A far compere con mamma.
di
alfredo garcia
genere
incesti
Devo dire la verità: non esplosi di entusiasmo quando udii la voce di mamma, con il consueto tono che non ammetteva repliche, intimarmi di alzarmi e di prepararmi per accompagnarla a fare compere.
Con la pigrizia tipica adolescenziale, prediligevo ciondolare dal letto al divano la mattina, ora che le scuole erano finite e avevo superato anche l’esame di terza media.
E se mamma doveva uscire, molto meglio lo facesse da sola: in quel caso avrei avuto campo libero. Solo, padrone della casa, libero di sfogare le pulsioni sessuali, fortissime, masturbandomi.
Libero di frugare tra i suoi cassetti, di rinvenire indumenti e lingerie, meglio se usata, ed eccitarmi a bestia: potevo scegliere tra le sue calze, velate e trasparenti, annusarne gli aromi di piedi e dita, calzarle come guanti prima di afferrarmi l’asta pulsante, magari anche indossarle. Potevo trovare mutandine odorose, minuscole ed indecenti, succhiarne avidamente le tracce organiche, indossarle ed inondarle di sperma. Potevo, soprattutto, scovare le sue calzature, strausate ed odorosissime, leccarle, annusarle, calzarle e infine scoparle, allagandole di seme caldo e bollente.
E potevo farlo per ore... fantastico.
Il doverla invece accompagnare significava rinunciare amaramente a questa possibilità, e sentivo già la mattinata volgere al peggio.
Tentai debolmente di obiettare, ma era inutile:
“Forza, avrò pesanti sporte da portare, e mi serve il tuo aiuto. E affrettati, la giornata si annuncia caldissima. Lo sai che soffro il caldo…”
In realtà io ero già pronto, jeans, maglietta e scarpe da ginnastica, e non appena lei si chiuse in bagno, mi affrettai al buco della serratura speranzoso di cogliere qualche visione.
Mamma era stata una ragazza bellissima, ed era tuttora, a detta di tutti, una gran bella donna: alta, imponente, fisico possente, ora un po’ appesantito. Seno oversize, fianchi larghi. Mora, corvina, occhi chiari, sopracciglia volitive, sguardo severo. A parte il sovrappeso, curava bene il suo aspetto, trucco accurato, manicure e pedicure maniacali, abbigliamento mai casuale.
Ovvio che per me fosse fonte di ispirazione continua. Così ero solito cercare di sbirciare le sue opulente forme sotto i vestiti quando possibile. E se non era facile scorgerla svestita, devo dire che ciò che mi eccitava maggiormente in lei mi era più facilmente concesso ammirare: per motivi che (allora) ignoravo, trovavo massima ispirazione dalle sue estremità inferiori, dai suoi grandi, lunghi, grossi piedi, possenti e un po’ callosi, dalle dita lunghe e robuste, dalla unghie ben curate e dipinte.
I piedi di mamma erano la mia vera ossessione: forti, odorosi, imponenti. Mi bastava guardarli nudi, o velati dalle calze, meglio ancora se calzati nelle scarpe dal tacco altissimo; in verità, mi bastava anche solo immaginarli, per avvertire una immediata e insopprimibile erezione che trovava sfogo solo in bagno, in camera da letto, o in qualunque posto in cui mi sentissi non osservato per qualche minuto… mi erano sempre piaciuti, fin da bambino adoravo annusarli e baciarli, ed allora mi era anche consentito, ma ora non osavo più, avendo scoperto il coinvolgimento sessuale, non potevo rivelarmi, e allora praticavo il culto di nascosto.
Non ebbi molta fortuna quella volta: mamma era decisamente di fretta ed ebbi poche occasioni di notare dall’orifizio, parzialmente ostruito dalla chiave, alcunché di rivelatore.
Mamma fu presto pronta ed uscì. Curioso buttai lo sguardo ad osservarla: indossava una leggerissima camicia di tessuto verde bandiera, piuttosto trasparente. Non aveva allacciato alcun bottone, limitandosi ad annodarne i lembi attorno alla vita, con un fiocco che ne nascondeva l’ombelico e, strategicamente, lo stomaco un po’ abbondante. La profondissima scollatura rivelava il robusto reggiseno a balconcino, di pizzo nero, deputato a sostenere e contenere, per quanto possibile, l’enorme opulento seno, che peraltro, ad ogni movimento, rischiava di rivelarsi alla vista, attorno ai fianchi e alle robuste cosce una gonnina stretta di cotone nero, appena sopra il ginocchio, con uno spacchetto posteriore fino a metà coscia. Davvero intrigante. Non potevo intuire quali mutandine avesse indossato, naturalmente, e mi piacque immaginare che avesse scelto le mie preferite, quelle di tulle nero, ridottissime, assolutamente trasparenti, salvo pochi ricami in pizzo sull’esiguo bassissimo triangolino sul davanti. Non so quante volte le avessi irrorate di sperma durante le mie masturbazioni, ma quando le trovavo nella cesta della biancheria sporca era una festa, ed ogni volta le annusavo, le succhiavo, spesso le indossavo, ogni volta meravigliandomi delle loro esigue dimensioni, e di come potesse una signora per bene come mamma, scegliere di indossare indumenti così scandalosi ed indecenti, da vera porca. Ed ogni volta il pensiero mi faceva vergognare ed eccitare come un cane in calore…
Aveva infilato calze velatissime, fumè, e ora si stava volgendo alla scarpiera, ma io ero già pronto a scommettere sulla sua scelta. Ero un attento osservatore, e conoscevo i gusti di mamma, quindi non fui sorpreso quando scelse le altissime decolté di pelle nera, scollate e strausate. Erano in assoluto le sue preferite per uscire. Le più eleganti.
Fui invece sconvolto nell’attimo in cui chinandosi per raccogliere le calzature, espose al mio sguardo le grandi natiche che gonfiavano la stretta gonnina e, soprattutto, lo spacco posteriore, che forzato ad aprirsi rivelava le bianche grosse cosce oltre il bordo più scuro delle calze velate. Una visione rara, che mi lasciò senza fiato. Vederla calzare le scarpe ed ero già eccitato, e maledicevo di non poter restare solo in casa, per correre in bagno a sfogarmi…
Quando si rialzò io ero già rosso e sudato; e pure lei era già accaldata, ma per altri motivi.
Fece pochi passi, si fermò sbuffando e imprecando sottovoce: “Signore che caldo, oggi scoppierò… No, non posso tollerare queste calze…”
Indispettita, parve mettere da parte per un attimo la decenza e, come dimentica della mia presenza, in un attimo sollevò la stretta gonnina fin su in vita, e mise mano ai laccetti del reggicalze. Fui nuovamente sconvolto dalla visione, e restati a bocca aperta ad osservare: il bagliore delle bianche cosce era abbacinante, come il contrasto con il nero reggicalze che le cingeva i fianchi ampi e debordanti. Sotto i laccetti, bingo!, le mutandine striminzite e scandalose da puttana, così esigue e trasparenti che potei intravedere, per la prima volta in vita mia, l’ampio irsuto nero cespuglione, che il poco tessuto minimamente poteva velare.
Durò pochi istanti quella visione di paradiso: lesta fece cadere a terra le calze che si adagiarono mollemente sui piedi calzati, rapidissima slacciò il reggicalze e, forse conscia della mia presenza, calò di nuovo il bordo della gonna sulle cosce ora nude. Il solo breve attimo in cui indugiò, per risistemarmi le minuscole mutandine che minacciavano di scendere, mi fu quasi fatale: non potei sopprimere un singulto, mentre quasi mi sentivo venire, e mamma, solo allora parve ricordarsi di me. Emise un “Ehm…” di imbarazzo, e volse lo sguardo ai miei occhi. Mi sgamò all’istante, temetti, il suo sguardo di ghiaccio mi fulminò, ma poi la sua bocca piega una piega strana, un mezzo sorriso amaro e pensoso che mi confuse…
Fu solo un attimo. Si chinò, con maggior cautela, a sfilare decolté e calze, e deglutii nello scorgere i bei piedi nudi.
Poi si accinse a calzare di nuovo le scarpe, e la vidi armeggiare in modo inconsulto e nervoso, e di nuovo la udii imprecare: i piedi accaldati e ormai sudati faticavano a calzare, nudi, le scarpe: si dovevano essere gonfiati, e le calzature stringevano troppo, facendole dolere alcune callosità. Faticosamente mamma si alzò, abbozzò qualche passo, con cautela, quasi zoppicando su quegli alti trampoli…, il dolore era troppo forte. Con un gesto di stizza tentò di scalciarle via, ma dovette di nuovo chinarsi per levarle, e allontanarle irosamente, lanciandole per la stanza. Mentre io ne seguivo la traiettoria estasiato, la vidi avanzare, a piedi scalzi, verso la stanza da bagno.
Per un attimo fui tentato di sgattaiolare a recuperare una delle decolté, e portarla alle narici avide, ma un rapido scalpiccio mi avvisò che mamma aveva già calzato altre scarpe e stava già tornando.
Come la vidi ebbi un sobbalzo: gli zatteroni! Aveva calzato gli zatteroni! Che giornata di grazia. Pensai di svenire.
Si trattava di un paio di calzature non abituali per mamma. Erano un regalo di sua sorella, mia zia, più giovane e un po’ più alla moda: un paio di ciabatte di sughero, di altezza vertiginosa: tredici o quattordici centimetri di tacco, mitigati da una zeppa alta circa quattro centimetri, che rendeva la calzata molto comoda. Due larghe fasce di cuoio marrone si incrociavano sul collo del piede, lasciando davanti un’apertura che consentiva alle dita di uscire, mostrandosi con generosità. Ed in effetti le lunghe dita di mamma, grandi e con unghie ben pittate, sopravanzavano l bordo della zeppa, e parevano voler sfiorare la terra con i polpastrelli, e questa vista non mancava mai di eccitarmi…
Per via della comodità unita all’altezza (mamma amava indossare tacchi alti e dominare il mondo), mamma non mancava mai di calzarle in casa. Era normale vederla ancheggiare intenta nei lavori di casa, dondolandosi su quei tacchi, ed erano normali per me estenuanti attese, con l’attrezzo in bollore, a struggermi aspettando che le levasse per andare a letto, o semplicemente che ne calzasse altre per uscire, ansioso di coglierle ancora calde e fragranti di aromi intensi e afrodisiaci.
Ma non le avevo mai viste indossate per uscire di casa, e la sola visione mi parve bellissima e beneaugurante. Mamma non pareva condividere l’entusiasmo: dubbiosa si fermava, chinava lo sguardo a rimirarle insoddisfatta, poi ripartiva, poi si fermava ancora esitando: “Sembro una di quelle…” si lasciò sfuggire con uno sguardo sprezzante. Decisamente non era il suo stile accostare quei vestiti alle zeppe di sughero. Si vedeva un po’ zoccola… Anch’io.
Tant’è, la stanchezza e il caldo decisero per lei. “Come mi vedi?” mi chiese dubbiosa. Deglutii a fatica, e forse la convinsi.
Con un sorriso a mezza bocca ammiccò, e mi invitò ad uscire.
Nel pianerottolo, in attesa dell’ascensore era nervosa, e scalpitava sugli zatteroni, attizzandomi ancor più. Infilammo l’angusto vano dell’ascensore. Stretti, i nostri corpi addossati, ero in palese imbarazzo. Quel corpo opulento e voluttuoso, il corpo di mia madre soprattutto, così esposto al mio sguardo, sembrava provocarmi. Mamma era accaldata, un velo di sudore sul viso e sul decoltè, mi soffiava in faccia, per farsi aria, e si agitava sollevando le grandi zinne. Sei piani così, mi sentivo mancare…
Uscimmo, mamma percepì il caldo, e si affrettò, trascinandomi per mano.
Io, da pigrone, ero solito farmi tirare, restando indietro, ma ora avevo una ragione in più: da dietro potevo indugiare sul movimento che i suoi piedi, ciabattando nelle altissime calzature, alternavano, scoprendo le splendide piante ad ogni passo, esibendo quei grossi, duri, gialli calcagni, scoprendo le solette in pelle dei sugheri, così scure, chiazzate di sudore, marcate dalle impronte delle paradisiache estremità… Che spettacolo! E udire il caratteristico rumore del distacco delle piante sudate, che appiccicate alle solette suonavano una musica caratteristica e sensuale, poterlo fare senza essere osservato da mamma, pur essendo così vicino, era il massimo per me.
Camminammo a lungo, sotto il sole, mamma che sudava copiosamente, io altrettanto accaldato, per altri motivi.
E facemmo sosta dal lattaio, poi dall’ortolano, poi al forno. Ed ogni volta erano lunghe attese, che non mi pesavano affatto. Mamma, nell’attesa, di tanto in tanto portava il peso su una gamba, e poteva quindi sfilare l’altra estremità dalla stretta delle fasce, ondeggiare all’aria la pianta e le dita accaldate, mostrando il tutto allo sguardi interessato mio e, mi pareva, anche di qualche altro astante.
Mio dio, mi pareva anche di percepire il tanfo sudato dei suoi piedi così esposti, misto a quello delle calzature strausate negli anni. E il piede che nuovamente infilava il sandalo, mi pareva imitare una penetrazione che sognavo da tempo.
Il calore che regnava nel negozio del fornaio parve dare il colpo di grazia a mamma. Ormai si tergeva con il dorso e le palme della mano il sudore che colava copioso giù per l’amplissima scollatura, dal viso e dai capelli. E un paio di volte scorsi la mano infilarsi sotto la gonna, tra le cosce, con gesto non molto fine, ma per me eccitantissimo. Quando uscimmo mamma era distrutta, quasi sfatta, e sospirò: “Forza, ancora dal macellaio, e di corsa a casa. Ho un bisogno di spogliarmi…”. E io già mi immaginavo al buco della serratura.
Dal macellaio la temperatura era molto più fresca, e mamma non frenò un paio di mugolii di piacere, mentre si faceva vento, e allargava (per quanto possibile) ancor più la scollatura, con evidente cupidigia del negoziante che non lesinava occhi sgranati e ammiccamenti smaccati.
“Che goduria, che piacere, qui al fresco” sospirava mamma con aria grata all’omone, che piacevolmente sorpreso, sorrideva smaccato e occhieggiava, la lingua a penzoloni, lo sguardo senza vergogna che si infilava nella generosa scollatura e su per lo spacco della gonnina.
A mamma che gli chiedeva se la carne era fresca, l’arrapato macellaio replicò che era talmente fresca che poteva mettersela su decolté o anche tra le cosce per mitigare il calore estivo. Mamma per niente scandalizzata osservò con voluttà che anche quel bel banco di marmo sembrava fresco e piacevole da sedercisi sopra… Il macellaio non credeva alle sue orecchie, io neppure.
Così ammiccando, sfilò il piede destro dalla calzatura accaldata, lo sollevò dietro di sé, portò il dorso a contatto con il polpaccio della sinistra, e con movimento alternato, lento e languido, prese a strofinarsi. In quel modo mi esibiva l’intera pianta, rosea, incallita e un po’ sudata, e le cinque dita che muoveva alternativamente, per far prendere loro aria, attizzandomi a bestia, in un luogo dove l’eccitazione si tagliava già con il coltello.
”Ecco la carne alla mia bella signora…” esclamò con intenzione il macellaio, “…e quando ne serve un pezzo speciale…, un bel pezzo, lei sa che da me lo trova sempre!”. Mamma sorrise divertita, io avevo un mulo che scalciava tra le mie gambe, ed ero certo che tutto il quartiere se ne sarebbe accorto.
Il ritorno carichi di borse sotto il sole cocente, io sempre attizzato come un mandrillo, fu lungo.
Ma quando di nuovo ci infilammo nello vano dell’ascensore, io, mamma, col corpo grondante sudore, le enormi borse della spesa, fu davvero la fine. Non c’era spazio per un fiammifero, e i nostri corpi erano letteralmente schiacciati l’uno sull’altro.
Mamma tentò a fatica di girarsi su se stessa fino a volgermi le spalle, sollevando le braccia al cielo. Così facendo mi trovai per un attimo con il viso tra le coppe del ciclopico reggiseno, e non esitai, con l’occhio lubrico a spaziare nell’ampio spazio tra le grandi zinne; poi le mie labbra si trovarono a sfiorare la pelle morbida delle sue braccia, e sentii il pelo delle sue ascelle non depilate, grondante e fradicio, sfiorarmi le labbra. Fremetti per l’eccitazione e lei non potè non accorgersene, anche perchè, contemporaneamente la protuberanza del mio uccellone fu costretta a strusciare sul suo ventre e sulla coscia, per poi fermarsi proprio nel mezzo delle sue poderose natiche. Finalmente e faticosamente girata, mamma potè premere la pulsantiera azionando la risalita dell’ascensore. Io, compresso contro le sue terga, speravo che quel viaggio fosse eterno, ma quando con il tipico sobbalzo la cabina si mosse, per il contraccolpo sentii l’attrezzo quasi incunearsi tra le sue grandi possenti natiche e non potei trattenere un gemito.
“Scusa, mamma” mormorai “è il movimento…”
“Il movimento…” ripetè lei, quasi assorta, sospirando, poi più decisa: “aiutami piuttosto, se non mi svesto svengo qui! Prova ad infilare le mani sotto la mia camicia, dietro la schiena, così, bravo… Bene ora sii gentile, slacciami i gancetti del reggiseno, che non lo sopporto più”
Obbedii, esitando. Sentii il contatto dei miei polpastrelli con la carne morbida e sudata della sua schiena, indugiando eccitato e confuso... che sensazioni, era mia madre. “Dai su, slaccia, aah così, così bravo, aah che piacere…”
Mamma gemette di piacere mentre il reggiseno mi esplodeva tra le mani, al punto che entrambi i laccetti mi sfuggirono. Il solo pensiero che le sue mastodontiche mammelle ora ballonzolassero libere, calde e sudate, mi attizzava a bestia. Io ormai premevo senza ritegno la mia asta tra le sue natiche, appoggiandovi tutto il peso del mio corpo. Ora mamma, che aveva ancora le braccia solevate, piegò i gomiti, portò le mani ad infilarsi nella profonda scollatura tra i seni, e dopo breve armeggiare, ne estrasse il grande reggiseno nero, rinforzato, di pizzo trasparente, sesta misura. Ancora guaendo di piacere, ebbe un fremito che fece ondeggiare tutta quella carne ora libera da costrizioni, infine lasciò cadere l’indumento. Su di me.
Percepii il bagnato del sudore, e l’intensità del suo odore corporeo, misto al suo profumo. Ero in paradiso.
L’interminabile tragitto verso il sesto piano fu per me brevissimo, ma quando all’usuale sobbalzo per l’arresto, di nuovo mi lasciai andare con forza sulle natiche di mamma, abbracciandola per non cadere, cercai con le mani le grosse tette, e non chiesi scusa. Lei non oppose nulla. Ansimava, per il gran caldo immaginai.
Entrammo in casa, e ci recammo a riporre la spesa, mamma che ancora agognava libertà dai vestiti, e allentava il nodo che stringeva la camicia al suo corpo, io che desideravo altro…
Inginocchiata a riporre la spesa, le piante dei piedi e le natiche rivolte a me, le enormi possenti zinne, libere di ciondolare nella scollatura ormai completamente aperta, la camicia trasparente e sudata appiccicata alla pelle, mamma era una visione da estasi. Io, paralizzato dallo stupore e dall’eccitazione, gli occhi strabuzzati, la desideravo. Ma non osavo…
Fu lei, rialzatasi, a rivolgersi a me, con un tono improvvisamente strano, ed una voce roca e persuasiva: “Morirai di caldo, sei paonazzo e sudato. Fai come me, spogliati, sentirai che piacere” e il suo sguardo torvo era sempre più strano.
Mi mise a sedere su una seggiola, mi osservò con attenzione, sentii il suo sguardo posarsi tra le mie gambe ed indugiare a lungo. E sorrideva strana.
Si chinò su di me, e mentre il possente seno mi si rovesciava addosso, mi sfilò la maglietta. Sorridente, con uno sguardo obliquo, restò e rimirarmi, seminudo, con addosso solo i jeans, soddisfatta. Io fissavo solo quelle immani zinne, che avevo sempre sognato, e che ora erano davvero a pochi centimetri da me.
Si rivolse al tavolo appena di fronte a me: “Benedetto tavolo di marmo!” esclamò. “Fresco come quello del macellaio”. E facendo forza con le mani vi si issò a sedere, di fronte a me piegata in avanti a fissarmi, incurante di quelle enormi mammelle che lei, mia madre, ora mi esponeva spudoratamente.
“Ah, che frescura!” gemette quasi godendo al contatto delle cosce accaldate col fresco marmo. Sollevò entrambi i piedi, ancora calzati negli zatteroni odorosi, li poggiò sulle mie cosce. Li riavvicinò, di fatto circondando il vistoso turgore tra le mie gambe. Io avevo lo sguardo sbarrato, avevo quasi paura.
Poi puntando le suole sulle mie cosce, e facendo forza sulle braccia appoggiate al tavolo, sollevò le natiche, e svelta alzò l’orlo della gonna fin quasi all’inguine, allargò le cosce, rivelandomi una visione che mai avrei immaginato, infine lasciandosi ricadere sul marmo, con evidente piacere.
“Come godo!” gemette, ora che il contatto tra la sua nuda pelle e il marmo era massimo. Chiuse gli occhi mordendosi il labbro inferiore.
Io li avevo ben aperti, gli occhi, sbirciando a fondo, ora tra gli enormi seni che, fuori dalla camicia ormai slacciata ballonzolavano su di me esibendo capezzoli enormi e turgidi, circondati da areole scure ed immense, ora penetrando, senza sforzo, tra le profondità rivelate delle sue cosce, dove l’esile pezzo della mutandina da zoccola, nemmeno poteva celare, ma anzi esaltava, la vista del selvaggio ispido cespuglione nero che avvolgeva una spacca carnosa, ampia e sconvolgente.
Stavo guardando mia madre, seminuda ed eccitata, la stavo fissando tra le gambe, tra le cosce divaricate con intenzione, e non me ne vergognavo nemmeno.
Che porca che era, che porca! Mia madre.
Ma era ancora nulla. Ora mamma, il cui sguardo torbido e sensuale mi si conficcava negli occhi, era china su di me, le immani zinne che incombevano, ora commentava con gioiosa sorpresa le dimensioni della mia protuberanza, congratulandosi con il suo imberbe ragazzino, ora decideva di liberarla dalla costrizione degli stretti pantaloni: “Apriamo la gabbia che rinchiude la bestia assatanata del mio ragazzo!” mormorò roca, mentre le sue mani già armeggiavano sulla mia cerniera.
Io gemetti solo “Ti prego mamma… ti prego", ma era un’invocazione, colma di desiderio.
Fu un attimo e la mia carne esplose tra le grandi mani di mamma, che rimirandola con cupidigia prese a carezzare il palo rigonfio, con le dita e le lunghe unghie, forti e flessuose. Il mio serpente paonazzo e ardente, pareva avere vita propria, sobbalzava tra le sue mani capaci, puntando al suo viso l’enorme, lucida, violacea cappella, che sembrava sul punto di esplodere, e che mamma rimirava leccandosi le labbra.
Poteva essere mia madre che faceva tutto questo a suo figlio?! Poteva, porca che era, ed io terrorizzato ed estasiato, la lasciavo fare.
“Che bella carne figlio mio, che bell’attrezzo…”
“Ti prego mamma…”
“Lasciami fare!” con autorevole dolcezza.
Si sollevò, di nuovo, abbandonando la presa. Portò anzi una mano al suo seno sinistro, che prese a titillare, strizzando il capezzolo. La mano destra invece viaggiò rapida tra le sue cosce divaricate, che non cessavo di fissare, sconvolto dalla viste della selvaggia foresta di pelo nero, e di quella grande inquieta spacca, ardente e fradicia, scansò il poco tulle trasparente e zuppo, e svelta infilò due dita nella spacca fradicia, che penetrò con la facilità con cui si inzuppa un biscotto nella tazza. Il gemito roco di piacere mi sorprese, come mi sorprese il gesto del pollice che, con la costa andò a solleticate l’estremità superiore della spacca, scoprendo una protuberanza morbida e lucida, simile, per me, ad un piccolo cazzettino, che stimolata pareva darle un piacere profondo, sottolineato dall’ansimare roco e profondo, in un crescendo selvaggio ed inquietante.
“Guarda come gode mamma” mi intimò fiera ed indecente…
Contemporaneamente distese un’estremità verso il mio viso (non si era dimenticata di me), intimandomi con tono da dominatrice:”Sfila la ciabattina, e leccami la pianta!”
Non chiedevo di meglio. Sfilai la calzatura, mi presi la libertà di indugiare annusandola, suscitando l’approvazione di mamma che approvò: “Bravo, senti il fetore di mamma, lecca lo zoccolo da zoccola!” Lo feci con intensità e piacere, ripulendo la soletta da ogni odorosa traccia di sporcizia e sudore, così come con dedizione mi dedicai alla pulizia della sua estremità. “Bravo, così, proprio tra le pieghe dei calli…, sì, fino in fondo, tra le dita, succhiami la sporcizia odorosa…”
Mamma mi guidava imperiosa, io diligente obbedivo.
“Adesso con la lingua, sotto le unghie sporche. Devi lustrarle, lucide come la mia vagina!”
E io in estasi, gemendo e godendo, leccavo e pulivo ed inalavo il fetido aroma.
“E adesso l’altra!” mi incalzava, senza mai smettere di masturbarsi e di fissarmi.
Io obbedii. Non avevo altra scelta, e gioiosamente obbedii. Dapprima calzai di nuovo la ciabatta pulita sull’estremità lavata di mamma, poi ripetei con identica procedura, e identico piacere, la pulizia dell’altra estremità, indugiando ancora all’attaccatura delle dita, dove la sporcizia era più fetida.
“Bravo!” disse infine mamma, che seguitava a masturbarsi in un crescendo che pareva non arrestarsi mai, “ora ti premierò!”.
E portò il piede calzato al mio ventre, infilando il mio membro tra la sua pianta e la soletta della ciabattina di sughero. Strinse forte tra tallone e calzatura, e prese a masturbarmi in quel modo.
Io ora ero all’apice, sapevo solo mormorare ossessivamente “ti prego mamma, ti prego mamma” e invocavo il piacere.
Lei con l’altro piede nudo mi carezzava ora il petto, ora il viso, con un’abilità incredibile, che mi strappava gemiti di eccitazione, ora cercava la mia bocca avida e vi conficcava le lunghe dita, soffocando i miei rantoli di piacere.
Ma i sobbalzi del suo corpo massiccio sul tavolo segnalavano l’imminenza del suo orgasmo, che giungeva forte, travolgente, cosparso di gemiti, urla roche, oscenità urlate a voce altissima…, mentre ormai scalciava come un giumenta alla monta. Mamma veniva, e godeva urlando oscenamente, mentre le sua mano infieriva nell’enorme spacca dilatata all’inverosimile davanti ai miei occhi stupefatti, incurante anzi beandosi della presenza di suo figlio, e senza mai smettere di lavorarmi il corpo. Godeva la porca, godeva, stava venendo.
E mamma venne, spudoratamente, e mentre lei godendo come una troia veniva intensamente, io masturbato dal suo piede calzato, ancora avidamente leccando la sua pianta callosa e fetida, esplodevo finalmente di piacere torrido, inondando i suoi piedi, le sue gambe, il mio stesso corpo, di fiotti di sperma bollente.
Rantolai a lungo, come all’unisono ai suoi rochi muggiti…
Tutto finito, lei riversa sul tavolo quasi agonizzante, io stravolto del piacere e dalla consapevolezza di essere stato sverginato da mia madre, da quella porca, zozza e puttana di mia madre, che ancora non esitava a esibirmi, tra le cosce divaricate, la fradicia causa della nostra torbida passione.
Lei che continuava a piantare il mio sguardo nei miei occhi persi.
“Spero verrai ancora a far la spesa con mamma..” mormorò infine con un mesto sorriso.
“Anche subito, mamma” osai rispondere io, sentendo che le forze già mi stavano tornando.
Scese dal tavolo, e senza neppure sfilarsi le mutandine, ma calzando le perfide ciabattine di sughero, si mise su di me, a cavalcioni, abbandonandosi di peso.
Con la pigrizia tipica adolescenziale, prediligevo ciondolare dal letto al divano la mattina, ora che le scuole erano finite e avevo superato anche l’esame di terza media.
E se mamma doveva uscire, molto meglio lo facesse da sola: in quel caso avrei avuto campo libero. Solo, padrone della casa, libero di sfogare le pulsioni sessuali, fortissime, masturbandomi.
Libero di frugare tra i suoi cassetti, di rinvenire indumenti e lingerie, meglio se usata, ed eccitarmi a bestia: potevo scegliere tra le sue calze, velate e trasparenti, annusarne gli aromi di piedi e dita, calzarle come guanti prima di afferrarmi l’asta pulsante, magari anche indossarle. Potevo trovare mutandine odorose, minuscole ed indecenti, succhiarne avidamente le tracce organiche, indossarle ed inondarle di sperma. Potevo, soprattutto, scovare le sue calzature, strausate ed odorosissime, leccarle, annusarle, calzarle e infine scoparle, allagandole di seme caldo e bollente.
E potevo farlo per ore... fantastico.
Il doverla invece accompagnare significava rinunciare amaramente a questa possibilità, e sentivo già la mattinata volgere al peggio.
Tentai debolmente di obiettare, ma era inutile:
“Forza, avrò pesanti sporte da portare, e mi serve il tuo aiuto. E affrettati, la giornata si annuncia caldissima. Lo sai che soffro il caldo…”
In realtà io ero già pronto, jeans, maglietta e scarpe da ginnastica, e non appena lei si chiuse in bagno, mi affrettai al buco della serratura speranzoso di cogliere qualche visione.
Mamma era stata una ragazza bellissima, ed era tuttora, a detta di tutti, una gran bella donna: alta, imponente, fisico possente, ora un po’ appesantito. Seno oversize, fianchi larghi. Mora, corvina, occhi chiari, sopracciglia volitive, sguardo severo. A parte il sovrappeso, curava bene il suo aspetto, trucco accurato, manicure e pedicure maniacali, abbigliamento mai casuale.
Ovvio che per me fosse fonte di ispirazione continua. Così ero solito cercare di sbirciare le sue opulente forme sotto i vestiti quando possibile. E se non era facile scorgerla svestita, devo dire che ciò che mi eccitava maggiormente in lei mi era più facilmente concesso ammirare: per motivi che (allora) ignoravo, trovavo massima ispirazione dalle sue estremità inferiori, dai suoi grandi, lunghi, grossi piedi, possenti e un po’ callosi, dalle dita lunghe e robuste, dalla unghie ben curate e dipinte.
I piedi di mamma erano la mia vera ossessione: forti, odorosi, imponenti. Mi bastava guardarli nudi, o velati dalle calze, meglio ancora se calzati nelle scarpe dal tacco altissimo; in verità, mi bastava anche solo immaginarli, per avvertire una immediata e insopprimibile erezione che trovava sfogo solo in bagno, in camera da letto, o in qualunque posto in cui mi sentissi non osservato per qualche minuto… mi erano sempre piaciuti, fin da bambino adoravo annusarli e baciarli, ed allora mi era anche consentito, ma ora non osavo più, avendo scoperto il coinvolgimento sessuale, non potevo rivelarmi, e allora praticavo il culto di nascosto.
Non ebbi molta fortuna quella volta: mamma era decisamente di fretta ed ebbi poche occasioni di notare dall’orifizio, parzialmente ostruito dalla chiave, alcunché di rivelatore.
Mamma fu presto pronta ed uscì. Curioso buttai lo sguardo ad osservarla: indossava una leggerissima camicia di tessuto verde bandiera, piuttosto trasparente. Non aveva allacciato alcun bottone, limitandosi ad annodarne i lembi attorno alla vita, con un fiocco che ne nascondeva l’ombelico e, strategicamente, lo stomaco un po’ abbondante. La profondissima scollatura rivelava il robusto reggiseno a balconcino, di pizzo nero, deputato a sostenere e contenere, per quanto possibile, l’enorme opulento seno, che peraltro, ad ogni movimento, rischiava di rivelarsi alla vista, attorno ai fianchi e alle robuste cosce una gonnina stretta di cotone nero, appena sopra il ginocchio, con uno spacchetto posteriore fino a metà coscia. Davvero intrigante. Non potevo intuire quali mutandine avesse indossato, naturalmente, e mi piacque immaginare che avesse scelto le mie preferite, quelle di tulle nero, ridottissime, assolutamente trasparenti, salvo pochi ricami in pizzo sull’esiguo bassissimo triangolino sul davanti. Non so quante volte le avessi irrorate di sperma durante le mie masturbazioni, ma quando le trovavo nella cesta della biancheria sporca era una festa, ed ogni volta le annusavo, le succhiavo, spesso le indossavo, ogni volta meravigliandomi delle loro esigue dimensioni, e di come potesse una signora per bene come mamma, scegliere di indossare indumenti così scandalosi ed indecenti, da vera porca. Ed ogni volta il pensiero mi faceva vergognare ed eccitare come un cane in calore…
Aveva infilato calze velatissime, fumè, e ora si stava volgendo alla scarpiera, ma io ero già pronto a scommettere sulla sua scelta. Ero un attento osservatore, e conoscevo i gusti di mamma, quindi non fui sorpreso quando scelse le altissime decolté di pelle nera, scollate e strausate. Erano in assoluto le sue preferite per uscire. Le più eleganti.
Fui invece sconvolto nell’attimo in cui chinandosi per raccogliere le calzature, espose al mio sguardo le grandi natiche che gonfiavano la stretta gonnina e, soprattutto, lo spacco posteriore, che forzato ad aprirsi rivelava le bianche grosse cosce oltre il bordo più scuro delle calze velate. Una visione rara, che mi lasciò senza fiato. Vederla calzare le scarpe ed ero già eccitato, e maledicevo di non poter restare solo in casa, per correre in bagno a sfogarmi…
Quando si rialzò io ero già rosso e sudato; e pure lei era già accaldata, ma per altri motivi.
Fece pochi passi, si fermò sbuffando e imprecando sottovoce: “Signore che caldo, oggi scoppierò… No, non posso tollerare queste calze…”
Indispettita, parve mettere da parte per un attimo la decenza e, come dimentica della mia presenza, in un attimo sollevò la stretta gonnina fin su in vita, e mise mano ai laccetti del reggicalze. Fui nuovamente sconvolto dalla visione, e restati a bocca aperta ad osservare: il bagliore delle bianche cosce era abbacinante, come il contrasto con il nero reggicalze che le cingeva i fianchi ampi e debordanti. Sotto i laccetti, bingo!, le mutandine striminzite e scandalose da puttana, così esigue e trasparenti che potei intravedere, per la prima volta in vita mia, l’ampio irsuto nero cespuglione, che il poco tessuto minimamente poteva velare.
Durò pochi istanti quella visione di paradiso: lesta fece cadere a terra le calze che si adagiarono mollemente sui piedi calzati, rapidissima slacciò il reggicalze e, forse conscia della mia presenza, calò di nuovo il bordo della gonna sulle cosce ora nude. Il solo breve attimo in cui indugiò, per risistemarmi le minuscole mutandine che minacciavano di scendere, mi fu quasi fatale: non potei sopprimere un singulto, mentre quasi mi sentivo venire, e mamma, solo allora parve ricordarsi di me. Emise un “Ehm…” di imbarazzo, e volse lo sguardo ai miei occhi. Mi sgamò all’istante, temetti, il suo sguardo di ghiaccio mi fulminò, ma poi la sua bocca piega una piega strana, un mezzo sorriso amaro e pensoso che mi confuse…
Fu solo un attimo. Si chinò, con maggior cautela, a sfilare decolté e calze, e deglutii nello scorgere i bei piedi nudi.
Poi si accinse a calzare di nuovo le scarpe, e la vidi armeggiare in modo inconsulto e nervoso, e di nuovo la udii imprecare: i piedi accaldati e ormai sudati faticavano a calzare, nudi, le scarpe: si dovevano essere gonfiati, e le calzature stringevano troppo, facendole dolere alcune callosità. Faticosamente mamma si alzò, abbozzò qualche passo, con cautela, quasi zoppicando su quegli alti trampoli…, il dolore era troppo forte. Con un gesto di stizza tentò di scalciarle via, ma dovette di nuovo chinarsi per levarle, e allontanarle irosamente, lanciandole per la stanza. Mentre io ne seguivo la traiettoria estasiato, la vidi avanzare, a piedi scalzi, verso la stanza da bagno.
Per un attimo fui tentato di sgattaiolare a recuperare una delle decolté, e portarla alle narici avide, ma un rapido scalpiccio mi avvisò che mamma aveva già calzato altre scarpe e stava già tornando.
Come la vidi ebbi un sobbalzo: gli zatteroni! Aveva calzato gli zatteroni! Che giornata di grazia. Pensai di svenire.
Si trattava di un paio di calzature non abituali per mamma. Erano un regalo di sua sorella, mia zia, più giovane e un po’ più alla moda: un paio di ciabatte di sughero, di altezza vertiginosa: tredici o quattordici centimetri di tacco, mitigati da una zeppa alta circa quattro centimetri, che rendeva la calzata molto comoda. Due larghe fasce di cuoio marrone si incrociavano sul collo del piede, lasciando davanti un’apertura che consentiva alle dita di uscire, mostrandosi con generosità. Ed in effetti le lunghe dita di mamma, grandi e con unghie ben pittate, sopravanzavano l bordo della zeppa, e parevano voler sfiorare la terra con i polpastrelli, e questa vista non mancava mai di eccitarmi…
Per via della comodità unita all’altezza (mamma amava indossare tacchi alti e dominare il mondo), mamma non mancava mai di calzarle in casa. Era normale vederla ancheggiare intenta nei lavori di casa, dondolandosi su quei tacchi, ed erano normali per me estenuanti attese, con l’attrezzo in bollore, a struggermi aspettando che le levasse per andare a letto, o semplicemente che ne calzasse altre per uscire, ansioso di coglierle ancora calde e fragranti di aromi intensi e afrodisiaci.
Ma non le avevo mai viste indossate per uscire di casa, e la sola visione mi parve bellissima e beneaugurante. Mamma non pareva condividere l’entusiasmo: dubbiosa si fermava, chinava lo sguardo a rimirarle insoddisfatta, poi ripartiva, poi si fermava ancora esitando: “Sembro una di quelle…” si lasciò sfuggire con uno sguardo sprezzante. Decisamente non era il suo stile accostare quei vestiti alle zeppe di sughero. Si vedeva un po’ zoccola… Anch’io.
Tant’è, la stanchezza e il caldo decisero per lei. “Come mi vedi?” mi chiese dubbiosa. Deglutii a fatica, e forse la convinsi.
Con un sorriso a mezza bocca ammiccò, e mi invitò ad uscire.
Nel pianerottolo, in attesa dell’ascensore era nervosa, e scalpitava sugli zatteroni, attizzandomi ancor più. Infilammo l’angusto vano dell’ascensore. Stretti, i nostri corpi addossati, ero in palese imbarazzo. Quel corpo opulento e voluttuoso, il corpo di mia madre soprattutto, così esposto al mio sguardo, sembrava provocarmi. Mamma era accaldata, un velo di sudore sul viso e sul decoltè, mi soffiava in faccia, per farsi aria, e si agitava sollevando le grandi zinne. Sei piani così, mi sentivo mancare…
Uscimmo, mamma percepì il caldo, e si affrettò, trascinandomi per mano.
Io, da pigrone, ero solito farmi tirare, restando indietro, ma ora avevo una ragione in più: da dietro potevo indugiare sul movimento che i suoi piedi, ciabattando nelle altissime calzature, alternavano, scoprendo le splendide piante ad ogni passo, esibendo quei grossi, duri, gialli calcagni, scoprendo le solette in pelle dei sugheri, così scure, chiazzate di sudore, marcate dalle impronte delle paradisiache estremità… Che spettacolo! E udire il caratteristico rumore del distacco delle piante sudate, che appiccicate alle solette suonavano una musica caratteristica e sensuale, poterlo fare senza essere osservato da mamma, pur essendo così vicino, era il massimo per me.
Camminammo a lungo, sotto il sole, mamma che sudava copiosamente, io altrettanto accaldato, per altri motivi.
E facemmo sosta dal lattaio, poi dall’ortolano, poi al forno. Ed ogni volta erano lunghe attese, che non mi pesavano affatto. Mamma, nell’attesa, di tanto in tanto portava il peso su una gamba, e poteva quindi sfilare l’altra estremità dalla stretta delle fasce, ondeggiare all’aria la pianta e le dita accaldate, mostrando il tutto allo sguardi interessato mio e, mi pareva, anche di qualche altro astante.
Mio dio, mi pareva anche di percepire il tanfo sudato dei suoi piedi così esposti, misto a quello delle calzature strausate negli anni. E il piede che nuovamente infilava il sandalo, mi pareva imitare una penetrazione che sognavo da tempo.
Il calore che regnava nel negozio del fornaio parve dare il colpo di grazia a mamma. Ormai si tergeva con il dorso e le palme della mano il sudore che colava copioso giù per l’amplissima scollatura, dal viso e dai capelli. E un paio di volte scorsi la mano infilarsi sotto la gonna, tra le cosce, con gesto non molto fine, ma per me eccitantissimo. Quando uscimmo mamma era distrutta, quasi sfatta, e sospirò: “Forza, ancora dal macellaio, e di corsa a casa. Ho un bisogno di spogliarmi…”. E io già mi immaginavo al buco della serratura.
Dal macellaio la temperatura era molto più fresca, e mamma non frenò un paio di mugolii di piacere, mentre si faceva vento, e allargava (per quanto possibile) ancor più la scollatura, con evidente cupidigia del negoziante che non lesinava occhi sgranati e ammiccamenti smaccati.
“Che goduria, che piacere, qui al fresco” sospirava mamma con aria grata all’omone, che piacevolmente sorpreso, sorrideva smaccato e occhieggiava, la lingua a penzoloni, lo sguardo senza vergogna che si infilava nella generosa scollatura e su per lo spacco della gonnina.
A mamma che gli chiedeva se la carne era fresca, l’arrapato macellaio replicò che era talmente fresca che poteva mettersela su decolté o anche tra le cosce per mitigare il calore estivo. Mamma per niente scandalizzata osservò con voluttà che anche quel bel banco di marmo sembrava fresco e piacevole da sedercisi sopra… Il macellaio non credeva alle sue orecchie, io neppure.
Così ammiccando, sfilò il piede destro dalla calzatura accaldata, lo sollevò dietro di sé, portò il dorso a contatto con il polpaccio della sinistra, e con movimento alternato, lento e languido, prese a strofinarsi. In quel modo mi esibiva l’intera pianta, rosea, incallita e un po’ sudata, e le cinque dita che muoveva alternativamente, per far prendere loro aria, attizzandomi a bestia, in un luogo dove l’eccitazione si tagliava già con il coltello.
”Ecco la carne alla mia bella signora…” esclamò con intenzione il macellaio, “…e quando ne serve un pezzo speciale…, un bel pezzo, lei sa che da me lo trova sempre!”. Mamma sorrise divertita, io avevo un mulo che scalciava tra le mie gambe, ed ero certo che tutto il quartiere se ne sarebbe accorto.
Il ritorno carichi di borse sotto il sole cocente, io sempre attizzato come un mandrillo, fu lungo.
Ma quando di nuovo ci infilammo nello vano dell’ascensore, io, mamma, col corpo grondante sudore, le enormi borse della spesa, fu davvero la fine. Non c’era spazio per un fiammifero, e i nostri corpi erano letteralmente schiacciati l’uno sull’altro.
Mamma tentò a fatica di girarsi su se stessa fino a volgermi le spalle, sollevando le braccia al cielo. Così facendo mi trovai per un attimo con il viso tra le coppe del ciclopico reggiseno, e non esitai, con l’occhio lubrico a spaziare nell’ampio spazio tra le grandi zinne; poi le mie labbra si trovarono a sfiorare la pelle morbida delle sue braccia, e sentii il pelo delle sue ascelle non depilate, grondante e fradicio, sfiorarmi le labbra. Fremetti per l’eccitazione e lei non potè non accorgersene, anche perchè, contemporaneamente la protuberanza del mio uccellone fu costretta a strusciare sul suo ventre e sulla coscia, per poi fermarsi proprio nel mezzo delle sue poderose natiche. Finalmente e faticosamente girata, mamma potè premere la pulsantiera azionando la risalita dell’ascensore. Io, compresso contro le sue terga, speravo che quel viaggio fosse eterno, ma quando con il tipico sobbalzo la cabina si mosse, per il contraccolpo sentii l’attrezzo quasi incunearsi tra le sue grandi possenti natiche e non potei trattenere un gemito.
“Scusa, mamma” mormorai “è il movimento…”
“Il movimento…” ripetè lei, quasi assorta, sospirando, poi più decisa: “aiutami piuttosto, se non mi svesto svengo qui! Prova ad infilare le mani sotto la mia camicia, dietro la schiena, così, bravo… Bene ora sii gentile, slacciami i gancetti del reggiseno, che non lo sopporto più”
Obbedii, esitando. Sentii il contatto dei miei polpastrelli con la carne morbida e sudata della sua schiena, indugiando eccitato e confuso... che sensazioni, era mia madre. “Dai su, slaccia, aah così, così bravo, aah che piacere…”
Mamma gemette di piacere mentre il reggiseno mi esplodeva tra le mani, al punto che entrambi i laccetti mi sfuggirono. Il solo pensiero che le sue mastodontiche mammelle ora ballonzolassero libere, calde e sudate, mi attizzava a bestia. Io ormai premevo senza ritegno la mia asta tra le sue natiche, appoggiandovi tutto il peso del mio corpo. Ora mamma, che aveva ancora le braccia solevate, piegò i gomiti, portò le mani ad infilarsi nella profonda scollatura tra i seni, e dopo breve armeggiare, ne estrasse il grande reggiseno nero, rinforzato, di pizzo trasparente, sesta misura. Ancora guaendo di piacere, ebbe un fremito che fece ondeggiare tutta quella carne ora libera da costrizioni, infine lasciò cadere l’indumento. Su di me.
Percepii il bagnato del sudore, e l’intensità del suo odore corporeo, misto al suo profumo. Ero in paradiso.
L’interminabile tragitto verso il sesto piano fu per me brevissimo, ma quando all’usuale sobbalzo per l’arresto, di nuovo mi lasciai andare con forza sulle natiche di mamma, abbracciandola per non cadere, cercai con le mani le grosse tette, e non chiesi scusa. Lei non oppose nulla. Ansimava, per il gran caldo immaginai.
Entrammo in casa, e ci recammo a riporre la spesa, mamma che ancora agognava libertà dai vestiti, e allentava il nodo che stringeva la camicia al suo corpo, io che desideravo altro…
Inginocchiata a riporre la spesa, le piante dei piedi e le natiche rivolte a me, le enormi possenti zinne, libere di ciondolare nella scollatura ormai completamente aperta, la camicia trasparente e sudata appiccicata alla pelle, mamma era una visione da estasi. Io, paralizzato dallo stupore e dall’eccitazione, gli occhi strabuzzati, la desideravo. Ma non osavo…
Fu lei, rialzatasi, a rivolgersi a me, con un tono improvvisamente strano, ed una voce roca e persuasiva: “Morirai di caldo, sei paonazzo e sudato. Fai come me, spogliati, sentirai che piacere” e il suo sguardo torvo era sempre più strano.
Mi mise a sedere su una seggiola, mi osservò con attenzione, sentii il suo sguardo posarsi tra le mie gambe ed indugiare a lungo. E sorrideva strana.
Si chinò su di me, e mentre il possente seno mi si rovesciava addosso, mi sfilò la maglietta. Sorridente, con uno sguardo obliquo, restò e rimirarmi, seminudo, con addosso solo i jeans, soddisfatta. Io fissavo solo quelle immani zinne, che avevo sempre sognato, e che ora erano davvero a pochi centimetri da me.
Si rivolse al tavolo appena di fronte a me: “Benedetto tavolo di marmo!” esclamò. “Fresco come quello del macellaio”. E facendo forza con le mani vi si issò a sedere, di fronte a me piegata in avanti a fissarmi, incurante di quelle enormi mammelle che lei, mia madre, ora mi esponeva spudoratamente.
“Ah, che frescura!” gemette quasi godendo al contatto delle cosce accaldate col fresco marmo. Sollevò entrambi i piedi, ancora calzati negli zatteroni odorosi, li poggiò sulle mie cosce. Li riavvicinò, di fatto circondando il vistoso turgore tra le mie gambe. Io avevo lo sguardo sbarrato, avevo quasi paura.
Poi puntando le suole sulle mie cosce, e facendo forza sulle braccia appoggiate al tavolo, sollevò le natiche, e svelta alzò l’orlo della gonna fin quasi all’inguine, allargò le cosce, rivelandomi una visione che mai avrei immaginato, infine lasciandosi ricadere sul marmo, con evidente piacere.
“Come godo!” gemette, ora che il contatto tra la sua nuda pelle e il marmo era massimo. Chiuse gli occhi mordendosi il labbro inferiore.
Io li avevo ben aperti, gli occhi, sbirciando a fondo, ora tra gli enormi seni che, fuori dalla camicia ormai slacciata ballonzolavano su di me esibendo capezzoli enormi e turgidi, circondati da areole scure ed immense, ora penetrando, senza sforzo, tra le profondità rivelate delle sue cosce, dove l’esile pezzo della mutandina da zoccola, nemmeno poteva celare, ma anzi esaltava, la vista del selvaggio ispido cespuglione nero che avvolgeva una spacca carnosa, ampia e sconvolgente.
Stavo guardando mia madre, seminuda ed eccitata, la stavo fissando tra le gambe, tra le cosce divaricate con intenzione, e non me ne vergognavo nemmeno.
Che porca che era, che porca! Mia madre.
Ma era ancora nulla. Ora mamma, il cui sguardo torbido e sensuale mi si conficcava negli occhi, era china su di me, le immani zinne che incombevano, ora commentava con gioiosa sorpresa le dimensioni della mia protuberanza, congratulandosi con il suo imberbe ragazzino, ora decideva di liberarla dalla costrizione degli stretti pantaloni: “Apriamo la gabbia che rinchiude la bestia assatanata del mio ragazzo!” mormorò roca, mentre le sue mani già armeggiavano sulla mia cerniera.
Io gemetti solo “Ti prego mamma… ti prego", ma era un’invocazione, colma di desiderio.
Fu un attimo e la mia carne esplose tra le grandi mani di mamma, che rimirandola con cupidigia prese a carezzare il palo rigonfio, con le dita e le lunghe unghie, forti e flessuose. Il mio serpente paonazzo e ardente, pareva avere vita propria, sobbalzava tra le sue mani capaci, puntando al suo viso l’enorme, lucida, violacea cappella, che sembrava sul punto di esplodere, e che mamma rimirava leccandosi le labbra.
Poteva essere mia madre che faceva tutto questo a suo figlio?! Poteva, porca che era, ed io terrorizzato ed estasiato, la lasciavo fare.
“Che bella carne figlio mio, che bell’attrezzo…”
“Ti prego mamma…”
“Lasciami fare!” con autorevole dolcezza.
Si sollevò, di nuovo, abbandonando la presa. Portò anzi una mano al suo seno sinistro, che prese a titillare, strizzando il capezzolo. La mano destra invece viaggiò rapida tra le sue cosce divaricate, che non cessavo di fissare, sconvolto dalla viste della selvaggia foresta di pelo nero, e di quella grande inquieta spacca, ardente e fradicia, scansò il poco tulle trasparente e zuppo, e svelta infilò due dita nella spacca fradicia, che penetrò con la facilità con cui si inzuppa un biscotto nella tazza. Il gemito roco di piacere mi sorprese, come mi sorprese il gesto del pollice che, con la costa andò a solleticate l’estremità superiore della spacca, scoprendo una protuberanza morbida e lucida, simile, per me, ad un piccolo cazzettino, che stimolata pareva darle un piacere profondo, sottolineato dall’ansimare roco e profondo, in un crescendo selvaggio ed inquietante.
“Guarda come gode mamma” mi intimò fiera ed indecente…
Contemporaneamente distese un’estremità verso il mio viso (non si era dimenticata di me), intimandomi con tono da dominatrice:”Sfila la ciabattina, e leccami la pianta!”
Non chiedevo di meglio. Sfilai la calzatura, mi presi la libertà di indugiare annusandola, suscitando l’approvazione di mamma che approvò: “Bravo, senti il fetore di mamma, lecca lo zoccolo da zoccola!” Lo feci con intensità e piacere, ripulendo la soletta da ogni odorosa traccia di sporcizia e sudore, così come con dedizione mi dedicai alla pulizia della sua estremità. “Bravo, così, proprio tra le pieghe dei calli…, sì, fino in fondo, tra le dita, succhiami la sporcizia odorosa…”
Mamma mi guidava imperiosa, io diligente obbedivo.
“Adesso con la lingua, sotto le unghie sporche. Devi lustrarle, lucide come la mia vagina!”
E io in estasi, gemendo e godendo, leccavo e pulivo ed inalavo il fetido aroma.
“E adesso l’altra!” mi incalzava, senza mai smettere di masturbarsi e di fissarmi.
Io obbedii. Non avevo altra scelta, e gioiosamente obbedii. Dapprima calzai di nuovo la ciabatta pulita sull’estremità lavata di mamma, poi ripetei con identica procedura, e identico piacere, la pulizia dell’altra estremità, indugiando ancora all’attaccatura delle dita, dove la sporcizia era più fetida.
“Bravo!” disse infine mamma, che seguitava a masturbarsi in un crescendo che pareva non arrestarsi mai, “ora ti premierò!”.
E portò il piede calzato al mio ventre, infilando il mio membro tra la sua pianta e la soletta della ciabattina di sughero. Strinse forte tra tallone e calzatura, e prese a masturbarmi in quel modo.
Io ora ero all’apice, sapevo solo mormorare ossessivamente “ti prego mamma, ti prego mamma” e invocavo il piacere.
Lei con l’altro piede nudo mi carezzava ora il petto, ora il viso, con un’abilità incredibile, che mi strappava gemiti di eccitazione, ora cercava la mia bocca avida e vi conficcava le lunghe dita, soffocando i miei rantoli di piacere.
Ma i sobbalzi del suo corpo massiccio sul tavolo segnalavano l’imminenza del suo orgasmo, che giungeva forte, travolgente, cosparso di gemiti, urla roche, oscenità urlate a voce altissima…, mentre ormai scalciava come un giumenta alla monta. Mamma veniva, e godeva urlando oscenamente, mentre le sua mano infieriva nell’enorme spacca dilatata all’inverosimile davanti ai miei occhi stupefatti, incurante anzi beandosi della presenza di suo figlio, e senza mai smettere di lavorarmi il corpo. Godeva la porca, godeva, stava venendo.
E mamma venne, spudoratamente, e mentre lei godendo come una troia veniva intensamente, io masturbato dal suo piede calzato, ancora avidamente leccando la sua pianta callosa e fetida, esplodevo finalmente di piacere torrido, inondando i suoi piedi, le sue gambe, il mio stesso corpo, di fiotti di sperma bollente.
Rantolai a lungo, come all’unisono ai suoi rochi muggiti…
Tutto finito, lei riversa sul tavolo quasi agonizzante, io stravolto del piacere e dalla consapevolezza di essere stato sverginato da mia madre, da quella porca, zozza e puttana di mia madre, che ancora non esitava a esibirmi, tra le cosce divaricate, la fradicia causa della nostra torbida passione.
Lei che continuava a piantare il mio sguardo nei miei occhi persi.
“Spero verrai ancora a far la spesa con mamma..” mormorò infine con un mesto sorriso.
“Anche subito, mamma” osai rispondere io, sentendo che le forze già mi stavano tornando.
Scese dal tavolo, e senza neppure sfilarsi le mutandine, ma calzando le perfide ciabattine di sughero, si mise su di me, a cavalcioni, abbandonandosi di peso.
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