Tradizione2
di
Fiumara
genere
incesti
Seguito di un racconto di cui si so n perse le tracce.
La cosa piacque! Rosina ebbe a pensare che, ormai, era inutile far la parte della donna casta, fedele all’uomo suo: almeno con Paolo ed ora anche con Rosario. Purché il segreto non uscisse da quelle mura e da quei cuori. Ed i due giovani di andare a raccontarlo in giro, provocare lo scandalo, ma, peggio, di perdere la possibilità di fottersi la donna più bella del paese, che, ora lo sapevano, era anche calda e all’uomo sapeva dispensare piacere, proprio non ci pensavano. Se non per quel particolare lì! Già ve lo siete scordato? Paolo no!
Giacevano tutti e tre nel grande letto di Rosina, quel pomeriggio. Se pur non cominciava ancora a frescheggiare, non era più il caldo di prima, che impediva di respirare e, quasi, di far l’amore. La storia durava ormai da mesi, approfittando delle assenze di don Pasquale che si erano fatte più frequenti, a ragion degli affari che andavano bene. Rosina non ne sentiva più tanto la mancanza e davvero aveva preso gusto a farlo in tre, che, appena Pasquale partiva, era lei a sollecitare Paolo a che si recasse a chiamar l’amico. Ma, dicevamo, che erano nel letto tutti e tre quel pomeriggio. Si erano divertiti non da poco, che la Rosina ci aveva proprio voglia, dato che il marito era appena ripartito. Non che non le prestasse attenzione, anzi! Ma quello stare scandalosamente presa tra due giovani, di cui uno era il suo figlio le sembrava sempre più cosa affascinante ed appagante, che non ci avrebbe rinunziato più, neanche se il marito l’avesse scoperta. E si riposavano, dall’amplesso avuto. I due giovani abbandonati sul suo seno, che ogni tanto si perdevano a succhiarne i capezzoli così forte da provocarle anche qualche fastidio. “È così che ti piace, fellone, eh? Che pare quasi che la scommessa l’abbia vinta tu.” Se ne uscì, con tono scherzoso, ma non troppo, Paolo. Il Rosario si limitò ad una risatina, ma la Rosina volle saperne di più. “Scommessa? Che si tratterà mai?” e qui ridiventò seria. “Badate bene che se scopro che giocate del denaro…” “Tranquillizatevi, madre, che non giochiamo né denaro, né altro! Volete proprio sapere di che parliamo?” Così, Paolo cominciò a raccontare degli accadimenti che avevano portato, poi, a quella prima volta in cui lei aveva giaciuto con entrambi. Di come Rosario lo avesse spinto a fare il nome della donna che lo aveva fatto uomo, di come l’avesse sbeffeggiato mentitore e della scommessa che ne era seguita. “Villanzoni! Così vi siete giocate le mamme?” Finse di redarguirli la Rosina. “Sta il fatto che i debiti di giuoco si debbano pagare, Rosario mio!” “Ed io pagare lo vorrei! Mi difetta, però, l’ardire di cimentare mia madre, o di farla cimentare a lui!” rispose il ragazzo. “Dai retta a me, che sante non ce ne sono in questa terra. Tua madre, poi… Comunque, siccome sono buona e vi voglio premiare, mi ingegnerò io a trovare la strada giusta. Quando torni a casa, dì alla Uccia che abbisogno di lei e di venire domani a quest’ora.” La Uccia Sperti, mamma di Rosario, era mescia sarta: cuciva a casa delle signore che se lo potevano permettere. Realizzava abiti da donna, come pantaloni per gli uomini, camicette e camicie, panciotti e giacche. Fin’anco mutande, alla bisogna. A Rosina l’ingegno difettava quanto la bellezza, ossia niente e già sapeva come provocare quella donna, che, a differenza sua, non aveva fama di tirare tanto per il sottile a cornificare il marito. Aveva la stessa età di Rosina e, perciò, si conoscevano bene: da bambine erano state anche amiche, prima che la Rosina si sposasse e si votasse alla casa e alla famiglia. Così le loro strade si erano divise e i loro incontri si limitavano alle volte che la Rosina la chiamava per cucire qualcosa, come in questo caso. La Uccia ci andava volentieri, che la Rosina pagava coi turnisi e non con la roba, come altre signore.
Rosario non perse un secondo a portare l’ambasciata, quando si alzò dal letto della Rosina. Qualcosa gli diceva che, se tutto funzionava, ci sarebbe stato del ritorno anche per lui e, per dirla tutta, l’idea di farsi la mamma insieme al Paolo, come si erano fatta la Rosina glielo faceva venire duro al punto di doversi fare una sega subito, come se non avesse appena finito di fottere e come si deve. “Allora ci andate, mamma?” Rosario non sapeva dissimulare l’ansia di una risposta. “O Vita Santa! Ma che c’hai da doverlo sapere subito? Certo che ci vado: con questi chiar di luna, non puoi sputare nel piatto. E donna Rosina è persona per bene. E paga! Domani a pomeriggio ci vado!” “E io ti accompagno!” “So andarci da sola, che a camminare ho imparato tanti anni fa! Ma fai come ti pare. Mo’, basta che a tuo padre non gli prenda la tramontana che gli servirei in campagna. A quello pare che i soldi puzzano! E, se trovo da lavorare, lui ha sempre qualcosa di urgente da farmi fare.” “Allora tu non gli dire niente: anzi, gli diremo che devi cucire qualcosa a me di urgente.” “Ah, sì? E cosa?” Senza rispondere, Rosario si strappò una tasca del pantalone. “Ecco! Dovete cucirla subito: ma non subito oggi! Subito domani!” “Sai che cosa? Ci vuole un attimo!” “Lo sapete voi, ma a lui potete raccontare che ci vuol tempo. Non dite di non avergli mai raccontato frottole?” A quell’incalzare, la Uccia cambiò discorso, non smettendo, però, di chiedersi cosa avesse il figlio, da fargli tanta pressione perché non mancasse l’appuntamento con la Rosina.
Il giorno seguente, il tempo ci mise del suo. Dopo mesi di sole, scese giù un acquazzone che sembrava non dovesse più smettere. Quando, sul fare delle tre, smise di piovere il Pomino vecchio pensò bene di andarsene all’osteria, che in campagna non ci poteva andare oggi e manco domani. La Uccia si sistemò per bene, prese il metro e gli spilli, diede un’occhiata dubbiosa ancora al figlio che pareva avere una fretta del diavolo e si incamminò, con lui accanto.
“Entra, Uccia! È aperto!” “Posso? Donna Rosina?” continuava a ripetere la sarta, inoltrandosi nella casa, preceduta dal figlio che lei cercava inutilmente di trattenere. “Mamma mia! Chiamami Rosina, come quando giocavamo a campana!” Rosina era comparsa come dal nulla e tendeva elegantemente la mano. “Entra che ho bisogno di un lavoro urgente!” “A disposizione, come sempre. È successo qualche cosa?” “Che i figli crescono e noi non ce ne accorgiamo!” “Ah, vanno corti i pantaloni a Paolo?” “Peggio! Vanno strette le mutande. Capisci che voglio dire?” “E non può usare quelle di don Pasquale?” “Quello, ormai, sta sempre in viaggio. E se le porta tutte! Me ne devi fare una dozzina. La stoffa l’ho presa. A dire la verità, la tenevo già e mi pareva peccato buttarla via. È conservata bene!” “Hai ragione, Rosina! Che i soldi si sudano ed è un peccato buttare la roba. E Paolo dove sta?” “Sta arrivando: si era steso sul letto un pochettino!” mentre ancora lo diceva, Paolo entrò nella stanza, scambiandosi un abbraccio fraterno con l’amico e salutando poi la madre di lui. “Salute, donna Uccia! Sempre più giovane e bella!” “Magari, signorino! Che i capelli sono sempre più bianchi!” “E che significa? Che mia madre non è forse bella? Eppure i capelli sono bianchi.” “Mah.. sarà! Comunque, grazie, signorino! Dice che vi fate grande e le mutande vanno strette…” “Così vi ha detto mia madre? E che si strappano. Davanti. Capite?” “O Gesù mio! Che impertinente!” rise la Uccia, accompagnata anche dalla Rosina. “Impertinente o no, questa è la verità, Uccia mia!” aggiunse sorniona la Rosina. “Vabbè! Pigliamo le misure?” chiese la sarta. Paolo si mise in posizione ritta, di fronte a lei e la donna fece per svolgere la fettuccia di stoffa graduata intorno alla vita di lui. “Il girovita penso sia sempre quello, più o meno. Ma è meglio che si spogli, non pensi, Uccia?” “Le misure son quelle. Ma se credi che sia meglio che abbassi i calzoni e lui non si prende scorno…” “Prendermi scorno? Di che?” Paolo si abbassò i calzoni. “Tira giù anche il resto.” “Davvero, non mi serve!” obiettò la Uccia. “Se non vedi, non puoi capire. Sarai magari tu a metterti scorno?” insistette Rosina. “Scorno di che, Commare Rosina?” il tono di Uccia si era leggermente alterato. “Che mi potrebbe essere figlio. L’ho visto crescere, sempre insieme al mio figliolo. Che gli voglio davvero bene come un figlio.” “Non averne a male, Uccia mia! Anche io voglio bene a Rosario e non mi scorno di lui. Che pure è un bel figliolo, ti pare?” la donna annuì orgogliosa. “Messo bene di tutto. Ma Paolo mio l’hai visto mai che armatura tiene?” “Ohimmè, Rosina! Eccome parli?” “Uccia, si nu te minti scornu, fallo spogliare e poi mi dici!” pungolò ancora Rosina. La sarta sembrò capitolare alle insistenze dell’altra e lasciò che Paolo si calasse le mutande, dopo i pantaloni. Ebbe un moto di sgomento, alla vista del grande attrezzo che si era liberato; guardò il figlio, che ancora si teneva ritto, appoggiato allo stipite della porta e lo ammonì: “Tu sta zitto con tuo padre di tutto questo, altrimenti succede il finimondo!” “Allora, Uccia? Avevo ragione?” La sarta rimaneva in silenzio a guardare il meraviglioso cazzo di Paolo. “Ma toccalo, se vuoi capire che succede?” stimolò ancora Rosina, resistendo senza scomporsi allo sguardo fulminante di lei. “E che sarà mai? Io quello di Rosario l’ho toccato!” continuò a provocare “E a lui non è dispiaciuto, vero Saruccio?” “E… Donna Rosina, non capisco dove vuoi arrivare?” “Voglio arrivare ad un paio di mutande. E pure loro! Il problema è sapere a quali mutande arrivare!” scoppiarono tutti e tre in una sonora risata. Solo la Uccia rimaneva attonita. “Ma pure tu: che ti sei sognato? Mo’ si spiega tutta quella ansia che c’avevi? Ma che succede? Mi spiegate?” implorò la sarta. “E toccalo e spicciamola, no?” invitò Rosario. “Ma che dici? E tuo padre?” “Sì, come se non avesse già le corna belle! Che lo sa tutto il paese.” “Screanzato! Così parli a tua madre.” Ma rimaneva ai piedi di Paolo e con lo sguardo a quel meraviglioso palo di carne che, anche così, suggeriva di peccare. La mano si mosse lentamente, andando incontro a quel sesso esposto e invitante. Indugiò a mezz’aria; lo sguardo si volse alla ricerca di quello del figlio. “Rimane tutto in questa stanza?” “Tutto! E poi ti raccontiamo il resto, se te lo meriti.” Incuriosì lui. Ci volle un attimo ed il cazzo di Paolo sparì nella bocca di Uccia, anche se un bel pezzo era costretta a lasciarlo fuori, per non affogare. Quel magnifico attrezzo si rissò oltre ogni dire, che Uccia sapeva usare la bocca e non solo quella. Lo estrasse e cominciò a far girare intorno la lingua, dicendo: “Questo sì che è lui, non quello del Pomino mio! Rosario, mi raccomando!” “Tu pensa a spogliarti, mamma. Che quello che succede qua riguarda solo noi!” dicendolo si era abbassato le braghe e proponeva a sua madre di cimentarsi anche col suo, ma la genitrice indugiava. Allora Rosina si inginocchiò e si unì a lei nel leccare il cazzo di Paolo. Uccia strabuzzò gli occhi, ma alla fine parve capire e, voltando leggermente il capo, si imboccò il cazzo di Rosario, sospirando. “Però, Rosina! Anche Rosario mio si difende bene!” “Che ti devo dire, Uccia? Che tutti e due mi spaccano e mi sfiniscono, ma basta poco ed ho voglia di farmeli di nuovo tutti e due?” Rosina si levò e cominciò a spogliarsi. “Tu fai quel che vuoi! Io non ci sto a farli godere con un bocchino, senza averli sentiti come si deve nella fessa e nel culo.” Terminato di spogliarsi, senza dir oltre, strappò via il cazzo di Paolo dalle mani di Uccia e se lo portò nella figa, mordendosi le labbra in quel primo meraviglioso piacere. La Uccia non volle esser da meno: si spogliò rapidamente e, senza pensarci troppo, si offrì al figlio, che, da parte sua, non aspettava altro. “Mamma, hai una fica che sembra un caminetto, per quanto è calda!” “E tu spegnila, che aspetti?” “E no, bella mia! Che tante volte li ho dovuti saziare io da sola questi due. Mo ti mostro io che facciamo.” Se ne uscì la Rosina e, presa una tovaglia, la stese per terra. Paolo sapeva quali erano le intenzioni della madre e, a sua volta, si coricò sulla tovaglia, il cazzo bello svettante verso il tetto. La Rosina si piegò alle spalle della Uccia e cominciò a leccarle il buco del culo, spingendo la lingua più dentro che poteva per lubrificarlo bene. Poi prese l’amica e la baciò, accompagnandola verso il figlio. Uccia aprì le gambe, portandosi sopra Paolo e cominciò a scendere, portando le braccia dietro a trovare l’appoggio sulla tovaglia. Rosina aspettò che avesse trovato l’equilibrio, poi la fece scendere col bacino. Impugnava il cazzo di Paolo e lo indirizzava sapientemente verso il buco del culo di Rosina. Si dilatava lentamente, mentre il cazzo conquistava strada nele viscere pochi millimetri per volta e sul volto di Uccia si poteva notare un’espressione di dolore. Ma non rinunciava! Anzi: “Spaccami, Paolo! Spaccami che lo voglio sentire uscire dalla bocca. Rosina mia, e che c’è di meglio del cazzo, per passare la giornata?” “Come che c’è di meglio, Uccia? Non lo sai?” “C’è di meglio?” “Certo che c’è!” fece inginocchiare Rosario di fronte alla madre e lo aiutò a penetrarla. “Due cazzi, Uccia mia!” e detto questo, cominciò ad assecondare il ritmo dei due giovani, mentre l’amica si abbandonava a gridolini e sospiri di piacere. “Così è bello! Mai ne avevo presi due: ma è meraviglioso! Beata a te che te li sei già fatti!” “Tranquilla, Uccia! Mo’ ce li dividiamo. Tanto questi non si stancano mai: beata gioventù!”
I due giovani diedero il meglio e si fecero pure la Rosina, obbligando le mamme a bere la sborra, non una e manco due volte, ma addirittura tre. Che quelle troie, poi, non chiedevano di meglio, golose come erano. Quando finalmente si quietarono, rimanendo tutti e quattro stesi per terra, nudi, la Rosina raccontò della scommessa e di come da mesi i due ragazzi la scopassero di concerto. “La prima volta, Uccia mia, pensavo di morire di vergogna. Ma poi ci ho preso gusto, che anzi due, qualche volta, mi sembrano pochi!” “E ti capisco, Rosina! Mamma mia quanto mi è piaciuto!” Intanto, Paolo e Rosario cominciavano a mostrare segni di nuovo vigore. “Figli miei, ma che c’avete?” “E mamma mia, si tu che ci hai fatto eccitare… almeno a me!” “Io?” “Che certo! Me n’ero accorto che ti sarebbe piaciuto prendere più cazzi, ma sentirtelo dire è stato così bello!” “Vacci piano, Paolo mio, che Rosario ce n’è uno solo!” “Me, mo’! Tu mi non mi consideri, Rosina! Che sono in debito con te e qualche amico ce l’ho! Penso che uno o due li potremmo tirare dentro, se ne avete piacere. Presi due, penso pure io che tre o quattro non fanno male!” Risero tutti di gusto, prima che Rosario tornasse a cimentare sua madre, che, per parte sua, non aspettava altro. “Non mi dire, Paolo, che mi lascerai guardare la Rosina che si fotte suo figlio?” “Che vuoi scherzare, mamma? Girati a pecorina: prima ti faccio il culo e poi la fica!”
La cosa piacque! Rosina ebbe a pensare che, ormai, era inutile far la parte della donna casta, fedele all’uomo suo: almeno con Paolo ed ora anche con Rosario. Purché il segreto non uscisse da quelle mura e da quei cuori. Ed i due giovani di andare a raccontarlo in giro, provocare lo scandalo, ma, peggio, di perdere la possibilità di fottersi la donna più bella del paese, che, ora lo sapevano, era anche calda e all’uomo sapeva dispensare piacere, proprio non ci pensavano. Se non per quel particolare lì! Già ve lo siete scordato? Paolo no!
Giacevano tutti e tre nel grande letto di Rosina, quel pomeriggio. Se pur non cominciava ancora a frescheggiare, non era più il caldo di prima, che impediva di respirare e, quasi, di far l’amore. La storia durava ormai da mesi, approfittando delle assenze di don Pasquale che si erano fatte più frequenti, a ragion degli affari che andavano bene. Rosina non ne sentiva più tanto la mancanza e davvero aveva preso gusto a farlo in tre, che, appena Pasquale partiva, era lei a sollecitare Paolo a che si recasse a chiamar l’amico. Ma, dicevamo, che erano nel letto tutti e tre quel pomeriggio. Si erano divertiti non da poco, che la Rosina ci aveva proprio voglia, dato che il marito era appena ripartito. Non che non le prestasse attenzione, anzi! Ma quello stare scandalosamente presa tra due giovani, di cui uno era il suo figlio le sembrava sempre più cosa affascinante ed appagante, che non ci avrebbe rinunziato più, neanche se il marito l’avesse scoperta. E si riposavano, dall’amplesso avuto. I due giovani abbandonati sul suo seno, che ogni tanto si perdevano a succhiarne i capezzoli così forte da provocarle anche qualche fastidio. “È così che ti piace, fellone, eh? Che pare quasi che la scommessa l’abbia vinta tu.” Se ne uscì, con tono scherzoso, ma non troppo, Paolo. Il Rosario si limitò ad una risatina, ma la Rosina volle saperne di più. “Scommessa? Che si tratterà mai?” e qui ridiventò seria. “Badate bene che se scopro che giocate del denaro…” “Tranquillizatevi, madre, che non giochiamo né denaro, né altro! Volete proprio sapere di che parliamo?” Così, Paolo cominciò a raccontare degli accadimenti che avevano portato, poi, a quella prima volta in cui lei aveva giaciuto con entrambi. Di come Rosario lo avesse spinto a fare il nome della donna che lo aveva fatto uomo, di come l’avesse sbeffeggiato mentitore e della scommessa che ne era seguita. “Villanzoni! Così vi siete giocate le mamme?” Finse di redarguirli la Rosina. “Sta il fatto che i debiti di giuoco si debbano pagare, Rosario mio!” “Ed io pagare lo vorrei! Mi difetta, però, l’ardire di cimentare mia madre, o di farla cimentare a lui!” rispose il ragazzo. “Dai retta a me, che sante non ce ne sono in questa terra. Tua madre, poi… Comunque, siccome sono buona e vi voglio premiare, mi ingegnerò io a trovare la strada giusta. Quando torni a casa, dì alla Uccia che abbisogno di lei e di venire domani a quest’ora.” La Uccia Sperti, mamma di Rosario, era mescia sarta: cuciva a casa delle signore che se lo potevano permettere. Realizzava abiti da donna, come pantaloni per gli uomini, camicette e camicie, panciotti e giacche. Fin’anco mutande, alla bisogna. A Rosina l’ingegno difettava quanto la bellezza, ossia niente e già sapeva come provocare quella donna, che, a differenza sua, non aveva fama di tirare tanto per il sottile a cornificare il marito. Aveva la stessa età di Rosina e, perciò, si conoscevano bene: da bambine erano state anche amiche, prima che la Rosina si sposasse e si votasse alla casa e alla famiglia. Così le loro strade si erano divise e i loro incontri si limitavano alle volte che la Rosina la chiamava per cucire qualcosa, come in questo caso. La Uccia ci andava volentieri, che la Rosina pagava coi turnisi e non con la roba, come altre signore.
Rosario non perse un secondo a portare l’ambasciata, quando si alzò dal letto della Rosina. Qualcosa gli diceva che, se tutto funzionava, ci sarebbe stato del ritorno anche per lui e, per dirla tutta, l’idea di farsi la mamma insieme al Paolo, come si erano fatta la Rosina glielo faceva venire duro al punto di doversi fare una sega subito, come se non avesse appena finito di fottere e come si deve. “Allora ci andate, mamma?” Rosario non sapeva dissimulare l’ansia di una risposta. “O Vita Santa! Ma che c’hai da doverlo sapere subito? Certo che ci vado: con questi chiar di luna, non puoi sputare nel piatto. E donna Rosina è persona per bene. E paga! Domani a pomeriggio ci vado!” “E io ti accompagno!” “So andarci da sola, che a camminare ho imparato tanti anni fa! Ma fai come ti pare. Mo’, basta che a tuo padre non gli prenda la tramontana che gli servirei in campagna. A quello pare che i soldi puzzano! E, se trovo da lavorare, lui ha sempre qualcosa di urgente da farmi fare.” “Allora tu non gli dire niente: anzi, gli diremo che devi cucire qualcosa a me di urgente.” “Ah, sì? E cosa?” Senza rispondere, Rosario si strappò una tasca del pantalone. “Ecco! Dovete cucirla subito: ma non subito oggi! Subito domani!” “Sai che cosa? Ci vuole un attimo!” “Lo sapete voi, ma a lui potete raccontare che ci vuol tempo. Non dite di non avergli mai raccontato frottole?” A quell’incalzare, la Uccia cambiò discorso, non smettendo, però, di chiedersi cosa avesse il figlio, da fargli tanta pressione perché non mancasse l’appuntamento con la Rosina.
Il giorno seguente, il tempo ci mise del suo. Dopo mesi di sole, scese giù un acquazzone che sembrava non dovesse più smettere. Quando, sul fare delle tre, smise di piovere il Pomino vecchio pensò bene di andarsene all’osteria, che in campagna non ci poteva andare oggi e manco domani. La Uccia si sistemò per bene, prese il metro e gli spilli, diede un’occhiata dubbiosa ancora al figlio che pareva avere una fretta del diavolo e si incamminò, con lui accanto.
“Entra, Uccia! È aperto!” “Posso? Donna Rosina?” continuava a ripetere la sarta, inoltrandosi nella casa, preceduta dal figlio che lei cercava inutilmente di trattenere. “Mamma mia! Chiamami Rosina, come quando giocavamo a campana!” Rosina era comparsa come dal nulla e tendeva elegantemente la mano. “Entra che ho bisogno di un lavoro urgente!” “A disposizione, come sempre. È successo qualche cosa?” “Che i figli crescono e noi non ce ne accorgiamo!” “Ah, vanno corti i pantaloni a Paolo?” “Peggio! Vanno strette le mutande. Capisci che voglio dire?” “E non può usare quelle di don Pasquale?” “Quello, ormai, sta sempre in viaggio. E se le porta tutte! Me ne devi fare una dozzina. La stoffa l’ho presa. A dire la verità, la tenevo già e mi pareva peccato buttarla via. È conservata bene!” “Hai ragione, Rosina! Che i soldi si sudano ed è un peccato buttare la roba. E Paolo dove sta?” “Sta arrivando: si era steso sul letto un pochettino!” mentre ancora lo diceva, Paolo entrò nella stanza, scambiandosi un abbraccio fraterno con l’amico e salutando poi la madre di lui. “Salute, donna Uccia! Sempre più giovane e bella!” “Magari, signorino! Che i capelli sono sempre più bianchi!” “E che significa? Che mia madre non è forse bella? Eppure i capelli sono bianchi.” “Mah.. sarà! Comunque, grazie, signorino! Dice che vi fate grande e le mutande vanno strette…” “Così vi ha detto mia madre? E che si strappano. Davanti. Capite?” “O Gesù mio! Che impertinente!” rise la Uccia, accompagnata anche dalla Rosina. “Impertinente o no, questa è la verità, Uccia mia!” aggiunse sorniona la Rosina. “Vabbè! Pigliamo le misure?” chiese la sarta. Paolo si mise in posizione ritta, di fronte a lei e la donna fece per svolgere la fettuccia di stoffa graduata intorno alla vita di lui. “Il girovita penso sia sempre quello, più o meno. Ma è meglio che si spogli, non pensi, Uccia?” “Le misure son quelle. Ma se credi che sia meglio che abbassi i calzoni e lui non si prende scorno…” “Prendermi scorno? Di che?” Paolo si abbassò i calzoni. “Tira giù anche il resto.” “Davvero, non mi serve!” obiettò la Uccia. “Se non vedi, non puoi capire. Sarai magari tu a metterti scorno?” insistette Rosina. “Scorno di che, Commare Rosina?” il tono di Uccia si era leggermente alterato. “Che mi potrebbe essere figlio. L’ho visto crescere, sempre insieme al mio figliolo. Che gli voglio davvero bene come un figlio.” “Non averne a male, Uccia mia! Anche io voglio bene a Rosario e non mi scorno di lui. Che pure è un bel figliolo, ti pare?” la donna annuì orgogliosa. “Messo bene di tutto. Ma Paolo mio l’hai visto mai che armatura tiene?” “Ohimmè, Rosina! Eccome parli?” “Uccia, si nu te minti scornu, fallo spogliare e poi mi dici!” pungolò ancora Rosina. La sarta sembrò capitolare alle insistenze dell’altra e lasciò che Paolo si calasse le mutande, dopo i pantaloni. Ebbe un moto di sgomento, alla vista del grande attrezzo che si era liberato; guardò il figlio, che ancora si teneva ritto, appoggiato allo stipite della porta e lo ammonì: “Tu sta zitto con tuo padre di tutto questo, altrimenti succede il finimondo!” “Allora, Uccia? Avevo ragione?” La sarta rimaneva in silenzio a guardare il meraviglioso cazzo di Paolo. “Ma toccalo, se vuoi capire che succede?” stimolò ancora Rosina, resistendo senza scomporsi allo sguardo fulminante di lei. “E che sarà mai? Io quello di Rosario l’ho toccato!” continuò a provocare “E a lui non è dispiaciuto, vero Saruccio?” “E… Donna Rosina, non capisco dove vuoi arrivare?” “Voglio arrivare ad un paio di mutande. E pure loro! Il problema è sapere a quali mutande arrivare!” scoppiarono tutti e tre in una sonora risata. Solo la Uccia rimaneva attonita. “Ma pure tu: che ti sei sognato? Mo’ si spiega tutta quella ansia che c’avevi? Ma che succede? Mi spiegate?” implorò la sarta. “E toccalo e spicciamola, no?” invitò Rosario. “Ma che dici? E tuo padre?” “Sì, come se non avesse già le corna belle! Che lo sa tutto il paese.” “Screanzato! Così parli a tua madre.” Ma rimaneva ai piedi di Paolo e con lo sguardo a quel meraviglioso palo di carne che, anche così, suggeriva di peccare. La mano si mosse lentamente, andando incontro a quel sesso esposto e invitante. Indugiò a mezz’aria; lo sguardo si volse alla ricerca di quello del figlio. “Rimane tutto in questa stanza?” “Tutto! E poi ti raccontiamo il resto, se te lo meriti.” Incuriosì lui. Ci volle un attimo ed il cazzo di Paolo sparì nella bocca di Uccia, anche se un bel pezzo era costretta a lasciarlo fuori, per non affogare. Quel magnifico attrezzo si rissò oltre ogni dire, che Uccia sapeva usare la bocca e non solo quella. Lo estrasse e cominciò a far girare intorno la lingua, dicendo: “Questo sì che è lui, non quello del Pomino mio! Rosario, mi raccomando!” “Tu pensa a spogliarti, mamma. Che quello che succede qua riguarda solo noi!” dicendolo si era abbassato le braghe e proponeva a sua madre di cimentarsi anche col suo, ma la genitrice indugiava. Allora Rosina si inginocchiò e si unì a lei nel leccare il cazzo di Paolo. Uccia strabuzzò gli occhi, ma alla fine parve capire e, voltando leggermente il capo, si imboccò il cazzo di Rosario, sospirando. “Però, Rosina! Anche Rosario mio si difende bene!” “Che ti devo dire, Uccia? Che tutti e due mi spaccano e mi sfiniscono, ma basta poco ed ho voglia di farmeli di nuovo tutti e due?” Rosina si levò e cominciò a spogliarsi. “Tu fai quel che vuoi! Io non ci sto a farli godere con un bocchino, senza averli sentiti come si deve nella fessa e nel culo.” Terminato di spogliarsi, senza dir oltre, strappò via il cazzo di Paolo dalle mani di Uccia e se lo portò nella figa, mordendosi le labbra in quel primo meraviglioso piacere. La Uccia non volle esser da meno: si spogliò rapidamente e, senza pensarci troppo, si offrì al figlio, che, da parte sua, non aspettava altro. “Mamma, hai una fica che sembra un caminetto, per quanto è calda!” “E tu spegnila, che aspetti?” “E no, bella mia! Che tante volte li ho dovuti saziare io da sola questi due. Mo ti mostro io che facciamo.” Se ne uscì la Rosina e, presa una tovaglia, la stese per terra. Paolo sapeva quali erano le intenzioni della madre e, a sua volta, si coricò sulla tovaglia, il cazzo bello svettante verso il tetto. La Rosina si piegò alle spalle della Uccia e cominciò a leccarle il buco del culo, spingendo la lingua più dentro che poteva per lubrificarlo bene. Poi prese l’amica e la baciò, accompagnandola verso il figlio. Uccia aprì le gambe, portandosi sopra Paolo e cominciò a scendere, portando le braccia dietro a trovare l’appoggio sulla tovaglia. Rosina aspettò che avesse trovato l’equilibrio, poi la fece scendere col bacino. Impugnava il cazzo di Paolo e lo indirizzava sapientemente verso il buco del culo di Rosina. Si dilatava lentamente, mentre il cazzo conquistava strada nele viscere pochi millimetri per volta e sul volto di Uccia si poteva notare un’espressione di dolore. Ma non rinunciava! Anzi: “Spaccami, Paolo! Spaccami che lo voglio sentire uscire dalla bocca. Rosina mia, e che c’è di meglio del cazzo, per passare la giornata?” “Come che c’è di meglio, Uccia? Non lo sai?” “C’è di meglio?” “Certo che c’è!” fece inginocchiare Rosario di fronte alla madre e lo aiutò a penetrarla. “Due cazzi, Uccia mia!” e detto questo, cominciò ad assecondare il ritmo dei due giovani, mentre l’amica si abbandonava a gridolini e sospiri di piacere. “Così è bello! Mai ne avevo presi due: ma è meraviglioso! Beata a te che te li sei già fatti!” “Tranquilla, Uccia! Mo’ ce li dividiamo. Tanto questi non si stancano mai: beata gioventù!”
I due giovani diedero il meglio e si fecero pure la Rosina, obbligando le mamme a bere la sborra, non una e manco due volte, ma addirittura tre. Che quelle troie, poi, non chiedevano di meglio, golose come erano. Quando finalmente si quietarono, rimanendo tutti e quattro stesi per terra, nudi, la Rosina raccontò della scommessa e di come da mesi i due ragazzi la scopassero di concerto. “La prima volta, Uccia mia, pensavo di morire di vergogna. Ma poi ci ho preso gusto, che anzi due, qualche volta, mi sembrano pochi!” “E ti capisco, Rosina! Mamma mia quanto mi è piaciuto!” Intanto, Paolo e Rosario cominciavano a mostrare segni di nuovo vigore. “Figli miei, ma che c’avete?” “E mamma mia, si tu che ci hai fatto eccitare… almeno a me!” “Io?” “Che certo! Me n’ero accorto che ti sarebbe piaciuto prendere più cazzi, ma sentirtelo dire è stato così bello!” “Vacci piano, Paolo mio, che Rosario ce n’è uno solo!” “Me, mo’! Tu mi non mi consideri, Rosina! Che sono in debito con te e qualche amico ce l’ho! Penso che uno o due li potremmo tirare dentro, se ne avete piacere. Presi due, penso pure io che tre o quattro non fanno male!” Risero tutti di gusto, prima che Rosario tornasse a cimentare sua madre, che, per parte sua, non aspettava altro. “Non mi dire, Paolo, che mi lascerai guardare la Rosina che si fotte suo figlio?” “Che vuoi scherzare, mamma? Girati a pecorina: prima ti faccio il culo e poi la fica!”
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