumante che tra poco farà sicuramente venire voglia di aprire quel gelato che attende sul tavolino.
Ridono insieme, quando compare il personaggio della suora petomane, compiono la doppia impresa di rilassarsi e accendersi di attenzione a ogni singolo dettaglio, finendo col dimenticare tutto il resto.
Così lei, senza neanche pensarci, si stende sul fianco, mettendo la testa sopra le gambe di suo zio.
Così lui, con un istinto quasi paterno, le porta una mano sulla nuca, e inizia ad accarezzarla.
Scorrono le immagini, scorrono le vite, girano i destini così come gira il mondo, la mano trova il collo, e come ogni volta che questo succede, inizia ad accarezzarlo, mentre una storia di pazzi e manicomi si riflette negli occhi, sempre più svegli e sempre più languidi.
Poi lei si stiracchia, ruotando il proprio corpo, finendo col distendersi sulla schiena, così che la mano scivolando sulla pelle si ritrovi ora sulla gola, senza smettere di accarezzare, senza smettere di diteggiare quella lucida morbidezza.
Lentamente, senza neanche pensarci, a mo’ di coccola che porta conforto, le dita di Adelmo scorrono alla cieca, con distrazione e noncuranza, fino a che lei si muove e prende quella mano fra le sue, ci schiocca un rapido bacio e poi la rimette lì, appena più in basso, come a dire: continua.
Qualcosa di soffice sotto ai polpastrelli, qualcosa che scalda, l’inizio della curva dei seni, ancora lontani eppure mai così vicini.
Salirci lassù, mentre qualche respiro inverte la sua rotta, salirci e stupirsi di tanta abbondanza, senza ancora rendersi conto ma iniziando già a ripetersi che Matilde è davvero cresciuta.
Altre risate a smorzare tensione, per il goffo protagonista del film che prova a conquistare la sua bella cassiera, mentre la carne si schiude in un solco che dà le vertigini, come si avesse paura di caderci dentro, a percorrerlo, seguendo la curva e ritrovandone finalmente la fine, avvertirne la pesantezza, per poi con l’ennesima fatale distrazione raccogliere le dita e graffiare appena un capezzolo, già incredibilmente turgido.
Che il film si guarda con gli occhi e con la testa, il corpo lo si lascia in disparte, a cercarsi un modo qualsiasi per combattere la noia.
Adelmo le passa la canna, con la mano libera ovviamente, quella più sfortunata, quella che non sta continuando a smarrirsi dentro quella canottiera per poi ritrovarsi ogni volta lassù, sulla pelle increspata, che chiede di essere pizzicata.
Matilde fa un paio di tiri e alza le braccia per ridargli il testimone, poi però le lascia cadere verso l’alto, sopra la propria testa, in un nuovo stiracchiamento rilassato che si placa solo quando le braccia si posano sulle gambe di suo zio.
Forse è il movimento, forse è quel piccolo enorme trambusto, forse è che il seno e la mano si cercavano da tempo e ora finalmente si incontrano appieno, per una sola frazione di secondo che nessuno potrà mai dimenticare.
Ma è solo la prima, perché poi arriva un’altra palpata, delicata, ad afferrare per poi subito lasciare, tornando poi a sfiorare, a pizzicare, a coccolare quelle grosse tette a mo’ di godimento, di piacere già da tempo inopportuno, che nessuno vede e nessuno può frenare, che danza al tempo della tortura, che scioglie i nervi e soffoca i cuori, che muove fili invisibili di quelle benedette mani, quelle di lei, che si muovono inquiete fino ad avvertire qualcosa di duro e da lì non si spostano, che saggiano consistenza di maschio oltre cui è solo il precipizio di un uomo, che ora si voltano provando ad afferrare l’impossibile.
Ora sì, Adelmo si ferma, sfila le mani dalla canottiera e si alza in piedi, con l’aria di uno che è entrato nella casa sbagliata.
«Io ho sete – dice senza voce – vado a prendere qualcosa da bere..».
«Hai sete?» chiede lei, domandando tanto altro, lui si volta a guardarla e quasi stenta a riconoscerla.
Se ne sta lì seduta coi capelli in disordine, gli occhi brillanti, una spallina della canottiera scivolata lungo il braccio così che un grosso seno sia completamente scoperto.
Attimi di sospensione che nessun bravo attore riuscirebbe a replicare mai, a parlare senza parlare, a respirarsi senza potersi toccare.
«Dai, vado io..» dice infine Matilde alzandosi in piedi, ritrovandosi a passare nello spazio troppo piccolo fra suo zio e il tavolino, che inevitabilmente li porta uno stretto di fronte all’altra, che ha evidentemente dimenticato di ricoprirsi.
La pelle morbida schiacciata contro la camicia, il capezzolo che spinge sulla stoffa, le facce che si guardano e in qualsiasi altra situazione si sarebbero scontrate in un bacio.
Lui che muove le mani e lei che lo blocca, con forza, sembra quasi una lotta tra il prendimi e il vattene, a strattonarsi in un modo che non ha alcun senso, fino a che lei, provando a sfuggire da sé stessa, si volta e lui, inevitabilmente, si schiaccia dietro la sua schiena.
L’ipnosi del cinema, certo, ma il film non è ancora finito, la canna, magari è quella, anche se è stata fumata solo per metà.
Sta di fatto che lui spinge e lei accoglie, sentendo prepotenza fra le natiche.
Forse è perché ora non si vedono negli occhi e possono fingersi lontanissimi da lì, forse è per questo che lui fa scorrere le mani sui fianchi di sua nipote, vogliose di riprendersi tutta quella morbidezza.
Una sul seno nudo, ad appropriarsene, l’altra che si muove senza sapere dove andare, ritrovandosi sulla pancia, scivolando in giù, fino a giocare col bordo dei pantaloncini.
Si scioglie Matilde, così come ogni femmina che si fa preda, non sa più cosa vuole che succeda, qualcosa dentro di lei corre così forte da non farsi più afferrare, di nuovo si stacca dalla morsa in un nuovo impeto rabbioso, ma poi si volta e quasi a volerlo provocare gli mette una mano fra le gambe, afferrando forte tutto ciò che i pantaloni nascondono.
Come a dire: non so più chi tu sia, ma ricordati che io sono una donna.
E ora è tutto frenetico, tutto veloce, tutto frenetico e tutto vorace, lei che lo palpa con forza, lo stringe, lui che le blocca il polso e prova a fermarla un’ultima volta, lei che lo scaccia e infila le dita nel bordo dei pantaloni, li strattona, come non sapesse più come si aprono, come volesse che sparissero senza quella inutile manfrina di zip e bottoni.
Adelmo precipita nella voglia di darle un bacio assurdo ma lei lo blocca con la mano che quasi sembra uno schiaffo.
Se davvero è una danza allora è la più estenuante che ci sia, le bocche aperte a cercare aria e gli occhi assenti a sfocare la realtà.
Dovrebbero dirsi qualcosa e non hanno più fiato, dovrebbero andarsene da lì ma non sanno più come fare.
Tutto succede in un attimo, in un unico ciclo di movimenti legati dallo stesso cieco desiderio.
Matilde fa per andarsene.
Adelmo la afferra per un braccio.
Poi le tira su quella dannata spallina, senza sapere perché.
Lei la prende come l’ennesima sfida.
Sbuffa.
Raggiunge con le dita il bordo della canottiera.
E se la sfila via.
Di fronte a quelle tette meravigliose, lucide del sudore di che sta lottando con il proprio istinto, di chi sta urlando in silenzio “ti voglio” e non so se posso averti.
Adelmo naufraga, stavolta davvero, un qualche mare lo porta via e non trova altro da fare che sia rispondere a quella sfida, afferra la camicia e prova a sfilarsela dalla testa, senza sbottonarla, così che si incastra e lei è costretta ad aiutarlo, così che ora ridono insieme e, entrambi a petto nudo, si abbracciano.
E mai nessun abbraccio fu più grande e più forte, mai nessun contatto fu così prossimo al godimento.
Lei infila la faccia nel collo di suo zio, lo respira e lo bacia.
Lui le accarezza la schiena, con mani frenetiche, da uomo disperso nel mare che cerca un approdo da cui farsi salvare, le dita trovano i pantaloncini e ci si nascondono dentro, iniziando poi a stringere forte le natiche nude di sua nipote.
Ogni limite infranto ne invoca un altro, ogni passo di danza dà il via a una nuova folle trasgressione, Matilde muove le mani e ricorda com’è che si annientano un paio di pantaloni, li abbassa e fa lo stesso con le mutande, iniziando poi a strusciare i polsi in quello scoglio duro di maschio eccitato.
Lo ha già visto, di sfuggita, tanti anni fa, tra le falde di un accappatoio allacciato con troppa fretta e fra i mille pensieri che quel giorno aveva fatto ce n’è uno che ora diventa concreto, quello di afferrare il cazzo di suo zio e stringerlo forte, con la voglia disperata di possederlo.
No, non lo sta masturbando, si limita a tenerlo, forse per il bisogno di non lasciarlo più andar via.
L’ultimo assalto è tutto in una frase, una di quelle a cui un bravo sceneggiatore avrebbe affidato l’innesco di una scena intera. Matilde la sussurra all’orecchio di suo zio, fermandogli per un attimo il cuore, poi si volta e si inginocchia sul divano, piegandosi in avanti, in quella posa che è allo stesso tempo un modo per offrirsi e per dichiarare la propria voglia di godere.
Adelmo se ne sta lì, col cazzo dritto che punta verso gli ormai inutili pantaloncini di sua nipote.
Chissà se un’ultima volta ci pensa a cosa sta per fare, chissà se riuscirebbe ancora a resistere a quel sussurro di donna.
Un dolcissimo schiaffo sulle natiche è il suo modo di rispondersi, la mano resta lì a palpare, le dita risalgono a sfilare via, l’ultimo ostacolo rimasto alla loro pazzia condivisa.
Quanto è cresciuta Matilde, quanto è femmina adesso, mentre attende di essere scopata, con le cosce dischiuse a svelare la propria umida intimità.
Quanto è facile, adesso, lasciarsi andare all’abisso, prenderselo in mano e appoggiarglielo fra le labbra, sentire caldo, tremare, cedere all’impossibile, afferrarle i fianchi e chiudere gli occhi, scivolare in quella carne accogliente e riaprirli solo per guardarsi sparire dentro il corpo di sua nipote.
La stanza buia, illuminata solo dallo schermo, un film che nessuno sta più guardando, una storia di pazzi affamati che saccheggiano i supermercati, le cui ombre si riflettono sui corpi nudi di un uomo e una donna, che iniziano ad agitarsi, a muoversi, la schiena di lei negli occhi di lui, le mani da naufrago sulla carne di ragazza, senza chiedersi più chi sia.
La pecora nera, posizione animale per un amplesso oscuro di peccato, sempre più forte e sempre più veloce, a sbattersi contro e ad ansimare, quanto urla Matilde, quanto si lamenta quando gode, chissà se anche tutti gli altri maschi l’hanno sentita lasciarsi andare così.
Come spinge Adelmo, con quelle mani che schiaffeggiano e il cazzo grosso a scavarla dentro, così come ha già fatto per chissà quante altre donne.
È tutto ciò a cui pensano, alla meraviglia di possedere un essere così unico, così bello, alla perversione di frantumare qualsiasi morale in nome del piacere, che di corpi ne hanno avuti tanti, certo, ma mai è stato tutto così forte.
Adelmo si piega su di lei e le afferra i seni, iniziando a strizzarli, continuando a sbatterla da dietro, ripensa a quella frase, a quel sussurro e sa che ora può liberarsi, i colpi si fanno cadenzati, ad ogni affondo lei geme, stretta in quella morsa, tirando su la testa per cercare contatto con la sua faccia, guancia contro guancia, barba contro morbidezza, fino a sentirsi svanire, schizzandole dentro il proprio seme, la propria vita, il proprio sperma e il proprio amore.
È ormai notte fonda.
C’è già stata la separazione dei corpi sudati e la stretta forte di un abbraccio ancora incredulo.
C’è stata la doccia e c’è stata una telefonata, piena di piccole grandi bugie, con voce stanca di chi ha un gran bisogno di rimandare tutto a domani.
Matilde è rannicchiata nel suo letto, con indosso solo una vecchia t-shirt.
Il corpo nudo di suo zio la avvolge da dietro, in un buio silenzio che non consente a nessuno di dormire.
La testa poggiata sulle braccia di Adelmo, il suo odore mai così forte, quelle mani grandi davanti agli occhi, prenderne una e soffiarci un bacio, così come fatto poche ore fa, quando ancora niente era successo.
Un altro bacio, più intenso, poi un morso poi, qualcosa che torna a smuovere i respiri, la bocca che si apre e la lingua che assaggia, le stesse mani che le hanno lasciato splendide impronte rosse sulla pelle.
Matilde lecca le mani di suo zio, non sa neanche perché, forse che quella veglia agitata chiede ancora qualcosa al loro incontro.
Risalire lungo le dita, inumidirle con la propria saliva e chiudere le labbra, iniziando a succhiare il pollice, come qualsiasi bambina alle prese coi suoi sogni.
Adelmo ha perso ogni concezione del tempo e dello spazio, dove si trovano adesso? Che anno è? Quella bocca che succhia nel buio, una nuova scarica nel corpo, una mano che scivola sulla t-shirt, riassapora la morbidezza dei seni e va infilarsi fra le cosce.
Lei che le apre e lo lascia fare, lei che ha voglia di un ultimo azzardo in quella che, entrambi sanno, sarà la loro unica notte insieme.
Il sesso di sua nipote, la fica calda di una donna, ancora umida di desiderio, scivolarci dentro con le dita, iniziare a massaggiarla mentre lei ancora gli mangia il dito.
Com’è piccola ora Matilde, com’è dolce quella sua nuova invenzione, lasciarsi masturbare da suo zio prima di addormentarsi.
Senza alcuna foga e alcuna fretta, meno animali e molto più teneri, due corpi stretti nel buio, due cuori sincronizzati da sempre.
La mano inizia a roteare, così come maschia sapienza impone, sentendola contorcere e succhiare, tirare fuori la lingua e tornare a leccare, come non fosse solo un dito ma tutto l’uomo che lo possiede, tutto il suo corpo, il suo petto, le sue gambe e il suo cazzo.
Gli spasmi di chi sta per godere, di donna che fiorisce nel proprio orgasmo, la fica fradicia e il petto che ansima, fino a distendere i nervi, mordendo la mano, soffocando un ultimo grido notturno, prima di lasciarsi andare al sonno.
Nella luce tenue che entra dalla finestra Adelmo la guarda, gli occhi chiusi e le labbra umide, appena aperte.
Il respiro ora calmo, di chi si sente infinitamente al sicuro.
Immagini sovrapposte dal tempo e dai ricordi, quello stesso abbraccio e la stessa pace in una notte di tanti anni fa.
Una giovane ragazza così simile a quella che ora gli dorme accanto, in una delle tante follie della sua vita sregolata.
Sua cognata, la moglie di suo fratello, la madre di Matilde, così giovane e così bella, con tanto bisogno di fuoco nel corpo.
Quanto tempo sarà passato, pensa Adelmo mentre i suoi occhi si chiudono, quanti anni fa, che giorno era?
Non riesce però a darsi risposte, la dissolvenza delle palpebre lentamente se lo porta via, insieme a tutte le sue domande.
https://youtu.be/qZqB2CczTes?si=K3m1h3jbVv21Pd_v
Il giorno in cui Matilde discusse la tesi di laurea i suoi genitori non erano presenti.
Non che fossero persone poco affettuose o distanti ma il fatto è che, molto semplicemente, lei non li avvisò.
Sapeva già che ci sarebbero rimasti male, era fin troppo facile intuire il disappunto ferreo con cui avrebbe reagito suo padre e le lacrimucce dispiaciute di sua madre, ma Matilde era fatta così.
Per quel giorno non voleva chissà quali cerimonie intorno a lei, non era di certo come sua sorella che, solo pochi anni prima, era stata protagonista di una grande festa che neanche una quinceañera sudamericana, coi parenti arrivati da lontano, il ristorante sfarzoso e i confetti rossi tutti infiocchettati.
C’è anche da dire che a differenza di Letizia, che l’università l’aveva finita grazie all’oneroso contributo dei loro genitori, Matilde lavorava già da qualche anno e poteva quindi, con un certo orgoglio, dichiarare che la sua laurea l’aveva conquistata col proprio sudore.
Ogni mattina si alzava presto per andare a fare i caffè al bar, il pomeriggio si divideva fra i libri, le ripetizioni a qualche ragazzino e un lavoretto in un call center, che le aveva permesso di pagarsi anche l’affitto di un piccolo appartamento, così che fosse ancora più netta la sua indipendenza.
Ai genitori lo avrebbe detto poi, buttandolo lì come se niente fosse, si immaginava una cosa tipo “tra l’altro mi sono laureata la settimana scorsa” pregustandosi la loro espressione sbalordita e rassegnata, neanche troppo sorpresi dall’ennesima delle sue stravaganze da anticonformista.
Non era una sadica, non provava chissà quale soddisfazione nel dare dispiacere alla sua famiglia ma aveva, ormai da qualche anno, raggiunto la consapevolezza che i suoi vivessero su un pianeta totalmente diverso dal suo.
Suo padre e sua madre avevano passato la vita a costruire un castello di sicurezza e benessere (soprattutto economico) così che alle loro principesse non mancasse mai nulla e se l’impresa era ben riuscita con l’adorata primogenita non si poteva di certo dire lo stesso con la seconda arrivata, che da quel rifugio solido era ben presto volata via, grazie a un nutrito gruppo di amici invisibili, scoprendo insieme a loro gli innumerevoli significati della parola “evasione”.
Musicisti, scrittori, artisti di ogni tempo, un mondo intero di immagini, colori, suoni e parole che le sembrarono infinitamente più preziose di qualsiasi bene materiale. Scie nebbiose di magia che irradiavano da quella che divenne la sua passione più grande: il Cinema.
“Inchieste di celluloide – ispirazione civile e denuncia sociale nel cinema italiano degli anni ‘70” questo il titolo della sua tesi, un modo un po’ bizzarro di rispondere a suo padre, che l’avrebbe voluta magistrato.
Così, quel giorno importante, ad attenderla fuori dalla facoltà trovo solo Claudia, la sua migliore amica, armata di un mazzolino di fiori profumati che niente avevano a che vedere con lo sfarzo e proprio per questo risultarono ancora più preziosi e graditi.
Claudia non le chiese neanche com’era andata, sapeva bene quanto la sua amica cervellona si fosse impegnata ed era fin troppo sicura che avesse preso il massimo dei voti, si limitò quindi a ribadire la sua esigenza più impellente:
«Stasera si fa festa? Ho già chiamato un po’ di gente!».
«Ehi – rispose Matilde rigirandosi il mazzolino fra le mani – ti ricordo che sono una neo laureata!».
«Ha ragione, “Dottoressa”, che ne direbbe di una sbronza colossale in compagnia di alcuni dei peggiori ceffi della città?».
Scoppiarono a ridere insieme, si presero sottobraccio che quasi sembrarono una coppia di sposine, in marcia verso il paese dei balocchi, per la luna di miele, ovviamente.
[DLIN-DLON]
Verso le dieci di quella stessa sera si ritrovarono al Macondo, alle prese con il terzo giro di cocktail.
C’erano alcuni compagni di università, colleghi di lavoro e gli amici di sempre.
C’era anche Francesco, che lavorava al call center, in forma davvero smagliante. Continuava a far battute un po’ su tutto, alleggerito dall’alcol, finalmente lontano dalla grigia routine dell’ufficio.
Matilde lo ascoltava, ridendo, distratta da un pensiero che le ronzava in testa già dalla mattina e che ora, in mezzo a tutta quella euforia, sembrava chiedere finalmente concretezza. Perché la verità è che c’era qualcuno nella sua famiglia a cui sentiva il bisogno di comunicare di essersi appena laureata, l’unica persona con cui condividere un momento così importante.
Così prese il telefono, cercò il contatto e digitò un messaggio, breve ed efficace:
“Ho preso 110”.
Poi si scolò il resto del suo White Russian e si alzò in piedi, iniziando a duellare con Francesco a suon di frecciatine che monopolizzarono l’attenzione e l’ilarità di tutti.
Una giostra di bicchieri e voci sempre più alte, fra i “mi accompagni a fumare una sigaretta?” e i baci di chi pian piano si congedava dalla festa “ancora congratulazioni, Mati, io vado a casa, ti chiamo domani”, un altro giro di bevute, la passeggiata al chiaro di luna, gli echi delle ultime risate fino a che, poco dopo le due del mattino, Matilde entrò barcollando nel suo bagno, si guardò allo specchio riconoscendo lo sguardo languido e il rossore sulle guance tipico della festa, sorrise, poi sbuffò e si sedette sulla tazza per lasciar defluire un po’ di tutta quella marea alcolica.
Di nuovo prese il telefono e constatò, senza sorpresa, che il messaggio che aveva inviato mentre era al locale non era stato ancora visualizzato.
I gesti automatici del corpo la portarono a sfilarsi via il reggiseno dalla canottiera, poi si spostò sul bidè per una sacrosanta rinfrescata e infine si lavò i denti.
Erano ormai le quattro quando il suo smartphone vibrò illuminandosi nel buio, Matilde era ancora sveglia, lo prese e lesse il messaggio di chi la conosceva fin troppo bene:
“Lo hai detto ai tuoi?”.
“Non ancora.. ma tu che ci fai sveglio a quest’ora?”.
“Sono fuori con degli amici, tu hai festeggiato?”.
Matilde si voltò appena, vide il profilo del corpo nudo di Francesco, steso accanto a lei, sbronzo com’era aveva appena fatto in tempo a farsi una mezza scopata prima di crollare addormentato.
“Neanche tanto..” scrisse lei ghignando nel buio.
Adelmo, fratello di suo padre, non ricordava di averlo mai chiamato “zio”. Sarà che da sempre aveva avuto con lui un rapporto che sembrava molto più un’amicizia, così libera e scanzonata che in quel momento, ancora annebbiata com’era, pensò che avrebbe anche potuto dirglielo di aver appena fatto sesso con un suo collega che la tampinava da tempo ma lo scambio di messaggi continuò, lui le chiese di raccontare l’esame e come mai avesse mancato la lode al voto finale.
Matilde rispose che uno dei professori era evidentemente uno “stronzo fascista” e si era irritato quando lei aveva iniziato a parlare dei film di Petri e dei collegamenti fra la DC e la destra di quegli anni.
Risero insieme, a distanza di chissà quanti chilometri l’uno dall’altra, era già passato quasi un anno dall’ultima volta che si erano sentiti eppure avevano un codice tutto loro, che li portava a capirsi al volo, in un’intesa naturale che avevano sempre avuto.
Prima di salutarla Adelmo accennò al fatto che sarebbe tornato in Italia prima della fine dell’estate per sistemare “delle cose”.
“Beh.. voglio vedere se stavolta ti degni di passare a trovarmi!”.
“Aperitivo da Gianni?”.
“Guarda che Gianni ha chiuso da tempo, puoi venire a cena qui.. così ti faccio vedere la casa!”.
Rimasero così, senza un impegno preciso, un’altra delle cose che avevano in comune era il bisogno di non sentirsi mai pressati, liberi di poter sgusciare via da qualsiasi impegno. Una caratteristica per cui, tutti quelli che li conoscevano, finivano spesso per snervarsi.
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Adelmo e il padre di Matilde non avevano mai avuto un buon rapporto. Fin da quando erano piccoli avevano sviluppato caratteri troppo diversi per poter instaurare la complicità tipica di due fratelli, sembravano quasi figli di famiglie differenti.
Uno sempre ligio, con cucito addosso l’abito del bravo ragazzo, che si impegna a scuola per ottenere il massimo dei risultati.
L’altro nato ribelle, mai allineato alle regole ferree dei genitori, così curioso e intelligente da non aver bisogno di studiare chissà quanto per apprendere le sfumature della vita.
Le donne poi, col primo che a vent’anni aveva già conosciuto quella che sarebbe diventata sua moglie e il secondo, affamato di esperienze, incapace a fermarsi in una storia sola.
Le liti erano frequenti, come fossero incapaci di comprendere un essere così tanto diverso da sé. Quando il padre di Matilde si sposò e uscì di casa perse qualsiasi interesse per la vita di quel fratello tanto ingrato, sperando che la vita, prima o poi, gli desse la lezione che tanto meritava.
Adelmo era un solitario, tutto preso dal suo mondo, stare lontano dalla famiglia non gli pesava, sapeva che nessuno di loro avrebbe mai potuto comprendere le sue esigenze.
Quando la seconda figlia di suo fratello iniziò a crescere le cose cambiarono, anno dopo anno quella ragazza sembrò sviluppare con lui un’affinità che nessuno aveva, come fosse l’unica in grado di capirlo davvero.
Iniziarono a passare molto tempo insieme, dopo la scuola lei si presentava a casa sua e quei pomeriggi divennero terreno fertile per la fioritura del loro rapporto.
Ogni giorno guardavano un film, fermandosi poi per ore a commentarlo, discutendo sulle scelte del regista e l’interpretazione degli attori.
Fellini, Welles, Hitchcock, Kurosawa, Truffaut poi la malinconica ironia di Allen, le visioni di Kubrick e l’epica di Leone; divennero i loro compagni immaginari in quei simposi che non volevano avere mai fine.
Il cinema era sempre stata la grande passione di Adelmo, anzi di più, era il suo sogno, pensava di avere delle cose da dire e che la pellicola fosse il miglior modo per farlo.
Abbandonò l’università e iniziò a frequentare dei corsi, girò anche un paio di cortometraggi ma, così come per tante altre cose nella sua vita, il suo sogno non divenne mai concreto.
Poco prima di compiere quarant’anni decise di partire, in cerca di nuovi stimoli e storie da raccontare, si disse di lui che era stato in America e per un po’ aveva collaborato con un’artista mezza pazza di San Francisco, quando la storia finì si rimise in viaggio, perennemente a caccia di sé stesso.
Negli ultimi anni sembrava essersi quietato, si era trasferito nel sud della Spagna e aveva addirittura sposato una donna, iniziando a lavorare nel piccolo albergo della famiglia di lei.
Matilde era l’unica persona con cui era rimasto in contatto, si vedevano raramente ma tornavano sempre a cercarsi, al telefono, per un consiglio o un aggiornamento sulle reciproche vite.
La notizia della laurea lo riempì di orgoglio, era certo che quella ragazza così brillante sarebbe stata in grado di fare grandi cose, comprese quelle che lui non era mai riuscito a realizzare.
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Per quell’estate Matilde non aveva niente in programma, voleva solo godersi il meritato riposo di chi ha compiuto una grande impresa.
Qualche serata con gli amici, un bel weekend in Liguria, una puntata alle terme con Claudia e qualsiasi altra cosa non fosse stata troppo dispendiosa; nei suoi progetti c’era l’idea di regalarsi finalmente un bel viaggio nella primavera successiva, per questo aveva soprattutto un gran bisogno di risparmiare.
Erano già passate un paio di settimane dal giorno della laurea, aveva rivisto Francesco e le cose erano andate decisamente meglio. Non aveva alcuna necessità di chiedersi se quella fosse una semplice frequentazione o l’inizio di una storia, era bello passare del tempo insieme, che fosse in un bar, al cinema o in un letto madido di sudore.
La chiacchierata con suo zio era scivolata via con la brezza dell’estate, aveva smesso di pensarci e non era neanche certa che si sarebbero davvero rivisti.
Sapeva bene come era fatto lui e soprattutto quanto fosse simile a lei, era sempre stato così e forse proprio per questo nessuno si era mai lamentato della fuggevolezza dell’altro.
Ricordava bene che, quando era piccola e il pomeriggio si presentava da suo zio per vedere un film, con grandi resistenze da parte dei suoi genitori, soprattutto di sua madre che non sopportava di saperla passare il tempo con quello sconsiderato, erano capitate un paio di volte in cui lui aveva aperto appena uno spiraglio di porta, facendole capire che non era solo e avrebbero dovuto saltare il loro amato cineclub.
Lei ci era rimasta anche male, all’epoca aveva poca dimestichezza coi sentimenti ma sapeva di provare per suo zio un affetto particolare che, crescendo, si limitò poi a catalogare come un classico caso di cotta adolescenziale.
Per quanto fosse indubbiamente un uomo affascinante, di cui tra l’altro tutte le sue amiche erano invaghite, Matilde conosceva anche l’altro lato della medaglia, i tanti difetti che Adelmo aveva e che le fecero dichiarare, più di una volta, che mai avrebbe voluto un uomo del genere accanto a sé.
Successe un pomeriggio, verso la fine di luglio, mentre era in piscina con Claudia, Matilde ricevette un nuovo messaggio di suo zio che la sorprese, le disse che era arrivato in città da qualche giorno e che, se per lei andava bene, sarebbe passato a trovarla la sera stessa.
Le ci volle un po’ a realizzare che il preavviso era davvero poco per organizzare qualsiasi cosa, che avrebbe dovuto correre a casa, renderla presentabile e imbastire una parvenza di cena.
Lui le propose allora di ordinare una pizza ma lei la prese quasi come una sfida, forse aveva una gran voglia di fargli vedere che era cresciuta e che, ancora una volta, fosse una donna indipendente e autosufficiente.
Così lo salutò con un ultimo messaggio prima di iniziare a correre come una matta, ripetendo a mente tutto quello che aveva da fare, non che sentisse il bisogno di organizzare chissà quale serata di lusso, per carità, ma quello era pur sempre suo zio, gli voleva bene e aveva piacere nel rivederlo, voleva chiedergli della Spagna e di Verónica, magari, chissà, avrebbe anche raccontato di Francesco, ma la cena? Cosa avrebbe potuto preparare, aveva giusto il tempo di andare al supermercato, magari qualcosa di fresco, il vino poi, doveva anche metterlo in frigo e la casa, certo, era sempre fuori ultimamente e il suo piccolo appartamento era assolutamente impresentabile, il pesce, ecco, avrebbe potuto prendere quello, forse una pasta, chissà, ma che ore erano? Doveva correre, mandare il nastro a velocità raddoppiata senza mai fermarsi, con quel caldo, dio, certo che avrebbe potuto avvertirla con un po’ più di anticipo, diamine, chissà, chissà se avrebbe fatto in tempo a fare tutto prima del momento, di questo momento, in cui:
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«Arrivo!» dice Matilde pulendosi le mani con uno strofinaccio, il soffritto sfrigola che è una meraviglia, l’acqua bolle, i gamberi sono stati già puliti e aspettano di indorarsi nella padella rovente, un ultimo sguardo nello specchio all’ingresso per poi aprire la porta ed eccolo lì.
La prima cosa che colpisce di lui è sempre lo sguardo, quella luce negli occhi, l’alone elettrico di uno che potrebbe tranquillamente essere un pazzo, oppure un genio, oppure tutte e due le cose insieme.
La barba incolta, i capelli appena sfumati di bianco, la camicia chiara e la pelle abbronzata danno a Matilde l’impressione di trovarsi davanti al Giancarlo Giannini naufragato in un isola deserta nell’azzurro mare d’agosto.
Forse un po’ appesantito, ma da uomo pronto a indossare i cinquanta con un certo innegabile stile.
Restano a guardarsi per un po’, sorridendo, misurando gli anni che hanno smosso i loro volti e i loro corpi.
Poi però si abbracciano, palesemente felici di ritrovarsi.
«Quanti capelli bianchi!» dice lei con le guance rosa, accaldate dall’estate e dai fornelli.
«Ti ho portato il gelato – risponde il naufrago esibendo la vaschetta – nocciola, giusto?».
Poi è tutta una scena di caldo imbarazzo e luoghi comuni. Pochi, per fortuna pochissimi.
Lui che guarda la casa mentre lei torna ai fornelli «Che buon profumino», osservando un paio di foto appese al muro di lei con i suoi amici, di lei che non riesce mai a essere seria, per ogni scatto una smorfia o una linguaccia, in ogni espressione un piccolo gesto di ribellione.
«È quasi pronto, ti va di aprire il vino?».
Adelmo rientra in cucina, prende la bottiglia in frigorifero e si ferma, per un attimo, a guardare sua nipote che armeggia con le pentole.
Un paio di pantaloncini e una canottiera, così come qualsiasi ragazza alle prese con il caldo dell’estate, una ragazza che, in ogni gesto che fa, dimostra però di essere già una donna.
È cresciuta Matilde, con quei fianchi stretti e le forme morbide, non c’è dubbio alcuno sul fatto che sia il sogno di molti uomini e chissà, pensa Adelmo, quanti di loro sono stati in quella casa.
Il modo con cui si muove, quella grazia innata, quella femminile leggerezza di chi sembra sempre danzare nella propria luce, oscurando tutto il resto, un po’ come Silvana Mangano che balla il mambo in quel vecchio film di Lattuada.
Seduti uno di fronte all’altra, a sciogliersi di chiacchiere, fra i complimenti alla cena e i bicchieri che si riempiono.
La tesi, i progetti per il futuro e il racconto dettagliato del momento in cui i genitori di Matilde hanno saputo della laurea.
Lui la rimprovera un po’, ci prova a fare la parte dell’adulto ma poi non riesce a non ridere, immaginandosi la faccia ingessata di suo fratello.
Gli ultimi film visti, un paio di registi coreani dal nome impronunciabile che devi assolutamente recuperare e poi, d’un tratto, il motivo per cui lui è tornato in italia.
«Mi servono i documenti per il divorzio».
Matilde si dispiace, gli chiede di raccontare, vuole sapere cosa è successo ma, in cuor suo, non è poi così stupita, quell’uomo di fronte a lei ha un’anima inquieta, chissà cosa farà adesso, in quali altre impossibili avventure e in quali altri letti andrà a infilarsi.
«E tu? Non dirmi che sei sola perché non ci credo!».
«In realtà esco con uno..».
E via una nuova storia da raccontare, di un ragazzo quasi uomo che sicuramente è già stato lì a cena e che quel corpo luminoso lo ha avuto tutto per sé. In effetti, pensa Adelmo sorridendo, sarebbe strano immaginare il contrario.
«Prendo il gelato?».
«Sì, lo mangiamo sul divano, io vado un attimo in bagno e arrivo subito».
Matilde si guarda nello specchio, si sistema appena i capelli e poi si siede sulla tazza per lasciar defluire un po’ della bottiglia che ha appena scolato insieme a suo zio.
Guarda il telefono, risponde a un messaggio di Francesco che le chiede come va la serata dicendogli che lo chiamerà più tardi, appena Adelmo sarà andato via.
I gesti automatici del corpo la portano poi a sfilarsi via il reggiseno dalla canottiera e a spostarsi sul bidè per una sacrosanta rinfrescata.
Appena esce dal bagno vede suo zio intento a ispezionare la sua collezione di DVD, ne prende uno, lo esamina e poi chiede:
«”La pecora nera”? Cos’è.. un remake del film con Gassman?».
«Di quell’orrore con Gassman vorrai dire – dice lei franando sul divano – comunque no, è un film di Celestini».
«Ma Celestini non faceva teatro?».
«Fa ancora teatro! Fa anche dei bei film e anni fa ha inciso anche un disco!».
«Ma perché tutti si sono messi in testa che devono fare di tutto? Col risultato che poi non fanno bene nessuna cosa!».
«Vale per molti, è vero – risponde lei – ma quelli “bravi” fanno bene qualsiasi cosa!».
Botta e risposta al ritmo incalzante di chi trova un piacere immenso nel confrontarsi, una di quelle intese rare, che se uno non ha mai trovato in vita sua allora sì, ha perso davvero qualcosa.
«Lo mettiamo su?» propone Adelmo e lei accetta, lo ha già visto ovviamente ma tornare a guardare un film con suo zio le fa piacere, ancor di più pensare di essere lei, per una volta, a conoscere meglio di lui il lavoro di un regista.
Mentre Adelmo si siede sul divano osserva incuriosito sua nipote che traffica un po’ sotto al tavolino, fino ad estrarre una piccola scatola di legno con certi intarsi africani.
«Che fai?».
«Non vorrai mica spararti un polpettone simile senza un po’ di preparazione!».
E poi, con incredibile naturalezza, apre la scatola e tira fuori tutto il necessario per fare una canna, che non esiste modo migliore per aprire la mente ai “polpettoni” intellettuali, può far ridere, ma la verità è che dopo aver fumato il cervello gira che è una meraviglia, disegna idee illuminanti che sarebbero state impossibili in qualsiasi altra situazione.
Poi, è l’ipnosi iridescente del cinema, fotogrammi a rincorrersi per ricomporre le dinamiche di una storia, i personaggi che emergono dal nulla e ti sembra di averli sempre conosciuti, gli spettatori, che cedono all’inganno dello schermo, se lo lasciano brillare negli occhi, con bocche appena aperte e cuori rallentati, come se, ogni cosa, lì intorno, smettesse di esistere, per circa un paio d’ore.
Matilde e Adelmo seguono il film in silenzio, sanno bene che i commenti è meglio farli “dopo”, ogni tanto si passano il piccolo cilindro di carta fumante che tra poco farà sicuramente venire voglia di aprire quel gelato che attende sul tavolino.
Ridono insieme, quando compare il personaggio della suora petomane, compiono la doppia impresa di rilassarsi e accendersi di attenzione a ogni singolo dettaglio, finendo col dimenticare tutto il resto.
Così lei, senza neanche pensarci, si stende sul fianco, mettendo la testa sopra le gambe di suo zio.
Così lui, con un istinto quasi paterno, le porta una mano sulla nuca, e inizia ad accarezzarla.
Scorrono le immagini, scorrono le vite, girano i destini così come gira il mondo, la mano trova il collo, e come ogni volta che questo succede, inizia ad accarezzarlo, mentre una storia di pazzi e manicomi si riflette negli occhi, sempre più svegli e sempre più languidi.
Poi lei si stiracchia, ruotando il proprio corpo, finendo col distendersi sulla schiena, così che la mano scivolando sulla pelle si ritrovi ora sulla gola, senza smettere di accarezzare, senza smettere di diteggiare quella lucida morbidezza.
Lentamente, senza neanche pensarci, a mo’ di coccola che porta conforto, le dita di Adelmo scorrono alla cieca, con distrazione e noncuranza, fino a che lei si muove e prende quella mano fra le sue, ci schiocca un rapido bacio e poi la rimette lì, appena più in basso, come a dire: continua.
Qualcosa di soffice sotto ai polpastrelli, qualcosa che scalda, l’inizio della curva dei seni, ancora lontani eppure mai così vicini.
Salirci lassù, mentre qualche respiro inverte la sua rotta, salirci e stupirsi di tanta abbondanza, senza ancora rendersi conto ma iniziando già a ripetersi che Matilde è davvero cresciuta.
Altre risate a smorzare tensione, per il goffo protagonista del film che prova a conquistare la sua bella cassiera, mentre la carne si schiude in un solco che dà le vertigini, come si avesse paura di caderci dentro, a percorrerlo, seguendo la curva e ritrovandone finalmente la fine, avvertirne la pesantezza, per poi con l’ennesima fatale distrazione raccogliere le dita e graffiare appena un capezzolo, già incredibilmente turgido.
Che il film si guarda con gli occhi e con la testa, il corpo lo si lascia in disparte, a cercarsi un modo qualsiasi per combattere la noia.
Adelmo le passa la canna, con la mano libera ovviamente, quella più sfortunata, quella che non sta continuando a smarrirsi dentro quella canottiera per poi ritrovarsi ogni volta lassù, sulla pelle increspata, che chiede di essere pizzicata.
Matilde fa un paio di tiri e alza le braccia per ridargli il testimone, poi però le lascia cadere verso l’alto, sopra la propria testa, in un nuovo stiracchiamento rilassato che si placa solo quando le braccia si posano sulle gambe di suo zio.
Forse è il movimento, forse è quel piccolo enorme trambusto, forse è che il seno e la mano si cercavano da tempo e ora finalmente si incontrano appieno, per una sola frazione di secondo che nessuno potrà mai dimenticare.
Ma è solo la prima, perché poi arriva un’altra palpata, delicata, ad afferrare per poi subito lasciare, tornando poi a sfiorare, a pizzicare, a coccolare quelle grosse tette a mo’ di godimento, di piacere già da tempo inopportuno, che nessuno vede e nessuno può frenare, che danza al tempo della tortura, che scioglie i nervi e soffoca i cuori, che muove fili invisibili di quelle benedette mani, quelle di lei, che si muovono inquiete fino ad avvertire qualcosa di duro e da lì non si spostano, che saggiano consistenza di maschio oltre cui è solo il precipizio di un uomo, che ora si voltano provando ad afferrare l’impossibile.
Ora sì, Adelmo si ferma, sfila le mani dalla canottiera e si alza in piedi, con l’aria di uno che è entrato nella casa sbagliata.
«Io ho sete – dice senza voce – vado a prendere qualcosa da bere..».
«Hai sete?» chiede lei, domandando tanto altro, lui si volta a guardarla e quasi stenta a riconoscerla.
Se ne sta lì seduta coi capelli in disordine, gli occhi brillanti, una spallina della canottiera scivolata lungo il braccio così che un grosso seno sia completamente scoperto.
Attimi di sospensione che nessun bravo attore riuscirebbe a replicare mai, a parlare senza parlare, a respirarsi senza potersi toccare.
«Dai, vado io..» dice infine Matilde alzandosi in piedi, ritrovandosi a passare nello spazio troppo piccolo fra suo zio e il tavolino, che inevitabilmente li porta uno stretto di fronte all’altra, che ha evidentemente dimenticato di ricoprirsi.
La pelle morbida schiacciata contro la camicia, il capezzolo che spinge sulla stoffa, le facce che si guardano e in qualsiasi altra situazione si sarebbero scontrate in un bacio.
Lui che muove le mani e lei che lo blocca, con forza, sembra quasi una lotta tra il prendimi e il vattene, a strattonarsi in un modo che non ha alcun senso, fino a che lei, provando a sfuggire da sé stessa, si volta e lui, inevitabilmente, si schiaccia dietro la sua schiena.
L’ipnosi del cinema, certo, ma il film non è ancora finito, la canna, magari è quella, anche se è stata fumata solo per metà.
Sta di fatto che lui spinge e lei accoglie, sentendo prepotenza fra le natiche.
Forse è perché ora non si vedono negli occhi e possono fingersi lontanissimi da lì, forse è per questo che lui fa scorrere le mani sui fianchi di sua nipote, vogliose di riprendersi tutta quella morbidezza.
Una sul seno nudo, ad appropriarsene, l’altra che si muove senza sapere dove andare, ritrovandosi sulla pancia, scivolando in giù, fino a giocare col bordo dei pantaloncini.
Si scioglie Matilde, così come ogni femmina che si fa preda, non sa più cosa vuole che succeda, qualcosa dentro di lei corre così forte da non farsi più afferrare, di nuovo si stacca dalla morsa in un nuovo impeto rabbioso, ma poi si volta e quasi a volerlo provocare gli mette una mano fra le gambe, afferrando forte tutto ciò che i pantaloni nascondono.
Come a dire: non so più chi tu sia, ma ricordati che io sono una donna.
E ora è tutto frenetico, tutto veloce, tutto frenetico e tutto vorace, lei che lo palpa con forza, lo stringe, lui che le blocca il polso e prova a fermarla un’ultima volta, lei che lo scaccia e infila le dita nel bordo dei pantaloni, li strattona, come non sapesse più come si aprono, come volesse che sparissero senza quella inutile manfrina di zip e bottoni.
Adelmo precipita nella voglia di darle un bacio assurdo ma lei lo blocca con la mano che quasi sembra uno schiaffo.
Se davvero è una danza allora è la più estenuante che ci sia, le bocche aperte a cercare aria e gli occhi assenti a sfocare la realtà.
Dovrebbero dirsi qualcosa e non hanno più fiato, dovrebbero andarsene da lì ma non sanno più come fare.
Tutto succede in un attimo, in un unico ciclo di movimenti legati dallo stesso cieco desiderio.
Matilde fa per andarsene.
Adelmo la afferra per un braccio.
Poi le tira su quella dannata spallina, senza sapere perché.
Lei la prende come l’ennesima sfida.
Sbuffa.
Raggiunge con le dita il bordo della canottiera.
E se la sfila via.
Di fronte a quelle tette meravigliose, lucide del sudore di che sta lottando con il proprio istinto, di chi sta urlando in silenzio “ti voglio” e non so se posso averti.
Adelmo naufraga, stavolta davvero, un qualche mare lo porta via e non trova altro da fare che sia rispondere a quella sfida, afferra la camicia e prova a sfilarsela dalla testa, senza sbottonarla, così che si incastra e lei è costretta ad aiutarlo, così che ora ridono insieme e, entrambi a petto nudo, si abbracciano.
E mai nessun abbraccio fu più grande e più forte, mai nessun contatto fu così prossimo al godimento.
Lei infila la faccia nel collo di suo zio, lo respira e lo bacia.
Lui le accarezza la schiena, con mani frenetiche, da uomo disperso nel mare che cerca un approdo da cui farsi salvare, le dita trovano i pantaloncini e ci si nascondono dentro, iniziando poi a stringere forte le natiche nude di sua nipote.
Ogni limite infranto ne invoca un altro, ogni passo di danza dà il via a una nuova folle trasgressione, Matilde muove le mani e ricorda com’è che si annientano un paio di pantaloni, li abbassa e fa lo stesso con le mutande, iniziando poi a strusciare i polsi in quello scoglio duro di maschio eccitato.
Lo ha già visto, di sfuggita, tanti anni fa, tra le falde di un accappatoio allacciato con troppa fretta e fra i mille pensieri che quel giorno aveva fatto ce n’è uno che ora diventa concreto, quello di afferrare il cazzo di suo zio e stringerlo forte, con la voglia disperata di possederlo.
No, non lo sta masturbando, si limita a tenerlo, forse per il bisogno di non lasciarlo più andar via.
L’ultimo assalto è tutto in una frase, una di quelle a cui un bravo sceneggiatore avrebbe affidato l’innesco di una scena intera. Matilde la sussurra all’orecchio di suo zio, fermandogli per un attimo il cuore, poi si volta e si inginocchia sul divano, piegandosi in avanti, in quella posa che è allo stesso tempo un modo per offrirsi e per dichiarare la propria voglia di godere.
Adelmo se ne sta lì, col cazzo dritto che punta verso gli ormai inutili pantaloncini di sua nipote.
Chissà se un’ultima volta ci pensa a cosa sta per fare, chissà se riuscirebbe ancora a resistere a quel sussurro di donna.
Un dolcissimo schiaffo sulle natiche è il suo modo di rispondersi, la mano resta lì a palpare, le dita risalgono a sfilare via, l’ultimo ostacolo rimasto alla loro pazzia condivisa.
Quanto è cresciuta Matilde, quanto è femmina adesso, mentre attende di essere scopata, con le cosce dischiuse a svelare la propria umida intimità.
Quanto è facile, adesso, lasciarsi andare all’abisso, prenderselo in mano e appoggiarglielo fra le labbra, sentire caldo, tremare, cedere all’impossibile, afferrarle i fianchi e chiudere gli occhi, scivolare in quella carne accogliente e riaprirli solo per guardarsi sparire dentro il corpo di sua nipote.
La stanza buia, illuminata solo dallo schermo, un film che nessuno sta più guardando, una storia di pazzi affamati che saccheggiano i supermercati, le cui ombre si riflettono sui corpi nudi di un uomo e una donna, che iniziano ad agitarsi, a muoversi, la schiena di lei negli occhi di lui, le mani da naufrago sulla carne di ragazza, senza chiedersi più chi sia.
La pecora nera, posizione animale per un amplesso oscuro di peccato, sempre più forte e sempre più veloce, a sbattersi contro e ad ansimare, quanto urla Matilde, quanto si lamenta quando gode, chissà se anche tutti gli altri maschi l’hanno sentita lasciarsi andare così.
Come spinge Adelmo, con quelle mani che schiaffeggiano e il cazzo grosso a scavarla dentro, così come ha già fatto per chissà quante altre donne.
È tutto ciò a cui pensano, alla meraviglia di possedere un essere così unico, così bello, alla perversione di frantumare qualsiasi morale in nome del piacere, che di corpi ne hanno avuti tanti, certo, ma mai è stato tutto così forte.
Adelmo si piega su di lei e le afferra i seni, iniziando a strizzarli, continuando a sbatterla da dietro, ripensa a quella frase, a quel sussurro e sa che ora può liberarsi, i colpi si fanno cadenzati, ad ogni affondo lei geme, stretta in quella morsa, tirando su la testa per cercare contatto con la sua faccia, guancia contro guancia, barba contro morbidezza, fino a sentirsi svanire, schizzandole dentro il proprio seme, la propria vita, il proprio sperma e il proprio amore.
È ormai notte fonda.
C’è già stata la separazione dei corpi sudati e la stretta forte di un abbraccio ancora incredulo.
C’è stata la doccia e c’è stata una telefonata, piena di piccole grandi bugie, con voce stanca di chi ha un gran bisogno di rimandare tutto a domani.
Matilde è rannicchiata nel suo letto, con indosso solo una vecchia t-shirt.
Il corpo nudo di suo zio la avvolge da dietro, in un buio silenzio che non consente a nessuno di dormire.
La testa poggiata sulle braccia di Adelmo, il suo odore mai così forte, quelle mani grandi davanti agli occhi, prenderne una e soffiarci un bacio, così come fatto poche ore fa, quando ancora niente era successo.
Un altro bacio, più intenso, poi un morso poi, qualcosa che torna a smuovere i respiri, la bocca che si apre e la lingua che assaggia, le stesse mani che le hanno lasciato splendide impronte rosse sulla pelle.
Matilde lecca le mani di suo zio, non sa neanche perché, forse che quella veglia agitata chiede ancora qualcosa al loro incontro.
Risalire lungo le dita, inumidirle con la propria saliva e chiudere le labbra, iniziando a succhiare il pollice, come qualsiasi bambina alle prese coi suoi sogni.
Adelmo ha perso ogni concezione del tempo e dello spazio, dove si trovano adesso? Che anno è? Quella bocca che succhia nel buio, una nuova scarica nel corpo, una mano che scivola sulla t-shirt, riassapora la morbidezza dei seni e va infilarsi fra le cosce.
Lei che le apre e lo lascia fare, lei che ha voglia di un ultimo azzardo in quella che, entrambi sanno, sarà la loro unica notte insieme.
Il sesso di sua nipote, la fica calda di una donna, ancora umida di desiderio, scivolarci dentro con le dita, iniziare a massaggiarla mentre lei ancora gli mangia il dito.
Com’è piccola ora Matilde, com’è dolce quella sua nuova invenzione, lasciarsi masturbare da suo zio prima di addormentarsi.
Senza alcuna foga e alcuna fretta, meno animali e molto più teneri, due corpi stretti nel buio, due cuori sincronizzati da sempre.
La mano inizia a roteare, così come maschia sapienza impone, sentendola contorcere e succhiare, tirare fuori la lingua e tornare a leccare, come non fosse solo un dito ma tutto l’uomo che lo possiede, tutto il suo corpo, il suo petto, le sue gambe e il suo cazzo.
Gli spasmi di chi sta per godere, di donna che fiorisce nel proprio orgasmo, la fica fradicia e il petto che ansima, fino a distendere i nervi, mordendo la mano, soffocando un ultimo grido notturno, prima di lasciarsi andare al sonno.
Nella luce tenue che entra dalla finestra Adelmo la guarda, gli occhi chiusi e le labbra umide, appena aperte.
Il respiro ora calmo, di chi si sente infinitamente al sicuro.
Immagini sovrapposte dal tempo e dai ricordi, quello stesso abbraccio e la stessa pace in una notte di tanti anni fa.
Una giovane ragazza così simile a quella che ora gli dorme accanto, in una delle tante follie della sua vita sregolata.
Sua cognata, la moglie di suo fratello, la madre di Matilde, così giovane e così bella, con tanto bisogno di fuoco nel corpo.
Quanto tempo sarà passato, pensa Adelmo mentre i suoi occhi si chiudono, quanti anni fa, che giorno era?
Non riesce però a darsi risposte, la dissolvenza delle palpebre lentamente se lo porta via, insieme a tutte le sue domande.
https://youtu.be/qZqB2CczTes?si=K3m1h3jbVv21Pd_v
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