Storia di Hélène
di
Hélène Pèrez Houllier
genere
sadomaso
Primo episodio
Gli stivaloni neri senza le calze lunghe erano un’autentica stranezza; ma le davano quel tono da ragazza adulta e consapevole che lei tanto adorava sentirsi addosso.
Una camicetta bianca da collegiale e la gonna nera di lana completavano il tutto, facendo di lei una presenza garbata e silenziosa, nel grande giorno dei suoi diciotto anni.
Per l’occasione l’appartamento di Rue Courtois fu aperto nuovamente ai parenti e agli amici, ma la vera festa si sarebbe svolta altrove, in una discoteca del centro.
Aveva ricevuto un biglietto di auguri da parte del signor Eric, al quale ella aveva replicato per interposta persona, tramite la sorellina Bianca; quest’ultima incontrava regolarmente il vecchio patrigno di Hélène ogni quindici giorni, e riferì il sentito ringraziamento della figliastra.
Benoît invece aveva deciso di non andare alla festa, per non creare alcun tipo di difficoltà: le vacanze erano andate bene, ma non erano mancate alcune circostanze in cui Hélène era apparsa imbambolata e succube nei suoi confronti; le consegnò il suo apprezzatissimo regalo, un cospicuo assegno in denaro, e la vide incamminarsi insieme alle amiche verso il locale della festa, scortate dai vari fidanzati.
Sarebbe passato a riprenderla intorno alle undici di sera.
Il Club 84 era stato un bar di grande successo nel decennio passato, ma adesso veniva sempre più spesso utilizzato per pranzi e feste private; ad Hélène era stata riservata una piccola sala in un luogo defilato e silenzioso lontano dall’ingresso: oltre alle ragazze del liceo, erano state invitate anche le compagne dell’istituto delle suore, insieme ad un paio di vecchie amiche della scuola di canto. Jeanne s’era portata appresso il suo Patrick, mentre anche Claudia nella circostanza si era presentata assieme ad un nuovo accompagnatore, un ragazzo molto carino di cui Hélène non conobbe mai il nome.
L’Università era appena cominciata, ed Hélène passava adesso molto più tempo fuori di casa: doveva compiere molta più strada in tram rispetto ai tempi del liceo, per raggiungere la zona universitaria, e le lezioni spesso le occupavano l’intera giornata. Non nascondeva a sé stessa, il proprio totale disinteresse verso l’argomento della legge, ma nutriva sempre moltissimo entusiasmo rispetto alla prospettiva di andare a vivere in Italia.
Proprio per tale ragione, Hélène aveva persino smesso del tutto di pensare ai ragazzi; avrebbe sognato di innamorarsi proprio a Roma, durante quella che ai suoi occhi si prefigurava più come una vacanza che non come un prolungato soggiorno di studio; non guardava nessuno dei suoi nuovi compagni di università, consapevole che ben presto si sarebbe accasata in un luogo diverso, dove avrebbe trovato la sua dolce metà e sarebbe stata felice.
Il Club 84 si era nel frattempo riempito di estranei, ed alcune persone non invitate a tratti entravano ed uscivano dalla saletta riservata ad Hélène, incuriositi dal grande baccano e dall’aria di festa che si respirava lì dentro; tutte quante le ragazze quel pomeriggio si erano truccate ed acchittate al meglio e la cosa non passava di certo inosservata.
Jeanne era cresciuta ed era diventata una bionda bellissima, con i capelli lisci lunghi e la pelle dorata; il suo Patrick la baciava in continuazione suscitando l’invidia di molti. Anche Claudia nel suo piccolo era divenuta una bella ninfetta, e quella sera esibiva un vestitino corto ed attillato con tantissime paillettes: a prima vista chiunque avrebbe detto che fosse lei, la vera festeggiata, per via di quel vestito.
Hélène invece se ne stava quasi sempre seduta al tavolo, circondata dalle sue amiche più intime come Edina e Melinda, con le quali ella parlava dell’università e del nuovo ambiente in cui s’era inserita: tutte le vecchie compagne di Hélène s’erano iscritte a facoltà differenti dalla sua, per cui non v’erano mai troppe occasioni per incontrarsi. Nessuna di loro sembrava particolarmente attratta dalle nuove materie di studio, e questo fu motivo di consolazione per la ragazzotta, che ogni tanto rimpiangeva di avere abbandonato la sua grande passione per l’arte.
Provava a non pensare a quella specie di gioco perfido cui era stata sottoposta Nicole durante la propria festa di compleanno, ma ogni tanto osservava André di soppiatto, cercando di intuire che cosa quegli avesse nella testa: appariva decisamente distratto ed anche leggermente annoiato quella sera; era probabile che avesse precedentemente discusso a lungo con Sonia, dal momento che anche quest’ultima sembrava perennemente accigliata.
Fu piuttosto la stessa Nicole a crearle una pessima situazione d’imbarazzo, quando senza chiederle nemmeno il permesso, la fece invitare da uno sconosciuto a ballare.
Costui era in realtà un uomo di trent’anni che si era affacciato nella sala, chiedendo chi fosse la festeggiata; si chiamava Vincent ed era un tipo garbato dai lineamenti del viso eleganti ed un tantino anonimi. Nicole aveva evidentemente esagerato con lo champagne, e pensò bene non solamente di presentarlo ad Hélène, ma anche di costringerla a ballare con lui.
La ragazzotta si lasciò trascinare in mezzo alla sala, e tutte quante le amiche si disposero in cerchio intorno a lei; non soddisfatta, Nicole corse dall’altro lato del locale per chiedere al proprietario se avesse un disco di Ricky Martin: l’uomo che cingeva Hélène prese così a sospingerla tenendola per un fianco, facendola letteralmente arrossire, mentre tutte quante le ragazze ridevano ed ammiccavano tra di loro.
La cosa si concluse con una specie di baciamano e con la ragazzotta che ringraziava, rassettandosi leggermente la gonna che le si era scomposta; colui con cui aveva ballato fu avvicinato da André, il quale nell’assistere alla scena, aveva meditato su come impartire ad Hélène il suo tradizionale rituale previsto per tutte le diciottenni.
La festeggiata intravide i due che parlavano, e all’improvviso sentì il sangue raggelarsi dentro le vene, mentre l’uomo di nome Vincent faceva cenno di no con il viso; non voleva prestarsi a quello stupido gioco.
André sembrava insistere, e nel frattempo il suo interlocutore era stato raggiunto da un secondo uomo meno giovane di lui, un collega con il quale si trovava assieme: a costui vennero subito riferite le intenzioni bizzarre di André per animare il seguito della festa; anche Sonia si mosse incontro a loro, e ridendo di gusto si sbracciava rigirandosi diverse volte verso il centro della sala.
Fu proprio Sonia a farsi strada in mezzo a tutto il drappello degli invitati, mentre la musica di Ricky Martin andava avanti e qualcuno ancora non aveva smesso di ballare; Hélène ristette immediatamente, un istante prima di sentirsi dire nell’orecchio, che era arrivato il suo turno, di sottostare al rituale delle diciottenni. Doveva per forza stare al gioco.
Implorò Sonia, dicendole di no in modo accorato, e pregandola di non insistere; l’amica invece di comprenderla, la derise prendendola simpaticamente per l’orecchio, e le rispose amorevolmente: “Ma è solo un gioco! …non devi pensare che faccia sul serio, è solo un gioco”.
Poco importava, che lei le botte le avesse prese per davvero, e che Sonia fosse stata tra le prime a rendersene conto durante la sua festa per i quattordici anni; adesso era proprio la sua amica a trascinarla in quel baratro di vergogna e di imbarazzo, qualcosa che per nessuna ragione al mondo lei avrebbe voluto provare di nuovo.
Sperò per un istante, che tutto quanto potesse finire lì senza alcuna conseguenza; in fondo diverse amiche stavano ancora ballando, ed il volume della musica era piuttosto alto. Sonia era tornata verso l’ingresso della sala, ed Hélène fingeva adesso di non guardarla. Poi apparentemente quella sparì, così come Vincent con il suo amico, lasciando André da solo con il suo bicchiere di champagne in mano.
Di punto in bianco all’improvviso, nel bel mezzo di una canzone piuttosto scatenata che era assai di moda in quel periodo, il volume della musica si abbassò: Hélène trasalì.
Una sontuosa torta a due piani, di panna montata e delicatissimo cioccolato finemente decorato, fece il suo ingresso nella sala. Il Saint Honoré con le diciotto candeline di Rue Courtois era stato nient’altro che un semplice dessert per brindare coi parenti più anziani; la signora Dominique aveva raggiunto il locale della festa insieme alla sorellina Bianca, facendo così un’inaspettata e graditissima sorpresa ad Hélène: lo stupido gioco voluto da Sonia e da André non si sarebbe mai potuto svolgere in loro presenza.
Trascorse un’altra ora in cui tutti quanti bevevano e parlavano ad alta voce, scattando fotografie con la festeggiata e continuando a divertirsi; la signora Dominique parlottava con alcune tra le più assidue amiche della figlia, e sembrava vivamente soddisfatta del modo in cui la festa andava svolgendosi; la sorellina Bianca se ne stava defilata.
Ma ad un certo punto la madre fece cenno di doversene andare, Bianca si stava annoiando da morire e doveva ancora finire di fare i compiti; Hélène provò in tutte le maniere a fermarla, causando non poco stupore nella donna, la quale tutto si sarebbe aspettata, tranne che sua figlia insistesse affinché ella si trattenesse. Ma quella le diede un tenero bacio e l’abbracciò stringendola a sé, per qualche istante, prima di mollarle un bonario scapaccione, salutandola.
Dopo pochi minuti, le luci della sala vennero accese a giorno, e la ragazzotta vide nuovamente Vincent che insieme ad André spostava trascinandola un’elegante poltrona rossa, prelevata da qualche altra sala accanto; che cosa mai pretendeva quello sconosciuto da lei, dopo che ella gli aveva concesso controvoglia un ballo assieme? L’amico più anziano li seguiva: i due si erano praticamente uniti alla festa, grazie alla scellerata iniziativa di André e di Sonia.
Avrebbe voluto mandarli via e litigare con la sua coppia di amici, ma certamente la cosa non sarebbe passata affatto inosservata; fece allora finta una volta ancora di ignorarli, sperando che qualcosa di nuovo potesse intervenire, a distogliere l’attenzione di tutti quanti; la solidale Edina andò a domandare se si potesse accendere nuovamente la musica, e fu subito accontentata, ma nessuno aveva più voglia di ballare, la stanchezza aveva iniziato a prevalere.
Sonia allora si avvicinò alla ragazzotta con passo lieve e felpato, ed in modo cortese le porse ambedue le mani, pregandola gentilmente di seguirla: Hélène si sentì il mondo crollare addosso, ma non trovò nulla di meglio da fare, che non sorridere verso il centro della sala, facendo finta di essere complice e di trovare quel gioco tutt’altro che increscioso ed imbarazzante.
Avanzava verso la poltrona disposta sulla parete in fondo, muovendo i fianchi molli in maniera piuttosto goffa ed incerta; era incredula per quanto era sul punto di fare: a breve si sarebbe disposta per ricevere nuovamente qualcosa di molto simile al castigo d’una piccola bambina; anche se si trattava di una punizione che tutti quanti avrebbero definito null’altro che uno stupido scherzo.
“Dai Sonia, dai per favore” provò a dire all’amica ridendo, mentre quella con aria divertita ed espressione leggiadra, guardando tutto il gruppo degli invitati, li chiamava a raccolta; le ginocchia nude di Hélène con tutti i suoi stivaloni neri, furono appoggiate sul tessuto rosso in stile vittoriano dell’enorme poltrona, mentre coloro che non erano stati presenti al compleanno di Nicole, domandavano stupiti, in che cosa consistesse quell’incomprensibile rituale.
André chiese a Vincent di togliersi la propria cintura: era stato lui a ballare con Hélène per ultimo, per cui toccava a lui iniziare il gioco; Sonia chiese alla festeggiata di mettere le mani sopra lo schienale.
In quel momento tutto quanto sprofondò. La ragazzotta ricordò perfettamente di essere stata disposta allo stesso modo: era accaduto più di tre anni addietro, con le ginocchia su una poltrona simile, rivolta verso lo schienale, e per ben due volte; aveva ripreso Pascal e Jeanne con la telecamera, e si era sentita umiliata e abusata provando sensazioni inopinate di assoluta vergogna e d’inconfessabile piacere.
Adesso Jeanne era lì insieme a Patrick, e la sbirciava ridendo in modo irrispettoso: sicuramente ricordava molto bene quei momenti in cui la ragazzotta s’era prostrata a compiere tutto ciò che lei e Pascal le avevano ordinato; rideva di gusto, e parlando nell’orecchio di Patrick, raccontava tutto quanto, senza risparmiare a quest’ultimo neppure la vicenda del signor Eric e di quella festa finita in tragedia.
Le gambe nude le presero a tremare, e sotto la lunga gonna di lana nera un senso di caldo e di leggera oppressione iniziò ad impadronirsi di lei; avrebbe voluto nascondersi.
Ma era tempo che il gioco iniziasse; Sonia prese un bicchiere di champagne e disse ad alta voce: “Brindiamo alla nostra diciottenne, bon anniversaire mademoiselle”; tutti risposero ed Hélène volse il capo verso di loro, spostandosi leggermente i lunghi capelli neri che le erano scivolati sul viso.
Il primo ad avvicinarsi fu proprio Vincent, che rivolgendosi alla festeggiata dovette rendersi conto di quanto ella provasse in quegli istanti, un grandissimo disagio; sussurrò senza farsi sentire: “Le chiedo scusa signorina”, mentre teneva stretta la propria stessa cintura nella mano destra con la fibbia nascosta in mezzo al palmo. Si mise leggermente di lato, e mentre tutti quanti lo guardavano in modo curioso e leggermente sadico, mosse il braccio e rovesciò la cintura in modo blando, sul retro della gonna di lei. Hélène chiuse gli occhi e sentì un colpetto delicato sul didietro; li riaprì e pensò che era veramente null’altro che un gioco.
L’amico di Vincent afferrò la cintura rimanendo sempre sul lato sinistro della festeggiata, mentre quella se ne stava tutta reclinata in avanti sulla poltrona; prese dapprima confidenza con lo strumento: sferrò due colpi fermi, nel vuoto in mezzo alla sala, poi prese la rincorsa, ed un sibilo penoso annunciò che questa volta non si sarebbe trattato di uno scherzo. Lo schiocco sul didietro di Hélène fu netto e tutti quanti lo udirono, seguito da un piccolo urletto della malcapitata; molti risero di gusto, le aveva fatto un bel po’ di male.
Dietro di loro, era adesso arrivato il turno di Sonia; si fece passare la cintura, e sorridendo nuovamente a tutte quante le amiche disse ad alta voce: “…E con questa sono tre”. Hélène fu colpita nel mezzo, proprio laddove provava ancora un po’ di dolore. L’amica sorrise e le diede un bacio in quella posizione, allontanandosi poi con non poco orgoglio.
André lasciò che a prendere la cintura fosse adesso Nicole; quest’ultima conosceva Hélène fin da bambina, e prima ancora di colpirla pensò di abbracciarla e di carezzarla; la ragazzotta non trovò nulla di meglio che risponderle: “Quando finisce?”; sentiva molto caldo, e la schiena aveva preso delicatamente a tremarle.
Nicole fece un passetto di lato e poi sferrò un colpo morbido ma ben assestato: tutte le amiche risero nuovamente.
André era colui che aveva introdotto quel gioco, e adesso doveva dimostrare di essere più bravo degli altri con la cintura; fece cenno di volerla dapprima sciogliere muovendola avanti e indietro nel palmo della sua mano, poi mollò anche egli un paio di colpi a vuoto. Infine, si dispose nel punto migliore lasciando il didietro di Hélène per bene esposto allo sguardo di chi era nel mezzo alla sala; illuminata da alcuni faretti, si intravedeva la forma rotonda e sproporzionata dei glutei di lei, rivolta verso il pubblico.
Allargò il braccio e si udì nuovamente un sibilo: Hélène alzò la testa urlando, il colpo era stato assestato davvero bene, e le aveva fatto molto più male di quanto ella potesse temere.
Il prossimo era Patrick, ed era il sesto.
Avanzò ridendo, sembrava veramente fosse capitato lì per caso; Hélène nemmeno osava più guardare di lato, e vedere chi fosse il prossimo che l’avrebbe colpita. Ma iniziava ad avvertire un calore assurdo sotto alla gonna, e non era certamente dovuto alle poche cinghiate che ella aveva subito: era un bollore che le veniva interamente da dentro, e se ne vergognava al punto che avrebbe quasi preferito provare vero dolore, piuttosto che quell’assurdo senso di caldo.
Il compagno di Jeanne conosceva poco la festeggiata, ed allora non volle infierire; si limitò a rovesciarle la cintura sul didietro, ridendo e scusandosi in modo blando; la bionda ragazza di lui a quel punto venne avanti sistemandosi più volte i capelli, in un vestito bianco stretto ed elegante.
Poi afferrò la cintura, e carezzò Hélène lungo la schiena, poco sopra la gonna. Quest’ultima si rammentò di tutte quante le volte in cui quella l’aveva trattata come una stupida, e provò un senso indicibile di reticenza e di vergogna: a distanza di oltre tre anni, ella si sentiva nuovamente umiliata e derisa come allora.
Non contenta, Jeanne le regalò qualcosa di inopinato e totalmente irrispettoso: afferrandole per un istante il tessuto della gonna nera su ambedue i lati, la biondina fece finta di volerla sollevare; Hélène ululò e tutti quanti risero: si trattava ovviamente dell’ennesimo scherzo.
Ma tanto era bastato, per farla sentire nuovamente esposta e completamente umiliata; tacque e fu colpita, in modo fermo e deciso, mentre tutto intorno era sceso uno strano silenzio.
Un nuovo brindisi interruppe per un breve momento il supplizio della festeggiata, prima che tutto quanto riprendesse regolarmente secondo l’ordine prestabilito.
Bernardine della scuola di canto era una delle amiche più timide, e sembrava poco propensa a prestarsi a quel tipo di gioco; ma dal momento che la coda degli ospiti si andava lentamente dipanando di fronte a lei, ella si fece avanti ed afferrò la cintura, augurando alla festeggiata sommessamente ogni gioia e felicità; poi con fare per nulla disinvolto, le mollò un colpetto quasi del tutto impercettibile.
Dietro di lei, Charlène con suo marito David si mossero assieme; costui lasciò che fosse lei a battere Hélène per prima. Quella non nascose a sé stessa un certo sentimento di disagio, mentre impugnava lo stesso arnese con il quale il padre cattivo l’aveva disciplinata diverse volte da bambina. Chiuse gli occhi e senza pensarci oltre, fece la sua parte sferrando una cinghiata dura e precisa. Il marito fece altrettanto senza molto impegno, ed Hélène sollevò per un istante le spalle sistemandosi i capelli; erano arrivati a dieci.
Valérie era la più grassa di tutte le amiche di Hélène, e quella sera s’era vestita in una maniera esagerata ed anche un tantino buffa; non amava le feste e si vergognava profondamente di sé stessa: si mosse goffamente e ricevette la cintura senza apparentemente sapere come utilizzarla; nessuno si rese conto se colpì realmente Hélène o se si limitò a fingerlo, ma intanto Sonia era tornata vicino alla scena, e prendendo il comando delle operazioni, disse ad alta voce con soddisfazione: “Siamo ad undici, ne mancano ancora sette per la nostra diciottenne!”.
Il ragazzo di Claudia era davvero bello, e la festeggiata lo vide avanzare verso di lei, con la coda dell’occhio. Abbassò il capo una volta ancora, ed udì un lungo sibilo nel silenzio della sala; arrivò una scudisciata forte, del tutto inattesa. Hélène volse per un istante il capo vedendo che quegli rideva, e sentì in quel preciso istante il ventre tremarle.
“Sono dodici” esclamò Sonia, mentre la festeggiata piegata in avanti verso lo schienale della sedia, iniziava a sentire del sudore scenderle in mezzo alle cosce, sotto le strette mutandine bianche: la situazione si stava facendo davvero insopportabile per lei, anche se nessuno dei presenti poteva nemmeno lontanamente immaginarlo.
Claudia non era stata invitata al suo compleanno di quattro anni addietro, e quindi non poteva sapere nulla di quanto era accaduto. Così afferrò la cintura e si avvicinò ad Hélène sorridendo; dopodiché aprì il braccio e le mollò una sferzata assai forte e precisa in mezzo ai glutei: il riso degli invitati riempiva la sala mentre la ragazzotta sprofondava.
Venne avanti Melinda spinta alle spalle dal fidanzato della sua compagna Annette. Si trattava di una ragazza sempre molto attenta e scrupolosa, per cui ella decise di rispettare precisamente le regole del gioco: afferrò la cintura e si dispose di lato; poi si mise le mani sugli occhi per non guardare, ed infine colpì la sua vecchia vicina di banco, senza causarle apparentemente alcun dolore; ma intanto la schiena continuava a tremarle in modo penoso ed il sudore si faceva sempre più largo in mezzo alle cosce.
Sonia era tornata nei pressi di André, mentre Annette e il suo fidanzato si erano fatti avanti; Hélène udì nuovamente un sibilo ed uno schiocco deciso sul retro della gonna, seguiti da un intenso senso di caldo e da un discreto livore su entrambi i glutei nascosti di sotto.
Annette aveva tenuto il conto, e voltandosi mentre brandiva in mano la cintura, vide la sola Edina che era rimasta in piedi alle sue spalle; disse allora ridendo: “Se ho contato bene, siamo solamente in diciassette!”; nessuno le dedicò particolare attenzione, ed allora ella completò l’opera rovesciando la cintura senza particolare convinzione.
Non restava che Edina, l’amica più onesta di tutte, la quale aveva compreso quale fosse il sentimento di disagio di colei che se ne stava in quel momento piegata in avanti sulla poltrona; avrebbe voluto concludere quello stupido gioco senza farsi notare, ma venne nuovamente raggiunta da Sonia e da André, che con aria concitata desideravano parlare a tutti quanti i presenti. Allora ristette, ed attese che il marito della sua amica rivolgendosi verso il centro della sala, esclamasse: “Manca una persona, chi vuole darle l’ultima?”.
Nessuno si rese conto del fatto che Edina avesse a quel punto saltato il turno, e tutti si misero a ridere guardandosi intorno; Hélène volse allora il capo e vide nuovamente André fermo con la cintura nella mano destra. In quell’istante sentì la vagina schiudersi in modo inesorabile; aprì la bocca provando disperatamente a trattenersi.
Il marito di Sonia brandiva saldamente la cintura ed osservava la ragazzotta disposta sulla poltrona, come se intendesse prendere la mira per bene; Hélène era umida lì nel mezzo, ma provava sempre a non dare a vedere nulla ai presenti. Era giunta sull’orlo del precipizio.
Fu colpita con l’ultima scudisciata, sentendo i fianchi che le vibravano e la pelle scuotersi una volta ancora; chiuse la bocca e spalancò gli occhi provando a fare finta di niente con una fatica indicibile, mentre tremava come una foglia.
Venne raggiunta ed abbracciata da tutti quanti, in un’atmosfera di grande festa e di sfrenato divertimento; discese dalla poltrona senza rendersi conto di niente: aveva provato ancora una volta un inopinato piacere, sfiorando dolcemente il baratro della perversione e della vergogna.
Secondo episodio
Piazza San Cosimato in Trastevere, con le primissime foglie secche dell’autunno lungo tutto il lastricato, ricordava molto la Place du Grand Sablon nel centro di Bruxelles.
Hélène lo pensava, e intanto guardava il bicchiere di vino rosso mezzo vuoto poggiato sul tavolo avanti a sé.
Quella sera si festeggiavano i suoi diciannove anni, ed una nuova vita sembrava improvvisamente schiudersi davanti ai suoi occhi: Roma, la ville éternelle, e tantissime opportunità di incontri e di nuove emozionanti scoperte.
E già i due giovani camerieri che servivano nel ristorante, e che s’erano rivolti a lei chiamandola gentilmente mademoiselle, parevano osservarla in maniera oltremodo intrigante ed incuriosita; probabilmente andavano domandandosi se l’uomo seduto di fronte a lei, robusto e sportivo, fosse in realtà suo padre, o piuttosto un suo improbabile amico o compagno - del doppio della sua età.
In realtà Benoît non era nessuna delle due cose: s’era trasferito stabilmente in Rue Courtois da quasi un anno, per vivere con la madre di lei e con la sorellina Bianca.
Hélène si trovava bene con Benno – da qualche tempo lo chiamava così, in maniera completamente disinvolta e famigliare; ed era alla fin dei conti, la persona con cui si sentiva maggiormente a proprio agio, in mezzo all’ipocrisia di tutto il resto del suo piccolo ambiente.
Si era spinta perfino a parlare di sesso insieme con lui, durante le ultime settimane trascorse da soli in Italia; ma certamente si capiva benissimo come lui la considerasse ancora poco più che una bambina. Lei ci rimaneva male, ma in fondo finiva per suscitare nel compagno di sua madre, solamente un bel po’ di ilarità e di compassione.
Eppure, Benoît non lo poteva neppure immaginare, che il suo primo, inatteso orgasmo, la mademoiselle Hélène lo avesse sperimentato proprio in sua compagnia.
Ma non si era trattato affatto di un orgasmo normale, come molti altri; Hélène se ne vergognava assai e non glielo avrebbe rivelato per nessunissima ragione al mondo, ma era venuta in modo inopinato e sgraziato, un bel giorno di circa due anni addietro, mentre era con tutta quanta la famiglia in campeggio a trascorrere le vacanze estive.
Aveva combinato tutto quanto il pasticcio di testa propria: dapprima provando a farsi notare dall’uomo di sua madre, atteggiandosi in maniera goffa e ridicola come sempre; poi non contenta, ella s’era data anche parecchio da fare, pur di causare un qualsiasi tipo di reazione in lui: fino al punto di arrivare a rompere intenzionalmente la lenza della sua canna da pesca, per destare la sua attenzione.
Si era ritrovata così da sola chiusa in bagno; lì aveva immaginato di venire punita da lui, con gli sculaccioni: aveva destato la sua attenzione, ma non abbastanza.
Hélène afferrò il bicchiere e fece cenno di voler brindare di nuovo: i suoi piccoli occhietti neri dovevano brillare un bel po’ a causa dell’ottimo rosso aglianico, e Benoît prese così ad evitarne accuratamente lo sguardo; forse temeva che a furia di bere, Hélène potesse lentamente lasciarsi abbandonare a nuovi ed inappropriati atteggiamenti un po’ troppo lascivi.
A quel punto la ragazzotta iniziò a sentire la testa che le girava a causa del vino; l’uomo di sua madre allora le strinse la mano e la condusse via con sé: presero un taxi fino all’albergo Fiorenza, dove infine le fece indossare la sua elegante camicia da notte, prima di rimboccarle le lenzuola come un’innocente bambina addormentata.
Terzo episodio
Sorrise mostrando una dentatura perfetta di colore giallo opaco. Aveva gli occhi neri con la cornea rigonfia di vene rosso sangue.
Volle per forza conoscere il suo nome, e Hélène fu costretta suo malgrado a presentarsi; ma per sua fortuna, il proprietario del piccolo negozio di frutta e verdura richiamò subito all’ordine il ragazzo, di nome Samir, tirandolo via per un orecchio. Lo mise a tacere.
Hélène si allontanò sollevata, con due pesanti buste della spesa da trasportare via con sé; dopo soli pochi metri si voltò indietro, mentre era già lungo la strada; e vide nuovamente il ragazzetto africano che la sbirciava: capì in quell’istante, che egli le stava fissando insistentemente il sedere, e provò in quella circostanza un bel po’ di vergogna.
Fece ritorno al Convitto delle donne, nella vicina via di San Giovanni in Laterano, trascinandosi dietro le sue buste. Benno era partito, e la sua nuova residenza era adesso una specie di convento di suore, un luogo austero e silenzioso; lì divideva la sua dimora con Chiara, una ragazza bionda, piuttosto elegante e minuta proveniente da una cittadina di provincia nello sperduto nord d’Italia, di nome Vercelli.
Era tutto estremamente strano, quasi inverosimile: la residenza le era stata pagata quindici anni addietro dal suo vero genitore, che mai Hélène aveva conosciuto di persona in vita sua; con chiaroveggenza e mente illuminata, le aveva lasciato in eredità un prestigioso Corso di Laurea in Diritto presso la celebre Università Lateranense in Roma, con la retta e la residenza già pagate. Se poi si fosse anche laureata entro cinque anni, avrebbe ricevuto come suo ultimo lascito, nientedimeno che un ricco assegno da un milione di franchi.
Era tutto strano e meravigliosamente bello: ma adesso c’era anche la terribile complicazione dello studio, e le difficoltà di Hélène con la lingua italiana si assommavano anche al suo oramai completo ed accertato disinteresse, verso qualsiasi tematica legata al diritto e alla legge.
Hélène era cresciuta studiando materie artistiche, e adesso si ritrovava invece a disquisire di quibus e di cavilli vari, e semplicemente la cosa non le andava affatto a genio. Se n’era fatta una ragione, solamente in virtù del fatto di poter vivere in Italia, ma certamente le nuove materie di studio non le piacevano per nulla.
La sua compagna di stanza si sforzava parecchio di aiutarla; erano state messe in appartamento assieme, dal momento che la ragazza di Vercelli parlava abbastanza bene il francese.
Chiara era una studentessa modello, una ragazza attenta e scrupolosa, e durante le lezioni prendeva sempre moltissimi appunti; Hélène finì ben presto per affidarsi completamente a lei, al punto che in aula era spesso svagata e con la testa persa tra le nuvole.
Come compagna di stanza poi, Chiara era piuttosto riservata e discreta; tuttavia, non era sfuggito a Hélène il fatto che tutte le sere, lei si chiudesse nella sua cameretta per parlare al telefono assieme al suo ragazzo. Parlavano a lungo, e quest’ultima finiva spesso per sospirare e mugolare in modo sommesso e delicato dentro al microfono; dopo un po’ di volte, apparve lampante a Hélène, come la sua compagna d’appartamento si toccasse e si lasciasse andare al piacere durante quei lunghi momenti di abbandono.
Un giorno poi, mentre Chiara era uscita in giro a fare delle spese, Hélène decise di frugare un poco dentro al suo armadio e dentro ad alcuni suoi cassetti, senza alcuna vergogna: vi ritrovò un bel po’ di indumenti eleganti, di biancheria intima piuttosto succinta e provocante, con mutandine sottilissime e trasparenti, fino anche ad una guêpière in pizzo delicato e ad un paio di vaporosi reggicalze in cotone e di raso scuro.
Apparve completamente evidente a Hélène, come la sua compagna d’appartamento coltivasse una specie di duplice identità: estremamente precisa e puntigliosa nello studio, ma poi libera e sensuale ai limiti della provocazione, nella propria vita privata; ed in quell’istante Hélène provò anche un senso di profonda tristezza e di squallore: non aveva mai avuto un fidanzato in vita sua, ed era ancora, tristemente vergine.
In verità, a Chiara aveva raccontato qualcosa di ben diverso, dal momento che le aveva rivelato di aver avuto una lunga storia d’amore ai tempi del liceo, a Liegi, con un ragazzo di poco più grande di lei. Ma non era vero nulla. Le sue uniche esperienze di sesso infatti, Hélène le aveva avute in camera sua, sotto le lenzuola; aveva scoperto infatti di amare molto sfiorarsi mentre era dentro il letto, ma nulla di più.
Aveva veduto le sue amiche d’infanzia crescere, fidanzarsi una alla volta, ed infine perdere tutte quante la loro verginità; una di loro, Sonia, aveva anche avuto una meravigliosa bambina, nata da appena due settimane.
Ma se n’era dovuta fare una ragione per il momento.
Sorrise nuovamente, mostrando la sua dentatura perfetta di colore giallo opaco. Questa volta il ragazzetto africano di nome Samir la fissò in volto, e subito si propose per aiutarla a trasportare le sue pesanti buste con la spesa; Hélène era sudata ed accaldata, ed alla fine accettò un po’ controvoglia.
Durante il non breve tragitto, che a Hélène dovette apparire comunque lunghissimo, prese a parlarle nella sua stessa lingua, chiedendole da dove venisse, e che cosa facesse lì da sola in Italia. Era davvero invadente, come solo gli uomini africani sanno esserlo; e dopo solamente pochi metri di strada, Hélène si pentì amaramente di avere accettato il suo aiuto. Giunta poi dinanzi all’entrata del Convitto, dovette ribadire per almeno tre volte in maniera quasi scortese, che non era assolutamente consentito a nessun uomo, di varcarne la soglia d’ingresso.
Allora Samir fece finalmente cenno di volersene tornare al negozio, ma poi un attimo prima di allontanarsi, le sussurrò pian piano sottovoce: “Posso chiederti una cosa madame? … posso tirarmi una sega pensando a te madame? …”.
Hélène provò un misto di ribrezzo e di pena per lui; gli diede una moneta e gli disse di andare. Quando infine si voltò lui da lontano, le stava fissando ancora ed insistentemente il sedere.
Quarto episodio
Il Professor Ducré era con ottima probabilità, l’autentico spauracchio dell’intera Università. Tutti gli studenti del primo anno provavano un vivo timore nei suoi confronti, e dei suoi esami si narravano aneddoti drammatici, di plateali bocciature e di giudizi disastrosi.
Hélène riusciva a comprenderlo meglio rispetto agli altri professori, dal momento che egli parlava in italiano con tono fermo e deciso, ma al solo pensiero di dover affrontare l’esame di Diritto Privato dinanzi a lui, provava paura e brutti presentimenti.
Sperava solamente che il tempo le venisse in aiuto, e che riuscisse nel periodo che la separava di lì agli esami, a divenire sufficientemente brava e preparata da poterlo affrontare al meglio. Tuttavia, non le sfuggiva l’atteggiamento assertivo e autoritario delle sue espressioni. Lo immaginava come un antico insegnante del secolo scorso, con la bacchetta in pugno, atto a dispensare bocciature e dolorose stilettate a tutti i suoi studenti.
Teneva tutte le lezioni con una mano infilata dentro alla tasca, mentre con l’altra gesticolava, recitando a braccio articoli e sentenze in maniera pomposa e solenne: “… atti attraverso i quali un soggetto dichiara di essere a conoscenza di un fatto giuridico …”. Hélène lo guardava ammirata e spaventata, seduta in terza fila accanto a Chiara.
Aveva iniziato a rinfrescare l’aria, e alla loro sinistra stava seduta una ragazza mora e longilinea con una sciarpa di lana avvolta attorno al collo; si fece avanti spontaneamente, era argentina di Buenos Aires ed il suo nome di battesimo era Paula; senza tanti giri di parole, domandò a Hélène in un italiano misto di spagnolo, se fosse lei la ragazza belga che abitava al Convitto.
Hélène ristette un istante, meravigliata del fatto che ella fosse al corrente della sua nazionalità e della sua dimora; dovette guardare Paula con non poco sospetto, al punto che quest’ultima si dovette quasi giustificare dicendo: “… lo sento … cioè, mi dispiace … volevo solo sapere come è, questo posto qui …”. Appariva un po’ imbarazzata, ma determinata nel suo intento, di avere qualche informazione sul luogo dove Hélène abitava.
Quest’ultima cercò faticosamente di esprimersi in italiano, e con una certa fretta replicò: “… è molto piccolo, ed è molto silenzioso, ma dentro è tutto pulito e …”; fu interrotta nuovamente: “Quanto costa la retta?”, chiese direttamente Paula.
Allora Hélène fece cenno di non capire; non conosceva ancora il significato della parola retta; Paula si fece leggermente impaziente in viso, aveva la forte sensazione di perdere il suo tempo con quella conversazione così lunga e complicata, e infine chiarì meglio: “… i soldi, l’affitto, come si chiama ?…”; Hélène allora diventò tutta rossa in volto, non aveva davvero alcuna idea di quanto costasse la retta mensile del suo appartamento; del resto le era stata pagata con l’eredità del suo genitore.
Si volse allora verso Chiara, alla sua destra, la quale nel frattempo stava trascrivendo alcuni appunti.
Chiara si liberò il viso dai lunghi capelli biondi, e sorrise amabilmente alla ragazza argentina che era seduta due posti più in là; poi senza attendere oltre rispose: “Sono circa quattrocento euro al mese per l’appartamento in due …”; “Compartito? …” chiese Paula, e subito si corresse: “… per due persone intende?”; “quattrocento euro al mese per ciascuna persona” concluse Chiara, senza aggiungere molto.
Hélène comprese che le due ragazze non si erano capite, ma non fece nulla per spiegare meglio; Paula disse qualcosa in spagnolo, ma sembrava abbastanza scocciata.
La lezione riprese, e stavolta il professore aveva assunto un tono davvero incalzante, al punto che parve persino infervorarsi in un certo momento, mentre descriveva la sacralità del diritto e l’universalità del suo significato.
Il successivo lunedì, durante l’intervallo, mentre tornava dal bagno, Hélène rivide Paula seduta vicina a Chiara, nella stessa fila della volta precedente; avevano iniziato a parlare e sembravano esprimersi in modo aperto ed amichevole; ebbe una sensazione strana, come se stessero tramando qualcosa alle sue spalle, ma certamente non era così.
Si avvicinò e questa volta si dovette accomodare sul lato destro, accanto a Paula; le due stavano parlando di un appartamento che si andava liberando e di altre ragazze spagnole che se ne stavano andando. L’inizio della lezione le costrinse però a tacitarsi fin da subito.
La sera stessa, mentre Hélène stava ripulendo il tavolo per la cena, ed un odore abbastanza pesante di verdura bollita riempiva tutto il piccolo locale, Chiara entrò in cucina ed esordì dicendo: “Ce ne andiamo! Che te ne pare a te?!? … andiamo a vivere in un appartamento fuori da questo mortorio …”, e si mise a ridere.
Hélène si voltò verso di lei, mentre la pentola già bolliva schizzando leggermente fuori in tutte le direzioni.
Chiara riprese: “L’appartamento di Paula si libera, le due coinquiline se ne tornano in Spagna, sono meno di mille euro al mese in tutto !!!”.
Parlava con un tono deciso ed entusiasta, e con un’espressione che mai fino a quel giorno Hélène le aveva veduto in volto; sembrava vivamente eccitata e carica di aspettative. Hélène spense il fuoco e si pulì le mani sul grembiule, che infine sfilò rimanendo in tuta; poi la guardò con i suoi occhi piccoli ed inespressivi, e prese subito a pensare alla retta già pagata, e al fatto di non poter lasciare quel posto.
Chiara dovette intuirlo, e si fece immediatamente più scura in viso; poi riprese ancora: “Stai pensando che non puoi venire vero? Che hai la retta pagata per tutto il tempo? Ma fino a quando te l’hanno pagata?”.
Hélène ristette, ed abbassò lo sguardo; poi riprese con voce sommessa: “Mio padre io non l’ho mai conosciuto … è morto quindici anni fa … ma l’anno scorso quando ho compiuto i diciotto anni, mi è arrivata una lettera con la sua eredità …”; non resistette oltre e si mise a piangere.
Chiara si avvicinò per consolarla, ma Hélène subito si ricompose asciugandosi le lacrime dal viso: “… era stato anche lui qui in questa Università … e aveva voluto offrirmi la possibilità di studiare come lui …”; ed infine alzando la testa e mettendosi una mano nei capelli, concluse: “ma a me questi studi non interessano davvero per nulla”.
Chiara fu come sorpresa, dalla durezza e dalla determinazione della sua compagna d’appartamento; si allontanò nuovamente verso il tavolo, e alla fine le domandò: “Ma allora … perché sei venuta quaggiù a studiare ?!?”; Hélène prese un piatto dal mobiletto sopra il lavandino, e chiosò: “Avrei fatto di tutto, pur di lasciare Liegi e soprattutto per non vivere più con mia madre …”.
Finita la cena, Chiara si rinchiuse come sempre dentro alla sua stanzetta, e Hélène rimase da sola a lavare i piatti nella cucina; quest’ultima alla fine chiuse il rubinetto e fece per entrare nella sua camera da letto; fu lì che avvertì in modo nitido, dei sospiri provenienti dalla stanza di Chiara. E allora si avvicinò alla porta senza fare rumore, e si piegò in avanti per guardare attraverso la serratura.
Intravide con molta difficoltà la sua coinquilina di spalle, seduta sul letto; aveva la gonna con le pieghette tenuta su che le ricadeva sul lenzuolo, e le braccia riverse sul davanti. Tratteneva il telefono stretto sotto alla guancia, nascosto in mezzo ai suoi lunghi capelli biondi. Ad un certo punto si lasciò cadere all’indietro, con tutta la schiena distesa sul letto, e finalmente Hélène vide la mano di Chiara infilata in mezzo alle cosce, muoversi dolcemente tra una sottile peluria delicata.
Hélène arretrò, era quasi spaventata. Non aveva mai visto una ragazza toccarsi, e provò un vivo imbarazzo misto a un filo di vergogna: si sentiva sola e insoddisfatta, ed iniziò a nutrire un profondo senso di gelosia nei confronti della sua compagna d’appartamento.
L’argomento del cambio di residenza fu solo apparentemente abbandonato: Paula riprese a parlarne con le due ragazze già all’indomani, come se la decisione fosse stata già intrapresa. Mancavano solamente dieci giorni alla scadenza del contratto d’affitto, e la cosa andava sbrigata con assoluta urgenza.
Propose a Chiara e Hélène di visitare quel luogo, la sera stessa di quel mercoledì.
Era in programma un aperitivo organizzato dalle due ragazze spagnole di Girona, la cui partenza era oramai imminente, assieme ad altri tre loro amici; così Paula pensò bene di cogliere l’occasione, l’appartamento sarebbe stato certamente molto ben pulito e ordinato, per mostrare l’abitazione anche alle sue nuove compagne di Università.
Chiara accolse subito l’invito, e fu Hélène a doverle ricordare a malincuore, lo stringente orario da coprifuoco del Convitto in cui si ritrovavano: non avrebbero potuto rincasare oltre la mezzanotte.
Erano uscite assieme in pochissime circostanze all’infuori dell’Università. Non avevano infatti ancora trovato dei buoni amici con cui andarsene in giro, e Hélène era una ragazza abbastanza attenta e prudente: le era stato detto di prestare sempre molta attenzione agli uomini italiani.
Ma per l’occasione le due studentesse decisero di farsi belle: Hélène imitò la propria compagna, e scelse una gonna nera lunga e stretta proprio come quella di Chiara; sembravano veramente due collegiali in divisa, mentre vestite quasi allo stesso modo, si preparavano per uscire. Hélène vi aggiunse una giacchetta di sottile raso scuro, sopra una camicetta bianca di seta. Chiara invece indossò una canottierina azzurra, ed una specie di spolverino bianco.
Uscirono tenendosi per mano, e si incamminarono verso la fermata dell’autobus, ridendo e scherzando tutto il tempo.
Quinto episodio
Una celeberrima canzone italiana, cantata dai Gipsy Kings, le accolse all’interno del piccolo appartamento, situato nel sottoscala di un vecchio palazzo in via Baccina, nel rione Monti.
È uno di quei palazzi antichi che hanno le rampe di scale di marmo consumate e maleodoranti, con finestrone opache rivolte verso piccole e buie chiostrine con i panni appesi che pendono dai balconi.
Dentro l’appartamento, pieno di libri e di soprammobili, trovarono Paula in un abitino rosso tutto stretto attillato, e le altre due ragazze di Girona, di nome Solange e Maria Cristina.
Se la seconda era una ragazzotta con folti capelli ricci neri, vestita in jeans e completamente struccata, la prima era invece davvero assai bella ed elegante: aveva dei lunghi capelli di colore castano chiaro, ed indossava un maglioncino color panna, una minigonna marrone piuttosto succinta, ed un paio di sottili calze in tinta con la gonna, lunghe fin sopra le ginocchia, ad esibire due cosce in carne, lisce e levigate.
Si presentarono con cordialità e simpatia, accogliendo Chiara e Hélène come se fossero state due amiche di sempre; il vino versato nei loro bicchieri giustificava il clima euforico presente dentro l’appartamento, e la loro vivacità. Avrebbero lasciato l’Italia in soli dieci giorni, e certamente quello non era che il primo di una lunga serie di festini organizzati per celebrare il loro addio.
Maria Cristina era di sicuro la più normale delle tre ragazze: nacque immediatamente una buona intesa con Hélène; lei le raccontò di avere visitato Bruges tanti anni addietro, e le due presero a parlare a lungo della bellezza di quel luogo, e delle innumerevoli differenze rispetto alla Spagna; Hélène ricambiò la discussione, per quanto le fosse possibile nel suo italiano molto incerto, domandando notizie su Girona, e sullo stile di vita di quel paese.
Solange per parte sua, non era certamente una ragazza sfrenata, ma si intuiva benissimo quanto fosse piena di sé, ed assolutamente conscia del proprio fascino: non faceva davvero nulla senza prestare la massima attenzione all’armonia dei propri movimenti, al lento fruscìo dei propri capelli, ed alla delicata postura delle sue cosce bianche. Se non avesse avuto un carattere aperto e solare, sarebbe stata certamente una tipa odiosa; ed invece nel suo insieme era anche piuttosto simpatica.
Mentre Hélène e Maria Cristina se ne stavano sul divano a parlare come due vecchie amiche, le altre tre ragazze s’erano strette attorno al tavolaccio rotondo, e adesso sorseggiavano un bicchiere di vino bianco. Discutevano della casa e del contratto d’affitto; e certamente Chiara non era restata positivamente impressionata da quel luogo, per cui anche la retta mensile, solo di poco inferiore rispetto a quella già pagata per il Convitto, doveva apparirle in quell’istante, davvero oltremodo elevata.
Ma di quel posto le piaceva l’aria godereccia e leggermente peccaminosa, sembrava una specie di boudoir un po’ retrò, un bordello di inizio Novecento.
Hélène non aveva prestato troppa attenzione alla cosa, in cuor suo ancora non pensava minimamente, di dover rinunciare alla retta già pagata per la sua attuale residenza, ma se solo ella avesse dovuto esprimere un suo parere spassionato, avrebbe sicuramente detto di non amare particolarmente quel luogo, così scuro e disordinato.
Teneva le gambe accavallate, e con la punta della scarpetta senza il tacco, sfiorava la tovaglia vicino alla sedia dove se ne stava seduta Paula, leggermente inarcata in avanti, con una vertiginosa scollatura lungo tutta la schiena.
Hélène trovava quel vestito un tantino esagerato, come del resto, un po’ esagerate erano anche le calze sopra le ginocchia che indossava Solange; certamente insieme a Chiara erano un bel terzetto, mentre lei e Maria Cristina erano decisamente più caste e bambinone, e proprio per questo si erano immediatamente intese.
Paula si alzò per cambiare il disco, e mise su una noiosa musica di chitarra flamenca. Ma subito dopo, forse per deridere un po’ le sue due coinquiline spagnole, invece di tornarsene al suo posto, si spostò al centro del salone, sul vecchio tappeto in stile povero, ed iniziò ad inscenare un ballo.
Dimenava le mani con scatti improvvisi verso l’alto, scuotendo i lunghi capelli neri leggermente mossi. All’inizio Hélène dovette pensare che Paula fosse già completamente ubriaca, ma solamente dopo pochi passi ella si rese conto che quel ballo non era affatto improvvisato, ed era anzi sempre più bello e ben coordinato; a conferma del fatto, Maria Cristina aggiunse che Paula aveva studiato danza nel suo paese, ma invece del tango – per il quale è indispensabile disporre sempre di un compagno – prediligeva il ballo flamenco. Aggiunse pure che nella sua città, Girona, quel ballo era pressoché ignorato per ragione del poco nazionalismo.
Mentre Maria Cristina parlava, Paula andava avanti con la sua danza sinuosa, e le altre due ragazze sedute al tavolo, ridevano con il bicchiere di vino nella mano.
Paula avanzò verso il divano guardando Hélène dritta negli occhi, poi fece un breve semicerchio sul tappeto e le volse le terga muovendosi ed ancheggiando nella direzione opposta; infine a quel punto, mentre la musica iniziava dolcemente a rallentare, si piegò repentinamente in avanti, e a sorpresa si sollevò il vestitino sul didietro. Mostrando incredibilmente e senza alcuna vergogna, un gran bel culo del colore dell’ambra, impreziosito unicamente del filino nero della piccola e succinta mutandina.
Chiara si mise una mano sulla bocca per lo stupore, mentre Solange rise come una pazza.
In quel momento, con perfetto tempismo, qualcuno suonò al citofono; Paula ridendo disse: “… sono loro, sono arrivati”, e si sistemò la gonna.
Si udirono dei rumori e delle voci quasi baritonali lungo le scale; erano i tre amici delle ragazze, ed erano venuti lì per festeggiare insieme con loro. Chiara istintivamente si alzò in piedi, facendo cenno di non intendere restare ancora, se lei e Hélène fossero state di disturbo. Ma immediatamente Solange – con cortesia ed eleganza – la fermò pregandola col sorriso sulle labbra, di tornarsene seduta al suo posto: i tre amici erano venuti per fare baldoria, e sarebbero stati sicuramente molto felici se si fossero trattenute anche loro.
Così, mentre Paula apriva la porta ed uno alla volta i tre ragazzi venivano dentro, Chiara si sedette e fece cenno a Hélène di voler restare; quest’ultima si rivolse verso Maria Cristina, attendendo da lei qualche dettaglio in più.
Erano tre amici che frequentavano l’università pubblica assieme alle due spagnole; uno di loro era il ragazzo di Solange e si chiamava Costanzo; mentre un secondo amico si divertiva spesso con Paula, ragazza evidentemente di facili costumi. Il suo nome era Marco, ed era di gran lunga il più bello dei tre.
Il terzo amico invece si chiamava Lele; era bassino, con i capelli ricci e corti e la pelle piuttosto scura. Hélène fissò Maria Cristina, con uno sguardo che dovette apparirle di grande curiosità: ma la ragazza di Girona, intuendo quale fosse il pensiero che quest’ultima aveva in mente, subito chiarì in modo inequivoco il concetto: “Questo qui viene sempre assieme agli altri due, ma rimane sempre da solo a fumare quelle cose che non ti dico”.
Nel frattempo, Chiara si era nuovamente alzata, nella sua gonna lunga e stretta, e veniva presentata da Solange ai tre ragazzi; Hélène se ne ristette invece sul divano con Maria Cristina, e venne salutata con un cenno frugale solamente da due dei tre, senza alcun minimo interesse reciproco. Il clima della serata non sembrava coinvolgerle più di tanto, e con l’arrivo dei tre ragazzi era un po’ come se loro due, fossero divenute all’improvviso anche vagamente di troppo.
Marco e Paula non avevano perso tempo, e la ragazza argentina era già seduta sulle ginocchia di lui, che da dietro le carezzava la schiena, lungo la vertiginosa scollatura posteriore del vestito; era una schiena robusta, da atleta, levigata e scura.
Paula si atteggiava a donna matura e decisa, rispondendo alle provocazioni con risatine indisponenti, e con una voce tutto sommato piuttosto profonda, in proporzione allo slancio longilineo del suo corpo; era quasi priva di seno, e questo aspetto faceva sì che le attenzioni di Marco, fossero quasi unicamente concentrate sulla sua schiena e sulle sue gambe accavallate.
Solange invece aveva versato del vino nel bicchiere di Costanzo, e adesso i due stavano fingendo di brindare con le braccia incrociate, in modo romantico e scherzoso. Si vedeva negli occhi di lei, una discreta passione, mentre ella lo fissava con le pupille dilatate ed un sorriso meravigliosamente bello. Lui la baciò sulle labbra, senza sprofondare il colpo, e poi ripresero a parlare.
In quel momento, a Chiara non era rimasto che Lele, il quale contrariamente alle sue abitudini, aveva provato a rendersi interessante ed attraente nei suoi confronti; la biondina aveva deciso di stare al gioco, per non sentirsi estromessa dal divertimento, e allora provocava a sua volta il piccolo ragazzo, facendogli credere di essere in fondo anche non del tutto disinteressata a lui.
Era rimasta con la sua canottiera, e la sottile catenina dorata che ella indossava, era scivolata amabilmente nel mezzo del suo decolté, suggerendo all’occhio del ragazzo seduto al tavolo accanto a lei, di osservarla fino in fondo.
Solange mise su un disco di Shakira, e fece cenno di voler ballare; subito Costanzo l’assecondò, senza scomporsi più di tanto nei movimenti; balzò su anche Paula, che riprese a dimenare i suoi lunghi capelli neri, riservando a Costanzo degli sguardi che avrebbero potuto far davvero morire di gelosia, qualsiasi altra ragazza al mondo. Ma Solange invece rideva di gusto, sapendo in fondo che la sua compagna d’appartamento amava scherzare con gli uomini, e sapendo anche che solamente di lì a dieci giorni, quel suo ragazzo, sarebbe stato felicemente alla mercé di tantissime altre.
Marco invece si alzò e fece per avvicinarsi a Chiara, che continuava la sua sterile conversazione con Lele; ci volle assai poco affinché i due si dessero il cambio, tanta era l’impossibilità per quest’ultimo, di tenere testa alle aspettative della bella biondina proveniente dal nord Italia.
Marco era davvero un malandrino, e subito Chiara comprese come la situazione si stesse facendo adesso ben più seria e pericolosa; era fidanzata, ma nel vederla così disposta, con la canottierina ed il decolté in bella vista, e le gambe accavallate, chiunque avrebbe colto in lei un chiaro segnale di offerta.
Maria Cristina indicò a Hélène la scena, e quest’ultima ristette spaventata; sembrava veramente che tra i due fosse nata immediata un’intesa, mentre Paula continuava imperterrita a danzare con Costanzo, sotto lo sguardo soave e divertito di Solange.
A un certo punto però Chiara, con una mossa a sorpresa, si sollevò dalla sedia senza alcun preavviso, e si incamminò rapidamente verso il bagno; era facile che Marco si fosse fatto avanti allungando le mani, e che lei, presa da timore e rimorsi vari, avesse deciso di tagliare corto la cosa. Hélène notò come, piuttosto che in bagno, la sua compagna d’appartamento si fosse semplicemente ritirata in una cameretta lì accanto. Ebbe l’istinto di alzarsi e di andare da lei, e fu seguita anche da Maria Cristina, che tutto desiderava tranne che di rimanere lì da sola, in quel clima da baccanale.
Si ritrovarono quindi in una camera da letto piccola e angusta; in quell’istante si capì che Chiara si era veramente ubriacata, e riusciva a malapena a mettere in ordine i suoi pensieri; disse a Hélène che era forse il caso di andarsene, e che si stava facendo tardi, anche se in realtà non erano nemmeno arrivate le dieci di sera.
Si affacciò nella stanzetta anche Lele, fumando una sigaretta e tenendo un bicchiere di vino nella mano sinistra; chiese immediatamente scusa, e mentre Maria Cristina faceva per uscire e tornarsene in salone, infastidita da quell’intrusione per nulla affatto desiderata, il ragazzo la bloccò per un braccio, spaventandola; poi si mise a ridere e le disse: “Non vorrai mica entrare in salone!?! … non sarai mica impazzita… vero? …”; Maria Cristina replicò assai irritata, e alzando leggermente la voce, che fino a quel momento era sempre stata pacata e gentile, gli rispose: “… questa è la mia casa, e io posso andare dove voglio !!!”.
Ma Lele ridendo ancora più forte, le disse carezzandole i capelli: “… e allora entra pure Delicia, ma devo avvisarti che potresti scandalizzarti assai …”, e sorseggiò in un istante quel che restava nel suo bicchiere.
Maria Cristina si affacciò, e subito ristette sulla porta, immobile; Chiara se ne stava seduta sul letto mezza addormentata, mentre Hélène si rese conto che là dentro doveva per forza esserci qualcosa di strano ed esagerato, per cui si mosse dal letto avvicinandosi anch’essa alla porta del salone.
Ai piedi del tavolo, leggermente stropicciate, due paia di mutandine, una nera sottilissima e l’altra bianca più elegante, giacevano miseramente abbandonate.
Lo sguardo delle due ragazze si mosse in maniera eguale, e con esso crebbe il loro stupore, verso la parete opposta, sul lato sinistro, dove vi era disposto il divano.
Seduti comodamente uno accanto all’altro, Marco e Costanzo reggevano su le rispettive ragazze, a cavalcioni sopra le loro ginocchia. Paula a sinistra e Solange a destra. Maria Cristina e Hélène si voltarono l’una verso l’altra e la prima fece cenno di volersi mettere una mano sugli occhi per non guardare; mentre Hélène invece si appoggiò allo stipite per poter vedere ed osservare meglio.
Un insistito rumore di cintura sciolte, e di braghe lentamente abbassate, lasciava intendere quello che era inevitabile: Hélène aggrottò le ciglia, e infine guardò lì dove non doveva; le due ragazze erano già state entrambe infilate, e adesso cavalcavano assieme i due maschi, oscillando in modo un po’ goffo e scoordinato tra di loro. Paula aveva il vestitino rosso rovesciato lungo la schiena, al punto che la vertiginosa scollatura era quasi del tutto scomparsa: Hélène osservò nuovamente che, per quanto priva di seno, la ragazza argentina di contro aveva indubbiamente un gran bel culo.
Solange invece era assai più composta anche nell’atto di venire posseduta: Costanzo la sorreggeva con dolcezza tenendole la gonna di color camoscio rigirata attorno alla vita, con un piccolo lembo leggermente stropicciato che le scendeva sulla parte posteriore da un lato.
Ma quello che più di tutto impressionò Hélène, era il membro di quest’ultimo; era oltremodo lungo, e si infilava per bene tra i glutei della bella Solange, compiendo un arco ampio e flessuoso verso il centro della stanza: doveva essere davvero lunghissimo, sembrava la pompa del giardino!
La ragazza rimbalzava mollemente sul ventre di Costanzo, con le sue calze poco sopra le ginocchia, e la pelle chiara e levigata delle cosce ed il didietro in bella mostra. Dopo qualche istante prese a mugolare in modo sommesso e delicato, poggiando le mani sopra le spalle di lui.
Paula invece si agitava molto di più, e cavalcava come una puledra selvaggia. Marco la provocava e la incalzava; a un certo punto le mollò anche uno schiaffone sul sedere, facendola sussultare per un istante. Poi riprese a sbatterla in su e in giù, con il suo membro tosto, scuro e consistente, infilato come un torrione di pietra dura in mezzo alle natiche di lei.
La voce di Shakira continuava ad accompagnare quella vista così inopinata ed oscena, ma già i mugolii di piacere delle due ragazze iniziavano a sopraffare il tutto, arrivando nitidi ed inequivocabili anche dentro alla camera da letto; in quel momento, Chiara si mise una mano sulla fronte, e piegandosi in avanti prese a vomitare sul pavimento di vecchio marmo sporco.
Allora Maria Cristina corse ad assisterla, e Lele si trovò pertanto da solo, accanto a Hélène che nel frattempo era rimasta appoggiata allo stipite, ad ammirare la scena. Il ragazzo non ci pensò su un solo momento, e vistosamente eccitato dalla situazione, senza alcun pudore mosse la mano verso la gonna di Hélène, e le afferrò il didietro stringendolo con forza: era davvero tutto grosso e molle, ed il piccolo ragazzo poté tastarlo per bene, riparato solamente dal sottile filino della mutandina.
Hélène ebbe un sussulto e ristette per un istante, davvero non si aspettava un simile affronto; ma poi – con un impeto di autentica rabbia – si voltò e mollò uno schiaffone a colui che l’aveva abusata, al punto che anche Solange in quella circostanza si voltò indietro, un attimo spaventata, con i suoi occhi da gatta socchiusi e offuscati dal piacere incessante.
Hélène si mosse con rabbia verso Maria Cristina, che nel frattempo stava trasportando Chiara verso il bagno più piccolo, tenendola su per un braccio. Quest’ultima rimise quel che le restava dentro alla tazza, piegata in avanti in maniera affannata. La manata sul didietro di Lele aveva lasciato in Hélène un sentimento strano, ma non si trattava di una sensazione sgradevole; fece così ritorno nella camera da letto, dove quest’ultimo s’era nel frattempo seduto alla scrivania, intento a prepararsi qualcosa per poter fumare.
Tornò dunque sullo stipite della porta; la musica nel salone era terminata, e adesso le due ragazze cavalcavano quasi allo stesso tempo, e i due culi perfettamente sodi e leggermente inumiditi per via del sudore e del gran caldo, andavano su e giù assieme, in una danza un po’ goffa e sensuale.
L’occhio di Hélène cadde nuovamente sul membro di Marco, dritto e fermo, impalato tra le cosce di Paula; ma soprattutto su quello di Costanzo, sempre più lungo e flessuoso, che entrava in mezzo alle natiche scomposte di Solange facendo un cerchio sempre più ampio in mezzo alla stanza. A quanto pare la ragazza catalana stava avendo degli autentici spasimi, e a tratti volgeva il capo verso la sua compagna, con gli occhi dolcemente schiusi rivolti in su, e la bocca aperta.
In quell’istante Hélène sentì la propria vagina inumidirsi, sotto lo slip stretto ed attillato; faceva davvero molto caldo.
Marco estrasse il membro, tosto e diritto, dalla vagina di Paula, che con la mano si tolse i lunghi capelli neri dal viso; poi tenendolo tra sé ed il grembo della ragazza, le inondò il vestitino rosso di sperma caldo e puzzolente. Lei non era stata ancora saziata, e così s’infilò l’altra mano in mezzo alle cosce sul davanti, finendo il lavoro che il suo maschio non era riuscito a completare.
Nel frattempo, era arrivato il momento di Solange: la gonna s’era srotolata e adesso le ricopriva quasi per intero il didietro; a un certo punto il pene di Costanzo schizzò di fuori, e solamente in quell’istante Hélène riuscì ad apprezzarne per intero la lunghezza: era molle e flessuoso, ma decisamente vivo e pieno di sangue; un’altra scossa di umido le riempì lo spazio stretto in mezzo alle cosce.
La infilzò nuovamente, e stavolta lo fece dal basso, penetrandola per intero come una candela lunga e turgida.
Ma proprio in quell’istante soggiunse Chiara e trascinò via Hélène, con uno strattone; si era completamente ripulita e truccata, così che adesso ella appariva misteriosamente più bella e gentile del solito; le fece notare l’orologio, dovevano assolutamente incamminarsi.
Non degnarono Lele neppure di un saluto, dal momento che questi era sempre piegato sulla scrivania a prepararsi un qualcosa per poter fumare. Maria Cristina le condusse attraverso il salone forzandosi di guardare dall’altro lato, mentre Chiara fissò con attenzione la scena e soprattutto il pene impressionante di Costanzo.
Hélène le seguiva con la vagina completamente bagnata, e la gonna tutta stretta attorno ai fianchi; salutarono la più tranquilla delle tre ragazze con cortesia, pregandola di fare altrettanto anche con Solange che di lì a poco sarebbe partita. E proprio in quell’istante, si udì quest’ultima, mugolare ed ululare come una tenera bambina, in preda agli spasimi del piacere: era giunto davvero il momento di andarsene.
Sesto episodio
Hélène attaccò il telefono che era di completo malumore. Non sentiva sua madre troppo spesso, e quando lo faceva non era mai una sensazione particolarmente piacevole. Ad infastidirla non era solamente il tono di voce della donna, completamente assertivo e perentorio, ma soprattutto il fatto che quest’ultima si fosse lasciata riferire dal suo uomo, per filo e per segno, tutte le azioni ed i comportamenti tenuti dalla figliola durante il loro lungo soggiorno in Italia.
Vi era nelle sue parole, un continuo accenno di rimprovero, ed una neanche tanto malcelata aria di minaccia; se qualcosa mai non era andato così come doveva, al suo rientro in Belgio avrebbero sicuramente fatto i conti.
Hélène non trovò nemmeno il coraggio d’accennare minimamente alla madre, la sua nuova intenzione di cambiare residenza: qualcosa in lei s’era smosso dopo la folle serata di quel mercoledì, e adesso non riusciva neanche più a sopportare la noia mortale del Convitto, ed il silenzio un po’ surreale di quelle stanze tanto pulite ed asettiche.
Attaccò il telefono senza avere nemmeno intrapreso la non semplice discussione, in relazione al problema della retta già pagata; avrebbe voluto comprendere, se era possibile in qualche maniera ottenerne una restituzione, anche in minima parte; erano ben quattro anni di contratto.
Si mise a letto, l’indomani era nuovamente un lunedì. Non riusciva a togliersi dalla testa le immagini del festino in casa di Paula; rivedeva le due ragazze sedute a cavalcioni sui rispettivi maschi e possedute assieme. Poi ripensava al membro di Costanzo, così lungo e ricurvo: l’aveva veramente impressionata. Non le veniva dato d’ammirare un pene in carne ed ossa, dai tempi passati trascorsi in casa di Pascal, ed invece che provare fastidio o ribrezzo, Hélène era incredibilmente confusa. Quella notte si addormentò a fatica, con la testa piena di strani pensieri e con non poca inquietudine.
Al mattino, durante la colazione, Chiara intraprese nuovamente il discorso relativo al cambio d’appartamento; Hélène si stava preparando il pane con la marmellata, e leccandosi le dita timidamente rispose: “Ieri volevo parlarne con mia madre, ma ho subito capito che non era aria …”; la biondina allora tagliò corto, e con fare leggermente indispettito le disse: “Non preoccuparti Hélène; comprendo benissimo la tua situazione. I primi due mesi non pagherai nulla, sarai nostra ospite”.
“E dopo ?!?...” domandò lei, con espressione mista di curiosità e di imbarazzo; “Dopo, a gennaio, ti dovrai trovare un lavoro, qualcosa di semplice, che ti permetterà di pagare l’affitto”.
Hélène non aveva minimamente pensato a questa eventualità; ma Chiara incalzandola riprese: “Io poi fossi in te, proverei a chiedere direttamente all’amministrazione di questo posto, se c’è qualche possibilità di recuperare parte del denaro lasciato in eredità da tuo padre”.
“Altrimenti terrò la stanza, e verrò qui unicamente per studiare, quando vorrò stare un po’ tranquilla …” rispose senza pensarci troppo su Hélène. Ed in quel momento, in cuor suo ella aveva già deciso: non avrebbe assolutamente detto nulla a sua madre, né avrebbe minimamente provato ad ottenere indietro il denaro.
Sciagurata com’era, Hélène aveva preso una decisione che l’avrebbe costretta a trovarsi un lavoro per mantenersi; ma oramai il dado era tratto. Durante il pomeriggio alla lezione di Diritto Privato, le due ragazze incontrarono nuovamente Paula, vestita con una giacchetta di pelle scura e con i jeans: sembrava un’altra persona rispetto alla femmina provocante e maliarda veduta all’opera durante la folle serata con le spagnole. Non la vedevano fin da allora, avendo quest’ultima saltato la lezione del venerdì.
Prese atto con meno entusiasmo del previsto, della disponibilità delle due ragazze a trasferirsi nel suo appartamento: era strano, ma in quella circostanza la bella studentessa argentina appariva più taciturna ed inquieta del solito. Solamente qualche ora dopo, si venne a sapere che Paula era stata appena bocciata, in un esame di recupero dell’anno precedente di Storia del Diritto.
Rientrate al Convitto, dopo un frappè bevuto dentro al bar affacciato sull’ampia piazza antistante l’Università, Chiara spinse Hélène a domandare notizie al portierato. Una suorina non troppo gentile, le diede il riferimento di una tale madre Iolanda, che amministrava la residenza; le fissò un appuntamento per la mattina dell’indomani, alle ore undici. Avvisò candidamente Hélène, di presentarsi nella circostanza, puntuale e ben vestita, trattandosi di una madre superiora oltremodo seria, severa ed intransigente.
Settimo episodio
Hélène si presentò puntuale dinanzi a madre Iolanda, vestita con una camicetta azzurra ed uno stretto pantalone nero; sembrava quasi una grossa balena, per quanto le stava abbottonato attorno ai fianchi e lungo le cosce.
La suora la guardò con sospetto e con aria di vaga superiorità, seduta dietro alla sua scrivania; poi la invitò ad accomodarsi. Esordì dicendo: “Mi hanno detto che la signorina intende parlarmi di faccende legate alla retta della residenza… è così signorina !?!”. Hélène intuì subito che la conversazione sarebbe stata difficile e per di più infruttuosa; replicò balbettando, nel suo italiano assai imperfetto: “… oh no, veramente no madre … volevo solamente fare una mia domanda, per questa retta di mio padre …”.
Allora madre Iolanda, guardandola dall’alto in basso, replicò: “… suo padre? … perché mi parla di suo padre signorina … che cosa c’entra adesso suo padre?”.
Hélène si fece scura in volto, e prendendo fiato a fatica rispose: “… mio padre è morto, ma questa retta l’ha pagata per me tanti anni fa …”.
La suora fece un cenno di scuse con il braccio, e poi aprì un pesante registro. Leccandosi l’indice della mano destra un’infinità di volte, raggiunse finalmente la lettera H, dove si trovava la scheda relativa alla retta d’affitto di Hélène.
Chiuse il pesante libro, lasciando un bel po’ di polvere nell’aria leggermente maleodorante della stanza. Poi rispose: “Signorina Houllier, suo padre ha pagato la retta per tutta la durata del suo corso di studio, fino al 2012. Erano quattordici milioni e seicento mila lire nel lontano 1993. Si rende conto?”, e ripose il librone sopra un ripiano alle sue spalle.
“Cosa vuole dire … che non posso più riprendere quei soldi?”, fece Hélène, con aria persa. E la suora rispose aggrottando le ciglia: “Riprendere!?! … riprendere? che cosa vuol dire … riprendere !?!”.
Allora Hélène si sedette meglio sulla sedia, sospirando profondamente, iniziava ad avere caldo; ristette e rispose tremando: “… veramente … veramente io … io vorrei lasciare questo posto …”, e si legò i capelli in una coda di cavallo, come non faceva da tempo.
La suora si alzò in piedi e la prese su per un braccio; le disse: “… e perché mai signorina vorrebbe andarsene?”.
Hélène si lasciò sollevare, e mentre seguiva a passetti lenti madre Iolanda, che intanto avanzava verso la grande finestra adornata da un pesante tendaggio, trovò a malapena le parole per risponderle: “… veramente … veramente io voglio andare a vivere in un appartamento …”.
Vide la suora aggrottare nuovamente le ciglia e farsi minacciosa; questa stringendo il braccio di Hélène, esclamò: “… tentazioni! … stia attenta signorina, queste sono solo tentazioni!”.
Hélène la guardò preoccupata, aveva lo sguardo basso; ma madre Iolanda aveva compreso quanto fosse inutile perdere del tempo con quella sciagurata, e tornandosene indietro alla sua scrivania, concluse la discussione esclamando: “In ogni caso signorina, l’accordo sottoscritto da suo padre non prevede alcuna restituzione !”, e chiosò: “Lei può andarsene dove vuole, a suo rischio e pericolo, ma non riavrà indietro nemmeno una lira di quanto fu pagato dal suo genitore … e adesso via, se ne vada … arrivederci …”.
Hélène se ne uscì a testa bassa, con la coda tra le gambe.
Raggiunse l’Università leggermente trafelata, mentre l’aula in cui si teneva la lezione di Diritto Civile aveva già i battenti delle porte completamente chiusi; si mise allora a sedere nel corridoio, senza osare entrare.
Quando la lezione di Diritto Civile si concluse, dall’aula uscirono Chiara e Paula, ridendo e scherzando. La ragazza argentina non frequentava quel corso, ma a quanto pare era entrata nell’aula dal lato opposto prima del termine, per poter parlare con la compagna d’appartamento di Hélène.
La ragazzotta belga si avvicinò, e udì che le due studentesse stavano parlando proprio di lei; stavano discutendo animosamente, su chi tra loro due, avrebbe dovuto farsi carico della quota d’affitto che lei non avrebbe pagato.
Allora ristette, e si fermò rimanendo leggermente indietro; si rese conto solamente in quell’istante del guaio in cui si stava per cacciare, e provò un senso di pena e di rimorso. Ma oramai la decisione era stata intrapresa, ed entro solamente cinque giorni, lei e Chiara avrebbero abbandonato la loro attuale residenza per trasferirsi nel disordinato appartamento dove abitava la ragazza argentina.
Le due coinquiline spagnole lasciarono l’Italia quel sabato, che era il primo giorno di novembre, con non poca tristezza e tanta malinconia. Chiara aveva chiesto ed ottenuto due giorni di permanenza aggiuntiva al Convitto, e alla mattina dell’indomani le due ragazze prepararono i loro bagagli, e si presentarono nel buio sottoscala di rione Monti.
Hélène prese posto nella cameretta in cui Chiara s’era ritirata la volta precedente, vicino al salone. Era la stanza in cui aveva abitato Solange, mentre Chiara divise la camera più grande con Paula, laddove precedentemente si trovava anche Maria Cristina. Non appena ebbero ultimato il loro breve trasloco, la biondina decise subito di telefonare al suo ragazzo, senza attendere la sera: avrebbe finalmente avuto un pied-à-terre per poterlo ospitare a Roma, e non chiese nemmeno il permesso alle sue compagne d’appartamento, pareva letteralmente impaziente di poterlo incontrare; si limitò a comunicare il suo imminente arrivo poco prima di cena, mentre Paula stava preparandosi una minestra e Hélène andava stirando alcuni vestiti.
Lorenzo avrebbe trascorso una sola notte, quella del fine settimana, insieme con loro. Paula non fece nulla, ma si capì subito che era abbastanza scocciata di non essere stata informata sin dall’inizio. Con aria seria e piccata, disse alla biondina: “Non sta bene che tu decidi questa cosa da sola … le regole di questa casa sono che si decide tutte insieme!”. Per un attimo Hélène temette che le due potessero litigare, ma dopo solamente qualche istante, Paula prese Chiara per i capelli in modo scherzoso, senza farle del male, e ridendo le disse: “… ma per questa volta mi sta bene … si vede tanto che stai morendo dalla voglia di averlo lì, il ragazzo!”; si riferiva certamente, alla voglia di fare l’amore, e allora Chiara diede un tenero bacio a Paula, per farsi perdonare di non averle chiesto il permesso.
Iniziò così una nuova vita, le tre studentesse uscivano assieme alla mattina, e prendevano l’autobus dirette verso l’Università. Hélène era sempre più isolata, non aveva imparato affatto l’italiano, ed ora che c’era anche Paula, Chiara aveva smesso di parlare con lei in francese quando erano tutte insieme; in più, provava un senso di perenne inferiorità, per il fatto di non potersi pagare regolarmente la sua quota d’affitto.
Quei giorni Hélène ricevette un’inattesa nota di cortesia da parte delle suore del Convitto: vi era una nuova inquilina, che avrebbe condiviso il suo stesso appartamento al posto di Chiara. Hélène provò in quella circostanza un po’ di curiosità mista al solito timido rimorso: la nuova ospite si chiamava Linda Prevet e proveniva da Grenoble, in Francia. Hélène per un istante pensò che avrebbe desiderato di poterla incontrare; con quel nome così semplice ed elegante, Linda avrebbe forse potuto essere, anche un’ottima compagna. Ma quello era un pensiero davvero insensato.
Si ritirò in camera sua a studiare, prima di cadere assopita in un dolce sonno ristoratore.
Ottavo episodio
Lorenzo si presentò alla porta preceduto da Chiara, che lo teneva amorevolmente per mano; era andata a prenderlo alla stazione, e di lì erano venuti a piedi fino all’appartamento, con lui che teneva la sua borsa in spalla.
Era alto e biondo, con i capelli piuttosto lunghi e scapigliati: se invece dello zaino avesse avuto una chitarra a tracolla lungo la schiena, avrebbe tranquillamente potuto essere un cantante inglese o americano, di musica folk. Chiara si era completamente trasformata in vista del suo arrivo, e quel pomeriggio indossava una minigonna piuttosto succinta di colore bianco, con calze velate e lunghi stivali neri.
Si era truccata in maniera ammaliante, come mai prima di allora aveva fatto; di sopra indossava una camicetta rosa abbottonata fino al collo.
Hélène fu presentata a Lorenzo, mentre Paula era andata in giro a fare la spesa. Lo guardò con irresistibile attrazione, ma questi – che era visibilmente stanco ed accaldato – si limitò ad un semplice saluto; sembrava piuttosto scocciato di vederla, come se in cuor suo avesse lungamente sperato, di non trovare nessun altro lì dentro quell’appartamento.
La verità è che aveva una voglia smisurata di fare sesso con Chiara, provava una pulsione davvero incontenibile: erano passati quasi due mesi da quando lui e la sua ragazza s’erano incontrati per l’ultima volta, e nonostante il lungo viaggio in treno, e la successiva camminata per giungere a casa, aveva in quel momento un chiodo fisso dentro alla testa. Per moltissimi giorni aveva tenuto le sue energie a freno, al punto che in più occasioni il sesso lo aveva sentito vibrare, come una creatura viva dentro ai suoi pantaloni; e adesso era giunto finalmente nel luogo dove tutte quelle energie sarebbero state spese: ma vi era ora questo impedimento, questa banale ragazzotta straniera a proibire loro di esplodere in tutta la loro passione.
Chiara avrebbe voluto dire a Hélène di andarsene, ma era vestita in maniera completamente dimessa, con una culotte bianca che sembrava quasi un pigiama, ed una maglietta a girocollo, per cui si sarebbe dovuta preparare a lungo per poter uscir di casa e lasciarli liberi.
Accompagnò Lorenzo nel salone, laddove egli avrebbe dovuto pernottare, dormendo sul divano. In quell’istante Hélène domandò al nuovo arrivato, se desiderasse di bere qualcosa; ma quegli, con fare sbrigativo ed anche leggermente inelegante le rispose: “Perché non ci lasci un po’ da soli adesso? …”.
Hélène ci rimase male, ma riprese alcuni fogli con gli appunti che aveva precedentemente appoggiato sul tavolo, nel momento in cui era andata ad aprire la porta, e si ritirò in camera da letto strisciando lentamente con le sue ciabatte; in quell’istante, si sentì tristemente sola e indesiderata, era quasi sul punto di piangere.
Si chiuse in bagno per un po’, e quando ne uscì, dal salone non si udiva più nulla. Aprì nuovamente la porta della sua camera con cautela, tutto avrebbe desiderato tranne che di essere vista, ma nel salone non vi era più alcuna traccia né di Lorenzo e né di Chiara.
Allora si mosse lentamente verso il tavolo, e poi successivamente nella direzione della cucina; in quell’istante udì in modo nitido, dalla camera da letto di Chiara e Paula, degli urletti soffocati, seguiti da alcuni sbuffi di piacere. Si fermò attonita su due piedi, ed a quel punto gli urletti divennero più distinti e riconoscibili. Era Chiara che stava godendo in modo sommesso, pareva quasi gemere.
Hélène non sapeva cosa fare, inizialmente pensò di tornarsene in camera con la coda tra le gambe; ma poi avvertì come uno scatto dentro alla pancia, e subito fu bagnata in mezzo alle cosce, dentro le sue culotte.
Allora decise che avrebbe voluto spiarli, e si piegò con non poca difficoltà verso la serratura della porta. Chiunque l’avesse osservata dal didietro in quel momento, avrebbe veduto il suo enorme popò piegato in avanti, avvolto dalla misera culotte bianca, e le due mani aperte appiccicate alla porta, all’altezza di mezzo. Mise l’occhio vicino alla serratura, ed inizialmente non vide nulla; poi si allontanò un istante per riavvicinarsi di nuovo, e finalmente riuscì ad intravederli.
Chiara era in ginocchio su una vecchia poltrona, con gli avambracci piegati dietro allo schienale, e la minigonna completamente alzata.
Alle sue spalle, Lorenzo la reggeva per ambedue i fianchi, e la stava prendendo con energia e decisione. Non riusciva a vedere il pene di lui, ma doveva essere bello lungo e consistente, a giudicare dai mugolii di piacere della ragazza. Avvolte poco sopra alle sue ginocchia poi, le calze trasparenti e la mutandina di pizzo nero le impedivano completamente il movimento, cosicché Chiara era letteralmente immobilizzata, tra il dorso della poltrona, le cosce strette nel collant, ed il membro dietro di lei che la puntellava in modo fermo e inesorabile. Lorenzo sbuffava e godeva, e di tanto in quanto insultava la sua ragazza, chiamandola “troia”, oppure “maiala”.
A quanto pare questi insulti accendevano la passione in lei, che rispondeva ansimando in modo sempre più intenso, incitando il suo ragazzo a sprofondarla con più impeto ancora.
In un certo istante però, quando era sul punto di venire, Lorenzo la afferrò per i capelli e la fece voltare verso di sé; Chiara compì una specie di giravolta sulle ginocchia, ed infine piegando leggermente la schiena in avanti, assecondò il movimento del suo ragazzo, che spingendole la nuca le infilò letteralmente il membro nella bocca. Fu lì che Hélène poté finalmente vedere l’uccello di lui, che era pallido e deludente, per quanto fosse lungo e arcuato come una grossa banana.
Durò solamente pochi secondi, e Chiara si mosse rapidamente indietro, prendendosi un mare di sperma bianco e schifoso sul viso e sulla camicetta di colore rosa.
Lorenzo la fece voltare nuovamente, e completò l’opera svuotando tutto il pene, molle e sgonfio, sopra di lei.
Hélène arretrò, era in uno stato di totale confusione; in quell’istante un rumore di chiavi la ridestò, era Paula che era appena rientrata, e per una questione di pochi attimi non si era resa conto di quanto ella stava facendo. Notò tuttavia che la ragazza argentina era meravigliata di vederla in piedi dinanzi alla porta della sua camera da letto; si giustificò allora, senza che le venisse richiesto, dicendo: “… ho sentito … ho sentito dei rumori … credo che ci siano Chiara e Lorenzo lì dentro …”.
Paula allora sorrise, e le disse: “Li hai spiati vero? … è stato bello vedere ?!?”; allorché Hélène negò categoricamente, ma si vedeva benissimo come stesse chiaramente mentendo in quella circostanza; aveva ancora la vagina completamente bagnata.
“Vergognati!” le disse Paula, facendole cenno di tornarsene in camera sua. Hélène non si aspettava affatto un atteggiamento tanto duro da parte della sua coinquilina argentina; in quell’istante ella percepì nettamente, una grande diffidenza ed una profonda avversione da parte di quest’ultima. Tuttavia, non reagì e si allontanò via un po’ mestamente.
Entrò in camera sua, ed in quel preciso momento, avvertì fortissima l’esigenza di toccarsi; ma la porta non poteva essere chiusa a chiave, per cui si volse rapidamente e decise infine di entrare dentro al bagno. Lì finalmente poté rinchiudersi da sola per bene: si abbassò rapidamente le culotte, e si mise seduta sulla tazza.
Il pesante insulto di Paula le risuonava ancora, forte, chiaro e deciso dentro alle orecchie; mise due dita in mezzo alla peluria nera, in basso, e poté sentire in modo nitido il cosino umido e tutto tornito, che la tirava come un treno. Le culotte erano rimaste a mezza altezza, sotto le ginocchia divaricate.
Affondò l’intera mano, e ripensò all’insulto appena ricevuto; poi rivide Chiara piegata sul dorso della poltrona, con la gonna alzata, ed infine il pene di Lorenzo, mentre lui se lo ripuliva sul didietro di lei. Sprofondò, ed iniziò a gocciolare nella tazza, un liquido bianco denso e caldo, a fiotti.
Qualcuno in salone accese la musica, era un famoso brano di Elvis Presley: Hélène si rimise a posto le sue culotte provando un senso di vergogna indicibile; per sua fortuna Chiara volle essere gentile con lei, e bussando alla porta chiusa del bagno, le disse: “Ti va di venire con noi stasera … usciamo a bere qualcosa qui vicino …”.
Hélène ristette un istante, ma poi leggermente sollevata rispose: “… dove andate? … devo solo farmi i capelli …”.
Allora Chiara la tranquillizzò: “Non preoccuparti … c’è ancora Lorenzo sotto alla doccia, e poi tocca a me … faremo notte prima di uscire!”, e si mise a ridere di gusto; non si era ancora lavata, e quando Hélène aprì la porta del bagno, la sua coinquilina bionda era dinanzi a lei, con i capelli raccolti ed una lunga canottiera bianca che le ricopriva l’addome come se fosse stata un piccolo vestitino.
Hélène incrociò i suoi occhi, e provò nuovamente un bel po’ di vergogna; Chiara volle apparentemente infierire su di lei, e stiracchiandosi le disse: “... mi sento ancora come se mi avesse spazzolata …” e si mise a ridere nuovamente.
Era probabile che Paula le avesse rivelato, di avere intravisto Hélène mentre ella li spiava di nascosto attraverso la serratura della porta, così che adesso Chiara intendeva fare i conti giocando con lei ed umiliandola. Ma non avrebbe mai saputo se fosse realmente così.
Dopo quasi tre ore passate a dividersi il bagno per poter fare la doccia, Hélène per la prima volta in assoluto si ritrovò ad uscire la sera per gli allegri locali del rione, in un’atmosfera calda ed accogliente. Lorenzo e Chiara li seguivano tenendosi per mano, mentre Paula camminava davanti a tutti, e con lei c’erano anche Marco e Lele. Entrarono dentro ad una birreria arredata in stile bavarese, molto affollata e rumorosa, e si sedettero nella sala in fondo: Lorenzo e Chiara da un lato insieme a Paula, e Hélène con le spalle all’ingresso, davanti al ragazzo di Chiara e alla sinistra di Lele.
In quella circostanza si vide benissimo quanto Marco fosse attratto da Chiara: le fissava il viso in continuazione, al punto che anche Paula dovette accorgersene, tanto da apparire in quell’istante anche piuttosto infastidita dalla cosa. La biondina di Vercelli domandò ad Hélène, se avesse iniziato a capire un po’ meglio l’italiano.
Lele fece una battuta, e le disse: “... per esempio bella, sai che la parola scopare ha in italiano due significati?!? …”, e si mise a ridere. Marco rincarò la dose, e fissando sempre Chiara in maniera davvero insistita, aggiunse: “Anche la parola bocca in italiano ha due significati …”. La ragazza teneva infatti in quell’istante, le labbra leggermente schiuse; aveva compreso perfettamente il gioco, ed invece d’evitare di peggiorare il tutto, iniziava davvero a provarci un bel po’ di gusto. Indossava un bellissimo collarino di raso, su un vestito intero con spalline e pantaloni vaporosi di color verde oro; aveva i capelli legati, ed anche lei - alla pari di Hélène - non li acconciava spesso in questa maniera.
La ragazzotta belga rimase immobile sulla sedia, e fu proprio Lorenzo – che fino a quell’istante non l’aveva neppure degnata di uno sguardo – a metterla davvero in difficoltà dicendole: “... te l’hanno mai spiegato … il significato della parola scopare !?!”. Chiara allora prese la mano del suo ragazzo, e ridendo disse: “Lasciatela stare! … è in Italia da soli due mesi, perché siete cosi cattivi?”.
Tutti quanti risero, e Hélène provò un senso di fastidio e di abuso quasi fisico nel sentirli schiamazzare e rumoreggiare in quella maniera.
Dopo un po’ la biondina si alzò in piedi per andarsene in bagno, nel suo vestitino intero leggermente morbido e rigonfio all’altezza dei fianchi; Lorenzo prendendole una mano le disse: “Vengo anch’io con te”. Aveva notato il comportamento assai irrispettoso di Marco, ed iniziava a temere che questi intendesse provare a portargli via la ragazza; appariva oltremodo innervosito, ed in cuor suo sapeva benissimo che in moltissime altre occasioni, non ci sarebbe stato più lui lì a difenderla.
Paula sembrava del tutto indifferente a questi atteggiamenti, quella sera era stranamente meno brillante e divertente del solito; tuttavia, mentre Lorenzo e Chiara si allontanavano tenendosi per mano, fece altrettanto e strinse la mano di Marco, che sorridendo gliela baciò.
Lorenzo attese Chiara fuori dal bagno, e nell’istante in cui quella aprì la porta per avvicinarsi al lavandino, egli fece un passo in avanti dentro alla toilette, che era riservata alle sole donne; e le fu addosso con un attacco di passione rabbioso, per nulla gentile: le afferrò con ambedue le mani il pantalone lungo i glutei morbidi e profumati, stringendoglieli e sollevandoglieli tutti quanti sotto il cotone leggero.
Chiara non apprezzò affatto la cosa, ed alzando leggermente la voce, lo respinse dicendo: “Ma che cavolo ti prende!?! …”; era geloso da morire, e avrebbe voluto farla di nuovo sua in quell’istante, per sentirla posseduta e incatenata a sé.
La serata scivolò via, con Marco che apparentemente s’era calmato un po’, e adesso dedicava più attenzione a Paula, la quale s’era anche visibilmente rincuorata nel frattempo. Si spostarono in un piccolo locale della stradina accanto, dove due giovanotti dai tratti fisici vagamente irlandesi, suonavano la chitarra e cantavano in allegria.
Fu lì che Lorenzo commise il fatale errore di andarsi ad ordinare una birra, lasciando così la sua ragazza da sola assieme agli altri, in prima fila davanti al piccolo palco dove si esibivano i due giovani.
Nonostante Paula fosse solamente pochi metri più in là, ed anche Hélène li stesse osservando con attenzione, approfittando della luce molto bassa della sala Marco s’avvicinò alle spalle di Chiara, e con nonchalance le mise un palmo della mano su uno dei due glutei, tastandoglielo tutto quanto e facendogliela sentire per bene.
Hélène ristette, temendo il peggio, una reazione violenta e sconsiderata; e invece stranamente Chiara non si mosse, facendo finta di continuare ad ascoltare la musica dei due ragazzi irlandesi, ma sentendo benissimo l’impronta della manona di Marco lungo tutto il didietro, da cima a fondo.
Era inconcepibile, la sua compagna d’appartamento si stava facendo toccare il culo da un altro, proprio la stessa sera in cui ella aveva rivisto il suo, di ragazzo, il presunto innamorato che non incontrava da ben due mesi.
Hélène provò una strana sensazione di disagio, ed improvvisamente ricordò tutti i deliziosi capi di biancheria intima che aveva veduto nel cassetto della sua coinquilina: concluse in quel frangente che Chiara, contrariamente alla sua prima impressione, era tutt’altro che una timida santarellina. Ed in quella circostanza, ella stava sicuramente provando un gran piacere a venire toccata in quel modo.
Marco fu molto scaltro a mollare la presa delle natiche di lei, un istante prima che Lorenzo si riaffacciasse nella sala; questi tornò accanto alla sua ragazza, cingendole la vita in un abbraccio delicato. Quella notte avrebbero fatto l’amore di nuovo dentro al salone, al buio, in maniera discreta e silenziosa per non venire ascoltati; con Hélène immobile nel letto colta da brividi di voluttà lungo tutta la schiena.
Nono episodio
L’Università stava già lentamente, ma inesorabilmente andando in malora. Da quando si erano trasferite, Chiara non era più la studentessa modello di un tempo, e Hélène non poteva più essere aiutata da lei come era accaduto in passato; tutto si stava tremendamente complicando, e Hélène in cuor suo lo sapeva. Ma se da un lato avrebbe desiderato tornare indietro, ai giorni tranquilli e un po’ noiosi del Convitto, dall’altro era terribilmente attratta dalla vita allegra e sfrenata della sua nuova residenza, col viavai di uomini e la sfrontata leggerezza delle inquiline che l’abitavano.
Lorenzo era partito la domenica stessa, dopo una sola notte, e Chiara a quanto pare ne era restata tutt’altro che desolata e affranta: aveva preso a vestirsi e a curarsi in maniera assai più ricercata nell’aspetto, come se da quel momento in poi, qualcosa in lei si fosse definitivamente sbloccato. Paula invece sembrava tutto ad un tratto più chiusa ed introversa, era come se di contro, il freddo dell’autunno e le prime gocce di pioggia l’avessero intristita ed inaridita.
Senza alcun preavviso, la sera di quel giovedì il citofono squillò in modo perentorio ed insistito. Fu proprio Hélène a rispondere, con un semplice “oui” un po’ pomposo e decisamente fuori contesto; dall’altro lato si udirono le voci di alcuni maschi, erano Marco, Costanzo e Lele che si erano presentati dopo una cena al rione, e qualche birra di troppo.
Hélène ristette nel corridoio, poi chiese scusa un istante, e lasciando la cornetta del citofono che penzolava lungo tutta la parete, corse in cucina ad avvisare Chiara, mentre Paula era chiusa in bagno.
La biondina era completamente struccata ed indossava un pantaloncino di spugna di color fuxia; fece a Hélène un gesto della mano, di non aprire la porta ai tre ragazzi: probabilmente desiderava potersi vestire e truccare meglio. Ma nel frattempo qualcuno doveva avere aperto loro l’ingresso al piano di sopra, e adesso le voci scure e profonde dei tre amici risuonavano belle nitide lungo tutta la rampa delle scale. Dopo un solo istante, bussarono alla porta, e allora Hélène dovette chiedere loro scusa una volta ancora, sussurrando qualcosa di incomprensibile mentre osservava le tre sagome buie attraverso lo spioncino.
In quel preciso momento, ebbe un sentimento strano, di minaccia e di pericolo, ed istintivamente fece ritorno in cucina, dove però non vi era più nessuno. Si avvicinò quindi alla camera da letto delle due coinquiline, e vi ritrovò Chiara nell’intento di pettinarsi e truccarsi le ciglia, in assoluta fretta. Il campanello suonò di nuovo, e allora fu Chiara stessa a sollecitarla, dicendole: “Allora? … non vai ad aprire ?!?…”.
La porta si schiuse, Hélène era vestita con una semplice tuta e non si era neppure lavata i capelli, che erano tutti legati e piuttosto sciatti; vide i tre maschi entrare uno dopo l’altro, e solamente Lele le si avvicinò sfiorandole un braccio nell’intento di mostrarle un minimo di simpatia. Li vide accomodarsi attorno al tavolo del salone, come se quella fosse stata fin da sempre, la loro casa.
Voleva rinchiudersi nella sua camera da letto, ma per farlo avrebbe dovuto attraversare la sala, e la cosa la intimidiva assai, dal momento che i tre ragazzi l’avrebbero certamente scrutata da cima a fondo, e qualcuno avrebbe anche potuto esprimere qualche commento poco carino nei suoi confronti. Per sua fortuna Paula uscì dalla doccia proprio in quell’istante, e opportunamente avvisata da Chiara, si presentò nel salone avvolta unicamente da un elegante accappatoio con motivi colorati.
Marco esordì amabilmente, esclamando: “Cavolo quanto sei sexy con quel coso addosso !!!”; lei rise di gusto, e con una mossetta fece finta di sciogliersene la cinta; ma poi la riannodò nuovamente, andando a prendere una bottiglia di vino rosso dalla cucina. Hélène in quel momento si affacciò in salone, e fu invitata da Costanzo, che mai prima d’allora l’aveva neppure presa in considerazione, a sedersi: “Tu come ti chiami?!? …”, le disse, proseguendo poi senza attendere la sua risposta, “… stasera ti tocca farci compagnia ... ci sentiamo tutti un po’ soli…”; Hélène non sapeva cosa fare, ma di nuovo fu invitata da Lele a sedersi in mezzo a loro, tra lui e lo stesso Costanzo.
In quell’istante entrò in salone anche Chiara, e chiese a Hélène con cortesia di spostarsi di lato, per potersi sedere tra lei e l’ex ragazzo di Solange alla sua sinistra.
Paula mise su un disco di musica rock, e dopo aver versato l’intera bottiglia di vino comperata al supermercato, nei sei bicchieri da cucina disposti sul tavolo, si accomodò sulle ginocchia di Marco. In quella circostanza, Chiara si ritrovò esattamente di fronte a Paula, che se ne stava seduta addosso al suo uomo; questi le carezzava le cosce tenendole una mano infilata direttamente tra i due lembi morbidi dell’accappatoio: la bella ragazza argentina non indossava assolutamente nulla di sotto, e la sua pelle del colore dell’ambra era tutta levigata e profumata di lavanda.
Ma mentre la toccava e le palpeggiava la parte alta delle cosce, Marco fissava intensamente Chiara che era seduta lì di fronte; sembrava quasi volerle far notare, la sua manona che frugava sotto il morbido accappatoio di Paula, mentre con uno sguardo sanguigno e volitivo le teneva gli occhi addosso.
Chiara era tutt’altro che timida o remissiva, e prese nuovamente a fissarlo come aveva fatto pochi giorni addietro, dentro alla birreria bavarese, con le labbra leggermente schiuse. Marco a bassa voce disse: “… hai delle labbra caldissime …”; Paula gli tolse la mano, che si andava insinuando sempre più in alto verso l’inguine, e ridendo in modo rabbioso e beffardo, gli disse: “La smetti di provarci con Chiara?!? … ma non hai visto che ha il ragazzo? …”. Era forse la prima volta in assoluto nella sua vita, in cui Paula provava un senso così vivo e odioso, di travolgente gelosia.
Costanzo si volse verso Chiara, e con eleganza le domandò: “Come si chiama il tuo ragazzo?”. Questa senza pensarci un solo istante, rispose: “Non deve interessarvi … comunque si chiama Lorenzo e tra cinque minuti devo pure chiamarlo…”.
“Salutamelo tanto !!!” esclamò Marco ridendo, e senza perdere altro tempo infilò nuovamente la mano sotto il lembo dell’accappatoio di Paula, raggiungendo direttamente l’interno delle due cosce tornite e calde.
Hélène stava sorseggiando il suo bicchiere di vino rosso, ed era vagamente sovrappensiero; Lele era alla sua destra e ancora una volta si stava preparando le sue cose per poter fumare. Costanzo la chiamò in causa dicendo: “E tu invece … tu ce l’hai il ragazzo?!? …”. Hélène ristette, non si aspettava davvero una simile domanda; poi raccolse tutte le sue forze, e con tono fermo rispose: “… io … io ho avuto una storia con un ragazzo in Belgio … ma adesso no, adesso sono sola…”. “E allora stasera non scappi!” le disse Marco, mentre con la mano continuava a tastare le cosce di Paula. Hélène sentì una stretta in mezzo alle gambe, ma Costanzo la tranquillizzò: “…non dargli retta … fosse per lui tutte le sere dovrebbero finire sempre allo stesso modo!”, e si mise a ridere.
Lele si ridestò un momento, e guardando Hélène in viso, prese la parola dicendo: “… l’hai mai fatto con un ragazzo italiano?”. Costanzo allora lo apostrofò in malo modo, reagendo: “Piantatela ragazzi! … vi sembra il modo di rivolgervi ad una persona che avete conosciuto da così poco tempo?... può bastare così …”.
In quell’istante Chiara si levò in piedi, erano le dieci ed era arrivato il momento di chiamare Lorenzo al telefono; la presa di posizione di Costanzo, che aveva assunto le difese di Hélène, l’aveva decisamente colpita, e forse proprio per ricompensarlo o piuttosto per darglielo semplicemente a notare, nell’atto di allontanarsi, ella gli poggiò una mano sulla spalla, con dolcezza. Dopodiché si mosse lentamente verso la cucina ed infine si chiuse nella sua camera da letto.
Il disco era andato avanti, e adesso la musica era diventata piuttosto fastidiosa; Paula allora si liberò dalla presa di Marco, e si alzò in piedi per andare ad abbassare il volume, non voleva affatto che i vicini di casa si lamentassero una volta ancora. In quel momento anche Costanzo si alzò, con disinvoltura, e prese a girare per l’appartamento.
Hélène notò per bene la scena, e comprese come questi andasse cercando la stanza in cui si era rinchiusa Chiara; anche Marco dovette notarlo, e si fece stranamente scuro in viso, come se in cuor suo desiderasse anch’egli di poter fare altrettanto. Ma fu presto distratto nuovamente dalla bella argentina, che tornò a sedersi sopra di lui, ma stavolta a cavalcioni sulle ginocchia, abbracciandolo con energia e passione attorno alle sue spalle larghe e robuste.
Lele, che nel frattempo aveva finito di prepararsi da fumare, prese una mano di Hélène, ed invitandola ad alzarsi le disse: “Andiamo cocca … lasciamoli soli …”.
Hélène ristette un istante, ma poi con fermezza rifiutò quell’inopinato invito, cosicché Lele s’allontanò di suo conto.
Ma Marco quella sera era lievemente ubriaco e piuttosto di malumore, sapeva che Costanzo era in giro per la casa e che era sul punto di provarci con Chiara, e semplicemente non tollerava affatto l’idea, di non poterci essere lui, al suo posto; Paula gli stava sopra, con il solo accappatoio indosso, ma in quel momento il bel ragazzo italiano non riusciva proprio a provare alcun trasporto verso di lei; pensava unicamente alla bocca calda e schiusa di Chiara.
Spostò Paula di peso, e la fece sedere sulla sedia accanto a sé, dove precedentemente era stato seduto Costanzo; quella lo guardò con espressione assai infastidita, e trangugiando il suo vino gli disse: “… che diavolo ti succede guapo … sei diventato impotente allora!?! …”, e gli rise in faccia in modo davvero violento ed offensivo. Questi dovette prenderla davvero a male, e allora levandosi in piedi la sollevò dalla sedia per un braccio, trascinandola di peso verso la cucina. Hélène vide tutta la scena, mentre Lele era già nella cameretta di lei, ed un odore assai intenso di fumo ne inondava tutto l’angusto spazio.
Lì Marco la costrinse di forza a piegarsi in avanti sul tavolaccio di legno, e con un gesto rapido le rovesciò tutto quanto l’accappatoio lungo la schiena, scoprendole per intero il sedere meraviglioso. Poi con una manata robusta e schioccante, le afferrò lo spazio in mezzo all’inguine e tra i glutei, facendola sussultare. Paula provò una sensazione di viva costrizione e di desiderio, e fu subito bagnata per bene tra le cosce.
Ma non c’era davvero alcun verso di farlo quella sera. Marco era veramente in uno stato di grande confusione e di rabbia, ed allora in modo istintivo, ricoprì il didietro della ragazza abbassandole l’accappatoio, tirandola nuovamente su per un braccio; ed infine esclamò: “Vatti a rivestire … non mi vai proprio oggi …”.
Quella dovette provare un senso immane di fastidio, e voltatasi verso di lui, gli mollò uno schiaffone vigoroso.
Nel frattempo Costanzo aveva trovato la porta della cameretta di Chiara, e stava ascoltando di nascosto la conversazione tra lei e Lorenzo; dopo il loro incontro a Roma quelle telefonate erano divenute ora, tutte ricolme di domande e piene di sospetti; solamente alla fine, Chiara aveva iniziato a fare quello che il suo ragazzo le chiedeva, e adesso sedeva sul letto con la mano sinistra infilata dentro al pantaloncino di spugna, fingendo di provare del piacere, ma senza fare troppo sul serio.
Costanzo allora spinse con delicatezza la porta, e vide nella penombra la sagoma della ragazza, seduta sul letto col telefono all'orecchio e la mano infilata tra le gambe. Ella non fece né disse nulla nel vederlo entrare, e allora lui – preso un bel po’ di coraggio – le si fece più vicino, fino a presentarsi dritto in piedi, a pochissima distanza da lei.
Chiara si tolse repentinamente la mano dalle mutandine, e con grandissima sorpresa da parte di Costanzo, fece quello che giammai lui avrebbe nemmeno immaginato: gli abbassò la cerniera dei pantaloni. Questi ristette meravigliato, era una cosa inaudita, davvero inverosimile; ma senza poi perdere un solo istante, le facilitò il compito sciogliendosi la cintura ed aprendosi per bene i due bottoni sul davanti. Venne fuori una mutanda bianca griffata, rigonfia in modo esagerato, come un pacco stretto e duro di carne compatta.
Chiara continuava a mugolare sommessamente nel telefono, in modo un po’ scontato e banale; ripeteva di continuo: “Sì … lo sento … adesso lo sento …”, e intanto con un gesto tanto deciso quanto sconsiderato, infilò la mano sinistra dentro alla bianca mutanda di Costanzo.
Il pacco chiuso e compatto era in realtà morbido e arrotolato come una ciambella; non appena lo afferrò, Chiara comprese che si trattava di un oggetto mostruosamente lungo e molle. Lo estrasse un poco alla volta, e subito si ritrovò dinanzi ad una specie di proboscide penzolante, bianca e nerboruta.
Riprese a mugolare: “sììì … sono bagnata adesso … e tu …”, ma l’unica cosa che in quel momento destava la sua attenzione, era quel membro impressionante che vibrava nell’aria a pochi centimetri da lei.
L’afferrò a metà, e mentre dall’altro capo del telefono Lorenzo aveva già preso a masturbarsi, con chiari segni di godimento, Chiara fece altrettanto con Costanzo, e subito lo vide irrigidirsi un poco alla volta, prima alla base, e poi lungo tutta la sua smisurata estensione; in pochi secondi il grosso membro fu quasi completamente duro ed eretto.
Lo afferrò per bene, e con dolcezza iniziò a muoverlo tenendolo stretto e saldo nel palmo della sua mano; Costanzo le mise ambedue le mani sopra la testa, sui suoi capelli lunghi e biondi. Nel frattempo, Lorenzo stava ansimando, e presto sarebbe venuto in modo triste e solitario dall’altro lato del telefono. Allora Chiara prese il pene di Costanzo nel punto di mezzo, ed iniziò a masturbarlo come si deve. In quell’istante, ella prese a mugolare e a deglutire con intensità, come una bambina; Lorenzo dall’altro capo del telefono, la incitava.
Quando la telefonata finì, Chiara aveva il viso bianco e delicato tutto sporco di appiccicoso sperma, con Costanzo che l’aveva lasciata a concludere la sua amorosa conversazione, mentre nel frattempo si ripuliva nel bagno lì accanto.
Hélène era rimasta da sola in salone, e aveva visto rientrare Marco tutto scuro in volto, mentre di Paula non vi era in giro più alcuna traccia; questi si scolò il suo vino, sembrava abbastanza arrabbiato. Poi si sedette accanto a lei. Hélène arretrò tutta quanta spaventata, ma quello senza darle nemmeno il tempo di pensare, le prese un braccio portandola a sé; dopodiché con l’altra mano la prese di forza dietro alla nuca. Infine, con un movimento repentino la baciò sulle labbra, infilandole tutta quanta la lingua profonda dentro alla sua bocca, schiusa e calda.
Decimo episodio
Nessuno avrebbe dovuto saperlo, che quello era stato il suo primo, vero, bacio alla francese. Le amiche di Hélène, ai tempi della scuola, lo chiamavano semplicemente il primo click: ed ecco che Hélène, a diciannove anni suonati, aveva avuto il suo primo click assieme ad un ragazzo italiano, davvero bellissimo, ma purtroppo completamente indifferente e totalmente disinteressato a lei; al punto che subito dopo averla baciata, le aveva persino chiesto di lasciarlo da solo.
Era stata una sensazione strana, non bella ma sicuramente emozionante; Hélène non stava nella pelle, ma tantomeno poteva rivelarlo ad alcuno: come già per il suo primo orgasmo, così anche il suo primo click sarebbe rimasto un piccolo segreto.
La serata del giovedì aveva lasciato degli strascichi difficili da ricomporre, e Paula che aveva un carattere altero e forte, aveva già dall’indomani deciso di interrompere qualsiasi rapporto con Marco. Aveva compreso benissimo, come questi fosse irresistibilmente attratto da Chiara, e la cosa semplicemente non le andava giù. Da parte sua invece, la biondina se ne stava tranquilla al suo posto e neppure ci pensava più di tanto. Tutto ad un tratto all’improvviso, i tre ragazzi avevano smesso di frequentare il loro appartamento.
Un martedì mattina, mentre usciva di casa sul tardi, e le sue coinquiline erano già fuori da un pezzo, Hélène raccolse una bustina bianca dentro alla buca della posta. Non vi era riportato alcun indirizzo, né apposto alcun francobollo; v’era solamente uno scarabocchio scritto a penna, con calligrafia rozza e inelegante, che ne citava il destinatario: per Chiara.
Hélène mise la piccola busta nella sua borsa, e mentre attendeva l’inizio della lezione di Diritto Canonico, vedendo che la sua coinquilina bionda non era ancora arrivata, ebbe un’assurda tentazione, di aprire quella busta.
Ristette per un istante, e si guardò intorno, ma di Chiara non vi era in giro ancora nessuna traccia; quando infine la lezione ebbe inizio, Hélène si rese conto che la sua coinquilina era semplicemente seduta due file più in basso, probabilmente era entrata in aula solamente all’ultimo.
Allora fece quello che giammai in cuor suo avrebbe pensato di poter fare: aprì con delicatezza la bustina, e ne estrasse un foglio scritto a mano con stile incerto. Iniziò a leggere con irresistibile stoltezza, e subito ristette meravigliata.
“Ciao Chiara, sono Marco.
Ti ho cercata su internet e alla birreria, ma niente da fare. Ma io non mi arrendo! Volevo infatti dirti, che per te manderei tutto quanto all’aria, gli amici, l’università, la mia stessa vita …
Da quando t’ho vista con quel vestitino intero addosso, non ho più smesso di desiderarti, e adesso non riesco più a pensare a nessun’altra ragazza all’infuori di te.
Lo devo confessare … la tua bocca mi fa letteralmente impazzire! … vorrei baciarla, ma soprattutto … vorrei sentirla mentre me lo scaldi, sono sicuro che ti piacerebbe :-) …
Ti lascio il mio numero 3474197521, ti prego di chiamarmi o di scrivermi, se non vuoi vedermi impazzire …”
Hélène richiuse il foglietto con le cosce che le tremavano. Lo rimise dentro alla sua piccola busta, e lo nascose in un taschino all’interno della borsetta. Poi, quando comprese di essere inesorabilmente bagnata fradicia in mezzo alle gambe, lo estrasse nuovamente, e trascrisse quel numero di telefono, così complicato e difficile, registrandolo nella sua rubrica. Adoperò un insospettabile nome francese, Pascal, in maniera da evitare qualsiasi rischio di venire scoperta.
Non contenta, mentre la lezione andava avanti ed il professore insisteva col suo tono di voce lento e monocorde, Hélène estrasse nuovamente il telefono, ed ebbe una sorta di folle idea: avrebbe spedito un messaggio a Marco, fingendo di essere Chiara. Era una vera sciocchezza, e la ragazzotta belga in cuor suo lo sapeva; ma in fondo non era stato proprio Marco a baciarla in modo futile e irruento, senza alcuna ragione? Non era forse una sua legittima possibilità, quella di sognare che quel ragazzo fosse suo, dopo essere stata baciata in maniera sciagurata e insensata?
Allora si fece coraggio, e scegliendo attentamente le parole per non rischiare di fare errori, scrisse:
“Ciao Marco, sono Chiara. Ho letto la tua lettera, mi sei simpatico, ma la mia bocca è calda solamente per il mio ragazzo :-)”
Scrisse queste parole, sapendo benissimo che si trattava di un’autentica scelleratezza. Ma voleva vedere quale sarebbe stata la reazione di Marco; ed in quell’istante, alla grande curiosità per la strana situazione, si univa un fremito bollente lungo tutta la schiena.
La risposta arrivò dopo meno di cinque minuti, e fu meno divertente di quanto Hélène avesse sperato.
“Hai fatto male a darmi il tuo numero :-) … ti tormenterò finché non lo prenderai tutto bello stretto … in quella bocca … Sto scherzando ma non troppo …”
Certamente il suo numero di telefono sarebbe stato oggetto di continui messaggi. Hélène lo comprese immediatamente; e non passarono nemmeno due ore, che Marco già riprese a scriverle, alternando frasi più delicate e gentili, ad altrettanti autentici deliri di passione, senza risparmiare a volte parole assai volgari.
“In questo momento sono arrapato come un toro da monta … è un bene per te, che io non ti sia alle spalle dolcezza mia :-) … potrei farti pentire, di essere nata femmina”
Spesso Hélène non rispondeva nemmeno, si stava lentamente rendendo conto, di essersi messa dentro l’ennesimo pasticcio.
Ben presto Marco pretese di poterla incontrare, pensando sempre che al suo posto ci fosse Chiara. Una mattina, mentre Hélène era sull’autobus diretta all’Università, il suo telefono squillò, ed era proprio lui che la cercava. Ebbe un’esitazione simile ad un attimo di panico, ma subito decise di non rispondere, non sapendo bene come gestire la situazione.
Irruente com’era, Marco insistette con nuovi ed ostinati squilli, fino al punto in cui, esasperato le scrisse: “Perché non rispondi bellezza … ho una voglia matta di schiaffartelo in bocca stamattina…”.
Hélène era sempre più preoccupata, avrebbe voluto porre fine a quel gioco così pesante e assurdamente insensato. Pensò che avrebbe potuto incontrare Marco di persona in pieno giorno per spiegargli tutto quanto, oppure mandargli un messaggio che chiarisse definitivamente le cose; ma aveva un serio timore della possibile reazione di lui, e così non fece nulla. La situazione precipitò un mercoledì sera, quando ciò che non doveva assolutamente accadere, si verificò come una sadica coincidenza: Marco incontrò Chiara sotto l’ingresso del palazzo in via Baccina.
I loro sguardi si incrociarono in modo sanguigno e violento; e subito lui le fu addosso, stringendola a sé; rotolarono giù per le scale baciandosi appassionatamente, come due amanti che non si incontravano da anni.
Lei indossava un jeans stretto e aderente; Marco le mise immediatamente una mano sul sedere, facendola subito sobbalzare. Con un ultimo tratto residuo di razionalità, Chiara lo respinse e subitaneamente suonò al campanello della porta, che si aprì. Era Hélène dietro lo spioncino, che li fissava impaurita. Ma quello filò via su per le scale, temendo che vi fosse Paula lì dentro al suo posto.
Grazie al cielo la storia dei messaggi al telefono non era venuta ancora alla luce, ma oramai Hélène sapeva che sarebbe bastato assai poco, un nuovo casuale incontro, affinché quel suo stupido gioco venisse smascherato.
Allora si fece coraggio, e tremando per le possibili conseguenze, la mattina del nove di dicembre, lo chiamò.
Undicesimo episodio
Quel fine settimana sarebbe stato più lungo degli altri, essendo anche il lunedì per via eccezionale, un giorno festivo. Dopo una rapida doccia Lorenzo si presentò nella piccola stanza da letto della squallida pensione vicino alla stazione, con il solo asciugamano indosso. Coricata sulle lenzuola, Chiara lo attendeva, nuda in un completo di morbido intimo nero. Indossava un bellissimo reggicalze, succinto e delicato, ed una specie di piccolo busto al posto del reggiseno. Le microscopiche mutandine di pizzo bianco, aderenti e sensuali, erano ancora perfettamente al loro posto.
Tra di loro non vi era più alcuna poesia, dopo la precedente visita di Lorenzo e tutte le successive manifestazioni di assurda gelosia da parte di quest’ultimo. Chiara lo sapeva, e per tale ragione, aveva provato a tenerlo lontano dall’appartamento delle ragazze e da tutti i suoi pericoli.
Così adesso una piccola stanzetta grigia e polverosa li ospitava, e senza alcuna eleganza Lorenzo si apprestava ad accostarsi alla sua fidanzata; questa appena lo vide uscire dal bagno, si sollevò seduta sul bordo del letto, e cingendolo alla vita, ne liberò i fianchi lasciando cadere in terra l’asciugamano ancora umido: lui era già perfettamente eretto, ed anche completamente fradicio di umori.
Lorenzo non era certamente un tipo cerimonioso, ed afferratala subito sulla schiena morbida, abbassò la cerniera che le chiudeva lungo il dorso il meraviglioso bustino, e lo divelse in maniera irruenta e frettolosa, liberando in un sol colpo i seni bianchi leggermente rigonfi e penzolanti di lei.
Chiara allora pensò di fare in fretta, non si sentiva particolarmente a proprio agio in quella situazione del tutto squallida, e con la mano destra strinse il membro del suo ragazzo, iniziando ad aprirlo e chiuderlo in modo rapido e deciso; con il risultato di vederlo irrigidirsi in maniera immediata, come una trave di legno duro.
Gli mise l’altra mano sul petto, depilato e muscoloso, carezzandolo con dolcezza. Allora Lorenzo, si piegò sopra di lei, ed immediatamente concentrò la sua attenzione sull’elastico bianco delle sue mutandine.
Chiara lo aiutò respingendolo con il palmo della mano schiusa, e si liberò i fianchi tirandosele giù lungo le cosce e fino in basso alle caviglie, esibendo così senza vergogna una meravigliosa vagina profumata.
Presto Lorenzo le fu sopra, con i muscoli del petto attaccati ai suoi seni morbidi e bianchi; armeggiava con ambedue le mani in mezzo alle cosce di lei, provando a trovare la via della vagina già tutta inumidita. Chiara si fece avanti ed ancora una volta afferrò il pene di Lorenzo, robusto e rigonfio di calore, e maneggiandolo con maestria, se lo appoggiò in mezzo alle cosce, nel punto in cui le sue tenere labbra mollemente schiuse, potevano ospitarlo.
Le fu dentro in modo rapido e indolore; solamente in quell’istante, Lorenzo ebbe un sussulto di vero piacere, irrigidendosi in modo ancor più virulento e appassionato. Montò allora in posizione eretta, innalzandosi sul palmo delle mani, e come un atleta che compie delle flessioni, prese a sbatterla in modo deciso e vigoroso.
In quel frangente, in maniera piuttosto inattesa, Chiara iniziò a provare anch’essa del sano godimento. Coricata sul letto, con le cosce completamente divaricate, mugolava con la bocca leggermente aperta, gli occhi sottili schiusi per il piacere, e la vagina inondata dal membro forte e robusto del suo ragazzo.
Lorenzo era presto giunto sul punto d’impazzire; fissava il ventre ed il bacino della sua ragazza, adornato dal delicato indumento di raso scuro, con i filini tiratissimi; e di tanto in quanto, la osservava dal basso, mentre lei godeva, con il viso rivolto in su.
Andò avanti ancora, trattenendo l’imminente orgasmo con non poca fatica. Lo entusiasmava vedere la sua ragazza mugolare, nella penombra della stanza polverosa, coricata sul letto con le cosce aperte, e la bocca schiusa. Le mise le mani sui seni, stringendoli fino al punto di farle del male, e continuando a penetrarla in maniera irruenta e decisa.
Ebbe un ultimo sussulto di lucidità, ed allora dopo solamente una breve pausa per riprendere il respiro, tornò a montarla con determinazione, provando a trascinarla con sé nel vortice. Chiara ansimava e godeva, questa volta sul serio, scuoteva i fianchi e si dimenava come una femmina in calore. Il ragazzo prese ad aumentare il ritmo, compiendo flessioni ancor più ampie e decise, e vedendola arrossarsi in viso, con la bocca spalancata e i bianchi denti in bella mostra. Il pene entrava ed usciva dalla vagina di lei come un pistone di legno duro, dall’alto verso il basso, in su, e in giù.
La spinse ancora per un bel po’ di tempo, finché non fu completamente gonfio di sperma e di sangue bollente; allora finalmente estrasse il pene, lungo e duro da fare spavento, e compiendo un piccolo balzo in avanti, lo impose tra i seni morbidi della sua ragazza.
Lei lo accolse senza troppa convinzione, ma era oramai troppo tardi per difendersi: già lui aveva preso ad eiaculare in modo copioso e caldo, inondandole le guance, il collo gentile ed il viso, di seme schifoso, vivido e giallo.
Quel lunedì mattina Chiara accompagnò il suo Lorenzo a prendere il treno, dopo un’ultima scappatella consumata di fretta poco prima di uscire. Si salutarono con un bacio appassionato sul lato della banchina: si sarebbero rivisti dopo solamente due settimane, nella loro città; ma qualcosa era ineluttabilmente finito tra di loro, e Chiara lo sapeva.
E l’indomani, facendosi infinitamente coraggio, Hélène decise finalmente di telefonare a Marco; lo fece alle nove, quando le sue due coinquiline erano già uscite di casa per andare all’Università. Il martedì mattina infatti, per coincidenza di orari, Hélène non aveva lezione prima delle dieci, quando puntuale ella si presentava in aula al cospetto del professor Guberti, che insegnava Diritto Canonico.
Ma quella mattina le cose sarebbero andate diversamente.
Marco rispose al telefono dopo solamente due squilli, palesemente eccitato e meravigliato; l’accento francese ed il tono monocorde di Hélène lo fecero immediatamente ridestare. Ella esordì con non poca vergogna, dicendo con la voce che le tremava: “… no, non sono lei … non sono Chiara…”; chiunque avesse veduto la scena dall’interno dell’appartamento di Hélène, avrebbe colto l’enorme imbarazzo della ragazza belga, seduta sul divano con le gambe accavallate, e le braccia tremolanti.
“… non sono Chiara … non te la prendere …”; “… no, non era tutto uno scherzo … ma non te la prendere dai …”.
Marco era tremendamente adirato, giammai Hélène avrebbe minimamente immaginato, che la sua reazione potesse essere tanto decisa e rabbiosa. Ad un certo punto le disse: “Tu sei solo una stupida … meriteresti solamente che io venissi lì adesso … e ti dessi quello che ti sei cercata …”.
Hélène non se lo sarebbe mai aspettato, ma in quel momento, invece di continuare a provare timore, sentì nuovamente come uno scatto in mezzo alle cosce, e fu inopinatamente bagnata dentro alle sue mutandine.
“Con quelle come te … è inutile parlare !!!”, insisteva Marco, mentre Hélène dall’altro lato del telefono, tratteneva a stento il respiro, paralizzata dall’emozione più sordida e dalla voluttà più indicibile.
“Cosa posso fare per farmi perdonare …”, ebbe l’ardire di chiedere, mentre oramai sentiva l’utero schiudersi ed il ventre ribollire in un mare di liquidi rigonfi e caldi.
“Cosa puoi fare!?! … eh !?!” rispose Marco, sempre più adirato. Poi dopo un solo istante, venne alle conclusioni: “Dovrei solamente venire lì, e farti un culo grosso così in maniera da farti pentire … di essere così stupida …”.
Hélène trasalì, non immaginava nemmeno che la fantasia lurida e sconsiderata di Marco, potesse arrivare ad elaborare una punizione così esagerata, giammai lei si sarebbe spinta così in là nella propria perversione.
“Adesso tu rimani lì, intanto io lo so che sei in casa …”. Come facesse a saperlo, questo Hélène non avrebbe mai potuto comprenderlo né immaginarlo. Ma a quanto pare Marco era assai ben informato sugli orari delle lezioni delle tre ragazze, passava molto tempo ad osservarle, più di quanto esse avessero potuto sospettare.
Hélène attaccò il telefono con la schiena e le gambe che le tremavano, non sapeva assolutamente cosa fare. Guardò l’orologio, erano le nove e mezza e avrebbe certamente fatto tardi alla lezione di Diritto Canonico. Ma intanto sentiva ancora quel brivido assurdo dentro alla pancia, in mezzo all’inguine; si precipitò in bagno che non ce la faceva più, ed ancora una volta sedutasi sulla tazza, con la gonna sollevata e le mutandine scese giù all’altezza degli stivali, si sfiorò fino a cadere di nuovo in un orgasmo irresistibile e irrefrenabile, al punto che dovette trattenere a stento le grida.
Si sistemò come meglio poteva, con la carne bianca delle cosce e dei glutei che le usciva da tutte le parti sotto alle mutandine ed in mezzo alla stoffa della gonna e della camicia. Raccolse tutta la poca lucidità di cui disponeva, ed uscì di casa trascinandosi indietro la sua borsa con i libri, senza nemmeno guardare l’orologio, con la certezza che avrebbe fatto tardi.
Marco continuò a tormentarla con diversi messaggi contenenti minacce e promesse di future botte.
Ma col lento trascorrere dei giorni, Hélène presto comprese che si trattava di un semplice gioco, e venuto meno quel timore iniziale per le possibili conseguenze, prese così a corrispondere a quello sciagurato scambio di insulti, con toni a tratti anche provocanti, e a tratti remissivi. La eccitava in modo davvero inaudito, il pensiero di dover essere punita da Marco.
Una doccia gelata Hélène la ebbe la sera della domenica, quando erano sedute al tavolo tutte assieme con Chiara e Paula; quest’ultima prese la parola e disse alla sua coinquilina bionda, con tono vagamente altezzoso: “Guarda che io lo so che tu ti vedi con Marco … e so anche che te lo scopi …”; Chiara diventò improvvisamente tutta rossa in viso, ma il vero autentico imbarazzo fu di Hélène, che tutto si aspettava tranne che questo.
Ebbe un brivido freddo e repentino sulla fronte, ed istintivamente abbassò lo sguardo. “Da quando lo vedi?”, riprese la ragazza argentina, con tono seccato e monocorde.
Chiara si liberò il viso dalla frangia di capelli biondi, e con fare disinvolto le rispose: “Li ho visti tutti e tre una sera al rione, ci siamo divertiti un sacco, sarà stato tre settimane fa…”. “E poi …?”, insistette Paula. “E poi … niente … mi ha dato il numero e l’ho chiamato … tutto qua … vuoi sapere come l’abbiamo fatto!?! ...”. Paula si versò del vino rosso, mentre Hélène sentiva le gambe tremare per l’imbarazzo; era assai probabile che Marco, avesse potuto rivelare a Chiara di quel loro assurdo scambio di messaggi.
Paula cambiò rapidamente argomento, come se i restanti dettagli non le interessassero più di tanto. Guardò Hélène con un amabile sorriso, tra di loro non vi era mai stata una vera simpatia, e sorseggiando il suo bicchiere di vino, lentamente le disse: “E tu guapa … quando te lo trovi un lavoro per pagare l’affitto? … da gennaio sono trecentotrenta euro al mese anche per te …”.
A quanto pare Chiara ne aveva parlato con Paula, le due ragazze parevano già perfettamente d’accordo tra di loro; la coinquilina bionda guardando Hélène con dolcezza, prese la parola a sua volta dicendo: “Ho visto che al bar dall’altro lato dell’Università … stanno cercando una cameriera per la sera… potresti provare”. Hélène non aveva ancora capito benissimo le parole di Chiara, e balbettando leggermente imbarazzata, le domandò: “… che cosa vuole dire … una cameriera per la sera ...”; allora Chiara riprese: “…alla sera quel locale diventa una birreria, una specie di ristorante … e stanno cercando una cameriera, potresti essere tu”.
“Se vuoi domani pomeriggio ti accompagno …”, le disse Paula con tono ancora più altezzoso; Hélène ebbe allora una reazione leggermente piccata, e guardando la ragazza argentina negli occhi, rivelando una personalità fino a quel momento sconosciuta alle sue due compagne d’appartamento, ribatté: “Conosco la strada, posso andarci da sola, grazie …”.
“Chiedi di Nadia”, le suggerì con la consueta cortesia Chiara, aggiungendo: “… è la moglie del proprietario ed è romena, ho già parlato anche di te con lei due giorni fa…”.
A quanto pare, le due ragazze avevano già combinato tutto quanto alla perfezione, senza rivelarle nulla. Così la scellerata Hélène alla fine si mise a dormire con non poca inquietudine, quella notte: Chiara si vedeva con Marco, ed era così che la biondina aveva già messo le corna al suo Lorenzo; i due avevano probabilmente anche lungamente commentato, lo stupido scambio di messaggi con Hélène, e si trattava certamente di una incredibile vergogna.
In più, per quanto oramai ostili l’una verso l’altra, Chiara e Paula si erano adoperate assieme per trovarle un lavoro, fino al punto di parlare con la moglie del proprietario del locale situato nell’ampio viale posto dinanzi all’Università.
Così il pomeriggio del diciassette di dicembre, vestita con un cappotto grigio un po’ demodé, e con i lunghi capelli neri raccolti in una coda di cavallo, Hélène fece per la prima volta il suo ingresso nel Caffè che prendeva il nome dalla lunga strada adiacente, chiedendo direttamente della signora Nadia in mezzo ai pochi tavoli occupati da alcuni turisti.
Seduta dietro ad un’ampia barra di legno, ingombra di numerose bottiglie e di eleganti calici per il vino rovesciati, Nadia le sorrise; avrà avuto non oltre quarant’anni, e Hélène non s’aspettava affatto che ella potesse essere così giovane.
Chiamò a gran voce una cameriera bionda, di nome Cathy, chiedendo a quest’ultima di rimanere alla cassa per qualche istante; ed intimando a Hélène di seguirla, si aprì dinanzi a sé una vecchia porta di legno, che dava sul retro del locale, oltre la quale vi era celato, una specie di piccolo ufficio.
Quando furono dentro, Nadia la guardò da cima a fondo, e sorridendo le disse: “Come sei carina !!!... ma parli anche bene l’italiano ?!?...”; Hélène ristette, ma senza darle nemmeno il tempo per rispondere, la donna riprese il discorso: “Levati pure il cappotto … mettiti comoda …”. L’aiutò a spogliarsi, Hélène indossava un maglioncino grigio stretto sopra ad una gonna nera. Allora la donna la scrutò ancora una volta con attenzione, e sorridendo aggiunse: “Ti piace tanto la cucina italiana … vero?”, e si mise a ridere.
Hélène rispose alla prima domanda, senza dissimulare un certo imbarazzo: “... capisco l’italiano… ma devo migliorare molto per parlare bene …”; ma oramai la donna sembrava decisa, e scrutandola ancora una volta da cima a fondo, le domandò: “… ti hanno già spiegato come funziona qui da noi ?!? sai già quanto si guadagna? …”. Hélène fece segno di no con il capo, allorché la donna si appoggiò alla parete, e scandendo le parole col dito alzato, le disse: “Il contratto è tutto in nero, così intanto non paghi le tasse … poi lavori dal mercoledì alla domenica per sette ore, dalle sei all’una … e sono seicentocinquanta euro al mese”.
Era una cifra per niente male; non solamente Hélène si sarebbe potuta pagare l’affitto della casa, ma avrebbe anche avuto metà di quello stipendio per sé, per le sue esigenze personali; ad esempio, avrebbe potuto comperare una nuova borsetta, adorava alcuni modelli di pelle nera che aveva veduto nei negozi vicino casa. Oppure una elegante giacca di pelliccia, che andava molto di moda quell’anno.
Si schiuse in un ampio sorriso, e disse che era pronta a cominciare a partire dal dieci di gennaio, quando sarebbe ritornata in Italia, dopo le vacanze in Belgio.
La donna allora ricambiò il sorriso, e guardando il calendario le disse: “Ascoltami tesoro, è meglio che cominciamo dal mercoledì quattordici, però il sabato o la domenica prima passa a trovarci a quest’ora… ti pagheremo solamente metà mese per questa volta, e ti farò conoscere mio marito”.
Hélène non aveva mai lavorato in vita sua, e ristette un attimo pensierosa; poi domandò con candore: “… ma … ma non dobbiamo firmare nulla?”. La donna la prese sotto il braccio, ed accompagnandola con dolcezza fuori dal piccolo ambiente, prese il suo cappotto e le diede una delicata pacca sul sedere.
Si salutarono nei pressi dell’ampio bancone, con una stretta di mano, mentre il locale intorno a loro aveva improvvisamente preso vita, pieno di gente rumorosa e di luci colorate sparse dappertutto.
Dodicesimo episodio
Il volo che da Roma l’aveva condotta a Bruxelles, era stato un autentico incubo; Hélène non amava l’aereo, e come se non bastasse quella volta vi erano state non poche turbolenze lungo la rotta, durata ben oltre le due ore. Il rapido viaggio in treno fino alla stazione centrale, e di lì verso Liegi non era stato nulla rispetto a quell’autentico tormento. Trovò ad attenderla la madre Dominique, assieme a Benoît alla Gare des Guillemins, lungo l’affollata banchina piena di gente.
La città era completamente adornata di luci, con addobbi di tantissimi colori, e tutte le vetrine illuminate per il Natale.
Hélène provava in quel momento anche del piacere nel ritornare a casa; gli odori di zucchero filato e di dolci, caratteristici del suo paese, riempivano l’aria del lungo androne attraverso la stazione, e di tutta la zona pedonale che si estendeva fino a pochi isolati da lì. Si era coperta per timore del freddo, ma quel pomeriggio sembrava che tutto fosse stato predisposto a puntino per accoglierla.
Dovette rispondere a moltissime domande, raccontare diverse cose, e per pochi minuti Hélène si sentì nuovamente a casa propria, felice ed entusiasta come una bambina.
Giunti nella dimora in Rue Courtois, ella decise subito che non avrebbe rivelato nulla del suo cambio di residenza, né del lavoro come cameriera che si era procurata solamente pochi giorni addietro. Non vi era alcuna ragione, per incorrere nella rabbia e nel disappunto di sua madre; la decisione di trasferirsi era davvero stupida ed ingiustificata, e Hélène in cuor suo lo sapeva: e sua madre non gliela avrebbe certamente fatta passare liscia se solamente glielo avesse riferito.
Raccontò moltissime cose dell’Università, e diede prova di conoscere abbastanza bene anche l’italiano, quando il compagno di sua mamma le mostrò un piccolo volantino che aveva portato via con sé, con alcune indicazioni per raggiungere l’albergo dove avevano alloggiato assieme.
Vi era un’inattesa armonia tra Hélène e sua madre, al punto che quella sera la ragazzotta si mise a letto con un senso di profonda tenerezza e di felicità; pensò tra sé e sé, che la distanza era in fondo una strana maniera per rafforzare i rapporti famigliari, laddove la vita quotidiana tendeva inevitabilmente ad incrinare le cose.
La conversazione tra Hélène e Bianca si concentrò immediatamente sull’Italia, e sulla vita di quel paese lontano; contrariamente a quanto fatto con sua madre, Hélène decise di non nascondere nulla alla sorellastra, della sua nuova abitazione, e delle divertenti serate al rione con le sue coinquiline. Bianca mostrò un vivo interesse verso quei racconti, era spesso segregata in casa, ma si capiva bene quanto ella fosse piena di sogni e di curiosità per quel mondo così diverso e distante.
Passò il Natale, ed anche il Capodanno in modo sereno e spensierato: Hélène rivide tutte le sue amiche in varie circostanze, Nicole e Jeanne e le altre compagne dell’istituto delle suore. Quasi tutte loro si erano oramai fidanzate, ma questo Hélène già lo sapeva, e non era affatto una novità.
Non rivelò a nessuna di loro, assolutamente alcun dettaglio, del suo primo ed unico bacio alla francese: la maniera in cui Marco l’aveva trattata dopo quegli accadimenti, l’aveva persuasa del fatto che fosse tutto consistito in un semplice ed accidentale momento di follia. Nulla di cui andare felice ed orgogliosa, al cospetto delle avventure piacevoli e leggiadre di tutte quante le sue compagne di scuola.
Tredicesimo episodio
Chiara accettò volentieri di accompagnarla, e le due ragazze si ritrovarono nuovamente a parlare da sole, in francese, come non accadeva da tempo.
La biondina lungo la strada confidò a Hélène, di essersi praticamente lasciata con Lorenzo, aggiungendo che quest’ultimo ancora non si era rassegnato alla sconfitta, ed in cuor suo s’illudeva che tutto fosse ancora come prima. La chiamava in continuazione, tormentandola con la sua gelosia ingiustificata e ridicola, al punto che per Chiara quella vicenda era oramai divenuta uno strazio insopportabile.
Da settimane si vedeva regolarmente con Marco, che le piaceva moltissimo; ed in quel frangente, prendendo Hélène per un braccio, le disse apertamente di essere a conoscenza dei loro messaggi, ma anche di non essere per nulla infastidita, trattandosi solamente di uno stupido scherzo.
Hélène provò un atroce imbarazzo, ma parlandole sempre in francese, Chiara aggiunse di non essere affatto informata di quanto essi si scrivevano, ma semplicemente di sapere che si trattava di uno stupido gioco.
Assorbita da tutti questi pensieri umilianti e penosi, Hélène fece il suo ingresso nel Caffè, trovandovi la signora Nadia seduta dietro il bancone, intenta a preparare alcune fatture. Chiara la seguiva a breve distanza, guardandosi intorno.
Quando Nadia la vide, subito si levò in piedi accogliendola con un amabile sorriso. Ed in quel preciso istante, dal piccolo spazio nascosto dietro alla porta di legno sul retro, uscì un uomo non giovane, sulla sessantina, con i capelli piuttosto disordinati e bianchi, ed un lungo sigaro stretto tra le dita. Spostò la donna senza troppa cortesia, e fu dinanzi alle due ragazze. Quel signore era Mariano, il proprietario del locale.
Guardò Chiara con vivace interesse ed entusiasmo, domandandole subito: “Sei tu la ragazza belga?”; ma questa non rispose, lasciando che fosse Hélène a presentarsi, nel suo italiano misto di francese.
L’uomo prese la mano di Hélène, e stringendola con fare cerimonioso, le disse: “… mi aveva detto mia moglie che ti piaceva la cucina italiana … ma a noi va bene così, dimmi solo che taglia porti tesoro”. Le avrebbero ordinato la divisa da lavoro, una semplice camicia bianca con il collo alla coreana, ed una gonna scura lunga un palmo sopra il ginocchio. Le scarpette, rigorosamente nere senza il tacco, le avrebbe invece portate direttamente Hélène.
Le presentò una ragazza piuttosto seriosa, che si faceva chiamare Elle e che veniva dalla Germania. A dispetto della sua giovane età, Elle era tra le cameriere più serie ed affidabili, e spesso le venivano assegnate mansioni di grande responsabilità. Insieme a lei vi erano anche Cathy, Veronica e Rosaleen, tutte ragazze tra i venti ed i venticinque anni, impiegate per una stagione o poco più. Gli unici colleghi maschi erano invece italiani, si chiamavano Leo e Daniele; a vederli non si sarebbe detto affatto, che fossero interessati alle donne, avevano un atteggiamento effemminato.
Il signor Mariano chiese ad Elle di prendersi in carico la giovane Hélène e di aiutarla durante il suo apprendistato, a partire dal mercoledì immediatamente successivo; la divisa da cameriera sarebbe stata pronta e Hélène avrebbe dovuto presentarsi lì dieci minuti prima per cambiarsi ed indossarla. Come ultimo atto prima di lasciarla andare, a Hélène vennero presentati coloro che se ne stavano tutto il tempo chiusi nella cucina: erano tre ragazzi romeni, e si chiamavano Ivan, Adrian e Gheorghe. Costoro al contrario dei due camerieri italiani, avevano fattezze piuttosto ineleganti e virili, e senza nemmeno tanta grazia scrutarono Hélène da cima a fondo, come si fa con le bestie al mercato, lasciando subito intendere a quali dettagli fossero interessati.
Mentre quella veniva introdotta, Chiara se ne stava seduta da sola vicino all’ingresso, e parlava al telefono con Marco. Rideva di gusto, nel descrivere i camerieri e i cuochi, ed il futuro ambiente di lavoro della sua coinquilina belga.
Hélène ottenne un anticipo di cinquanta euro, ma le fu detto chiaramente che il resto lo avrebbe ricevuto solamente a fine mese, dopo aver dimostrato di saper lavorare bene come tutte le altre, con puntualità e cortesia.
Così iniziò un periodo nuovo, in cui Hélène si recava direttamente dall’Università al suo luogo di lavoro, senza dover passare da casa. Il primo giorno trovò la sua divisa pronta per lei, e la dovette indossare sotto lo sguardo attento di Nadia. Per sua fortuna quel giorno Hélène aveva scelto un casto paio di calze intere di colore scuro, e così quel cambio d’abito non fu tanto imbarazzante come avrebbe potuto.
Entrò nella sala e subito la giovane kellerina tedesca, iniziò ad istruirla; avrebbe servito un tavolo di vivaci e rumorosi studenti, quattro ragazzi già piuttosto brilli, che con ottima probabilità frequentavano gli stessi corsi di Hélène.
Ordinarono una bottiglia di Falanghina ed alcuni antipasti a base di pesce, senza darle apparentemente troppo peso.
A metà serata, dopo essere andata in bagno a fare la pipì, Hélène diede un’occhiata al suo telefono, e vi ritrovò del tutto inatteso, un messaggio di Marco. Era da diverso tempo che questi aveva smesso di scriverle.
“Vedi di fare la brava e di trattare bene gli uomini, sennò vengo subito lì e ti sistemo per le feste …”
Lo lesse e subito ripose il telefono nella sua borsetta. Ma contrariamente al suo primo naturale istinto, subito Hélène fu distolta da un senso strano di timore.
Uno dei quattro studenti la riconobbe, e le disse sorridendo: “Ma tu non sei la ragazza belga che viene ai corsi?”; Hélène fece cenno di sì, si vedeva che era assai imbarazzata. Fu così che Elle la prese sotto un braccio, e parlandole nell’orecchio le disse: “Anch’io vado qui all’Università … qui tutte le ragazze frequentano gli stessi corsi … ma non devi dare mai troppa confidenza alle persone, non puoi farlo …”.
Alla fine della serata Hélène era sfinita. Mise il suo cappotto nero direttamente sopra alla divisa del lavoro, portando via con sé una borsa bianca con i vestiti del pomeriggio. Trovò sul suo telefono un nuovo messaggio di Marco, che scherzando diceva: “Hai fatto la brava … per oggi niente sorprese ma stai attenta a come ti comporti …”.
Elle le stava sempre accanto, dandole continui consigli e utili raccomandazioni; vi era invece uno dei tre cuochi, quello di nome Adrian, che non si limitava affatto a servirle i piatti o a prendere degli ordini da lei. Era dalla prima sera che egli la osservava: aveva i capelli scuri piuttosto corti, un fisico snello di buona statura, con spalle non troppo robuste.
La fissava in continuazione, mentre Hélène entrava ed usciva dalla cucina, con i fianchi stretti nella sua solita gonna nera.
Per fortuna l’uomo non aveva alcuna possibilità di disturbarla, dal momento che Hélène staccava all’una di notte, quando quegli era ancora impegnato a ripulire i piatti e la cucina. Quel cuoco non le piaceva davvero per nulla, era insistente e pesante, e la scrutava sempre allo stesso modo, con aria desiderosa e sanguigna. Gli altri due cuochi dovevano essersi resi conto della cosa, e di tanto in quanto le sorridevano in maniera ammiccante e del tutto irrispettosa.
La situazione sarebbe precipitata la sera del ventinove di gennaio, quando Hélène era in bagno a cambiarsi dopo avere finito il lavoro. Adrian spinse forte la porta con tutta la serratura chiusa, e quella si aprì, rivelando Hélène al suo interno, nell’intento di indossare un paio di jeans; aveva le mutandine color panna, strette e rotonde attorno al monte di Venere. La ragazza belga fu rapida nel richiudere la porta serrandosela dinanzi con rabbia e decisione; ma non poteva neppure immaginare, che da quel momento in avanti sarebbe iniziato il suo tormento.
In quegli stessi giorni, Chiara e Hélène avevano cominciato a prepararsi per un primo esame di metà anno, nella complicata materia di Diritto Civile. Hélène tremava al pensiero di dover affrontare quella prova di lì entro poche settimane, ma per sua fortuna Chiara era ben disposta ad aiutarla in quel periodo; e spesso lo faceva studiando insieme con lei durante le sere del lunedì e del martedì, quando Hélène non doveva andarsene al lavoro.
E proprio una sera di quella stessa settimana, mentre la ragazzotta belga si trovava al lavoro dentro al solito locale, ella vide entrare dalla grande porta a vetri sulla strada le inconfondibili sagome di Marco e di Lele.
Quelli si sedettero al tavolo senza nemmeno salutarla, ma la fissavano in continuazione, e sembravano quasi divertirsi un mondo, a provocarla in modo spudorato ed irrispettoso. Ed il messaggio che arrivò sul telefono di Hélène, era assolutamente disgustoso: “Mi piaci vestita da cameriera … vorrei alzarti quella gonna …”.
Nonostante i due ragazzi avessero fatto in modo di sedersi lì vicino per essere serviti da lei, la fortuna volle che fosse Veronica quella sera ad occuparsi di loro. La solita Elle comunque prese Hélène da un lato, e senza tanti giri di parole le disse: “Io credo che tu hai troppe distrazioni quando lavori … devi ignorare gli uomini … non guardarli, perché non sei pagata per questo … hai capito …?!?”.
Ma Hélène si muoveva tra i tavoli della sala, con la mente assolutamente confusa. Era fortemente condizionata dalla loro presenza, ed andò avanti a grande fatica fintanto che quelli non decisero di andarsene, dopo avere regolarmente pagato il conto alla sua collega.
“Non mi piace come ti muovi sei una grassona … mettiti subito a dieta sennò ci penso io” fu il regalo finale di Marco, al termine di quella lunga serata indimenticabile.
Quattordicesimo episodio
Il professor Martini annunciò le modalità della prova d’esame, che sarebbe cominciata di lì a poco, la mattina di quel mercoledì 4 di febbraio: Hélène se ne stava seduta nelle ultime file in alto a destra, accanto a Chiara, e stava letteralmente tremando di paura, mentre lo ascoltava; il suo grado di preparazione era infatti del tutto insoddisfacente.
Il compito scritto assegnato a Hélène aveva come oggetto, lo spazio pubblico, un tema trattato a lungo durante le lezioni, e che la ragazza belga aveva mandato a memoria per bene. Scrisse pertanto quello che ella ricordava, con svariati errori calligrafici e senza alcuna ispirazione. Ma intanto riuscì a completare la prova e consegnò il suo manoscritto firmandolo con il proprio cognome. Altrettanto fece Chiara, e subito abbracciò Hélène, felicitandosi con lei per essere riuscita a consegnare il proprio lavoro in tempo utile.
Uscirono dall’edificio e decisero di andarsi a bere un tè in un elegante bar qualche isolato distante. In quel frangente un nuovo messaggio giunse sul telefono di Hélène.
Chiara la guardò con occhi vivaci e carichi di sospetto, erano già sedute al tavolo in una sala ovattata e silenziosa. Poi prese a dirle: “Che fai non lo leggi ?!?...”; la ragazza belga temeva che la sua amica intendesse vedere coi suoi occhi, quello che Marco andava scrivendole.
“Andiamo, guardalo!”, la esortò, mentre Hélène sentiva le gambe tremarle sotto il tavolo, ed il ventre ingrossarsi.
“Facciamo così …”, riprese nuovamente la biondina, “adesso tu lo leggi senza dirmi nulla … e io mi limiterò ad osservare l’espressione del tuo viso …”; e si mise a ridere di gusto.
“Che fai allora?” insistette. Allorché Hélène si decise ad estrarre il telefono dalla borsetta; e continuando a tremare tutta quanta, si apprestò a leggere il messaggio. Vi era scritto: “Questa sera si festeggia … o devi essere bacchettata…?”.
Hélène ristette immobile con sguardo inespressivo.
Chiara dovette comprenderlo subito, che quel messaggio non le aveva causato esattamente un sentimento molto piacevole, ed aggrottando le ciglia domandò con fare non proprio disinvolto: “… Marco è un maiale … vero? ...”.
Hélène fece cenno di sì con la testa, e ripose via il suo telefono; allorché Chiara, intendendo alleggerire un poco la discussione, riprese con tono scherzoso: “Non ci fare caso, io lo so cosa ti scrive … ma a te piace veramente venire trattata così ?!?...”; “Così … come? ...” domandò Hélène, che nel frattempo stava scivolando nel baratro della vergogna e teneva lo sguardo basso; “… voglio dire … così come ti tratta lui, tu lo sai cosa voglio dire …”.
Hélène continuò a fingere di non capire, ma oramai la situazione era divenuta fin troppo imbarazzante, ed allora ella decise di aprirsi, ed alzando lo sguardo rispose: “No, non mi piace davvero per niente … digli di smettere per favore”.
Chiara sciolse tutto in una risata leggermente indisponente, e prendendo la mano della sua amica, le disse sottovoce: “…non ti preoccupare, il cane che abbaia non morde …”. Hélène non conosceva per nulla questo modo di dire e non comprese affatto il significato di quella frase. Ma per sua fortuna, in quell’istante ella ricevette una provvidenziale telefonata da parte di sua madre, che attendeva con non poca apprensione di sapere come fosse andata la sua prima prova d’esame; ciò pose fine a quella conversazione così fastidiosamente intima ed imbarazzante, e le consentì di finire il suo tè in santa pace.
Quella sera Hélène andava servendo un paio di tavoli, uno occupato da una coppia di giovani fidanzati che la trattavano con fare davvero sgradevole e tono decisamente altezzoso, ed un altro animato da un gruppo di allegre giovani, sicuramente straniere, molto probabilmente anche loro frequentanti la stessa Università.
Hélène entrava ed usciva dalla cucina, ed a seconda dei piatti ordinati, veniva servita da Adrian oppure da Gheorghe; il terzo cuoco di nome Ivan s’era infatti licenziato da alcuni giorni, e adesso i due lavoranti romeni erano rimasti là dentro a faticare da soli; il signor Mariano aveva deciso di non sostituire il più anziano dei tre - gli incassi non stavano andando molto bene diceva, a giustificazione di questa sua scelta.
Adrian era quello che batteva la carne, e preparava delle bistecche piuttosto ricche e abbondanti; Gheorghe era invece quello che preparava i primi, i contorni e le insalate.
Nel frattempo, Hélène serviva il tavolo delle giovani studentesse, assai vivaci e rumorose nonostante non avessero bevuto assolutamente nulla; una di loro parlava il francese, ed intuendolo dall’accento di Hélène, le rivolse la parola nella sua stessa lingua. La cameriera, che era stata lungamente istruita sulla necessità di non esibire troppa confidenza coi clienti, rispose in modo sommesso e poco entusiasta. Ripresero così a parlare subito tra di loro, e Hélène intese come colei che poc’anzi le aveva rivolto la parola, la stesse adesso descrivendo alle sue amiche in termini assai poco gentili.
La ragazzotta nel frattempo fece nuovamente il suo ingresso in cucina; era stanca e appesantita, quella sera i due tavoli le stavano dando non poco lavoro da fare, e la fatica della lunga giornata e della prova d’esame iniziavano a farsi sentire; così si avvicinò ad Adrian per ordinare alcune cose, e vide quello che la fissava in basso, senza alcun rispetto.
Vi rientrò dopo alcuni minuti, e prese l’hamburger di manzo appena preparato, destinato alla coppia di clienti antipatici ed altezzosi; si ritrovò dinanzi ad Adrian, mentre Gheorghe non era lì, probabilmente era appena andato in bagno. Vide i suoi occhi pieni di voluttà, e subito comprese quanto egli aveva in mente: si voltò sperando di fare in fretta ad uscire, ma in quell’istante lui si spostò verso di lei e le mollò una manata fortissima sul didietro, che schioccò come in un tonfo sordo e penoso, scuotendola sui glutei gonfi e abbondanti.
Hélène entrò nella sala piena di vergogna, con le lacrime agli occhi; e nemmeno si rese conto, che quella manata le aveva lasciate chiare ed evidenti, alcune chiazze di farina intorno alla gonna nera stretta e aderente. Fu proprio la signora Nadia ad avvisarla, prendendola da parte e dicendole: “Cosa diavolo hai fatto sul sedere? … hai una bella manata di farina bianca sul didietro … ma chi diavolo è stato a toccarti ?!? dimmelo che lo licenziamo ...”.
Hélène comprese come Nadia avesse assai pochi dubbi su chi fosse stato, in realtà, a toccarla; ma senza spiegarsene nemmeno la ragione, ella decise di tacere, forse per non incorrere nell’ira del cuoco romeno. Si giustificò in maniera assai improbabile, dicendo di essersi appoggiata al tavolo, e di non essersi affatto resa conto di essere sporca; allora quella le mise una mano sulla gonna e massaggiandola nervosamente, la liberò da quei vistosi segni bianchi.
Mentre la serata stava per concludersi, entrando nuovamente in cucina, la ragazzotta rivide il cuoco che la scrutava con la sua solita aria di sfida; si allontanò da lui con espressione completamente indisponente, dicendogli in modo serio ed accorato: “… non lo fare più… non ci provare mai più… sennò lo dico alla signora Nadia!”.
Si prese un’altra manata, ancora più forte, sul didietro, sotto gli occhi indifferenti ed ignari dell’altro cuoco Gheorghe. Uscì dalla cucina come se l’avessero oltraggiata.
Quindicesimo episodio
Il martedì successivo vennero esposti i risultati dell’esame di Diritto Civile. Chiara li lesse mentre Hélène era ancora in casa, e dal momento che quest’ultima era stata bocciata, preferì che fosse essa stessa a vederli per prima con i propri occhi. Fu un’autentica doccia gelata, dal momento che Hélène sperava in cuor suo di avercela fatta; ed invece il suo risultato fu estremamente negativo, al contrario di Chiara che invece superò l’esame con una brillante valutazione.
Si intuiva bene quanto la sua coinquilina fosse in gran imbarazzo quel giorno, non aveva nemmeno il coraggio di parlare, dello sciagurato esito di quella prova; fu proprio Hélène nell’intervallo della lezione, a confidarle: “Tu hai fatto il possibile per aiutarmi … ma queste materie non fanno davvero per me …”, e si coprì candidamente il viso per nascondere alcune timide lacrime. Chiara allora le prese delicatamente la mano, e stringendola le disse: “Non è vero Hélène … devi solamente impegnarti un poco di più ed essere un po’ meno distratta … e sono sicura che ce la farai”.
In quel frangente e per la prima volta in assoluto, Hélène cominciò a realizzare tra sé e sé, che probabilmente quell’avventura non sarebbe andata avanti a lungo, e che presto o tardi, se ne sarebbe dovuta tornare a casa.
Quel sabato si festeggiava San Valentino, ed i tavoli del locale erano stati tutti addobbati con tante rose rosse; si annunciava del duro lavoro da fare.
Hélène divideva con Veronica i tavoli della saletta centrale, mentre Rosaleen serviva le coppie sedute vicino all’ingresso e Cathy dava una mano alla cassa. Quella sera tutte le ragazze erano state abbellite con un fiore bianco nei capelli, rigorosamente legati assieme. L’unica eccezione era la solita Elle, che avendo un taglio sbarazzino da maschietto, era stata risparmiata.
Hélène quella sera segnava un mese esatto da quando aveva iniziato a lavorare; con l’esperienza era divenuta molto più rapida e disinvolta, al punto che anche la signora Nadia aveva smesso di controllarla tutto il tempo, e la stessa Elle adesso la seguiva sempre meno. Eppure, proprio quella sera, e per la prima volta, Hélène combinò davvero un grosso pasticcio dei suoi: ad una coppia che aveva ordinato due piatti di risotto alla cantonese, portò per errore due piatti di risotto alla milanese, e pure con non poco ritardo; rimediare non fu semplice, dal momento che il risotto impiega molto tempo per venire preparato: fu pertanto così, che all’atto di pagare il conto, la coppia chiese di poter parlare direttamente con il proprietario.
Il signor Mariano non era lì quella sera, non si faceva mai vedere al locale di sabato, ed allora ad ascoltare quella coppia di clienti insoddisfatti intervenne la signora Nadia; Hélène li osservava da debita distanza, e sentiva le gambe tremarle per la paura. La donna che era stata servita da lei, parlava e gesticolava guardando la signora Nadia con furore, ed anche il suo compagno a volte di tanto in quanto interveniva, rincarando la dose; salutarono la moglie del proprietario senza troppa cordialità, e quella rispose allargando le braccia in modo sommesso con un cenno di scuse.
“Che cosa le hanno detto?” chiese Hélène continuando a tremare; Nadia allora la prese a sé per un braccio, e parlandole nell’orecchio le riferì: “… hanno detto che non verranno mai più, e poi mi hanno detto che sei lenta e poi …”; Hélène iniziò a temere per sé stessa, ma la signora Nadia sospingendola per un fianco la fece rientrare di corsa nella sala, vi erano ancora numerosi tavoli in attesa di essere serviti. Alla fine della serata le cameriere erano letteralmente stremate, ed una alla volta si sciolsero i capelli e si cambiarono. Cathy fu venuta a prendere dal suo fidanzato italiano, un uomo sulla trentina alto ed elegante, che aveva parcheggiata sul bordo della strada la sua potente automobile sportiva; anche Rosaleen mentre si cambiava, confidò alle sue colleghe, di doversi precipitare a casa del suo ragazzo che oramai la attendeva da troppo tempo. Veronica invece era addirittura sposata, anche se il marito si trovava in un’altra città per motivi di lavoro. L’unica single tra le cameriere del locale, era proprio Elle.
Hélène fece per sciogliersi i capelli, ma in quell’istante con sua grande sorpresa trovò un mazzo di nove rose rosse appoggiato sopra la sua borsa bianca, avvolto in un drappo di cellophane; le altre ragazze non erano attorno, e vicino a lei si trovava unicamente Leo, uno dei due camerieri maschi. La guardò e sorridendo le disse con la sua consueta grazia: “…non penserai mica che sia stato io?!?”, e si mise a ridere. Hélène lo fissò, era ancora assai meravigliata per quel dono del tutto inatteso, e a quanto pare non apprezzò nemmeno quella battuta. “… e leggi il bigliettino… no ?!?”, ribatté il cameriere indicando in basso.
Stretto intorno al cellophane, tenuto insieme da un elegante nastro rosso, un minuscolo bigliettino bianco portava con sé una semplice dedica: “Per la bambina più furbetta e cattivella del mondo”, ed in fondo a chiudere il tutto “Ti voglio, Lele”.
Leo allora riprese il discorso, e le disse: “Hai visto che non sono io, anche se il nome mi somiglia …”, e si mise a ridere. Aveva letto il bigliettino, e non era stato il solo. Infatti, di lì a poco, mentre Hélène recuperava le sue cose dalla borsa per potersi cambiare, vide appoggiata allo stipite la sagoma di Adrian che la scrutava dall’alto in basso.
“Cosa vuoi?!?” l’apostrofò Hélène, il cui iniziale stupore per quel dono inatteso, aveva presto lasciato il posto ad uno strano sentimento di smarrimento e di timore. Ma Adrian non rispondeva, ed allora Hélène fece per rimettere il suo ricambio dentro alla borsa, pensando di andarsene a casa direttamente col suo abito da lavoro.
A quel punto il cuoco romeno finalmente aprì bocca, e con voce spezzata e roca, le disse: “Tienilo quel fiore sulla testa che sembri quasi una spagnola … ed invece quelli là li devi buttare … subito”.
E poi senza attendere oltre, le domandò: “Chi è … Lele eh?”.
Hélène si sentì tremare tutta, tra le gambe e lungo la schiena; rispose balbettando: “Chi sei tu, per potermi dire cosa devo fare …”. Ma subito si rese conto di avere sbagliato, dal momento che quello le si fece più vicino, in modo minaccioso. Hélène sentì la pressione salirle, avrebbe voluto chiamare qualcuno, ma dalla sala del locale si udivano oramai sporadici rumori, unicamente di sedie che si spostavano e di posate rimesse in ordine.
Allora ristette attaccata al muro, mentre Adrian oramai era ad un passo da lei; le fu vicino, ed infine con un gesto rapido e sconsiderato, le prese i fiori dalle mani e li scaraventò in un secchio per lavare i pavimenti. Poi non contento la afferrò per un braccio, provando a trascinarla con sé dentro il bagno.
Per fortuna in quell’istante si udì la voce della signora Nadia, che dalla sala richiamava Hélène: era prevista una paternale di quelle severe, per avere scontentato quella coppia di clienti che erano usciti lamentandosi. La ragazzotta belga dovette sentirsi ripetere più volte, che era lenta ed impacciata, e che era perennemente distratta mentre serviva.
La moglie del proprietario concluse dicendole: “…per questa volta non dirò nulla a mio marito … ma ai prossimi che si lamentano di te, dovremo vederne le conseguenze tesoro …”.
Si scusò sommessamente, e non osò domandare a quali conseguenze si riferisse la signora Nadia, era una minaccia vaga anche se piuttosto seria. Ma poté uscire dal locale indisturbata, e filò dritta verso la fermata dell’autobus.
Sul telefono trovò due messaggi, uno del solito Marco che la insultava, e l’altro – ancor più sciagurato - di Lele; li lesse entrambi provando un immane senso di fastidio. Ma intanto giunse a casa sana e salva, dopo una serata di lavoro davvero pesante ed umiliante, e con una buona mattina di domenica avanti a sé per potersi riposare.
Stava prendendo coscienza di piacere agli uomini; non le era mai accaduto prima d’allora, ma a quanto pare il calore e la passione della gente di Roma avevano cambiato di molto le cose. Si sentiva ancora incredibilmente confusa nella testa, Lele non le interessava davvero per nulla, e Hélène non aveva nemmeno ringraziato per il mazzo di fiori che egli le aveva regalato, né risposto al suo scontato e banale messaggio; del resto il numero di telefono a Lele, lei non lo aveva neppure mai dato.
Adrian era invece un tipo aggressivo, e Hélène aveva un vivo timore di lui; lo spaventava la sua natura animale, il suo lato passionale e incontrollato. Ma intanto, mentre girava per le bancarelle del mercato cercando biancheria intima a basso costo, erano quegli occhi sanguigni e virulenti che ella teneva fissi nella mente, e non riusciva a dissimulare a sé stessa, un senso strano di attrazione e di smarrimento.
Il mercato era un luogo assai caotico, ma in pieno giorno e con soli trenta euro in tasca, per giunta vestita semplicemente in tuta e con le scarpe da ginnastica ai piedi, Hélène volle vivere da sola quella sua prima esperienza, ed anche acquistare alcuni capi di lingerie che le servivano.
Sentiva che da un momento all’altro le sarebbe accaduto, di cadere nella ragnatela, di finire tra le braccia di un uomo; e allora voleva essere pronta nel migliore dei modi. Il perizoma nero cinturato di pizzo in cima era forse un po’ troppo largo sul davanti, ma dietro presentava unicamente un filino sottile quasi invisibile, e le stava bene; le calze autoreggenti da abbinargli, erano incredibilmente corte, sembravano quasi dei lunghi calzettoni, ed arrivavano solo di poco oltre il ginocchio.
Ma con la gonna scura del lavoro quelle calze andavano alla perfezione, la lasciavano libera disotto, e adesso che il locale era spesso anche riscaldato in maniera un po’ eccessiva, le avrebbero dato sollievo. Così quella domenica Hélène attraversò il lungo viale in salita, diretta verso il suo luogo di lavoro, con grande fremito e turbamento.
Ma Adrian quella domenica non c’era; era stato sospeso per un giorno solo, per ragioni misteriose. Al suo posto vi era nuovamente il vecchio cuoco Ivan, richiamato per una serata solamente, per rimediare a quella situazione; le cameriere andavano interrogandosi sul perché di quello strano provvedimento, ma nessuna ne aveva compreso il motivo. Si accennava a problemi con la polizia o forse addirittura con la droga; Gheorghe era muto come un pesce, e faceva finta di non sapere assolutamente nulla.
La signora Nadia alla fine della serata decise di tranquillizzare tutti, e prendendo i camerieri in disparte uno alla volta, li informò del fatto che vi erano stati unicamente alcuni problemi con la questura, ma che dall’indomani il loro cuoco romeno sarebbe rientrato regolarmente al suo posto.
Allora Hélène si recò in bagno per cambiarsi, senza provare alcun timore; abbassò la cerniera sul retro della gonna, e se la lasciò cadere lungo le cosce, finché non fu giù in terra intorno alle scarpette senza il tacco. Si rimirò l’addome ed il sedere girandosi avanti e indietro dinanzi allo specchio; era grassa e sgraziata, e quegli indumenti intimi così smaccatamente provocanti, le lasciavano decisamente troppa carne scoperta, da tutte le parti, piena rigonfia di cellulite.
Indossò un pantalone scuro e vi mise sopra il suo solito cappotto nero; si sentiva stranamente sola e insoddisfatta, e mentre al buio in piedi attendeva l’autobus lungo la strada, nemmeno fu minimamente sollevata dal fatto di non avere ricevuto, per questa volta, alcun deplorevole messaggio.
Sedicesimo episodio
Il professor Ducré iniziò a parlare dell’esame, e lo fece nella maniera più subdola, spiegando come dovevano comportarsi tutti gli studenti che desideravano poterlo rimandare. Era solamente metà febbraio, ma le prime sessioni sarebbero iniziate già a maggio, e certamente sarebbero stati davvero in pochi, a cimentarsi con quella difficilissima prova al loro primo tentativo.
Paula era seduta accanto a Hélène, e quel giorno appariva radiosa e di ottimo umore, mentre Chiara era rimasta a casa, a letto raffreddata e leggermente ammalata; l’argentina si rivolse alla sua coinquilina, prima che riprendesse la lezione dopo l’intervallo, e le disse: “Lele c’è rimasto davvero molto male… non l’hai nemmeno considerato un poco … e mi ha anche detto di averti regalato delle rose”; Hélène provò ancora una volta del vivo disagio, ma con la studentessa di Buenos Aires andava sempre così sin dal primo giorno.
Si fece forza, e trattenendo a stento la rabbia rispose: “… non so nemmeno perché me le abbia comperate …”, allorché Paula le mise una mano sulla spalla, con disinvoltura, e le disse: “Si è dichiarato con te, gli piaci … e tu cosa aspetti, vuoi rimanere vergine per tutta la vita?!?”.
Per Hélène fu peggio di una frustata. Non avrebbe mai saputo se la sua coinquilina stesse provocandola, o se realmente ella credesse che lei era veramente vergine; tutte le storie che Hélène si era inventate, non erano bastate per convincere le sue due compagne d’appartamento, che ella avesse realmente avuto un ragazzo nel suo lontano passato.
Allora replicò leggermente piccata, a bassa voce: “Ma cosa dici?”; ma Paula non aggiunse nulla. Tra ragazze si capiva benissimo, come lei non avesse mai avuto una vera esperienza, e per quanto Hélène s’illudesse, le sue bugie erano oramai note e acclarate da tempo.
Il termine della lezione interruppe quella non semplice conversazione, e finalmente Hélène rimase da sola, dal momento che Paula si era mossa nell’edificio accanto per seguire un corso del secondo anno. Si accomodò seduta nella sala quasi vuota della biblioteca, ed iniziò a studiare in tranquillità.
In quel momento però fu nuovamente presa da uno strano turbamento: aveva negli occhi lo sguardo aggressivo di Adrian, mentre quegli le strappava dalle mani senza alcun ritegno, il mazzo di fiori regalatole da Lele; e poi ripensava al pene lungo e arcuato di Costanzo, o a quello più largo e tosto di Marco; infine rivide anche Lorenzo, mentre quegli eiaculava copiosamente, sulla schiena della sua coinquilina.
Fare l’amore doveva essere davvero molto doloroso, pensava tra sé e sé Hélène, mentre le pagine del libro che teneva aperto sulla scrivania, erano divenute fogli insulsi pieni di macchie nere prive di significato. Un dolore simile ad un abuso, ad una violenta forzatura: un oggetto duro e vibrante conficcato in mezzo alle gambe … peggio di un castigo.
Quel pensiero era davvero troppo, ed allora si sforzò parecchio per ricomporsi, ma oramai era scivolata nel baratro di quei turbamenti sporchi e vergognosi, ed il resto della giornata non le fu per nulla di aiuto.
Era inquieta e quell’ossessione non voleva proprio saperne di lasciarla in pace; dovunque ella andava, vedeva sempre degli uomini che la fissavano, e li immaginava tutti quanti con il loro sesso fermo tra le mani, pronti a farle provare quello che da tempo ella avrebbe dovuto conoscere.
La sera del diciotto di febbraio decise di calmarsi un poco prima di recarsi al lavoro, e lo fece bevendo una buona camomilla spruzzata col limone nella sala da tè, in perfetta solitudine. Aveva lasciato a casa il suo provocante intimo nero acquistato al mercato, si sentiva tremendamente grassa e inadeguata con quella roba indosso.
Entrata in cucina, subito vide Adrian con un vistoso livido scuro sopra l’occhio: come spesso accade alle femmine, immediatamente Hélène provò un vivo senso di pena e di preoccupazione per lui; e senza nemmeno pensarci un solo istante, gli fu vicino e gli domandò che cosa fosse successo.
Quegli le rispose con tono di voce scontroso: “Che cosa diavolo ti importa!?! … tu sei solo una donna …”. Ci rimase male, ma fu presto Veronica a rivelarle in maniera garbata nell’orecchio, la verità: “Ha preso dei pugni, c’è stata una rissa sabato notte, credo che avessero guardato alcune ragazze degli altri … stagli lontana …”.
Ma intanto Hélène continuava a provare pena per lui, e quando fu nuovamente dentro alla cucina per ordinare una bistecca di manzo, si fece vicina e gli disse: “Dovresti stare a casa, quel livido deve fare ancora molto male …”.
Adrian non la degnava di alcuna considerazione quella sera; e Hélène non riusciva nemmeno a capire, se fossero i pugni presi ad averlo completamente trasformato, o se piuttosto fosse proprio lei, a non piacergli più.
Si sentì all’improvviso nuovamente sola ed indesiderata, e tutto ad un tratto, ella prese a cercare Adrian con lo sguardo come mai avrebbe nemmeno minimamente immaginato. Ripensò alle parole di Cathy, quando la bionda cameriera qualche settimana prima, le aveva confessato delle avances di quel cuoco passionale, in un suo recentissimo passato.
Era evidente come ci avesse provato con tutte, e forse Hélène non era che la meno desiderabile, tra le cameriere che si aggiravano per il locale; fu presa da un senso di amarezza e di squallore.
Servì un tavolo di ragazzi vivaci e divertenti, e nemmeno si diede pena di osservarli; entrava in cucina sperando di venire nuovamente provocata, e solamente di rado quegli le volgeva gli occhi, senza apparentemente mostrare alcun interesse. Al termine della serata Hélène entrò in bagno per cambiarsi, e si rese conto di desiderare in modo inaudito, che lui fosse lì di nuovo, nascosto dietro la porta per lei. Alla fine, si ritirò in casa triste e delusa.
L’indomani era il giovedì di Carnevale; il signor Mariano pretese che tutte le cameriere indossassero un piccolo orpello, o un semplice gioco in maschera; portò dunque con sé alcuni accessori, ed una alla volta li impose alle ragazze che lavoravano nel locale. Fu così che Elle dovette diventare una nuotatrice con la cuffia e gli occhialini sopra alla testa, Veronica fu costretta ad acchittarsi come una donna vecchia ed impiumata degli anni Venti; Rosaleen invece si dovette truccare come una tenera bambina con le trecce. A Hélène toccò in sorte il travestimento da poliziotta, un berretto blu con la visiera, occhiali da sole, ed un paio di finte manette in plastica che le pendevano attaccate alla vita.
E come se andassero eseguendo un preciso compito, quella sera vennero a trovarla senza alcun preavviso, Marco e Lele.
E questa volta fecero davvero in modo di essere serviti da lei.
All’inizio Lele le mise anche una mano dentro alle sue manette, trattenendola vicina, mentre ella passava nei pressi del loro tavolo; era vistosamente allegro e anche un po’ ubriaco. Hélène fu nuovamente dalle loro parti, e con fare rapido ed apparentemente distaccato chiese loro, se intendessero ordinare qualcosa. Era davvero imbarazzata.
Marco allora le rispose senza mezzi termini: “Ti ordiniamo, di venire via a casa con noi questa sera … le manette però le usiamo noi …”. Allora Hélène si allontanò profondamente infastidita, mentre già Elle le si era fatta vicina, intuendo come vi fosse qualcosa di inusuale e strano, con quel tavolo. La ragazzotta si impose di andare avanti come se niente fosse, ma non era per nulla facile farlo, sentendosi addosso quei loro sguardi così volgari ed insistenti.
Ritornò presso di loro, intenta a prendere il loro ordine con pochissima cortesia; in quel momento Marco, senza alcun rispetto per lei, le suggerì di osservare direttamente sul proprio telefono: l’ordine le era stato inviato tramite un messaggio.
Hélène allora si allontanò un istante nel corridoio, e prelevando il telefono dalla propria borsetta, lesse inorridita: “Prepara quelle belle chiappotte … non scappi stasera …”
Non resistette oltre, e ritornando dentro alla sala, disse a Marco tremando tutta quanta: “Devi piantarla con i tuoi messaggi … non sono la tua serva …”.
Fu udita da diverse persone, ed in particolare da Nadia, che se ne stava ferma alla cassa a preparare il conto per tutti i tavoli che avevano finito la cena.
Quella si fece improvvisamente scurissima in viso, e levandosi i sottili occhiali dalla fronte, chiuse la cassa con la chiave e si mosse verso il centro del locale; afferrò Hélène fortissima per un braccio, e se la trascinò via con sé, nel corridoio antistante la cucina. Lì si tirò indietro la frangetta di capelli finti biondi, e trattenendo a stento le parole, la apostrofò dicendole: “Che cosa cazzo dici !?!... ma chi sono quelli lì nella sala?!? … ti hanno sentita tutti quanti !!!”.
Hélène allora capì di averla combinata veramente grossa, e tenendosi una mano su una guancia, le rispose con voce davvero sommessa e spenta: “Mi perdoni signora Nadia … quei due mi stanno insultando tutta la sera”.
La moglie del proprietario del locale non le credette, e con un gesto istintivo e leggermente sopra le righe, le mollò un forte ceffone, ritirando poi subito la mano. Hélène arretrò in lacrime, si sentiva davvero abusata ed umiliata. Aveva il berretto da poliziotta e gli occhiali da sole leggermente scomposti per via dell’inattesa percossa.
La serata riprese, e per fortuna Marco e Lele – che s’erano dovuti rendere perfettamente conto di quanto era accaduto – avevano smesso di provocarla e di metterla in difficoltà.
Quando poi Hélène entrò in cucina per ordinare due piatti di filetto, vide nuovamente gli occhi di Adrian che la fissavano in modo aggressivo ed insistito; le disse con voce ferma: “Dimmi solamente quale dei due è Lele … vado lì io e gli spacco la faccia”.
Hélène avvertì in quelle parole un senso di protezione e di inattesa delicatezza. Appoggiò allora entrambi i piatti che ella teneva in mano, sulla lunga barra bianca della cucina; ed avvicinandosi nuovamente al cuoco, in modo del tutto inopinato, gli sfiorò una mano con un gesto di tenerezza e di sottile complicità; poi gli sussurrò amorevolmente dentro l’orecchio, mentendogli in maniera spudorata: “… è il più bello dei due”.
Quegli allora le diede un buffetto su una guancia, facendola arrossire; ed infine, senza attendere nemmeno che lei uscisse dalla cucina, si diresse rapido e deciso verso la sala in cui si trovavano gli ospiti; in un solo istante fu vicino al tavolo di Marco e Lele, e puntando con lo sguardo il primo dei due, gli disse dritto in faccia: “Tu sei solo un perdente, lascia stare la mia ragazza, sennò io ti ammazzo …”.
Marco e Lele lasciarono immediatamente il locale, e riferirono tutto quanto alla signora Nadia che si trovava alla cassa; dissero che si erano lamentati con Hélène dal momento che quella non li aveva serviti in tempi rapidi, e che si trattava di una cameriera anche piuttosto maleducata. Ed infine le diedero conto dell’inaudita sfuriata del cuoco, che a quanto pare, di quella cameriera era il fidanzato o qualcosa del genere, e che li aveva addirittura minacciati.
Era decisamente troppo, ed allora la signora Nadia risolse di riferire tutto quanto a suo marito, che si trovava chiuso nel piccolo studio nascosto sul retro del locale.
Alla fine della serata, mentre tutte le cameriere si andavano cambiando ed i cuochi ripulivano la cucina, il signor Mariano si fece avanti col suo sigaro acceso in bocca, noncurante del fastidio causato dal fumo a tutti quanti i lavoranti, e schioccando le dita si affacciò nel corridoio gridando: “Adrian e Hélène! …adesso con me, nello studio”.
Il primo a seguirlo fu proprio il cuoco romeno, con aria spavalda e camminata alquanto sicura di sé; Hélène invece tremava tutta quanta, e mentre rimetteva ai piedi le sue scarpette, che s’era sfilata via pensando di potersi cambiare, sentiva tra sé e sé, che questa volta avrebbe rischiato di perdere sul serio, il suo primo ed unico lavoro.
Il signor Mariano si sedette dietro alla sua piccola scrivania, con il sigaro sempre acceso in bocca e le braccia conserte, mentre il cuoco e la cameriera si trovavano in piedi dinanzi a lui, non troppo distanti l’uno dall’altra. Quello esordì dicendo: “Mi aveva avvisato mia moglie … che stavate combinando dei bei casini voi due …”; Hélène accennò timidamente ad una risposta, ma quegli noncurante riprese: “… qui mi parlano di pomiciate tra di voi dentro alla cucina, di occhiatacce in bagno …”; poi aggiunse: “Ma stasera avete davvero superato ogni limite! … meritereste veramente di venire licenziati subito per quello che avete combinato …”.
Adrian allora, senza pensarci un solo istante, prese la parola con fare rapido e indispettito, rispondendo: “Hélène è la mia ragazza, lei mi può anche licenziare … ma se un uomo provoca la mia ragazza … io posso anche fargli del male!”.
Hélène avvertì in quel frangente un moto dentro, un senso di assurda perdizione e di timore mai provati fino ad allora; si trovava in quel momento, all’una di notte stanca e accaldata, e sul punto di perdere il suo primo impiego, ma finalmente fidanzata con un uomo.
Il signor Mariano la guardò dalla testa ai piedi, e senza nascondere un ghigno sadico, le disse: “E tu tesoro cosa dici? …intanto togliti quelle manette dalla gonna, che sei ridicola…”.
Hélène se le sfilò via dalla vita, e le poggiò sulla scrivania di legno del signor Mariano; poi guardando di lato, verso il cuoco romeno, disse: “Quei ragazzi mi hanno provocata, ed io ho reagito, dopodiché ho riferito tutto quanto al mio fidanzato”. Adrian le strinse la mano, rimanendo a debita distanza, sempre in piedi dinanzi alla scrivania.
Più che una paternale, sembrava una cerimonia di matrimonio; il signor Mariano si alzò in piedi, ed avvicinandosi a loro disse: “Io non posso impedirvi di essere fidanzati l’uno dell’altra, anche se come proprietario di questo locale io preferirei che ciò non fosse …”, ed infine concluse: “…ma sappiate che stasera avete davvero oltrepassato ogni limite; ed al prossimo sgarro, verrete entrambi licenziati subito all’istante, e liquidati senza alcuna cortesia!”.
Allora se ne uscirono di lì, mano nella mano, come due teneri innamorati; quando poi furono nuovamente soli nel corridoio, Adrian prese Hélène per un braccio, e la trascinò a sé per baciarla. Quella si lasciò trasportare, ed in un solo istante la lingua del cuoco romeno fu dentro alla sua bocca, per alcuni attimi interminabili. Le affondò la mano nel sedere, senza alcuna difesa e senza alcuna protezione. Le ordinò infine di attenderlo, l’avrebbe accompagnata a casa con l’autobus notturno non appena la cucina fosse stata ripulita e riordinata.
Hélène obbedì sapendo di andare incontro a nuovi ed ulteriori problemi. Si sedette in attesa nel corridoio buio, lontano dallo sguardo della signora Nadia, che continuava a sistemare le fatture e le ricevute di alcuni fornitori con la sua consueta e maniacale attenzione.
Era seduta in silenzio, e sentiva le gambe tremarle, e la vagina aprirsi e schiudersi in modo assurdo. Era tutta stretta sotto un paio di calze contenitive di color carne; ed in quel momento ella sapeva bene, che cosa l’attendeva solamente di lì a pochi istanti, in quella stranissima serata di Carnevale.
Diciassettesimo episodio
“Perché non ti sei cambiata?” fu la prima cosa che le disse Adrian, mentre si sfilava lentamente i suoi guanti di plastica trasparenti. Li gettò via nel secchio della cucina, mentre Hélène intanto non rispose, restandosene immobile sull’uscio del corridoio. Era l’una e mezza di notte, il locale era oramai buio e silenzioso; ad attenderli era rimasto il solo Gheorghe, ed il signor Mariano che chiudeva sempre le serrande a metà lungo la strada, e dormicchiava nel suo studio guardando un noioso programma di politica nel suo piccolo televisore.
“Non avevi qualcosa di più elegante per me ?!?”, insistette il cuoco, trascinandosi via Hélène per una mano, attraverso i tavoli con le sedie rovesciate ed i pesanti fusti della birra accatastati vicino all’ingresso. La cameriera era agitata e terribilmente ansiosa quella sera, sapeva che Adrian avrebbe voluto concludere, e in ogni caso non l’avrebbe lasciata andare via con un semplice bacio della buonanotte; in preda ad uno stato di grande confusione, nemmeno aveva pensato di levarsi gli abiti da lavoro, cosicché ella ancora portava indosso la sua camicetta bianca, e la gonna scura di sempre.
Si ritrovarono in piedi alla fermata dell’autobus, mano nella mano, con Gheorghe immobile accanto a loro: offriva in continuazione, sigarette al collega di lavoro, senza curarsi più di tanto di Hélène che era nel mezzo, avvolta nella sua giacca di colore blu scuro.
L’autobus notturno che passava per la stazione era sempre pieno di ambulanti e di senzatetto rumorosi e maleodoranti. Hélène di norma saliva e restava in piedi dalle parti dell’autista; ma quella sera, essendo accompagnata da due uomini, accettò di entrare dalla porta posteriore, e si sedette in mezzo a loro nella fila di posti sistemata sul fondo.
Lì all’improvviso notò un giovane ragazzo dalla pelle scura, che la sbirciava, fissandola senza davvero alcun ritegno in mezzo alle gambe leggermente schiuse; sollevò lo sguardo ed incrociò i suoi occhi luccicanti e sanguigni, e subito lo riconobbe: era Samir, il ragazzetto africano del negozio di frutta e verdura, che Hélène aveva frequentato ai tempi oramai lontani in cui abitava nel Convitto delle suore.
Anche lui la riconobbe, e le si fece incontro brancolando in mezzo all’autobus; era piuttosto alticcio e puzzolente. Le si fece dinanzi, e giunto in fondo le protese una mano chiamandola in modo esplicito, tanto che tutti quanti lo poterono udire: “…Mademoiselle!”. Adrian allora si sollevò in piedi, e lo respinse in maniera brutale, facendolo rotolare indietro fino al punto da cui s’era inizialmente mosso. Quello fece nuovamente per riavvicinarsi, ma si capiva come fosse davvero ubriaco; allorché fu gioco facile per il cuoco romeno, allontanarlo nuovamente con un forte calcione nel sedere, fino a vederlo ruzzolare quasi in terra.
Discese dall’autobus alla fermata successiva, subito dopo l’incrocio, e dalla strada ancora fissava Hélène con quei suoi occhi sgranati, tutti lucidi e bagnati.
Quando l’autobus raggiunse la grande piazza in fondo alla salita, Hélène si sollevò improvvisamente in piedi, e guardando Adrian negli occhi, con dolcezza gli disse: “Ecco io adesso devo scendere …”. Non si capiva se fosse un invito per lui ad accompagnarla, ma il cuoco romeno aveva evidentemente ben altre intenzioni, e le idee davvero molto chiare. La trattenne per un braccio, stringendola molto forte, e trascinandola platealmente indietro fino a farla sedere nuovamente, le disse: “Dove credi di andare a quest’ora?!? …ti porto io a dormire bella”. “Non posso! …domattina devo andare all’Università …” ribatté Hélène, con un accenno di vero disagio. Aveva compreso come quegli non intendesse semplicemente accompagnarla a casa, ma volesse condurla con sé in qualche altro luogo. La ragazzotta prese a tremare tutta, e guardando nuovamente Adrian dritto negli occhi, lo implorò: “…ti scongiuro … dove vuoi portarmi?!?”.
Quegli disse qualcosa nella sua lingua a Gheorghe, che Hélène non comprese; dopodiché si rivolse a quest’ultima e le sussurrò nell’orecchio: “Ti piace la pensione da Antonella?”, e si mise a ridere bofonchiando.
Era uno squallido albergo a ore, ed il cuoco non si diede pena di pagarne più di un paio, mentre tenendo sempre Hélène ferma per un braccio, la poteva sentire tremare tutta quanta dalla testa ai piedi. Gheorghe se ne era andato da alcuni minuti, si era separato da loro al capolinea dell’autobus di fronte alla stazione.
“Cosa vuoi farmi?” domandò Hélène mentre stringendo il corrimano, si apprestava barcollando leggermente a salire la prima mezza rampa di scale; “indovina un po’… ?!?” la derise Adrian, muovendosi rapidamente alle sue spalle, e le mollò un simpatico sculaccione sul sedere.
Quella continuò a salire, ed Adrian alle sue spalle gliene diede un altro, facendola letteralmente sobbalzare. Quando furono di fronte alla porta della stanza numero nove, Hélène era già vergognosamente bagnata fradicia, e non riusciva a capire quanta fosse in lei la paura, o piuttosto il desiderio più sordido, di venire posseduta per la prima volta.
Giunti infine dentro alla stanza, buia e disadorna, Adrian sospinse Hélène sul letto, ed in ultimo si sfilò via il piumone di dosso, ordinandole: “Io vado a farmi una doccia … tu intanto spogliati …”.
Era letteralmente atterrita e spaventata; se nell’atto di salire le scale ella s’era persino eccitata suo malgrado, adesso invece quello che Hélène poteva provare, era terrore autentico, un tremore lungo la schiena fin giù alle caviglie, che la teneva del tutto immobilizzata, seduta ferma sul letto.
Non si spogliò né fece nulla, mentre l’orologio segnava le due e un quarto, e l’indomani la lezione di Storia del Diritto sarebbe cominciata alle nove in punto. Sentiva le cosce che le scoppiavano, dentro a quel paio di calze contenitive tanto spesse, e l’elastico intorno alla vita che quasi la soffocava.
Finalmente Adrian uscì dal bagno, con le sole mutande indosso: aveva un fisico snello e nodoso, con una discreta peluria sul petto; la massa presente all’interno dello slip lasciava davvero poco spazio all’immaginazione. “Che cosa hai fatto tutto questo tempo … sei ancora vestita?!?”, fece lui non nascondendo una certa rabbia ed impazienza; Hélène non trovò nulla di meglio da rispondere, che sussurrare tremando tutta quanta: “… ho paura…”.
Allorché Adrian ristette per un istante, guardandola in basso come faceva sempre tutte le volte: “Vuoi dirmi che non l’hai ancora fatto … che sei vergine?”, e scoppiò a ridere in una maniera davvero irrispettosa.
Hélène non rispose, allorché il cuoco capì di dover prendere interamente il comando delle operazioni; accese una lampadina vicino al letto e spense le luci della stanza, dopodiché si rassettò le mutande sul davanti, come a volersi risvegliare da un certo torpore; poi infine guardando Hélène negli occhi, le ordinò: “In piedi, tirati su la gonna …”.
Quella obbedì, ma era davvero completamente terrorizzata; vennero fuori le calze intere contenitive, di color carne, che erano spesse ed elasticizzate all’altezza del bacino; al disotto, si intravedeva a malapena, una grossa mutanda di pizzo bianco, che la copriva per intero sul davanti, come un largo triangolo di stoffa che dall’inguine saliva su fino alla vita.
Quegli allora con un balzo le fu addosso, e cercando nervosamente l’elastico delle calze, con un unico gesto – quasi doloroso per quanto fu perentorio – gliele tirò giù, scoprendole per intero i fianchi ed il monte di Venere. Gliele lasciò all’altezza di metà coscia, dopodiché le ruotò i fianchi facendola voltare.
Hélène era oramai vinta e non faceva nulla per opporsi; si lasciò girare di spalle muovendo alcuni timidi passetti sulle sue piccole scarpette nere, e si ritrovò a quel punto con lo sguardo rivolto verso il letto, le mani tremolanti che sorreggevano la gonna, ed i glutei bianchi miseramente scoperti, riparati unicamente da un ridicolo filino bianco nel mezzo, rivolti verso Adrian dietro di lei.
Quello fu il momento in cui tutto precipitò; Hélène si ritrovò ambedue le mani del cuoco, nerborute e calde, immerse nella carne abbondante e nella cellulite delle sue natiche molli. Avrebbe voluto liberarsi, ma quella presa era più forte di una catena, la teneva immobilizzata con le dita che la sprofondavano dappertutto; nel frattempo era arrivata puntuale e decisa, una erezione di quelle buone, che per sua fortuna Hélène non poté vedere al primo istante.
Con le calze intere strette giù attorno alle cosce, le mani del cuoco che la tastavano dappertutto, e la gonna sollevata, Hélène sentì nuovamente una fitta dentro lo stomaco, e di lì giù fin dentro la vagina. Era bagnata di nuovo, e non capiva più, se fosse la paura a prevalere, oppure il desiderio di farlo.
Adrian a quel punto la fece voltare e le ordinò di sedersi sul letto, dicendole: “Basta con questo culo, mi hai annoiato … adesso me lo devi prendere in mano!”.
Ancora una volta la ragazzotta belga obbedì, e mentre si disponeva seduta sul letto, con le calze sempre abbassate a metà delle cosce, tirò giù con dolcezza le mutande del cuoco, fino a scoprirgli per intero il pene, che era tozzo, rigonfio di vene e già scoperto in cima. Lo afferrò in mezzo, senza sapere esattamente cosa fare, era vistosamente inesperta ed incredibilmente imbarazzata.
Non aveva mai preso in mano un uccello in vita sua, ed il primo che le era dato in sorte era piccolo ma tutto tosto, un corto mattarello da cucina piuttosto duro e consistente.
Adrian le spostò la mano con una certa rabbia, aveva compreso quanto Hélène fosse completamente impacciata ed incapace di toccarlo; la guardò con le sopracciglia arcuate e le disse: “Sei davvero scarsa, guarda come si fa …”; ed afferrandoselo per bene, iniziò ad aprirlo e chiuderlo velocemente, rendendolo ancora più sodo e compatto, e soprattutto bagnandosi in modo lento e inesorabile.
Hélène allora lo prese a sua volta, aveva capito come si doveva comportare, ed iniziò a fare altrettanto, aprendolo e chiudendolo in modo deciso; ma si muoveva un po’ troppo a scatti, per cui piuttosto che di piacere, quella mano un po’ troppo maldestra lo stava riempendo di fastidio e di disagio.
Allora egli decise che era il caso di piantarla, e le tolse nuovamente la mano senza alcuna possibilità d’appello, intimandole: “Spero che tu sia già bagnata … perché non ho tanto tempo da perdere con te …”.
Ed in realtà Hélène era completamente fradicia, al punto che se ne poteva avvertire persino l’odore, della sua vagina sudata e umida. Le abbassò ulteriormente le calze, sotto le ginocchia, e con un gesto rapido e deciso le tirò giù le mutandine, che raggiunsero così le calze in basso, lasciandole il ventre ed il pube completamente scoperti.
Dopodiché si inginocchiò tra le sue gambe, ed afferrandola per le caviglie gliele aprì all’improvviso, spalancandole come si spalanca una finestra, in una mattina d’estate.
Fu un gesto talmente deciso e violento, che le dure calze contenitive si strapparono nel mezzo, lasciandole unicamente una banda di tessuto lunga e sfilacciata, ad impedirle di allargare le cosce ulteriormente. La mutandina aveva l’elastico lento, e non le impedì affatto il movimento.
Era seduta sul letto, con la gonna sollevata attorno ai fianchi, le mutandine calate e le calze mezze divelte; Adrian le fu inginocchiato dinanzi, e finalmente iniziò a sfiorarle la folta peluria nera dell’inguine, con la testa del membro duro e compatto. Hélène provava invano a respingerlo tenendogli ambedue le mani sul petto, sui peli scuri e irti che egli aveva sul davanti. Ma era una resistenza debole per nulla convinta, era come se intendesse unicamente ritardare la sua capitolazione, la sua fine.
Con un ulteriore gesto, ancor più forte ed imperioso, Adrian le divelse completamente quel che restava delle sue calze nel mezzo, divaricandole definitivamente le cosce; poi le tirò via la mutandina dai piedi, armeggiando con fare inelegante e infastidito finché non gliela tolse via del tutto.
A quel punto poté finalmente appoggiarle il pene, che nel frattempo era diventato duro come un piccolo blocco di marmo, in mezzo alle labbra socchiuse della vagina.
Hélène abbassò lo sguardo, ed improvvisamente con un riflesso istintivo e del tutto inatteso, iniziò a piangere sommessamente; aveva paura, ma non voleva dirlo.
Adrian non se ne curava affatto, ma lentamente e gradualmente, prendeva possesso sempre di più, dello spazio morbido chiuso tra le due labbra delicate, un poco alla volta, in attesa di incontrare il muro innocente della sua verginità. Hélène piangeva con le lacrime che le rigavano il viso, ma Adrian era del tutto noncurante, rasentando quasi la maleducazione.
Ad un certo punto però egli si rese conto che la ragazza non era per nulla bagnata, e che l’operazione sarebbe stata senz’altro molto complicata; allora le prese i capelli sollevandole il viso, e guardandola negli occhi con quel suo sguardo duro e aggressivo, le disse: “Adesso apri bene le cosce e statti zitta e muta… se non vuoi che ti apra pure il culo …”.
Il viso di Hélène era bianco e delicato; se solamente Adrian fosse stato un ragazzo normale, e non un uomo grezzo e inelegante, avrebbe anche potuto innamorarsi di lei in quell’istante; era tenera ed innocente come una bambina, con le gambe divaricate ed i collant divelsi che le erano rimasti sotto alle ginocchia, come due miseri calzettoni trasparenti.
E la vagina nel mezzo, schiusa come una bocca morbida, adornata dalla sua peluria nera e soffice, era finalmente e nuovamente bagnata.
Allora appoggiò rapidamente la testa del pene, dopo averlo schiuso di nuovo e masturbato per qualche piccolo istante, e fu ad un passo dalla sua membrana sottile. Dopodiché fece un piccolo movimento indietro, e poi infine piegandosi in avanti, con un unico colpo forte e deciso, la sprofondò.
Hélène fu subito un lago di sangue, che le colava sulle lenzuola del letto e sui polpacci avvolti da quel che restava, delle sue calze color carne. Adrian le montò sopra, con il ventre appoggiato alla pancia di lei, ed iniziò a spingerla sempre più a fondo, senza alcuna pietà per il suo dolore e per tutto il sangue che le stava cadendo giù.
Hélène a quel punto provò a respingerlo con la forza, adoperando anche le unghie nel tentativo di farlo allontanare; finì anche per afferrargli i capelli, tirandolo via per la testa; ma quello andava avanti imperterrito, sbattendola in mezzo alle gambe con il suo mattarello piccolo ma tremendamente compatto.
Prese a gemere come una cagna, ululando al ritmo di quelle fitte lunghe e dolorose, via via sempre più lente, finché non fu vinta ancora una volta, ed iniziò ad avvertire il brivido salirle lungo la schiena: era l’orgasmo in arrivo, inatteso perché preceduto da quei minuti interminabili di dolore.
Ma Adrian glielo negò, estraendo il pene che era un nerbo interamente ricoperto di sangue, rosso come un pezzo di carne cruda. Glielo appoggiò sulla pancia, laddove la gonna nera già la ricopriva con la sua ombra; poi riprese a masturbarsi, come se tutti quei minuti ininterrotti di sesso non fossero stati ancora sufficienti a procurargli il piacere di cui egli aveva bisogno. Ed infine prese a schizzare fuori tantissimo sperma, sulla pancia e sulla veste rigirata di Hélène, inondandola tutta quanta, per alcuni secondi davvero lunghi ed interminabili. Le prese la mano e la costrinse a completare l’opera, imponendole di continuare a masturbarlo, tutto sporco com’era e fino all’ultima goccia, lasciandolo vuoto ed esausto.
La abbandonò così riversa sul letto, con le cosce ancora aperte divaricate, ed un lago di sangue in mezzo, ed il copriletto di lanetta grigia completamente imbrattato. Hélène aveva ripreso a piangere, e si teneva una mano sul viso mentre con l’altra, quella che aveva adoperato per masturbare Adrian, provava invano a levarsi tutto lo sperma appiccicoso di dosso. Piangeva e singhiozzava, anche se non riusciva a capire se quelle lacrime le venissero fuori per causa del dolore fisico e dell’abuso che ella aveva subito, o per l’emozione di essere divenuta finalmente una donna.
Quando Adrian uscì dal bagno, era nuovamente rivestito, e tirandola su per un braccio la costrinse ad assumere una posizione seduta sul letto; le portò direttamente un rotolo intero di carta igienica, invitandola a pulirsi tra le gambe per quanto le fosse possibile. La ragazzotta avrebbe desiderato almeno una parola di conforto, una tenera carezza; invece tutto quello che il cuoco riuscì a dirle, fu un rude e scortese invito a fare in fretta: “Andiamo bellezza, mica possiamo passare la notte qui …”.
La prese nuovamente per un braccio facendola alzare, e Hélène tenendosi una mano aperta a nascondere timidamente il pube, raccolse con l’altra il suo paio di mutandine che il cuoco le aveva sfilato di dosso; infine tenendosi sempre una mano sul davanti, e l’altra, in cui teneva stretto il suo slippino sul didietro, corse via sculettando fin dentro il bagno. Quello la guardò mentre la ragazzotta si allontanava, e si rese conto che era davvero piuttosto grossa, molto di più di quanto si sarebbe detto vedendola da vestita.
Ritrovò il cuoco che fumava seduto alla scrivania, non nascondeva una certa impazienza; discesero le scale senza parlare, e quando furono finalmente nel piazzale antistante la stazione, erano già passate le quattro.
Adrian mise Hélène sul suo autobus, lo stesso dell’andata, e la abbandonò lì senza attendere nemmeno per un minuto. Si fece dare da lei, il numero del telefono, pur dicendole che non l’avrebbe affatto chiamata durante il giorno.
Diciottesimo episodio
Non lo aveva mai fatto, di dormire nuda. Ma quella notte si sentiva sporca, tremendamente sporca e abusata; non avrebbe indossato nulla sotto le lenzuola, quasi come fosse un’espiazione, come se dovesse purificarsi.
La vagina le faceva ancora piuttosto male, era stata aperta e dilatata, e spinta in fondo per diversi minuti.
Hélène non dormì quasi nulla, e quando la sveglia suonò dopo meno di tre ore di inutili tentativi, nel vano e ostinato proposito di addormentarsi, ella poté avvertire benissimo di essersi ammalata.
Avvisò Paula, che nel frattempo stava facendo la colazione, e quella guardandola con la solita espressione giocosa e furba, le disse: “Ti ha fatto ammalare eh …”, e si mise a ridere.
L’avevano sentita rientrare, erano forse le quattro e mezza, e la cosa non era certamente passata inosservata; stranamente Chiara quella mattina appariva piuttosto scontrosa e fredda, ma Hélène non ci mise molto a concludere, che doveva essere stato forse Marco a riferirle dalla reazione sconsiderata di Adrian, la sera precedente al locale.
Se ne stette a casa da sola tutto il tempo, e quando arrivò il primo pomeriggio, decise perfino di telefonare alla signora Nadia, comunicandole che non sarebbe andata al lavoro quella volta. Non riusciva a togliersi quell’odore di dosso, il seme bollente con cui era stata violata. E mentre si asciugava dopo l’ennesima doccia, poteva vedersi benissimo nello specchio, grassa e deforme, e per giunta pure immolata e svergognata; era una sensazione davvero spiacevole.
Adrian non la chiamò nemmeno alla sera, doveva avere intuito perfettamente la situazione; fu invece stranamente la sua collega Veronica a telefonarle, intorno alle sette e mezza, non nascondendole una certa apprensione: “Che cosa ti ha fatto?”; sembrava sinceramente preoccupata per lei.
Seduta a tavola assieme a Chiara e Paula, Hélène poteva sentire ancora la massa di quell’oggetto piccolo e tosto, infilato tra le gambe; non vedeva l’ora che quella giornata ricolma di ossessioni le voltasse finalmente le spalle, sperando di stare meglio la mattina dell’indomani. Mangiò la sua minestrina senza aggiungere null’altro, e concluse il tutto con una camomilla tiepida senza zucchero.
Il sabato era una bellissima giornata di sole; Chiara era andata a spasso con Marco, e Paula stava preparandosi per un esame che avrebbe dovuto sostenere entro una decina di giorni. Adrian continuava a non chiamarla, e Hélène provava nel suo intimo, un profondo senso di tristezza e di solitudine; non sapeva se avrebbe dovuto continuare a considerare, quel cuoco romeno, come una specie di suo amante o addirittura di suo fidanzato; o se avrebbe piuttosto dovuto attrezzarsi fin da subito, per poterlo dimenticare.
Dinanzi alle ripetute ed insistite domande di Paula durante la cena della sera precedente, Hélène era stata muta come una statua di gesso; ma poi alla mattina dell’indomani, aveva abbandonato le sue difese, confidando alla pettegola coinquilina argentina tutto quanto; e prendendosi pure un simpatico pizzicotto sul seno, con il riconoscimento di essere finalmente diventata una donna come tutte le altre.
Indossò le calze autoreggenti, sentiva che il timore era in buona parte passato; la mutandina nera le avvolse i fianchi lasciandola libera sul didietro, laddove la stoffa delicata della gonna cadeva giù stringendole il fondoschiena per bene.
Fece il suo ingresso nel locale già vestita da cameriera, e non poté ignorare gli sguardi vivaci e curiosi delle altre ragazze, ed il ghigno sadico ed anche velatamente minaccioso della signora Nadia. Tutte quante sapevano che era uscita insieme al cuoco la sera del giovedì, e sembravano volerlo quasi sottolineare con le loro occhiate ammiccanti, i loro sorrisi eloquenti ed ironici.
Entrò in cucina e subito fu accolta da Adrian con incredibile freddezza. Fu un attimo breve ma interminabile per Hélène, che si era preparata per quell’istante fin dalla mattina; quegli la salutò in maniera rapida e disinteressata, continuando a tagliare la carne e a scherzare con Gheorghe come se davvero nulla fosse.
Sarebbe stata una serata terribilmente difficile per Hélène: scrutata da tutti, ma ignorata dal cuoco romeno che le aveva tolto la verginità solamente due giorni addietro; si sentiva davvero presa in giro e umiliata. Servì i tre tavoli più piccoli nella sala centrale, ed ogni volta che entrava in cucina provava una fitta dentro allo stomaco; ma quegli nemmeno le corrispondeva con un cenno fugace, era semplicemente come se tra di loro non fosse accaduto davvero nulla.
Si ritirò in bagno per fare la pipì, e mentre poggiava i glutei bianchi e molli sopra alla tazza gelata, sentiva le gambe tremarle sotto alle ginocchia: avrebbe voluto parlare con colui che la aveva fatta sua in modo così insulso ed inaudito, senza nessun amore e senza davvero alcuna poesia.
Decise così di attendere fino alla fine, ma mentre una ad una le cameriere si rivestivano ed abbandonavano il locale, Hélène non resistette oltre, sentiva gli occhi della signora Nadia e degli altri camerieri maschi che la scrutavano, come una povera bambina sedotta e abbandonata.
Salì allora sul suo autobus senza attendere la chiusura, non aveva nemmeno portato con sé il ricambio; quando poi fu giunta vicino casa, lungo la discesa che percorreva al buio ogni volta con non poco timore, sentì all’improvviso il suo telefono squillare.
Aprì nervosamente la borsetta, era l’una e mezza di notte e l’intuito le diceva chiaramente, che non poteva essere altri che lui. Rispose tutta trafelata, con il solito “oui” sempre così inappropriato sia per l’orario, che per il suo interlocutore.
Quegli l’aggredì verbalmente, esclamando: “Dove cavolo pensi di andare senza di me eh? …bella troia che non sei altro”. Fu un’autentica doccia gelata, giammai Hélène si sarebbe aspettata di venire trattata a quel modo.
Poi senza attendere la sua replica quegli riprese: “Ti ho vista in bagno … come ti sei acconciata stasera … dimmi dove cavolo devi andare vestita così!”.
L’aveva spiata ancora una volta, e Hélène non se ne era resa per niente conto; abbozzò allora una timida risposta, biascicando le parole a bassissima voce mentre scivolava giù lentamente lungo la strada: “…Ma … ma non mi hai nemmeno salutata questa sera … cosa vuoi adesso da me …”.
“Senti bambola …” riprese Adrian, senza attendere oltre; “Questa sera non ti ho filata perché ho altro da fare hai capito…” e concluse: “Ma domani sera mettiti bella in tiro come oggi, ti porto io a ballare bambola”.
Attaccò il telefono, mentre già era giunta all’incrocio della strada; si sentiva terribilmente spaventata e confusa. In pochi istanti fu vicino al portone di casa, e di lì notò una grossa macchina elegante accostata lungo il marciapiede: con una certa sorpresa, al suo interno intravide proprio Chiara, con i suoi inconfondibili capelli biondi, che si baciava appassionatamente con Marco.
L’indomani Hélène si recò nuovamente al mercato, ancora una volta non aveva dormito quasi nulla, ed era perennemente agitata e turbata. Ma sapeva benissimo che quella sera non sarebbe sfuggita alle grinfie del cuoco romeno, ed al solo pensiero di dover replicare il sordido finale del passato giovedì, provava un sentimento indefinibile, di paura ma anche di irresistibile attrazione.
Indossare un reggicalze non faceva assolutamente per lei, pensò Hélène mentre ne rimirava un paio, tutti sporchi e stropicciati, pescati dalla cesta dell’intimo usato e squallido, nella bancarella maggiormente provvista; invece trovò un bel paio di collant autoreggenti neri, con un fascione scuro in cima, e la righina su tutto il lato posteriore. Le piacque anche la mutandina color carne, piuttosto sottile sul davanti, ed invisibile sul fondoschiena: le ricordava quella che tanti anni addietro le aveva regalato Edina, per la sua festa di compleanno.
Prese anche un balconcino nero che prometteva meraviglie col suo seno, che non era troppo grande, ma morbido abbastanza da poter essere agevolmente stretto e sollevato.
Spese un po’ di soldi, ma quando alla sera giunse il momento di recarsi al locale, si sentiva forse per la prima volta in vita sua, bella ed attraente; percorse il tratto in salita che la portava al suo luogo di lavoro, sotto una fitta pioggia battente, riparandosi con un piccolo ombrello nero. Con le cosce nude sotto alla gonna, che si strofinavano di continuo.
Diciannovesimo episodio
Come annunciato e come abbondantemente atteso, quella sera Adrian aveva nuovamente intenzione di portarsela a letto. Hélène lo capì immediatamente quando lo vide di soppiatto entrando dentro la cucina; aveva l’occhio vivace e scuro, e sembrava già piuttosto eccitato e carico di desiderio.
Glielo fece intendere esplicitamente, parlandole sottovoce, senza farsi sentire da Gheorghe che nel frattempo stava prendendo un ordine da Rosaleen.
“Stanotte tu verrai ospite a casa mia; ti farò ballare tra quelle coscione bianche …”.
Hélène fu subito, ed inopinatamente, tutta fradicia in mezzo alle gambe, in maniera assurda. Dovette chiudersi in bagno e provare a ripulirsi con la carta igienica, senza però risolvere di molto il problema; continuava infatti a bagnarsi di tanto in quanto, e non riusciva a smettere di eccitarsi al solo pensiero di quello che l’attendeva.
Non le era mai accaduto di sentirsi così, in vita sua: aveva il ventre rigonfio di liquidi, il monte di Venere perennemente umido, e di tanto in quanto delle profondissime scosse, di autentica voluttà; si sentiva veramente come una femmina animale travolta dai calori dell’accoppiamento, e la primavera non era nemmeno ancora giunta al suo inizio.
Girava tra i tavoli con la testa persa tra le nuvole; e commise anche un paio di stupidi errori con alcuni clienti, ma senza serie conseguenze per sua fortuna; la signora Nadia infatti non se ne rese nemmeno conto.
Passarono cinque ore, lunghissime e quasi interminabili, e per almeno altre due volte la ragazzotta belga dovette infilarsi nel bagno, nel tentativo di ripulirsi l’umido che aveva tra le cosce e che l’accompagnava dall’inizio della serata.
Mentre il tempo trascorreva, un sentimento di indicibile vergogna iniziava ad affacciarsi nella sua testa, dapprima timidamente e sommessamente, ma poi in modo sempre più deciso ed insistito; era come un severo richiamo alla disciplina e all’amor proprio. Adrian le notò i seni sotto alla camicia bianca: era l’effetto del balconcino, che a quanto pare faceva assai bene il suo dovere; quella sera infatti la fissava spesso e volentieri sul davanti, tralasciando la metà inferiore cui era oramai abituato.
E quella sera Hélène ricevette per la prima volta una timida proposta, un invito galante da parte di un uomo di mezza età grigio e stempiato e per nulla attraente, che se ne stava seduto tutto da solo nel tavolo in fondo alla sala: e la rifiutò con non poco stupore e senza nemmeno tanta cortesia.
Si rese conto che era il seno ad attrarre di molto gli uomini, di tutte le età e di ogni specie; per tutti quegli anni ella non aveva mai pensato a questo aspetto, ma in quel momento mentre per una volta ancora era seduta sulla tazza nel tentativo di pulirsi, Hélène decise solennemente, che non si sarebbe mai più separata dal suo prezioso balconcino.
Arrivò finalmente l’una, e Hélène preferì attendere il suo cuoco nel corridoio senza cambiarsi; durante l’attesa fu interrogata dalla signora Nadia, col suo consueto atteggiamento severo ed inquisitorio: la coppia di proprietari non vedeva affatto di buon grado quella loro relazione, e Hélène arrivò a comprendere, come vi fosse il serio rischio che ciò potesse anche compromettere il suo posto di lavoro, se la cosa fosse andata avanti a lungo.
Fuori dal locale, oltre la saracinesca mezza abbassata, un misterioso amico di Adrian, di nome Jan era venuto a prenderli; li attendeva dentro ad un’automobile bassa e squadrata vecchia di almeno trent’anni. Sulle prime Hélène provò un discreto spavento nell’osservare la sagoma scura dell’uomo immobile dietro il vetro, seduto al posto di guida. Poi, una volta entrata nella macchina sul sedile posteriore, tenuta per mano, notò come quegli fosse piuttosto bassino e buffo, sembrava come un nano tutto timido ed accigliato.
Adrian le mise subito una mano sulla coscia, senza attendere nemmeno che Jan mettesse in moto; mentre Gheorghe si era accomodato sul sedile davanti accendendosi una sigaretta.
Hélène dovette provare non poca vergogna, i due uomini che erano lì con loro, avrebbero potuto vedere tutto quanto, e la cosa le causava un indicibile imbarazzo ed un senso immane di fastidio; fece allora leggermente per scostare quella mano, ma come tutta risposta Adrian le afferrò con decisione l’altra coscia, quella sulla destra, spingendosi fin sotto alla gonna, dove l’elastico scuro del collant terminava stringendosi nella sua pelle bianca e indifesa.
Hélène emise un sospiro, e nel frattempo poté scorgere in modo nitido, l’occhio fisso e curioso dell’uomo seduto al posto di guida, che guardava tutta la scena, mentre l’automobile era sempre ferma col motore acceso; in quell’istante Adrian le disse nell’orecchio: “… sei calda come una cagna”, facendola letteralmente sussultare. Finalmente la vettura si mosse lentamente, con qualche rumore sinistro, imboccando la discesa fino al successivo incrocio, dove poi voltò sulla destra nella direzione della stazione; fu un itinerario non breve, in cui il cuoco si spinse fino a sfiorarle le mutandine sotto alla gonna, trovandola già completamente bagnata; le disse allora: “… hai voglia di prenderlo … stasera ti do io una bella lezione”, facendola sprofondare nel baratro della vergogna più assoluta.
Gheorghe discese alla fermata dei pullman, con l’ennesima sigaretta stretta tra le dita, ed incrociò anche egli lo sguardo di Hélène. Ripresero la strada lungo il vialone immenso diretto in direzione est, infilandosi infine in un rivolo di pertugi a senso unico, al punto che Hélène dovette intuire come fossero oramai giunti in prossimità della loro destinazione.
Jan abbandonò la vecchia automobile posteggiata dinanzi ad un bidone dell’immondizia, e li seguì mentre mano nella mano, Adrian e Hélène camminavano lungo il marciapiede buio e sporco; in quell’istante la ragazzotta belga trasalì: l’amico del cuoco romeno sarebbe salito su a casa con loro.
Aprì il portone del palazzo e fece loro strada, infilandosi nel piccolo androne sulla sinistra, ed infine su una stretta rampa di scale; Adrian accompagnò Hélène affondandole una mano dentro la gonna, stringendola nel mezzo e sospingendola in su come se volesse trascinarla da dietro; quella ristette ed emise anche un piccolo gridolino, che chiaramente l’altro uomo poté udire in modo distinto. Giunsero al secondo piano, dove finalmente Jan aprì la porta di casa, dileguandosi dentro una stanza nei pressi della cucina.
La ragazzotta belga era inquieta e spaventata, temeva che i due uomini potessero farle del male; ma ci pensò immediatamente Adrian a tranquillizzarla, lasciandole subito intendere che cosa voleva da lei. Le tolse il cappotto di dosso, e le ordinò di disporsi in ginocchio sul divano voltata di spalle. Voleva fare in fretta.
Sulle prime Hélène si rifiutò, rimanendo immobile nei pressi di un tavolo con espressione persa; allora Adrian con una sola mano afferrò la spalliera del divano e lo fece ruotare sul pavimento di piastrelle scure, apparentemente senza alcuno sforzo, raschiando per terra in modo fastidioso e rumoroso. Hélène non si era mossa, ma il divano era adesso posto dinanzi a lei, a un passo dalle sue ginocchia; Adrian allora la spinse con delicatezza lungo la schiena, accomodandola così com’egli desiderava: poi si mosse verso un mobiletto posto di lato, ed afferrato dal cassetto un telecomando, accese il televisore sulla parete di fronte, esattamente davanti agli occhi di Hélène, solamente due metri più in là.
Era un orribile film porno, già nel pieno del suo svolgimento, in cui una donna bionda non troppo magra e bella, veniva esplicitamente abusata da un grosso uomo di colore: la ragazzotta lo riconobbe immediatamente, era lo stesso identico film, l’orrenda sequenza vista tantissimi anni prima, in casa di Pascal; un’inspiegabile ed assurda coincidenza.
In quel momento Hélène sentì in modo vivido la vagina schiudersi, e tutto lo spazio vuoto nel mezzo ricolmo di umido, pronto all’amplesso; si impersonava nella donna bionda del film, e provava brividi di autentico spasimo.
Dopo qualche istante interminabile, ella si voltò, ma di Adrian non vi era adesso nessuna traccia; vide però l’ombra bassa e tozza dell’altro uomo dietro la porta che la spiava, ed immediatamente ristette raggelata; ma con prudenza e intelligenza Hélène non disse né fece nulla, era una situazione davvero pericolosa quella in cui si era cacciata.
Ma in quel momento il timore prese nuovamente a prevalere, e nonostante il film andasse avanti e adesso gli uomini di colore in azione fossero addirittura due, Hélène se ne stava fredda e terrorizzata, inginocchiata ferma sul divano come un automa insensibile.
Si voltò di nuovo, e Jan era sempre lì, immobile; ne poteva scorgere nitidamente l’ombra.
Non si mosse ancora una volta, e dopo un minuto o poco più, finalmente udì la porta del bagno che si apriva, ed il rumore dello scatto di un accendino. Adrian fu alle sue spalle, con i soli pantaloni della tuta indosso, e la sigaretta accesa in bocca.
Le mise le mani sulla gonna, all’altezza del sedere, senza affondargliele nel morbido; poi con decisione afferrò la stoffa e la trascinò su un poco alla volta, sollevandola. Hélène mugolava, non sapeva più cosa fare, ma di nuovo sentiva i liquidi ribollirle nel ventre. Presto la gonna finì interamente rivoltata attorno ai fianchi, e tutta la carne bianca delle cosce, strette nell’elastico penoso delle calze autoreggenti, ed i glutei pallidi e rigonfi, furono esposti dinanzi agli occhi del cuoco, e dell’altro suo amico che li stava spiando.
Adrian a quel punto le affondò ambedue le mani nella carne morbida, ed esclamò a gran voce: “Sono mie! …stasera queste due chiappone sono mie !!!”, e si mise a ridere, mentre gliele massaggiava da dietro, scuotendola per bene.
Hélène fu nuovamente bagnata del tutto, mentre il film adesso indulgeva in riprese quasi degne di un documentario di anatomia, con dettagli fin troppo accurati della donna e dei due aguzzini di colore che la stavano letteralmente devastando in tutti gli orifizi disponibili.
Nemmeno le abbassò le mutandine, ma afferrandole il filino in cima sul didietro, lo tirò a sé spostandolo leggermente di lato; Hélène sentì in quel momento la punta rotonda e tozza del pene di lui, che si insinuava in mezzo ai glutei, poco sotto il forellino dal basso. Ci mise un istante a realizzare con vero terrore, che quello sciagurato aveva la ferma intenzione di fare a lei, quello che uno dei due uomini di colore stava facendo in quel frangente alla malcapitata bionda del film.
Ebbe allora una reazione, e poggiando improvvisamente uno dei due piedi in terra, riuscì a respingere con la mano destra quel membro che la spingeva insistentemente tra le natiche.
Adrian reagì in modo molto violento, e le mollò uno scapaccione fortissimo, facendola subito ritornare nella posizione reclinata; dopodiché le afferrò con una mano il ginocchio, costringendola nuovamente con ambedue le gambe sul divano. Infine, con uno scatto improvviso, le abbassò le mutandine poco sotto l’elastico delle calze.
Hélène volse allora il capo verso di lui, in quell’istante aveva preso timidamente a piangere; l’ombra scura dell’altro uomo non si era mossa di un millimetro, e continuava a spiarli.
Adrian le disse in faccia: “È inutile che reagisci bellezza … intanto stasera ho già deciso … ti faccio il culo”.
Hélène provò un brivido lungo la schiena e subito fu annichilita dal terrore; poi trovò per puro istinto, il coraggio di rispondere, nell’unico modo possibile per potersi salvare: “… ti devo confessare … anche se mi vergogno a dirtelo …”; “Che cosa?!?” ribatté il cuoco impaziente; “non … non sono andata in bagno stamattina …”. Quegli le mollò un altro scapaccione facendole veramente molto male, dopodiché urlò a gran voce: “Sei una troia!!! …e fai pure schifo!”, e le mise ambedue le mani attorno ai fianchi assestandola meglio sul divano. Dopodiché si abbassò del tutto i pantaloni della tuta e anche le mutande, che fino a quel momento aveva tenute scese a mezz’asta.
Cominciò a batterle il membro da sotto, contro la peluria nera abbondante, sentendo che Hélène era oramai pronta.
Le fu dentro dal basso, con un movimento rapido e preciso, infilzandola con decisione nella vagina tutta umida; Hélène ululò come una bambina, alzando leggermente il capo, dopodiché allungò gli avambracci, fino ad aggrapparsi con le mani alla spalliera del divano. Adrian fece un passetto in avanti e poté stringerla ancora meglio, ribaltandole la gonna lungo la schiena.
Prese a sbatterla come un sacco di patate, avanti e indietro, con la testa piegata in basso. Hélène provava invano a restare in posizione eretta, ma quelle fitte le arrivavano fin dentro alla nuca, costringendola sempre più contro lo schienale.
“Ti insegno io ad andare in bagno la mattina …” la redarguiva Adrian, mentre tenendola sempre più forte, poteva sentirla tremare tutta quanta, tra le cosce bagnate, completamente fradicie e calde; Hélène continuava ad ululare, quelle spinte le squassavano il ventre. Trovò la forza di voltare il capo una volta sola, e dietro all’avambraccio robusto e nerboruto di Adrian, oltre il petto forte e villoso di lui, poté scorgere nuovamente la sagoma di Jan, uscito direttamente allo scoperto, che si masturbava con la mano destra infilata dentro ai pantaloni.
Socchiuse gli occhi inumiditi, oramai non riusciva nemmeno più a provare vergogna. Il cuoco continuava a sbatterla come un oggetto inerte, e Hélène teneva a quel punto la testa piegata in basso, coi lunghi capelli neri che le ricadevano sui cuscini del divano. Un poco alla volta, il brivido divenne un’onda di piacere, che dal collo discese giù lungo la schiena, fino a raggiungerle i fianchi morbidi e abbondanti, dove le mani di Adrian la tenevano ferma saldamente.
Spalancò la bocca, tutte le resistenze erano crollate; si lasciò così sprofondare nel baratro in modo inaudito e doloroso, mugolando come una bestia: “Ooo-oooh … ooo…”.
Adrian se ne rese conto, dalla scossa di bagnato che improvvisamente lo invase attorno alla carne dura e irta del pene. Volle allora completare l’opera, e prendendola per i capelli le liberò la vagina, costringendola infine a voltarsi, con una gamba distesa in giù e l’altro ginocchio sempre piegato sul divano, e lo slip avvolto di sopra. La tirò a sé, facendola infine discendere in maniera alquanto goffa, e trascinandosela dietro come un animale al guinzaglio, sempre costringendola per i lunghi capelli neri, fino a farle davvero molto male.
Infine, si sedette su una sedia vicino al tavolo, e tirandola ancora, la fece inginocchiare in mezzo alle sue gambe; lì le prese la nuca costringendola così ad accogliere tra le labbra il suo membro, duro come una severa mazza di legno.
Hélène non reagì e non disse nulla, ma era tremendamente spaventata; si ritrovò quell’oggetto viscido e puzzolente infilato nella bocca, non riusciva nemmeno ad urlare né sapeva come fare per liberarsi: sentì unicamente la mano forte di Adrian che la prese nuovamente sopra alla nuca, spingendola in giù. Finì soffocata da un’onda di liquido bollente, dentro alla gola, in un incubo di improvviso, autentico ed indicibile schifo.
Adrian continuava a eiacularle dentro, senza soluzione di continuità, tenendola ferma con ambedue le mani sopra alla testa. Quando la liberò, Hélène era già annichilita in terra, disposta a quattro zampe come un cane, con la gonna sempre rigirata attorno ai fianchi, le mutandine scese, e le calze autoreggenti leggermente scomposte.
Lo vide ripulirsi dal basso verso l’alto, pochi centimetri sopra di lei, con freddezza e disprezzo; poi la prese una volta ancora per i capelli, e sospingendola con davvero poco garbo, la costrinse giù, fino a farla coricare con la pancia lungo il pavimento, e le gambe leggermente piegate.
Le disse puntandole il dito contro: “Questa volta te la sei cavata con un pompino troia che non sei altro … ma la prossima volta ti apro il culo come meriti”.
La povera sciagurata si mise a dormire sul divano, senza nemmeno cambiarsi e ripulirsi; fu lasciata lì senza che nessuno le dicesse nulla, né Adrian e né tantomeno Jan, che nel frattempo era completamente sparito.
Dopo alcune ore, Hélène aprì gli occhi in uno stato di totale agitazione e di disagio; la lezione delle nove del mattino, non avrebbe certamente potuto seguirla, ma ciò che di più la spaventava, era il fatto di non avere assolutamente alcuna idea, di come fare per ritornarsene a casa.
Jan si affacciò nella sua stanza, trovandola in piedi, ancora stravolta e completamente spettinata. Per la prima volta Hélène poté udire la sua voce, era balbuziente e probabilmente non del tutto sano di mente. Le disse che poteva prendere un autobus fino alla metropolitana, e che Adrian era dovuto uscire per alcune faccende private.
La ragazzotta belga chiese il permesso per poter fare una doccia, ma l’acqua calda era già completamente finita; si raccolse allora i capelli in una coda di cavallo, erano le sette e mezza del mattino, e facendosi infinitamente coraggio, si incamminò a piedi fino alla stazione della metropolitana; proprio mentre il sole iniziava timidamente ad illuminare, l’alta cima degli orribili palazzoni popolari di zona.
Non fu nemmeno necessario dover attendere che le sue coinquiline uscissero, per poter rientrare nella sua dimora perfettamente sola e del tutto indisturbata: arrivò alla Stazione Tiburtina dopo più di mezz’ora, e quando infine giunse a casa, la trovò già completamente vuota e silenziosa.
Ventesimo episodio
L’Università era diventata un ostacolo quasi impossibile da sormontare, pensava Hélène quella mattina, mentre con immane fatica provava a leggere alcuni appunti di almeno due settimane addietro. Ad un certo punto prese il telefono, e si rese conto che la madre l’aveva provata a chiamare per almeno tre volte la sera prima.
Provò un senso di grande urgenza e di preoccupazione, e allora sedutasi sul letto, dopo un lungo sospiro decise di richiamarla, temendo che quella potesse essersi piuttosto adirata, per il fatto che Hélène non le avesse affatto risposto.
La madre era al lavoro, e non poteva parlarle in modo chiaro ed esplicito.
Ma ad un certo punto le disse, cambiando repentinamente il tono della sua voce: “Ho appreso con piacere alcuni giorni fa… da Bianca… che adesso abiti in un bell’appartamento, con altre due brave stupidone come te, e tanti altri ragazzi con molta voglia di divertirsi che vi ronzano attorno … non è così Hélène ?!?”.
Quest’ultima tacque, ma avvertì chiaramente quella netta sensazione, che non provava da tempo, di autentico timore e di minaccia. La madre allora riprese: “Non mi hai detto nulla e non immagino nemmeno come tu possa permettertelo … non mi interessa, ma io so solamente una cosa …”, e concluse: “Quando vieni qui, preparati perché a me tu le bugie non le dici … hai capito stupida?!?”.
Hélène attaccò il telefono e adesso aveva una sola certezza: non appena avesse rimesso piede nella sua casa a Liegi, il benvenuto sarebbe stato una volta ancora, non privo di dolorose conseguenze; la madre non la dava infatti certo ad intendere, era sempre severissima con lei quando serviva.
Eppure, quella mattina Hélène aveva preso nuovamente a ripensare a casa, come se in cuor suo ella desiderasse finalmente di potervi ritornare; era diventata una donna, non aveva più alcun timore del sesso, avendolo provato in maniera dura e verace, e fino al punto da trarne anche del piacere. Sentiva come se la sua missione si fosse finalmente compiuta, quasi come se tutta quella lunga e sciagurata avventura, fosse servita unicamente a farle perdere una volta per tutte, la sua verginità.
Adrian era davvero un uomo rozzo e ignorante; in ben due occasioni quello l’aveva abusata, ma era oramai evidente come non desiderasse avere con Hélène alcuna relazione stabile, quanto piuttosto di poterla sfruttare e sbatacchiare come una bambolotta, come meglio egli credeva. Non l’aveva chiamata neppure quel giorno, ed era altrettanto evidente come non provasse alcun trasporto né alcun interesse nei suoi confronti; Hélène iniziò a pensare tra sé e sé, di doverlo presto dimenticare.
Così si risvegliò la mattina del martedì ben intenzionata a dedicarsi allo studio e all’Università, ed a lasciarsi quella sua vicenda così torbida ed amaramente insignificante, ben presto alle sue spalle.
Ventunesimo episodio
Il professor Ducré continuava imperterrito le sue lezioni, nonostante fossero rimasti pochissimi oramai gli studenti del primo anno disposti a seguirlo. L’aula che nei primi tempi era stata sempre affollata e rumorosa, era divenuta settimana dopo settimana sempre più quieta ed accogliente. Di contro, gli argomenti trattati divenivano di volta in volta sempre più ostici e complicati, al punto che quella settimana Hélène decise che avrebbe anch’essa, smesso di seguirlo.
Fu il primo timido segnale di resa, ed improvvisamente le giornate divennero un po’ più lunghe, con qualche ora in più per rilassarsi o per concentrarsi sullo studio.
La telefonata di sua madre e le concrete minacce che quella le aveva rivolto, rafforzarono in Hélène la convinzione di stare commettendo un grave errore; Adrian non solo non provava alcun sentimento verso di lei, ma la trattava unicamente come un oggetto di sesso, in maniera davvero irriverente oltre che esplicita.
La ragazzotta belga aveva così deciso la sera di quel martedì, che non si sarebbe mai più concessa al cuoco romeno; lo fece con non poca inquietudine, sapendo bene che non avrebbe avuto altra opportunità di lì a breve, per provare il vero piacere così come l’aveva provato l’ultima volta. Ma era pur sempre una persona ragionevole, di buona educazione, e si rendeva conto di quanto quella strana relazione fosse sbagliata e portatrice di grandi disgrazie.
Si preparò quindi la mattina del mercoledì in modo da risultare il meno attraente possibile; con le calze contenitive e le mutande bianche, oltre ai capelli raccolti in una specie di coda di cavallo piuttosto insignificante.
Durante la lezione di Diritto Civile, seduta in fondo all’aula accanto a Chiara, le rivelò senza troppi giri di parole, di voler evitare ulteriori guai con quell’uomo che l’aveva abusata; la biondina dal canto suo annuì senza scomporsi più di tanto: era probabilmente non scontenta, che Hélène intendesse agire in quel modo; era stato Marco a parlarle in modo davvero pessimo di Adrian, e la decisione di Hélène confermava che non si trattava di un errore.
Si salutarono nel piazzale antistante l’Università, alle cinque e mezza, con Chiara che attendeva l’autobus alla fermata completamente affollata di gente, e Hélène che attraversava la strada di corsa per non fare tardi al lavoro.
Il locale quel pomeriggio era vuoto e silenzioso; vi erano non pochi rimasugli in giro, di quel che era stata la Grande Festa di Carnevale della sera precedente. Hélène entrò in punta di piedi, e subito incrociò lo sguardo di Elle, nascosta ancora in una tuta grigia, che la salutò in modo serio e distaccato.
Si recò in bagno guardando di soppiatto dentro alla cucina, in maniera da non venire osservata: vide Gheorghe che giocava col suo telefono, e riconobbe l’ombra scura di Adrian vicino al tavolaccio bianco, che indossava i guanti di plastica.
Hélène si mise la sua camicia bianca, abbottonandosi fino al collo sopra il balconcino nero; era fredda ed impeccabile al punto giusto. La musica latina le ricordava le vecchie serate dell’appartamento, quando venivano a trovarle i ragazzi tutti assieme; entrò nella sala e chiese alla signora Nadia quale fosse il compito che l’attendeva quella volta.
Dovette servire i tavoli vicino all’ingresso, che di norma erano quelli più difficili, essendo piuttosto lontani dalla cucina. Hélène prese diversi ordini, e senza tanta esitazione si recò da Adrian e Gheorghe per riferire tutto quanto.
Si sforzava parecchio di parlare con fare distante e professionalmente ineccepibile; ma in cuor suo si sentiva ancora piuttosto emozionata, al cospetto di colui che la aveva abusata e maltrattata per ben due volte.
Adrian si limitò ad osservare bofonchiando, quanto non trovasse affatto attraente l’acconciatura di Hélène, commentando ad alta voce: “… quella coda te la taglio”.
Passarono almeno tre ore, e la ragazzotta cominciava a prendere coscienza d’esser piuttosto forte e distaccata. Ma proprio in quell’istante, come un fulmine a ciel sereno, mentre prendeva in mano due piatti di bistecca dal tavolaccio bianco della cucina, Adrian le si fece vicino e le sussurrò nell’orecchio: “Stasera io ti apro il culo … cicciona”.
Fu un solo attimo, ma Hélène non lo avrebbe mai più dimenticato per tutto il resto della sua vita; le passarono davanti agli occhi diverse istantanee del suo passato, tante altre volte in cui qualcuno l’aveva minacciata paventandole una punizione o qualche altra forma di castigo.
Si fece coraggio ed iniziò a pensare, a come avrebbe potuto fare per poterlo evitare; in fondo sarebbe bastato filare via dal locale senza nemmeno farsi notare, per non incorrere in alcun rischio. Ma poi come avrebbe agito all’indomani, per evitare la collera del cuoco romeno? come si sarebbe presentata dinanzi a lui la sera successiva? Hélène rimuginava tutto il tempo, e presto dovette rientrare in cucina per ordinare tre piatti di verdure grigliate.
Si rivolse a Gheorghe facendo finta d’ignorare Adrian, ma quest’ultimo la fissava tutto il tempo: aveva capito come la ragazzotta belga non avesse davvero alcuna intenzione di concedersi a lui, ed iniziava a provare fastidio, il suo orgoglio ne sarebbe risultato incredibilmente ferito.
Allora mentre Hélène si allontanava, Adrian la inseguì afferrandola per la coda di cavallo, arrestandola e facendole davvero piuttosto male; quella si girò tutta rossa in viso, ma memore dei pasticci combinati nel locale la settimana precedente, si trattenne dall’alzare la voce. Tuttavia, non nascose affatto una reazione rabbiosa, e fissando il cuoco, disse digrignando i denti: “Cosa vuoi da me!”.
Adrian la trascinò a sé, del tutto noncurante del fatto che Gheorghe li stesse osservando, e tirandola ancor di più per i lunghi capelli, fino ad avvicinarle il volto, le rispose: “Non penserai mica di andartene senza di me questa sera…”, e le mollò l’ennesimo scapaccione sul retro della gonna, liberandola.
Il resto della serata passò nell’incubo dell’angoscia più profonda; Hélène non sapeva davvero come avrebbe potuto fare ad evitarlo, arrivò perfino a pensare di poter scrivere un messaggio a Marco, implorando di venire a salvarla.
Ogni minuto che passava, sentiva avvicinarsi la sua fine, e temeva anche per il dolore che avrebbe potuto provare, certamente il cuoco sarebbe stato assai poco delicato con lei, date le terribili premesse.
Ebbe un ultimo timido sussulto di orgoglio, e mentre i tavoli si svuotavano lentamente uno ad uno, la ragazzotta belga pensò che avrebbe potuto negarsi esplicitamente ad Adrian, magari adducendo una qualsiasi scusa, quantomeno per rimandare quella pena.
Fu così che attese per qualche istante ancora nel corridoio, man mano che le altre ragazze uscivano ed i camerieri andavano spostando i tavoli nella sala; e se ne stava seduta ferma nella penombra, con le mani aperte sopra le ginocchia. Adrian la notò, ed allora affacciandosi con fare furtivo lungo il corridoio, le diede un buffetto sul viso e con tono di voce fermo e determinato le disse: “Brava bambina … lo vedi che quando vuoi sei brava…”.
Era decisamente troppo; trattenuta contro la sua stessa volontà, costretta ad attendere per subire un qualcosa che in quel momento era per lei peggio d’un abuso, e perfino anche umiliata e derisa. Si alzò in piedi, vide che la sala in quel momento era stranamente vuota, ed istintivamente pensò di prendere il suo cappotto e di provare a fuggire via.
Ma la borsa bianca con il cambio era solamente qualche metro più in là, oltre la porta della cucina; se Hélène avesse indossato il suo cappotto, forse Adrian avrebbe potuto rendersi conto della sua intenzione. Scivolò allora attraverso il corridoio fino a raggiungere la sua borsa, senza venire osservata. Dopodiché passò nuovamente tenendo quella borsa stretta sotto il braccio, tutta quanta trafelata.
Infine, giunta nuovamente nei pressi dell’attaccapanni dove vi era appeso il suo cappotto, pose la borsa sullo sgabello dinanzi a lei, e si guardò intorno.
In quel preciso istante Adrian uscì per andarsene in bagno.
Aveva sfilato via i guanti, e si avvicinò alla porta della toilette fischiettando; fu un solo istante, ed i suoi occhi incrociarono quelli di Hélène. E come spesso succede ai bambini che sanno di avere commesso una marachella, o che sono sul punto di compirne una, anche Hélène lo guardò in modo miseramente esplicito, rivelando nei propri occhi l’infelicissima intenzione di scappare via.
Era decisamente troppo per un carattere fiero e deciso come quello del cuoco romeno; strinse i denti in modo feroce, e trattenendo a stento la voce, allungò il braccio che sembrava lungo e snodato, ed afferrando la mano di Hélène la trascinò via a sé, al punto che il cappotto che quella aveva impugnato, cadde in quell’istante improvvisamente in terra.
Hélène ristette, ma senza urlare né reagire si lasciò tirare via, e presto si ritrovò con quello scellerato dentro alla toilette. Adrian chiuse di forza il chiavistello alle sue spalle, mentre Hélène biascicando parole a bassissima voce, lo implorava: “… noo qui no … ti prego …”.
“Stai zitta … troia!”, riprese lui, dandole ancora un altro sculaccione. Poi la fece rigirare sulle sue scarpette, e la spinse di forza contro il lavandino, piegata sul davanti.
Hélène mugolava, avrebbe voluto gridare. Ma quegli le mise una mano sulla bocca, armeggiando con l’altra all’altezza della sua cintura, in attimi di grande trambusto e concitazione; la ragazzotta belga era oramai piegata dinanzi a lui, con la pancia sospinta interamente contro il lavandino, ed il viso rivolto verso lo specchio, nella luce pallida e soffusa proveniente dallo spazio claustrofobico del bagno.
Il cuoco con un gesto secco e deciso, le sollevò la gonna attorno ai fianchi; vennero fuori le spesse calze contenitive di Hélène, che le ricoprivano la casta mutanda bianca tutta avvolta intorno al sedere; in quell’istante quella riprese a mugolare, con la mano forte di Adrian ancora stretta sulla bocca: “… non lo fare, ti prego non lo fare ti scongiuro …”.
Ma quello già aveva preso di mira l’elastico delle calze, ed apparentemente senza alcuna fatica, gliele abbassò fino poco sopra le ginocchia, lasciandola piegata in avanti con tutta la carne bianca delle cosce in bella mostra. Hélène sembrava quasi un animale da macello, con la sua pelle spessa e trasparente illuminata dalla pallida luce del bagno.
“Adesso poggia le mani sullo specchio e non aprire quella boccaccia … sennò ti ammazzo …”, la minacciò Adrian.
Hélène obbedì terrorizzata, mentre intanto qualcuno stava passando nel corridoio dietro la porta chiusa alle loro spalle.
Fu un solo istante, e questi si sciolse la cintura dei pantaloni aprendoseli sul davanti, ed estraendo il suo mattarello compatto e tosto dalle mutande. Hélène lo sentì immediatamente, come un giocattolo di legno che la sbatteva contro lo slip da un lato.
Osò aprire bocca, e disse a bassa voce, trattenendo a stento le lacrime: “noo dietro no … ti prego …”.
Si ritrovò le mutande abbassate alla stessa altezza delle calze, ed il culo rotondo completamente di fuori, enorme e sproporzionato, dinanzi al pene eretto e bagnato del suo aguzzino. Adrian le disse bofonchiando: “Non ti sei ancora messa a dieta? … mi fai schifo …”.
Hélène prese nuovamente a piangere, avrebbe voluto scappare via, ma era veramente impossibile; quegli le mise una mano in mezzo alle cosce, in basso all’altezza dell’inguine, e subito si rese conto che la ragazzotta non era per nulla bagnata, contrariamente alle volte precedenti.
“Ti faccio vedere io come si fa”, disse ridendo in modo rabbioso, e si sputò sul palmo dell’altra mano, dopodiché le mise direttamente quella mano in mezzo ai glutei bianchi, dilatandoli, facendole sentire il bagnato nel centro, poco sotto il forellino più piccolo. Hélène trasalì raggelata, ed alzò lievemente il busto, scivolando con le mani in basso verso il lavandino; Adrian allora le prese ambedue i polsi da dietro, lasciandole il membro che penzolava ancora piuttosto molle vicino al sedere, e glieli impose sui due lati del lavandino, uno a sinistra, ed uno a destra.
Poi finalmente afferrò il pene, aprendolo e chiudendolo un paio di volte. Con la destra infine dischiuse uno dei due glutei di Hélène, allargandola tutta di lato, e le appoggiò quel bastone in modo piuttosto deciso, nel mezzo, dove l’ano stretto di Hélène si apriva come una timida feritoia.
Guardò la gonna rovesciata della ragazza belga, la schiena di lei riversa sul davanti, con la testa in fondo rivolta contro lo specchio: le afferrò la coda di cavallo costringendola a guardarsi mentre lui le stava alle spalle ed era pronto a sodomizzarla. Hélène aveva le lacrime lungo tutto il viso, piangeva e singhiozzava.
Tenendola sempre per i capelli, prese infine a spingere con l’altra mano il pene, che si faceva strada a fatica in mezzo alla carne bianca e sudata del didietro di Hélène; raggiunse la bocca dell’ano, e spingendo sempre più con precisione nel mezzo, lo sentì lentamente schiudersi, ma non abbastanza.
Decise allora di bagnarla ancora un po’, e lo fece alla stessa maniera, facendole schioccare ambedue le natiche nel mezzo. Poi appoggiò nuovamente il pene, che era grosso e duro da fare spavento, e tirando sempre Hélène per i capelli, le disse: “Non urlare troia”. Lo inserì leggermente con la punta, poi con la destra le afferrò il fianco stringendolo con vigore. Infine, inarcò il bacino e le diede una sferzata improvvisa, sfondandola tutta quanta in un sol colpo.
Hélène emise un urlo penoso, e lui allora dovette nuovamente tapparle la bocca con la sinistra; era probabile che qualcuno da fuori potesse averli sentiti. Prese allora a spingere più forte che poteva, avanti e indietro, ma era come incastrato nel mezzo, nella carne calda e ancora stretta del didietro di lei.
Allora con entrambe le mani, con un gesto imperioso e violento, le afferrò tutto il sedere dilatandolo per bene; poi fece come per estrarre il pene, ma lo fece unicamente per arretrare, inarcarsi mollemente, ad affondarla una volta per tutte. Hélène urlò nuovamente, e allora qualcuno bussò alla porta, loro non avrebbero mai saputo chi fosse; Adrian rispose con la voce roca e spezzata: “Un attimo ancora …”.
Prese a sodomizzarla con vigore, scuotendola avanti e indietro per i fianchi, con la gonna leggermente scesa in cima, e le calze sempre strette attorno alle ginocchia; la sventurata mugolava con il naso sospinto contro lo specchio, e la coda di cavallo rovesciata da un lato. La sbatacchiava come un oggetto di carne nuda, ed il rumore dei colpi era sordo ed ovattato, ma le sferzate le arrivavano dritte fin dentro allo stomaco, squassandola.
Pochi minuti sarebbero bastati per aprirle il didietro dilatandolo del tutto, e lasciandole un foro tondo e scuro in mezzo ai glutei deformati. Ebbe la sciagurata idea di venirle direttamente nell’ano, e lo fece senza alcun rispetto, inondandola dentro e fuori, come uno stretto bicchiere che trabocca di liquido giallo e schifoso.
Continuò a sospingerla anche quando fu asciutto e secco, quasi a volerle fare del male, sentendola tremare tutta in mezzo alle cosce bianche e sulle scarpette nere senza il tacco; poi finalmente estrasse il pene e si tirò frettolosamente in su i pantaloni.
In quell’istante il cuoco romeno si fermò ad osservarla, e con compiacimento contemplò quanto di bello le aveva appena fatto: lo spazio sopra l’inguine e nel mezzo era tutto arrossato, e circondava la bocca rotonda dell’orifizio aperto, che tremava senza rinchiudersi su sé stesso.
Le mise una mano aperta sul sedere, come a volerle ribadire il suo dominio e la sua forza. Poi senza aggiungere nulla, si aprì la porta alle spalle e filò via. Hélène prese a piangere in modo ininterrotto, tremava disperata davanti allo specchio, con i capelli che nel frattempo si era sciolti, davanti al viso.
Rimase almeno altri cinque minuti così, piegata in avanti con il sedere di fuori, a piangere e a singhiozzare amaramente come una bambina, senza alcuna soluzione di continuità.
Dopo un po’ si rassettò le sue mutande bianche e le calze lacrimando sempre in modo accorato, con le guance bagnate e gli occhi umidi, mentre fuori nel corridoio alcune voci di uomini rimbombavano minacciose.
Trovò la forza di ripulirsi il viso, ma non osò liberarsi dei liquidi appiccicosi che avvertiva ancora in basso nel mezzo.
Uscì dal bagno e raccolse il suo cappotto, sperando di non incrociare davvero nessuno lungo il corridoio; prese la borsa bianca e si mosse nervosamente. Ma proprio mentre usciva dal locale per andarsene via verso la fermata, intravide la solita macchina scura parcheggiata lì di fuori, e Jan in piedi presso lo sportello: e così trasalì nuovamente. Quegli la chiamò balbettando, non ricordava il suo nome e si limitava a gesti e versi da scimpanzé.
Hélène corse via tutta trafelata, discese lungo la strada arrancando, attraversò il semaforo e presto giunse alla fermata successiva, dove nessuno la seguiva. Arrivò a casa nel sottoscala buio, a grande fatica: tremava ancora come una foglia al vento, ed erano quasi le due di notte.
Ventiduesimo episodio
Il sedere continuò a farle molto male per almeno altri tre giorni di seguito. Non riusciva a liberarsi di quel pensiero ossessivo, quella stretta sul didietro, quel bastone duro e severo che l’aveva aperta in due come una mela. Hélène era sprofondata in un mutismo inspiegabile, al punto che presto le sue due coinquiline iniziarono a preoccuparsi per lei.
La più irriverente era come al solito Paula; l’argentina le domandava in modo pettegolo e irrispettoso, che cosa mai le avesse combinato il suo cuoco maschio. Chiara invece aveva intuito perfettamente, come potessero esserci stati dei problemi. Hélène era stata quasi stuprata e violentata, anche se si trattava dello stesso uomo al quale ella s’era già concessa, apparentemente con piena volontà e consenso, per ben due volte nel corso della precedente settimana.
Per sua fortuna, tutto quanto si rivolse ben presto in pura e semplice indifferenza: Adrian aveva preso completamente ad ignorarla; la trattava semplicemente come una cameriera, fissandola sempre sul davanti ma quasi mai negli occhi. Era finito tutto, improvvisamente, quella sera dentro al bagno del locale; all’impeto di quell’inculata così irruenta e penosa.
Tutti si resero conto, che tra di loro non vi erano più alcuno sguardo né alcuna comunicazione. La signora Nadia fu la prima a non nascondere a Hélène la sua soddisfazione, e riprese quindi a trattarla in modo affabile, come al principio.
In quei giorni, la ragazza belga iniziò a prepararsi assieme a Chiara, per l’esame di Diritto Canonico che era previsto nel mese d’aprile; nel frattempo, le serate al locale erano divenute di gran lunga più faticose, ora che Elle aveva lasciato il lavoro per tornarsene in Germania. Non era stata sostituita, con la solita giustificazione che gli affari non stessero andando troppo bene.
Ma la sua assenza si notava parecchio, soprattutto quando vi erano delle grandi tavolate da servire, e molti dettagli importanti da tenere assieme. Quella settimana si concluse con la Festa della Donna, di domenica, durante la quale la signora Nadia offrì a tutte quante le cameriere del locale un simpatico brindisi.
Hélène si stava lentamente abituando all’indifferenza di Adrian, divenuta giorno dopo giorno sempre più simile, ad una sorta di non troppo velato e sottile disprezzo. L’aveva abusata e maltrattata, ma era a questo punto evidente, come quegli non la trovasse neanche un minimo attraente e neppure desiderabile; che l’avesse fatta sua unicamente per giocare con lei o per umiliarla, era l’atroce sospetto che la ragazza belga nutriva oramai da alcuni giorni.
Ne parlò con Chiara in modo aperto, non nascondendo anche una certa amarezza; e la coinquilina bionda replicò con grande rassegnazione, osservando come taluni uomini alla pari di colui che l’aveva iniziata, provino un piacere smisurato, nel trattare le donne come se fossero le loro povere schiave; facendole intimamente sentire come delle pure nullità. O come delle stupide bambole di gomma.
Hélène ammise di essersi sentita proprio così, con il suo cuoco romeno. Ma ciò che ella non avrebbe assolutamente rivelato, per nessunissima ragione al mondo, era il fatto che fosse proprio quel tipo di sensazione, nell’angolo più recondito e oscuro del suo intimo, a provocarle un assurdo ed inconfessabile piacere.
Il fastidio provato durante quei momenti d’abuso, improvvisamente s’era volto in una fonte inesauribile di perversione e d’eccitazione, in modo vergognosamente indecente; fino al punto tale, che una di quelle sere, Hélène si toccò nel letto ripensando agli istanti in cui era stata spiata da Jan, mentre Adrian la prendeva sul divano.
Proseguirono studiando, con l’esame che era previsto solamente di lì ad un mese, con buona lena e grande determinazione. Ma giorno dopo giorno, Hélène sentiva nuovamente montare la sua voluttà, in un crescendo mai provato prima d’allora, una sorta di china depravata ed ossessiva. Riprese ad indossare il suo intimo smaccatamente sensuale, senza sapere nemmeno quale fosse la ragione.
E la sera di quel venerdì di marzo, Hélène si rese conto di desiderare ancora una volta, che Adrian l’abusasse. Come una gatta in calore, che passa il suo tempo a strusciarsi contro tutti gli spigoli appuntiti che essa incontra, quella sera Hélène entrava ed usciva da quella cucina spesso, decisamente troppo spesso; il cuoco romeno, che certamente aveva fin dal principio notato quell’assurdo cambio di atteggiamento, prese allora a stare al gioco in maniera volgare e spudorata. Dapprima tastandole il sedere una volta ancora, mentre Hélène passava imprudentemente nelle sue vicinanze; e poi appoggiandole direttamente una mano sul pube, senza davvero alcun ritegno, facendola trasalire.
Il peggio sarebbe accaduto sul finire, quando Hélène prelevò dal tavolaccio bianco un intero vassoio di flute ripieni al sorbetto di limone. Sollevò quel vassoio e volse le spalle ad Adrian, che intanto aveva preso a guardarla.
Gheorghe era girato di lato, stava mettendo diversi piatti dentro alla lavastoviglie facendo non poco rumore; Adrian capì che avrebbe potuto fare di Hélène tutto ciò che egli voleva: ed allora la fermò trattenendola per un fianco. In quell’istante la ragazzotta ristette immobile in piedi, col vassoio in delicato equilibrio fermo tra le mani.
Non poteva muoversi né voltarsi, altrimenti i flute di sorbetto disposti sul vassoio si sarebbero sicuramente rovesciati creando un vero disastro; attese allora che Adrian le sollevasse inopinatamente la gonna sul didietro, fino a scoprirle per intero il sedere bianco, adornato da un filino nero invisibile e dalla sua corona di delicato pizzo in cima.
Le affondò ambedue le mani, con i suoi guanti trasparenti, nelle natiche molli e tremolanti, stringendole e rilasciandole diverse volte, sempre con la gonna ben alzata; i bicchierini iniziarono a tintinnare miseramente nel vassoio, senza rovesciarsi. Hélène in quell’istante socchiuse gli occhi, sentiva quelle mani affondarla nella pelle e nell’animo, umiliandola e facendola godere; fu prossima a raggiungere anche un assurdo orgasmo, ferma in piedi come una stupida, col vassoio sempre stretto tra le mani.
Adrian la palpeggiò a lungo, come e peggio di una bestia, sentendole la pelle vibrare come la superficie morbida di un tamburo. La liberò unicamente quando udì dei passi nel corridoio; Rosaleen si affacciava nella cucina, e vide Hélène in piedi con il vassoio sempre stretto nelle mani, Adrian alle sue spalle che frettolosamente le rimetteva giù la gonna, e Gheorghe che da lontano le fissava il sedere. Spalancò la bocca, con grande stupore.
Hélène filò via senza cambiarsi e senza attendere nemmeno un solo istante, quando giunse l’ora, in preda ad uno stato di grande vergogna e di terribile confusione, e con la certezza di avere combinato un nuovo, enorme pasticcio; l’indomani tutte quante le cameriere, e la signora Nadia, lo avrebbero saputo, e si sarebbero inesorabilmente prese gioco di lei e della sua incorreggibile scelleratezza.
Ventitreesimo episodio
Hélène alternava lunghi momenti di sobrietà e rigore, con episodi di autentica ed irresistibile voluttà. Quella mattina ad esempio, provava infinita vergogna per quanto combinato durante la serata precedente: essersi fatta toccare in quel modo da Adrian, praticamente in maniera pubblica ed esplicita, al punto tale che anche Rosaleen aveva potuto vederli, significava avere davvero oltrepassato ogni limite.
Si vergognava di sé stessa e avrebbe voluto ricominciare tutto quanto daccapo: riabilitare la propria dignità e la propria reputazione, che erano state oramai senza alcun dubbio compromesse; ma poi le bastava unicamente incorrere in un pensiero sbagliato, per sprofondare nuovamente nel baratro dell’ossessione più perversa.
Si domandava se anche per le altre ragazze fosse lo stesso: se tutte quante provassero i suoi medesimi bollori di stomaco e gli stessi suoi inconfessabili desideri; nessun’altra poteva certamente dirsi talmente scellerata e priva di dignità, da essersi resa ridicola così come aveva fatto lei.
Era ovvio come da quel momento in avanti, Hélène avrebbe dovuto far di tutto pur di mantenere una forma di disciplina e di controllo. Stabilì pertanto, in un istante di grande freddezza e determinazione, alcuni principi cui si sarebbe rigorosamente attenuta, di lì a seguire: non avrebbe mai più indossato le sue calze autoreggenti, nonostante fossero davvero molto utili e pratiche; avrebbe anche messo da parte tutte le mutandine più succinte e vistose, dal momento che non servivano a nulla.
Decise tuttavia di continuare ad indossare il suo balconcino, in considerazione del fatto che sembrava piacere molto agli uomini. E di certo in fondo, nella sua vita Hélène tutto avrebbe voluto divenire, fuorché una monaca di clausura.
Adrian era piuttosto serio ed accigliato quella sera; la cosa ovviamente non dispiacque per nulla a Hélène. Sembrava a tratti anche preoccupato, non era affatto la medesima persona irruenta ed impulsiva di sempre; vi fu moltissimo lavoro da sbrigare, e ancora una volta l’assenza di Elle si fece notare in maniera evidente, specialmente sul finire della serata, quando c’era da preparare il conto per diversi tavoli.
La cameriera tedesca era stata infatti, per molto tempo l’unica cui fosse consentito di aprire la cassa del denaro con le chiavi. Questo permetteva alla signora Nadia di dividere l’onere dei conti, e di portare anche il resto in banconote ai vari tavoli, velocizzando di molto le operazioni.
Dopo le dimissioni di Elle, la grande responsabilità era stata affidata a Cathy, la cameriera bionda altrettanto prudente ed esperta. Ma quest’ultima al contrario di Elle nutriva un’incrollabile fiducia nei confronti delle proprie colleghe, per cui spesso lasciava che le altre cameriere portassero da sole il denaro, per poi prelevare dalla cassa il resto.
La signora Nadia quella sera avvertiva un’inspiegabile sonnolenza, aveva bevuto la sua solita spremuta al limone con lo zucchero, e adesso non riusciva proprio più a tenere gli occhi aperti; era una donna fiera ed orgogliosa, per cui andò avanti tutto il tempo con la testa che le vacillava.
Hélène invece andava servendo i tavoli dalle parti dell’ingresso; mentre portava via alcuni piatti e liberava la tovaglia dov’erano stati precedentemente seduti alcuni giovani, intravide con grande stupore, la sagoma bassa e sbilenca di Jan che attraversava la porta a vetri, entrando in modo furtivo dentro il locale stracolmo di persone.
Era stata lungamente istruita, sulla necessità di dare sempre cordialmente il benvenuto, a tutti coloro che entrassero dentro il locale; e così fece anche stavolta, dopo il primo istante di smarrimento, nel vedere colui che l’aveva spiata in maniera indecente e vergognosa poche settimane addietro.
Teneva una pila di piatti stretti vicino al grembo, ma volle fare per bene e fino in fondo il suo dovere, per cui voltandosi leggermente sul lato destro, nella direzione della porta a vetri, sorrise a Jan in modo palesemente innaturale e con evidente imbarazzo. Gli disse: “Buonasera signore, è solo?”.
Quegli rispose in modo incomprensibile, con un’espressione del viso ironica e indecifrabile; Hélène allora gli si fece più vicina, ed avvertì anche un discreto malodore. Lo lasciò nei pressi della lunga barra, dove erano disposti i calici del vino, apparentemente senza interessarsi più di tanto a lui.
Quando entrò nella cucina, Hélène riferì ad Adrian con tono di voce fermo e distaccato, di avere veduto il suo compare all’interno del locale aggirarsi tra i tavoli, forse nell’intento di bere qualcosa. Quegli la trattò con insolito atteggiamento scontroso, era evidentemente più tirato e nervoso del solito, respingendola: “Che cosa ti interessa bellezza …vai di là e servi i tavoli … invece di farmi perdere tempo”.
Fu talmente rude e scortese, che Hélène provò un forte senso di disagio e fu quasi sul punto di reagire malamente.
Uscì dalla cucina, e di Jan non vi era più in giro alcuna traccia. Lo cercò dapprima nella sala centrale, ed in ultimo in quella vicino all’ingresso; ebbe persino l’ardire di domandare a Cathy, se per caso avesse veduto un uomo basso e buffo, e leggermente claudicante. Era un assiduo conoscente di Adrian, aggiunse senza alcuna malizia.
Avrebbe voluto fare per bene il proprio dovere, e capire se qualche cameriera l’avesse infine servito, o se quegli fosse piuttosto uscito dal locale tutto solo e scontento; Cathy rispose di non avere visto assolutamente nulla.
Ma proprio in quel precisissimo istante, come travolta da una scossa elettrica improvvisa, la cameriera bionda trasalì raggelata: si batté con una mano aperta la fronte, esclamando tutta ad un tratto a gran voce: “La cassa, diavolo la cassa!”.
Erano sparite diverse banconote, per il valore di oltre tremila euro. La signora Nadia dovette riprendersi immediatamente dal suo incomprensibile ed inusuale torpore; e subito chiamò a raccolta Cathy, in un faccia a faccia durissimo, consumato dietro la barra di legno, che non passò certamente inosservato nemmeno ai tanti clienti seduti dentro il locale.
Cathy allargava di continuo le braccia, ma la signora Nadia le puntava il dito addosso a ripetizione, minacciandola. La cameriera bionda dovette pertanto riferire tutto quanto, compresi i dettagli che le aveva rivelato Hélène: un uomo basso e leggermente zoppo era entrato nel locale, per poi uscirne subito dopo, apparentemente senza consumare nulla.
La signora Nadia telefonò immediatamente al marito, il quale come tutti i sabati, s’andava trastullando in qualche luogo poco raccomandabile, con le carte da poker e con la roulette. Lo chiamò, e quegli diede immediata disposizione, di tenere tutti i camerieri e i cuochi chiusi dentro il locale, fintanto che tutti i clienti non fossero andati via, e fece intendere che si sarebbe precipitato sul posto di lì a poco.
Hélène era agitata e turbata: era abbastanza evidente come potesse essere stato proprio Jan, a fare sparire il denaro. Si domandava tra sé e sé, se avrebbe dovuto confessare tutto quanto, e quali sarebbero state alla fine le conseguenze per lei. Non c’era da scherzare con quella gente, rifletteva.
Il pensiero andò ad Adrian, con non poco timore per la possibile reazione che quegli avrebbe avuto, qualora Hélène avesse in modo scellerato confessato tutto quanto. E subitaneamente, la verità apparve ai suoi occhi chiara e lampante: lo strano atteggiamento tenuto dal cuoco romeno durante l’intera serata, la sua rabbiosa reazione quando lei era entrata in cucina per riferirgli di avere veduto Jan; evidentemente s’era trattato di un piano architettato con cura nei minimi dettagli da entrambi.
E Hélène non poteva certo sapere, che la spremuta al limone della signora Nadia, la stessa che quella beveva tutte le sere, era stata sapientemente ritoccata con abbondanti dosi di sonnifero, così da farla intorpidire e quasi addormentare.
Un clima scuro scese improvvisamente sul locale, mentre i tavoli si andavano completamente svuotando; nel frattempo il signor Mariano aveva fatto il suo rapido ingresso sul posto, tutto quanto trafelato, infilandosi senza tanti convenevoli nel piccolo studio chiuso sul retro.
Dopo qualche minuto, tra gli ignari camerieri si sparse la voce che il proprietario stesse ora riguardando tutte le immagini riprese dalla telecamera disposta sopra l’ingresso, rivolta verso l’interno delle prime due sale. Hélène udì la cosa, inizialmente con scarso interesse; ma poi, non appena realizzò come erano andati gli eventi, si sentì tutt’insieme ad un tratto sprofondare.
Aveva accolto Jan salutandolo, lo aveva preceduto e accompagnato non lontano dalla cassa, e proprio lì lo aveva abbandonato da solo, proseguendo infine fin dentro alla cucina. Aveva anche rivelato a Cathy, di essere a conoscenza di come quegli fosse un intimo amico di Adrian; tutto quanto il gioco si andava ricomponendo alla perfezione, e Hélène adesso sentiva le gambe tremarle, e la testa brulicare di paura: che cosa l’avrebbe aspettata?
Una alla volta, il signor Mariano volle parlare in privato con tutte quante le cameriere del locale: le tenne sedute nel corridoio come se avessero dovuto prender parte ad un processo, mentre la signora Nadia le controllava imponendo loro di tacere in assoluto e rigoroso silenzio.
Sfilarono nell’ordine Cathy, Veronica, e Rosaleen. Hélène fu tenuta in disparte, era evidente come il signor Mariano intendesse ascoltarla per ultima; ne ebbe diretta conferma, quando vide passare anche Daniele e Leo, i due camerieri maschi. Infine, fu la volta di Gheorghe, che tremava spaventato. Tornò a pulire la cucina senza dire una parola.
Rimasero nel corridoio Adrian e Hélène, con la signora Nadia che li guardava in modo davvero severo e minaccioso; nella sua mente, erano chiaramente loro due i colpevoli.
La ragazzotta belga non resistette oltre, e prese a piangere e a singhiozzare; e fu anche questo interpretato come un chiaro segnale di colpevolezza. Al punto che la signora Nadia, in preda ad un evidente stato di rabbia, le afferrò addirittura un orecchio, puntandole il dito contro il viso, ed insultandola: “Avrei dovuto saperlo, che eri solo una stupida senza cervello… ma stavolta avrai finalmente quello che meriti!”.
Dopo dieci o forse venti, interminabili minuti, mentre fuori le serrande erano già quasi completamente abbassate, Adrian e Hélène furono convocati assieme dal signor Mariano, proprio come in quella lontana sera di metà febbraio, quando Hélène aveva perduto la sua verginità.
Ma questa volta l’espressione del viso, ed il tono di voce del proprietario del locale erano ben diversi. Teneva il sigaro acceso stretto tra le dita, e digrignava i denti con ferocia; perfino il rude ed aggressivo cuoco, pareva tremare in quell’istante, dinanzi all’uomo seduto dietro la scrivania, che batteva i pugni sul tavolo in continuazione.
Esordì dicendo: “Pensavate di farmi fesso tutti e due vero?!? …ma quanto siete bravi!”. Poi riprese: “Ma non sapevate che qui abbiamo le telecamere, e che noi vi osserviamo tutto il tempo eh?!? … non sapevate nemmeno che quel vostro amico, che vi attende sempre fuori dal locale, lo avevamo già visto e lo conoscevamo bene?”.
E concluse: “Siete proprio degli stupidi, e per giunta pure dei dilettanti”, e fece finta di ridere, tradendo una grande rabbia. “Dovrete parlarne con il giudice adesso … e io vi rovino a tutti e due lo sapete?”. Adrian si fece coraggio e provò a controbattere qualcosa, ma fu subito messo a tacere.
La sua posizione era veramente difficile da difendere: Jan abitava con lui, ed era entrato nel locale sapendo perfettamente dove si trovava la cassa, approfittando della sciagurata leggerezza di Cathy e delle altre cameriere. Erano troppi gli elementi atti a dimostrare chiaramente, come lui avesse potuto fornire al suo compare, tutte quante le informazioni necessarie ad attuare il loro piano.
Il signor Mariano gli puntò il dito addosso e gli disse senza alcun dubbio, né incertezza: “Da questo momento sei licenziato, non presentarti più in questo locale se non vuoi che io chiami la polizia … e sarai denunciato assieme al tuo amico per furto organizzato, dovrete restituire tutto quanto e finirete tutti e due in prigione, e mi auguro che ci rimarrete davvero a lungo!”.
Adrian si sfilò i guanti di plastica con un gesto rapido e scontroso, e glieli sbatté sulla scrivania con apparente aria di sfida, ma in realtà si trattava unicamente di un moto di disappunto e di rassegnazione. Infatti, subito dopo li riprese e volse le spalle uscendo dalla stanza senza fiatare; era evidente come tutto ciò rappresentasse una chiara ammissione di colpevolezza, e Hélène si ritrovò così da sola, dinanzi all’uomo seduto dietro alla scrivania con il suo sigaro sempre acceso nella mano.
Quegli prese ad osservarla, scrutandola dalla testa ai piedi, con fare apparentemente tranquillo e rilassato; Hélène tremava in modo vistoso, tutta quanta agitata e sudata, e le calze strette e abbottonate attorno ai fianchi la facevano sentire ferma e imbalsamata, come una statua.
Mariano continuava ad osservarla, con un sorriso simile ad un ghigno rabbioso, ironico e divertito al tempo stesso.
Passato qualche istante interminabile, quello prese finalmente la parola, e dopo l’ennesima boccata del suo sigaro, le disse scrutandola ancora una volta dalla testa ai piedi: “E tu? …sembravi così carina e brava … e ti sei messa a trafficare con questi qua, gente da galera!”.
Hélène si mise a piangere sommessamente, non aveva la forza di reagire; avrebbe voluto dire qualcosa, rispondere che lei non c’entrava davvero nulla, ma non riusciva ad aprire la bocca e a parlare; il signor Mariano riprese guardandola negli occhi: “Tu sei una di loro, e meriteresti di essere denunciata … ma mi fai pena e non voglio rovinarti tutta quanta assieme …”. E fece un nuovo tiro del suo sigaro.
Poi aggiunse: “È evidente come loro ti abbiano sfruttata per i loro fini … e tu fai il loro gioco? Meriteresti d’essere licenziata anche solo per la tua stupidità”. Hélène continuava a piangere e a singhiozzare, con una mano aperta sul viso, e la testa piegata in basso; aveva assunto una postura ricurva sulle spalle veramente umile e penosa.
Mariano apparentemente rifletté qualche istante sul suo conto, e dopo l’ennesima tirata del suo sigaro, concluse: “Io non credo che tu sia una mela marcia ragazza, preferisco pensare che tu sia semplicemente una stupida”; aprì una mano e la poggiò sul tavolo come a voler stabilire un precetto, ed infine alzando la voce le disse: “Domattina ti voglio qui, alle dieci puntuale, e non sgarrare di un minuto hai capito!?! … ti spiegherò io come si lavora e come si sta al mondo, hai bisogno di una lezione e devi ringraziarmi per la mia pazienza … e adesso via, sparisci”.
Hélène sfilò via a testa bassa, davanti allo sguardo severissimo ma anche assurdamente curioso della signora Nadia; quest’ultima non aveva infatti ancora compreso, che cosa il marito avesse intenzione di fare con lei; e subito accolse con totale disaccordo, la sua decisione: l’avrebbe trattenuta tra le cameriere del locale, nonostante tutto quello che Hélène aveva combinato.
Ventiquattresimo episodio
Dovette uscire di domenica mattina, e lo fece vestita ancora una volta con gli abiti da lavoro. Non aveva infatti alcuna idea, di che cosa il signor Mariano avesse in mente per lei, e nel dubbio essa aveva pensato di tenersi addosso gli stessi vestiti di sempre.
Alle sue due coinquiline Hélène non disse nulla, Chiara era ancora a letto che dormiva essendo rientrata a sera tardi dopo essere stata a casa di Marco; Paula invece le domandò dove avesse intenzione di andare di domenica mattina così presto, ma non insistette più di tanto. Così la ragazzotta belga si ritrovò a risalire nuovamente a piedi lungo la strada che portava al locale, immersa in enormi dubbi e in grande inquietudine.
Giunta dinanzi alla porta d’ingresso, trovò la serranda mezza abbassata, e dovette piegarsi leggermente in avanti per entrare nel locale buio, pieno di fusti di birra accatastati l’uno contro l’altro. Chiese permesso con la sua solita voce da bambina, teneramente anonima, ma sulle prime nessuno rispose. Fece allora timidamente un passetto in avanti, e giunse nei pressi della barra della sala centrale; lì finalmente vide il signor Mariano, col suo solito sigaro, che sistemava alcune carte dentro ad un cassetto nei pressi della credenza, senza apparentemente dare alcun peso alla presenza di lei.
La stava completamente ignorando, senza alcuna attenzione né alcun riguardo; Hélène ristette in piedi, decise di rimanere immobile come un manichino, nei pressi della barra. Pensò di dover attendere che quegli completasse le sue mansioni, tacendo in silenzio e senza interferire affatto.
Ogni tanto quello la guardava, aveva indosso un paio di occhiali per leggere, e la scrutava con severità, col viso piegato in basso, senza mai parlarle né darle alcun cenno di saluto. Passati almeno dieci minuti, la ragazzotta belga iniziò a pensare, che potesse essersi presentata lì fin troppo presto, e facendosi un po’ di coraggio domandò: “Vuole che io ritorni più tardi signore?”. Ma allora Mariano finalmente aprì bocca, e tossendo leggermente per via del fumo, disse senza alcuna esitazione: “Neanche per sogno … tu devi restare lì immobile zitta e muta finché non ho finito, avrò tempo per te dopo”.
Hélène abbassò timidamente il capo, aveva capito di avere commesso un errore a prendere l’iniziativa con quella domanda frettolosa ed inopportuna. Assunse pertanto un’espressione leggermente contrita e triste, con la testa piegata in basso, e le mani intrecciate sul grembo, attendendo che quegli avesse tempo di dirle cosa doveva fare. Ma l’uomo era sparito dentro il suo studio, e per almeno altri cinque minuti non successe nulla, la situazione era difficile ed il timore iniziava ad assalirla.
Quando poi era giunta sul punto, di iniziare ad agitarsi, fu finalmente convocata dal signor Mariano, con un semplice schiocco di dita: “Vieni … avanti …”.
Lo trovò come al solito dietro alla sua scrivania, col sigaro in mano, e gli occhiali che adesso aveva tirato su all’altezza della fronte larga e corrugata. Le disse: “Ferma lì, in piedi”.
Hélène prese nuovamente a tremare, era evidente come quegli non avesse intenzione di trattarla in modo gentile e caloroso; ma ristette provando a non tradire alcun disagio né imbarazzo, ad un metro di distanza dall’uomo, che stava sempre seduto dietro alla sua scrivania.
“Come avrai intuito … non siamo qui per una circostanza piacevole …”, riprese il proprietario del locale, e finalmente si levò anche egli in piedi, trattenendo sempre il suo sigaro fermo tra le dita. “Il cuoco ed il suo compare sono già agli arresti, mi spiace per te ma non potrai rivederli molto presto…”, ed aggiunse: “Quanto a te poi …”, riprese, “Potrai forse cavartela con molto meno, se solo adesso fai quello che ti dico”.
Hélène iniziò a temere seriamente, che quegli intendesse approfittare di lei, ed immediatamente avvertì uno scatto tra le gambe; non aveva minimamente pensato a questa sciagurata eventualità, e non sapeva proprio come mai avrebbe potuto reagire.
Ma il signor Mariano girò attorno alla scrivania, venendo nei suoi pressi; a quel punto, sempre col sigaro stretto nella mano, le fu accanto e le sfiorò con un dito la gonna, di lato, come se intendesse disegnarle una linea giù dal fianco, fino in basso dove si liberava la calza scura sopra il ginocchio. Poi finalmente disse: “Sono un uomo di sessant’anni … e non credo di poterti dare la lezione che meriteresti …”.
Le continuava a segnare la gonna con un dito, in su e in giù, mentre con la destra adesso aveva ripreso a tirare il suo sigaro, noncurante dell’immane fastidio che il fumo causava alla ragazza, nello spazio piccolo e angusto dello studio.
“Ho sempre pensato …” aggiunse, “che tu fossi una ragazza veramente stupida, e adesso ne ho avuto la diretta conferma; e se solo non avessi sessant’anni, a questo punto io ti punirei, trattandoti esattamente come si merita una stupida cameriera…”.
Insisteva nel ribadire il concetto, e Hélène nel frattempo taceva terrorizzata; aveva capito benissimo come quegli intendesse riferirsi nel suo discorso sconnesso, ad un atto sessuale. Volse il capo verso di lui, con gli occhi gonfi di lacrime ed un’espressione totalmente costernata e persa.
“Devi quindi ringraziare” riprese Mariano, “il fatto che io da molti anni, non riesca più a prendere una donna”, e batté una mano sul tavolo; diede l’ennesima boccata di sigaro, e prese a girare per la stanza, dicendo: “Ma tu cosa ne puoi sapere di tutto questo … adesso piegati sulla scrivania”.
Fu lì che Hélène comprese, come verosimilmente non avrebbe potuto mai farla franca, senza avere come minimo mostrato le sue nudità al proprietario del locale. Fu una sensazione talmente lacerante e fastidiosa, che la ragazzotta belga ebbe come un insano istinto, di reagire e di ribellarsi; ma ancora una volta non disse e non fece nulla, aveva sempre moltissima paura di perdere il suo posto di lavoro.
Si piegò allora umilmente in avanti, con la pancia distesa lungo tutta la scrivania; il signor Mariano le si fece più vicino, e tirando sempre il suo sigaro le disse: “Brava, dimostrami adesso di essere una cameriera brava e obbediente…”; e poi aggiunse: “Aggrappati ai braccioli della mia poltrona con tutte e due le mani … brava”.
Hélène fu costretta a giacere così, piegata in avanti con il volto riverso incontro alla sedia e le mani che reggevano i due braccioli dinanzi a lei, in una posizione assai scomoda e per di più, davvero umiliante. Mariano prese a girare avanti e indietro alle sue spalle col suo sigaro nella bocca, e a fissarle il didietro della gonna, che si stagliava rotondo ed ingombrante, tutto rivolto verso il centro della stanza.
Era evidente come lui intendesse irriderla fino in fondo, e così come passo successivo, le impose di alzarsi la gonna; lo fece dopo diversi minuti di angosciante attesa, ordinandole: “Senza muoverti adesso … con le mani tirati su quella stupida gonna… fammi vedere le mutande che hai addosso”.
Hélène ebbe un’improvvisa scossa di autentico tremore, e biascicando parole a bassissima voce, prese ad implorarlo: “… cosa vuole farmi signore … la scongiuro”. Quegli batté il pugno sul tavolo, ed abbassandosi leggermente verso di lei da un lato, le disse digrignando i denti: “Se non fai quello che ti dico, io ti denuncio e dico tutto quanto alla polizia!”.
Hélène sollevò penosamente la gonna con ambedue le mani, tirandosela su un poco alla volta, finché non fu completamente arrotolata attorno ai fianchi, e lo fece singhiozzando e deglutendo miseramente come una bambina. Non era affatto bello ciò che in quel momento ella esibiva dinanzi agli occhi dell’anziano proprietario del locale: un didietro grosso come un pallone, avvolto dentro ad uno spesso paio di calze intere di colore piuttosto scuro, sotto le quali a malapena traspariva una larga mutandina, scura anch’essa, di morbido raso.
Hélène ristette in quella posizione, afferrando nuovamente i braccioli della sedia con ambedue le mani, senza sapere che cosa il signor Mariano le avrebbe adesso ordinato di fare, e piangendo. Quegli tossì un paio di volte in maniera vistosa e innaturale, come a voler sottolineare una certa meraviglia ed un certo stupore; in realtà non si aspettava affatto che quella visione potesse arrivargli a fare un simile effetto: sentiva infatti il pene tirargli di nuovo sotto i pantaloni, in maniera piuttosto inattesa e altrettanto evidente.
Decise allora di insistere, voleva davvero ridurre la povera cameriera in uno stato di totale afflizione e pena. Le disse quindi: “Da oggi in poi, non indosserai più questa robaccia … ti voglio leggera e snella sotto alla gonna, con le cosce completamente nude … e non costringermi a controllarti tutto il tempo chiaro !?!…”, e poi riprese: “E adesso giù! abbassati quella ridicola calzamaglia che non sembri nemmeno una donna…”.
Hélène per un istante non fece nulla, e subito il proprietario del locale lo interpretò come un atto di diniego; ma invece di adirarsi o di costringerla, egli fece qualcosa di ancor più subdolo e terrificante; pensò che avrebbe potuto punirla con un oggetto da cucina, e mentre sentiva il pene vibrargli insistentemente dentro ai pantaloni, le urlò alle spalle: “Io vado di là a prendere lo sai che cosa? … una bella paletta di legno per te … e tu se non vuoi farmi perdere del tutto la pazienza, fatti trovare pronta con la calzamaglia abbassata”.
Uscì dallo studio sbattendone la porta; in quel momento Hélène si ritrovò da sola, con la gonna avvolta intorno ai fianchi, le mani strette attorno ai due braccioli, e le gambe che le tremavano; avrebbe voluto fare qualcosa, reagire o addirittura provare a scappare; ma così facendo avrebbe sicuramente perduto il suo posto di lavoro, e avrebbe dovuto trovarsi un nuovo modo di pagarsi l’affitto per la casa. Senza contare che il signor Mariano avrebbe potuto addirittura pensare di denunciarla, con il rischio di passare qualche serio guaio con la polizia.
Quindi ristette angosciata, senza muoversi; respirava profondamente nell’ambiente buio e angusto dello studio, rimanendo sempre nella posizione reclinata, tacendo e sospirando. Ancora non immaginava che il signor Mariano intendesse punirla sul serio, pensava in cuor suo che quegli intendesse piuttosto, spogliarla lentamente per poi poterla toccare, almeno così aveva interpretato i suoi continui riferimenti al fatto di non essere più abbastanza giovane.
Certamente non aveva fatto così come quegli le aveva ordinato, di abbassarsi le calze: e allora quando la porta dello studio si aprì nuovamente, subito Hélène trasalì nel sentire il rumore della paletta di legno che l’uomo batteva contro la sua stessa mano. Le disse immediatamente: “Non fai come ti dico e non ubbidisci? … allora significa che vuoi proprio prenderle … te le devo suonare per davvero ?!?”.
Hélène provò a rimediare alla situazione e lo fece in modo rapido e goffo, abbassandosi le calze non senza un po’ di fatica, dato che le si erano incollate alla pelle sudata dei glutei e delle cosce. A quel punto si ritrovò in posizione eretta, con la gonna sempre sollevata, le mani aperte sulla scrivania, e le spalle rivolte al suo datore di lavoro, che brandiva sempre la paletta colpendosi continuamente il palmo della mano.
Il sederone, bianco e molle, era unicamente riparato dalla mutandina di raso, larga ma non troppo alta sul didietro; al punto che la morbida fessura in mezzo ai glutei ne veniva fuori su in cima, invitando colui che le stava alle spalle, impietoso, a completare il lavoro tirandola giù.
E così fece il signor Mariano, senza attendere oltre, ma lasciandole il sottile indumento di raso poco sotto le natiche, in maniera da non esporre affatto le intimità della povera ragazza; le aveva semplicemente liberato i glutei, ma non aveva alcuna intenzione di scoprirle il resto. Si sentiva infatti il pene spingere come un bastone vivo dentro alle mutande, come non gli accadeva da molto tempo; ma sapeva anche di non poterle fare nulla, e per tale ragione aveva preferito evitare di peggiorare la situazione.
Hélène a quel punto provò un nuovo scatto nel ventre; prese a tremare sulle cosce, e si assestò meglio con la pancia riversa sul tavolo, inarcandosi ed afferrando i due braccioli in modo da essere meglio distesa. Non capiva come mai invece di provare angoscia o timore, al contrario in quel momento ella sentisse le vene vibrarle e la pelle respirare intensamente su entrambi i fianchi rigonfi; era nuovamente quell’assurda voluttà, incomprensibile ed inesorabile, che inopinatamente la travolgeva. La ragazzotta belga prese a piangere sommessamente, si vergognava di sé stessa al punto tale che, se solamente ella avesse potuto, sarebbe sparita immediatamente da lì.
Ma invece era piegata contro la scrivania, con la gonna alzata e le calze e le mutandine di raso abbassate, esibendo il suo didietro gonfio e deforme dinanzi agli occhi sgranati e increduli del suo anziano datore di lavoro.
Quegli riprese a battersi la paletta sul palmo della mano sinistra, e fu a quel punto che Hélène iniziò ad avvertire un prolungato brivido su tutta quanta la schiena: era la stessa, inconfessabile sensazione del suo primo, lontano orgasmo, mai più sperimentata sin da allora. Si piegò allora ancor di più, e strinse i braccioli della sedia più forte che ella poteva. Il signor Mariano nel frattempo era diventato incredibilmente duro dentro ai suoi pantaloni.
Le disse: “Hai un culo di cui dovresti vergognarti … ma cosa ci trovava quel delinquente a sbatterti così come faceva?”.
Hélène in quell’istante avvertì un sentimento ancor peggiore, d’annullamento e di prostrazione; afferrò allora sempre più forte i due braccioli, e premendo con la pancia contro il duro legno della scrivania, iniziò inopinatamente a desiderare che l’uomo in piedi alle sue spalle, la battesse con la paletta.
Ma quello proprio non ne voleva sapere, continuava a girare avanti e indietro per l’angusto spazio dello studio, con il pene duro come un bastone dentro ai pantaloni, e l’arnese da cucina stretto nella mano destra; Hélène respirava a fatica, con la pelle molle e pallida dei glutei e le cosce che le tremavano vistosamente.
L’uomo avrebbe voluto estrarre il pene, e provare a possederla; ma sapeva che con ottima probabilità si sarebbe subito afflosciato, ed allora preferiva insistere in quel ridicolo gioco, tenendo in questa maniera alta la sua passione, assurdamente eretto come egli era. Impose alla ragazza, piegata sulla scrivania, di dire qualcosa per discolparsi, e quella allora balbettò come un automa, con la sua solita voce flebile ed anonima: “Le chiedo davvero perdono … non lo farò più…”.
In quell’istante il signor Mariano sentì tutto crollare, ed iniziò ad eiaculare nelle sue stesse mutande, in maniera ridicola e vergognosa; provò a trattenersi con la forza dei nervi, ma poi si arrese quasi subito, al punto che ben presto i suoi pantaloni furono ricoperti da una squallida chiazza di bagnato su tutto il davanti, umida e puzzolente. Fu a quel punto che egli decise, che avrebbe punito la ragazza per davvero, e lo fece unicamente affinché col passare del tempo, quella ridicola chiazza si potesse lentamente asciugare.
Allora le poggiò la paletta sul didietro, senza colpirla; poi le disse con voce tutt’altro che gentile: “Non ti denuncerò stupida cameriera … ma adesso preparati perché le prendi per bene”.
La batté con forza inattesa, facendola immediatamente sussultare e sollevare sulle braccia; Hélène emise un urlo davvero contrito e penoso, davvero non immaginava che quello potesse farle così male: “… oooo … uuh”.
Già il sederone della poveretta accennava ad arrossarsi, al punto che il signor Mariano si dovette persino meravigliare, di quanto il suo primo colpo l’avesse segnata per bene; ma ci voleva ancora molto tempo, affinché la chiazza di bagnato che egli aveva sui pantaloni, si asciugasse del tutto; allargò quindi nuovamente il braccio, e la batté con rabbia e violenza una volta ancora, facendole rimbalzare i glutei come una povera palla di gomma. Hélène reclinò nuovamente il capo in avanti, e prese a sospirare come una bambina.
Il suo padrone ricominciò a bagnarsi dentro le mutande, non capiva davvero che cosa gli stesse accadendo, mentre il gigantesco popò che si stagliava dinanzi alla sua vista, tremava vistosamente, nella penombra leggermente triste della stanza; la colpì una volta ancora, sentendola vibrare come un animale, causandole un dolore davvero immane.
In quel momento Hélène iniziò ad avvertire un brivido assurdo, lungo i fianchi ed in mezzo alla tenera bocca della vagina, leggermente schiusa: era il principio dell’orgasmo oramai in arrivo, il più umiliante di tutti, e non sapeva proprio cosa mai avrebbe potuto fare, per evitarlo; la quarta scudisciata la colpì mentre provava invano a rassettarsi con gli avambracci, costringendola a coricarsi per intero sul davanti, senza alcuna difesa.
Man mano che il castigo andava avanti, la ragazzotta belga sentiva il ventre ingrossarsi penosamente, ed il didietro esploderle. Non c’era davvero nulla che ella potesse fare, per evitare quella fine del tutto vergognosa.
Il signor Mariano riprese a tirare il suo sigaro, e vistosamente scosso da tutta quanta la scena, gettò la paletta di legno in terra, ordinando: “Per oggi basta così, ne hai avute abbastanza”; Hélène tacque, ferma immobile e piegata sul davanti, umiliata e derisa. Dopodiché l’uomo tirando nuovamente il suo sigaro, aggiunse con voce ferma e tracotante: “… ma non pensare che tutta la faccenda finisca semplicemente così… domenica prossima andiamo avanti, stessa ora … e puntuale!!! Ti abituerai a startene piegata su questa scrivania … stupidissima cameriera”.
Venticinquesimo episodio
Hélène attendeva l’autobus alla fermata con il viso rivolto in basso, non osava nemmeno guardare le macchine che le passavano davanti; si era rivestita e rassettata nel piccolo studio, seguita dallo sguardo accigliato e severo del proprio datore di lavoro; e solamente adesso, mentre aspettava in piedi in silenzio alla fermata, la ragazzotta belga realizzava fino in fondo ciò che le era appena accaduto: il signor Mariano gliele aveva date, l’aveva punita come si fa con le bambine, battendole il sedere con una dura paletta di legno, fino a farglielo diventare tutto rosso e gonfio.
E adesso Hélène se lo poteva sentire per bene, per quanto era gonfio, quel sederone tutto chiuso e impacchettato dentro alle sue ridicole e spesse calze contenitive. Era caldo quasi da scoppiare, e con ottima probabilità, era anche piuttosto pieno di macchie nere e di bozzi.
Era oramai da cinque anni che Hélène non le prendeva, ma per la prima volta nella sua vita, a punirla non era stato né un suo genitore, né un suo stretto e congiunto parente.
Per tale ragione, Hélène si sentiva adesso tremendamente confusa: non capiva fino a che punto avrebbe dovuto vergognarsi per quanto le era accaduto, era stata veramente umiliata come una stupida bambina, o se piuttosto avesse dovuto considerare quella punizione come un bene necessario, come un castigo dovuto e riparatore.
Quando infine salì sull’autobus che era tutto pieno e traballante, nemmeno ebbe l’ardire di sedersi, per quanto le faceva ancora male.
Giunse a casa che era mezzogiorno suonato, e vi ritrovò Chiara in cucina, che se ne stava seduta con la sua colazione; s’era alzata molto tardi, mentre Paula era uscita in giro per negozi, dalle parti della vicina via Nazionale.
Hélène ovviamente non disse né lasciò trasparire nulla della sua condizione; ma dopo alcuni istanti, fece finalmente rientro nella sua cameretta, e lì lentamente iniziò a sfilarsi di dosso le sue calze. Era terrorizzata da quello che avrebbe veduto, il suo aspetto, e trasalì quando finalmente volse le terga verso lo specchio del bagno, con la gonna leggermente sollevata e le mutandine abbassate; il signor Mariano l’aveva ridotta davvero molto male, e come Hélène temeva, alcune parti dei suoi glutei avevano assunto adesso un orribile colore violaceo, apparivano come tumefatte.
Iniziò a singhiozzare tristemente nella sua solitudine, ed a vergognarsi profondamente di sé stessa: era stata talmente stupida, da provare addirittura un inopinato senso di piacere, mentre veniva battuta; ma adesso, di fronte alla vista di quel culone così brutalmente gonfio e malridotto, provava un sentimento incredibile di pena e di afflizione.
L’unico modo per alleviare il bruciore era quello di lasciare le natiche libere, senza mutandine e senza calze indosso. Mise su pertanto il suo delicato slippino color carne, e si rimirò nuovamente dentro lo specchio, con infinita vergogna e totale disagio. Poi indossò le sue solite calze autoreggenti, come era del resto strettamente necessario; le erano infatti tornate alla mente le disposizioni datele dal proprio datore di lavoro, di tenere sempre le cosce nude sotto alla gonna, quando era impegnata dentro il locale.
Bastò ricordarlo e connettere così tutti quanti i suoi pensieri, per farla scivolare nell’angoscia più buia e profonda: quella punizione sarebbe infatti andata avanti. Il signor Mariano l’avrebbe controllata e tenuta costantemente sotto pressione, fino alle paventate nuove botte che già egli le aveva promesso, per la domenica successiva.
Si presentò al lavoro che ancora camminava a fatica, con le natiche martoriate coperte unicamente dal tessuto delicato della gonna, che ne leniva maggiormente il dolore ed il calore insopportabile; il proprietario quella sera era lì, ed era stranamente ed interamente concentrato su di lei. La signora Nadia, per parte sua dovette pensare, che quegli lo facesse unicamente per poterla sorvegliare dopo il pasticcio combinato la volta precedente; ma in realtà, la sua vera intenzione era quella di osservarla e di continuare ad umiliarla, ricordandole in questo modo la maniera forte in cui egli l’aveva punita la mattina stessa.
Hélène si muoveva a fatica tra i tavoli, con il sedere che continuava a brulicarle di caldo sotto alla gonna; e quando a metà serata si chiuse in bagno per fare la pipì, non poté risparmiarsi nuovamente la vista sgradevole, di quel didietro così gonfio e deforme, una vergogna indicibile.
In cucina era ritornato Ivan, il cuoco romeno maggiormente esperto; avrebbe ripreso a lavorare al posto di Adrian, la cui assenza si notava non poco. Come se non bastasse, tutte quante le cameriere adesso osservavano Hélène con non poco sospetto e con grandissimo disprezzo: immaginavano che lei fosse stata complice del furto compiuto la sera precedente, e si domandavano come mai fosse ancora lì al suo posto, a lavorare insieme con loro.
Quella sera, Hélène prese per la prima volta a desiderare fortemente, di lasciare Roma e l’Italia; disprezzata e derisa da tutti, senza un fidanzato che nemmeno la corteggiasse, e adesso per giunta punita e umiliata con il castigo.
Ritornò tristemente a casa nel buio sottoscala, con un senso di tale afflizione, che nemmeno si diede cura di scegliere il pigiama adatto, che non le provocasse nuovo dolore per i lividi che aveva sul didietro con la stoffa di lanetta spessa.
Passarono le sere successive a studiare Diritto Canonico insieme con Chiara, con pochissima concentrazione ed evidenti difficoltà; la biondina non faceva null’altro che parlarle di uomini, mentre Hélène continuava a provare un discreto dolore su tutto quanto il didietro: quei bruttissimi lividacci viola, non ne volevano proprio sapere di venire via.
Paula invece se ne stava sempre più tempo per conto suo, chiusa in un atteggiamento introverso e misterioso; s’era barricata dentro ad un suo mutismo strano e indecifrabile, del tutto inaspettato per una ragazza dal carattere allegro e solare come il suo.
Il mercoledì mattina i segni viola che Hélène aveva sul sedere, erano divenuti completamente neri; la ragazzotta belga poté così indossare nuovamente un casto paio di mutande normali. Ma non poté fare a meno di metter su, per una volta ancora, le proprie calze autoreggenti scure: temeva che il proprietario del locale potesse arrivare fino al punto di controllarla, così come aveva minacciato.
La signora Nadia era sempre estremamente rigorosa e severa nei suoi confronti, era evidente come la sopportasse a malapena, e come la disprezzasse in maniera irreparabile.
Nel frattempo, Hélène venne a sapere qualcosa in più sul conto di Adrian e del suo amico Jan: fu Gheorghe infatti a rivelarle che i due erano ancora a piede libero, dopo un giorno intero trascorso in questura; sarebbero stati sentiti dal giudice assieme al signor Mariano ed alla moglie Nadia, la mattina stessa dell’indomani. Il cuoco aggiunse con espressione mesta, di sentirsi davvero dispiaciuto per i suoi due connazionali, ma di temere che realmente essi avessero potuto architettare tutto quanto.
Un messaggio di Adrian raggiunse non senza sorpresa, il telefono di Hélène esattamente quella sera; era la prima volta in assoluto in cui quegli le scriveva, e lo fece in modo davvero irrispettoso ed inelegante: “Te la sei scampata solo perché l’hai data al proprietario … troia che non sei altro”.
La situazione si stava facendo insopportabile, e Hélène temeva sempre di più per sé stessa; finalmente all’indomani venne confermata dalla signora Nadia a tutte quante le cameriere del locale, la notizia dell’arresto del cuoco romeno e del suo compare. Hélène era innocente, nemmeno il giudice aveva trovato nulla di strano nel modo in cui ella aveva accompagnato uno dei due colpevoli, presso il bancone con la cassa; un nuovo messaggio scriteriato di Adrian, accusava invece Hélène di avere testimoniato il falso contro di lui, pur di incastrare lui e l’altro suo amico.
Era davvero troppo, e Hélène decise pertanto di aprirsi e di confidare ancora una volta, tutti quanti quei suoi problemi e tutte le sue vicende a Chiara, la mattina stessa del sabato. Lo fece ancora una volta mentre Paula era uscita, rivelando alla sua coinquilina bionda tutta quanta la torbida faccenda del furto, e le minacce ricevute; omettendo però chiaramente, il triste epilogo della domenica mattina e le botte prese.
E già l’indomani la scena si sarebbe ripetuta. Hélène non aveva mai smesso di pensarci, ed in ogni minuto che passava sentiva di nuovo montare la sua angoscia; quel piccolo ufficio, quella scrivania, la paletta di legno; tutto era così nitido e minaccioso, al punto che mentre si apprestava ad andare al lavoro il sabato sera, Hélène prese a rimuginare e a temere, per ciò che le sarebbe accaduto la mattina dopo.
Il signor Mariano non c’era, e per tutto quanto il tempo la ragazzotta belga fu scossa ed agitata: la mancanza di sue disposizioni per la mattina dell’indomani la lasciava in un profondo stato di incertezza. Avrebbe dovuto presentarsi puntuale alle dieci, così come lui le aveva precedentemente ordinato, o sarebbe stata dispensata da quella nuova umiliazione? Andava avanti e indietro tra i tavoli e la cucina, e ricordava con tristezza l’epilogo di tutta quanta la sua storia con Adrian, e poi il furto combinato solamente una settimana addietro.
Fu una serata di duro lavoro, con due lunghe tavolate nella sala centrale, e clienti molto rumorosi e volgari; del signor Mariano non vi era in giro alcuna traccia, come del resto accadeva sempre regolarmente ad ogni sabato. Hélène si mise così a letto in preda ad un’assurda confusione, su quanto avrebbe dovuto fare la mattina dell’indomani.
Puntò tuttavia la sua sveglia alle otto, non sapendo ancora bene come comportarsi; ma poi, subito dopo il risveglio, comprese fino in fondo quanto sarebbe stata sbagliata, la scelta di non presentarsi.
Il signor Mariano avrebbe potuto licenziarla, mentre invece nel possibile caso contrario, qualora ella si fosse presentata contro la sua stessa volontà, avrebbe sempre potuto dispensarla e rispedirla a casa senza alcun disturbo.
Indossò ancora una volta la gonna del lavoro, sapendo bene che un paio di pantaloni sarebbero stati inutili ed oltremodo scomodi, per tutto ciò che verosimilmente l’attendeva; la scelta delle calze autoreggenti, quelle più corte e leggere, fu quasi un bene necessario, mentre le mutandone bianche avrebbero probabilmente limitato di molto i suoi danni, qualora il suo datore di lavoro le avesse lasciate al loro posto.
E invece le mutandone le furono da subito abbassate, fino all’altezza delle ginocchia, prima ancora che Hélène potesse provare a controbattere. La ragazzotta si ritrovò già dopo pochi istanti completamente soggiogata, con la gonna nera rovesciata lungo la schiena, le sue calze autoreggenti scese sulle ginocchia, ed il culone interamente di fuori, esposto dinanzi allo sguardo duro e severo del signor Mariano.
Solamente a quel punto quegli prese a parlarle, camminando avanti e indietro alle sue spalle, ed osservando i due poveri glutei ancora neri e gonfi dopo il trattamento subito la volta precedente. Concluse con non poco dileggio: “… l’altra domenica t’ho dato un semplice antipasto, quest’oggi faremo sul serio, e mi spiace che te ne siano bastate così poche per ridurti tanto male, ma le cameriere stupide come te, non imparano se non in questa maniera …”.
Furono le premesse di un castigo durissimo, senza attenuanti; la paletta di legno fu rovesciata sul didietro di Hélène una ventina di volte, senza interruzioni e senza alcuna pietà; le urla sommesse e soffocate della ragazzotta belga, non parevano suscitare nel suo datore di lavoro, davvero alcuna compassione o alcun cedimento.
La ridusse assai peggio della volta precedente, gonfia come un sacco di patate e rossa come un peperone. Le ordinò di lasciare lì le sue mutande, e di incamminarsi verso casa con la sola gonna indosso e con le calze autoreggenti sopra le ginocchia, punita e umiliata in modo tale da doversi veramente vergognare per tutto il tempo.
Ventiseiesimo episodio
Chiara si presentò all’appuntamento in leggero ritardo, aveva passato molto tempo a scegliere sia il proprio trucco, che i propri vestiti. Non lo aveva mai fatto prima d’allora, di uscire insieme con due uomini; e così quella sera, per la prima volta nella sua vita, ella provava uno strano sentimento di vergogna misto a pudore.
Era stato Marco a dirle apertamente, di essere perfettamente a conoscenza d’ogni suo singolo tradimento, con Costanzo, e di non esserne per nulla ingelosito: la considerava infatti poco più che una semplice puttanella, da saziare e da soddisfare, e se n’era fatto tranquillamente una ragione, di come un solo uomo non le sarebbe mai potuto bastare.
Chiara quella sera si vergognava; e nonostante sotto il cappotto bianco e la minigonna rosso bordeaux indossasse unicamente un sottile paio di calze trasparenti, proprio mentre si recava all’appuntamento presso il locale, lo stesso laddove più di quattro mesi addietro Marco l’aveva toccata per la prima volta, ebbe quasi l’istinto di ritornare indietro.
Ma oramai s’approssimava all’ingresso lungo la strada, e Marco s’era accorto di lei, al punto che dall’interno del locale ancora vuoto e silenzioso egli s’era mosso per venirle incontro. Le diede un bacio di quelli appassionati, stringendole i fianchi lungo la cinta del suo cappotto bianco, e la condusse dentro tenendola per mano.
Le offrì un calice di raffinato Shiraz, lasciando subito intendere quale fosse il tenore di quella attesissima serata.
Costanzo era seduto di fronte a lei, mentre Marco era disposto di lato, e le teneva una mano stretta dentro la sua, adagiata direttamente sul grembo della ragazza.
Fu proprio l’amico a rompere gli indugi, rivelando apertamente a Chiara, quanto egli fosse intrigato dalla situazione che si era venuta a creare: “Avevamo tutti e due voglia di vederti questa sera … e allora abbiamo pensato di farlo assieme, invece che di litigare … in fondo siamo sempre stati dei buoni amici!”, e si mise a ridere in modo gentile.
Marco riprese il discorso, aggiungendo: “Ma non ti ci devi abituare affatto amore … io sono uno di ampie vedute, ma tu mi hai già messo troppe corna con Costanzo. E allora che corna siano, ma una volta sola, per bene, e senza vergogna!”. A quel punto egli alzò il calice per brindare, in modo pomposo e solenne; ed anche Costanzo fece altrettanto.
La biondina era evidentemente in imbarazzo; si era recata all’appuntamento con non poca curiosità, per quello stranissimo ménage à trois; ma adesso si rendeva conto di essere caduta veramente in basso, e soprattutto di venire trattata dai suoi due uomini unicamente come una piccola sgualdrina, senza alcun rispetto e senza nessun amore.
Avrebbe probabilmente voluto ritirarsi, ma era chiaramente troppo tardi per poterlo fare; trangugiò quindi il suo vino senza troppa convinzione, e già sentiva un brivido salirle lungo tutta la schiena.
La portarono fuori con Marco che la teneva per mano, e Costanzo che con altrettanta disinvoltura le carezzava i capelli; videro la fermata dell’autobus, con il quale avrebbero raggiunto la casa del primo dei due; ed in quel momento tutto quanto precipitò: Marco la strinse a sé per baciarla, era abbastanza alticcio e non si diede pena del suo amico, che alle spalle di lei, le teneva ambedue le mani sul retro della gonna, con il cappotto bianco leggermente sollevato; in quell’esatto momento Chiara sembrava veramente una povera stupida, e se ne rendeva perfettamente conto, al punto d’augurarsi vivamente che da nessuna delle macchine di passaggio lungo la strada, s’accorgessero di quanto quei due le stavano facendo.
Sull’autobus la situazione si calmò per un istante, con la biondina seduta accanto al suo ragazzo, e Costanzo in piedi nei pressi, in grande vena di scherzi e di battute; poi una volta giunti in viale Ventuno Aprile, i tre scesero ed attraversarono la strada buia, con Chiara nel mezzo tenuta per mano da entrambi.
In quello stesso frangente, Hélène studiava da sola in casa, e non riusciva proprio a venire a capo degli appunti lasciatile in consegna dalla sua coinquilina; se ne stava seduta sulla sedia del salone, dentro una morbida tuta grigia, con il sedere che le scoppiava tutto quanto all’interno, fresco ancora delle botte di due giorni addietro; era stata umiliata ancora una volta, e la sua condizione iniziava ora ad apparirle come un male necessario ed inevitabile: quel dolore che poteva sentire per bene, costante e persistente, era un duro pegno da pagare per mantenere il suo posto di lavoro.
Sfogliava avanti e indietro le pagine del quaderno scritte a mano, e provava a trascrivere qualcosa su un foglio bianco, in francese, nel tentativo di mandare a memoria alcuni semplici concetti; in quell’istante Paula guardava la televisione in cucina in assoluta solitudine, Costanzo proprio non ne voleva sapere di risponderle al telefono quella sera.
I due amici fecero il loro ingresso nell’appartamento del sesto piano, tenendo entrambi Chiara per una mano; Marco le aprì i bottoni del cappotto sul davanti e Costanzo glielo sfilò via lungo le spalle, gettandolo sul tappeto del salone.
In quel momento le furono entrambi addosso: Marco era di fronte a lei, e l’abbracciò mettendole una mano attorno alla vita e l’altra tutta aperta e stretta sul sedere; Costanzo da dietro le afferrò ambedue i seni con vigore, facendola sussultare; il primo le mise la lingua dentro la bocca, mentre il secondo la baciava da dietro con passione lungo tutto quanto il collo. La biondina poteva sentire quelle mani frugarla dappertutto.
Costanzo fu il primo a tirarle su la gonna, noncurante della mano di Marco che la stringeva; Chiara non indossava null’altro al disotto dei suoi collant, ed una striscia sottile di peluria color castano chiaro si stagliava dinanzi agli occhi ammirati del suo fidanzato; che in quel frangente, avendo la mano sinistra libera l’affondò direttamente tra le cosce di lei, facendola docilmente inarcare in avanti.
A quel punto Chiara si volse leggermente indietro con la testa, liberando le proprie labbra da quelle di lui, e ripreso un attimo il fiato sospirò: “… siete due maiali … lasciatemi”.
Marco interruppe quella lunga tortura, prendendole un braccio ed iniziando a trascinarla via con sé: Chiara fu così tutto ad un tratto liberata dall’assedio di quelle tastate insistenti e volgari, e seguì il suo ragazzo, piegata sempre in avanti e con la gonna sollevata; Costanzo si rassettò i pantaloni e prese a seguirli, aveva capito come Marco intendesse adesso passare ai fatti concreti.
La trascinò nei pressi d’un basso tavolino in legno, adornato da eleganti imbottiture in pelle, che si trovava dinanzi alla parete opposta, circondato da un divano dall’aspetto piuttosto antico ed austero. Quando fu lì vicino, Marco prese la sua ragazza per ambedue le mani, sollevandole con grazia come se intendesse invitarla a ballare, e fece in modo che ella poggiasse ambedue le ginocchia su quel tavolino basso e scomodo. La biondina lo lasciò fare, montando sopra quella specie di piedistallo, con la gonna sempre alzata per bene; Costanzo guardava la scena sorridendo ed attendendo il proprio turno, aveva compreso come Marco volesse prendere la sua ragazza per primo.
Quella nel frattempo si era accomodata con ambedue le ginocchia disposte sul tavolo, leggermente divaricate, e le mani aperte e gentilmente poggiate lungo l’imbottitura; Costanzo notò la peluria di colore quasi rossastro e la sottile fenditura tra le cosce sul didietro, sotto la trasparente e delicata velatura dei suoi collant. Scelse subito di liberarsi dei pantaloni e delle scarpe invernali, restando pertanto in un maglione scuro a pelle, con una mutanda grigia mostruosamente rigonfia sul davanti.
Marco guardò il suo amico per un istante, e si mise a ridere; mentre Chiara iniziava ad ansimare e a deglutire, girata di spalle, con tutti quanti i capelli biondi riversi sul lato del viso, e la nuca leggermente piegata in giù; era già pronta per venire abusata dai suoi due uomini.
Marco espresse un cenno d’intesa verso Costanzo, invitandolo a passare dall’altro lato del tavolino; poi, prima ancora di spogliarsi o di togliere le calze alla sua fidanzata, decise di tenerla ferma con ambedue le mani sulle spalle, lungo il suo soffice maglioncino di lanetta bianca. Costanzo le fu davanti, a pochi centimetri di distanza dal viso; solamente a quel punto Chiara ebbe una reazione istintiva di autentico rifiuto, e voltandosi verso il suo fidanzato sospirò: “…lasciami, sei un vero porco … lasciami…”.
Ma quegli, in preda ad un vero e proprio spirito sadico e perverso, le teneva ferme le spalle, e ridendo le disse: “Hai voluto la bicicletta … e adesso, pedala troia! datti da fare…”.
Chiara di fronte a quel comportamento davvero irrispettoso da parte del suo ragazzo, non reagì e decise di stare al gioco; ma non nascose un moto di rabbia e di disappunto, dal momento che non si aspettava affatto di venire trattata così.
Comprese tuttavia, come non avrebbe potuto fare null’altro che stare alle sue disposizioni, e così tutto all’improvviso ella decise di abbandonarsi, e di gestire la situazione come meglio poteva. Con la mano destra sfiorò allora la mutanda di Costanzo, sentendo che era già duro e tirato; gliela abbassò leggermente sul davanti, quanto bastava per veder rimbalzare fuori la sua lunga proboscide bianca, ancora piegata a metà lungo tutta la sua estensione.
Si chinò allora leggermente in giù, e guardandolo con quegli occhi solo apparentemente innocenti, schiuse le labbra lasciandosi invadere da quel nerbo ancora ripiegato in basso e rinchiuso su sé stesso; lo accolse con la gentilezza e la tenera inconsapevolezza di una bambina, come se fosse il rubinetto lungo e flessuoso di una fontanella nel parco.
Solamente a quel punto utilizzò la sua mano sinistra, per afferrarlo nel mezzo, sentendolo immediatamente pulsare e vibrare, come un oggetto di carne viva ricolmo di sangue bollente. Lo prese a succhiare con dolcezza, osservando gli occhi di lui dal basso, con infinite delicatezza e leggerezza, come se fosse stato un gioco.
Hélène aveva smesso di studiare, non riusciva veramente a concentrarsi, il dolore su tutto quanto il didietro era qualcosa di totalmente insopportabile; decise pertanto di indossare una camicetta da notte, con le mutandine sottili di sotto, non potendo metter su il suo consueto pigiama. Si risolse di chiamare sua madre, la quale come al solito le ricordò quanto fosse adirata, di saperla alloggiata in un appartamento assieme ad altre due ragazze, nonostante il suo genitore le avesse lasciato in eredità la retta pagata per il Convitto.
Nel frattempo, Marco s’era interamente spogliato, rimanendo con la sola canottiera bianca indosso, esibendo anch’egli un pene lungo come una spada, rigido e nerboruto. A quel punto questi prese di mira le calze di Chiara, senza chiederle alcun permesso; gliele sfilò giù un poco alla volta, lasciandogliele sospese a metà coscia, liberandola completamente. Venne fuori una vagina tremolante ed umida, che respirava nell’aria rarefatta della stanza, già bella pronta per venire affondata.
Marco appoggiò allora la testa del pene, dopo averlo massaggiato un paio di volte, sulla peluria morbida e delicata; Chiara strinse con ambedue le mani il membro di Costanzo, restando così in ginocchio sul tavolo, leggermente reclinata in avanti, con i seni che le penzolavano sotto il maglioncino di lanetta: non aveva indosso null’altro, ma nessuno dei due ragazzi s’era dato la pena di spogliarla.
Marco le mise la mano sinistra sopra la gonna, lungo tutta la schiena, e con la destra prese infine ad armeggiare il pene, in basso tra le cosce di lei; era duro come una trave di legno, e Chiara lo sentì nitidamente, umido e bagnato.
A quel punto le afferrò i fianchi, appoggiandole il membro tra le labbra schiuse e delicate della vagina; Chiara mollò per un attimo la presa di Costanzo, lasciandolo libero ed eretto, e si dispose con ambedue le mani aperte sul tavolo: poi chiuse gli occhi e aprì la bocca. Fu penetrata in un istante.
Riprese immediatamente a succhiare la proboscide disposta dinanzi a lei, seguendo il ritmo con cui veniva battuta da Marco. Si muoveva con tutto il corpo, e con le spalle, assecondando le fitte che le arrivavano ben dritte dentro alla testa: ed assai presto i tre presero a muoversi quasi allo stesso tempo, all’unisono.
Hélène provava intanto ad addormentarsi; erano solamente le dieci e mezza, e non c’era davvero alcun verso di chiudere occhio quella sera; sotto le lenzuola, nude e scoperte, le sue natiche bianche come il latte scoppiavano di calore, rigonfie di lividi nerastri e viola, ed orribilmente deturpate.
Marco insisteva sbattendo la sua ragazza con energia e vigore, senza riuscire però a trascinarla nel vortice dell’orgasmo; Chiara sembrava piuttosto concentrata sul membro vivo di Costanzo, che adesso era divenuto talmente eretto, da riempirla tutta quanta fino in fondo alla gola.
Ad un certo punto quest’ultimo avvertì lo sperma salirgli dal basso, fin dentro a tutto il muscolo rigonfio: decise pertanto che avrebbe voluto usarlo, e senza chiedere nemmeno il permesso al suo compare che era in piedi dall’altro lato, glielo estrasse repentinamente dalle labbra, e prendendola per ambedue le spalle fece cenno di volerla rigirare.
Marco comprese quali fossero le intenzioni del suo amico, e decise così d’assecondarlo, liberando il pene completamente fradicio dalla vagina della sua ragazza; Chiara compì a quel punto una giravolta sulle ginocchia, volgendo infine gli occhi al suo ragazzo, e le terga a Costanzo.
Costui le mise ambedue le mani sotto alla gonna, laddove la schiena terminava sopra il delicato rigonfiamento del bacino; senza spingere troppo, le appoggiò la dura proboscide in mezzo alle gambe, dal basso, facendogliela sentire per intero, e sfiorandole la peluria delicata e le sottili labbra morbide.
Chiara riconobbe subito quell’uccello, così lungo e ruvido, ed improvvisamente si schiuse in un bagnato invito a sprofondarla, colando giù dall’inguine alcune gocce di soffice umore bianco, che quegli poté notare benissimo.
La penetrò dal basso, vedendola innalzarsi leggermente con il busto. Chiara ristette subito, in preda ad un autentico attacco di voluttà; prese a muoversi in avanti e indietro, lasciando che Costanzo alle sue spalle rimanesse perfettamente fermo e immobile, con la sola mano appoggiata sotto alla sua gonna rigirata.
Hélène nel frattempo s’era addormentata, con la coperta riversa da un lato, e la pancia rivolta verso il lenzuolo; i suoi glutei arroventati potevano così respirare liberamente, esposti senza alcun riparo, verso il soffitto bianco.
Marco decise di sfilare via il maglioncino della sua ragazza, e subito vide i suoi seni torniti e bianchi rimbalzare di fuori, cadendo in basso. Glieli afferrò entrambi con le mani, stringendoli fino a torturarle i capezzoli; Chiara si fece più vicina inarcando leggermente la schiena verso l’alto, così che alle sue spalle Costanzo le cinse ambedue i fianchi, assumendo pertanto una postura leggermente reclinata.
La biondina a quel punto aumentò il ritmo, era praticamente tutta seduta sul membro di lui, mentre Marco di fronte le teneva stretti i capezzoli tra le dita, ed il pene infilato per bene nella bocca; aveva la gola invasa dalla sua passione, e presto prese a mugolare intensamente, al punto da poterne udire il lamento, mentre aumentava la velocità dei suoi colpi, in modo davvero ossessivo e quasi disperato.
Venne tutta assieme all’improvviso, arrestandosi sulla sua seduta, con Costanzo che a quel punto le mise ambedue le mani aperte sui glutei morbidi per frenarne l’impeto. Dovette estrarre il pene smisurato con grande prontezza, stava anch’egli impazzendo; e presolo per una mano come se fosse una pompa tutta rigonfia d’acqua, le inondò la schiena di sperma giallo e caldo, in grande quantità.
Fu un orgasmo lunghissimo quello dell’amico di Marco, piegato sulla schiena liscia e delicata della biondina; quest’ultima, una volta liberata da quell’oggetto che le aveva tenuto la vagina impegnata, riprese a soddisfare Marco con la bocca, con grandissima dedizione; il membro di Costanzo le penzolava adesso dietro il sedere scoperto, molle e bagnato.
Dopo solamente alcuni istanti, Marco le liberò i seni e le afferrò ambedue le orecchie, facendole inghiottire ancor più, se mai fosse stato possibile, il suo sesso oramai rigonfio e allo stremo. La trascinò a sé e prese a muoversi avanti e indietro sprofondandola nella bocca.
Poi esplose urlando, tenendo sempre la sua ragazza ferma per le orecchie, in modo che ella non potesse sfuggire dall’ingoiare tutto quanto il seme che egli aveva in corpo: erano stati tantissimi i giorni, che egli aveva trascorso in impaziente attesa.
Ventisettesimo episodio
Salì a piedi l’ultimo tratto di strada, sotto un sole cocente, nonostante fosse solamente il ventinove di marzo.
Aveva lasciato il sottoscala in una situazione di totale disordine, con Paula sotto il getto d’acqua scrosciante della doccia, e Chiara appena alzata, coi capelli arruffati ed un pigiama bianco ricamato a fiori.
Tutto intorno a lei la città s’andava lentamente risvegliando, coi timidi rumori delle poche serrande aperte nei negozi, e la solita puzza di smog delle macchine ferme davanti ai semafori. Avrebbe voluto parlare a cuore aperto con il signor Mariano, implorandolo di liberarla da quell’inutile ossessione, di risparmiarle il ripetersi di quell’assurdo rituale, che sarebbe andato in scena per la terza volta.
Ma qualcosa le lasciava intendere, come questi avesse invece iniziato a provare durante quei momenti d’intimità, un autentico rigurgito di sadica perversione, un sordido desiderio inconscio e latente; e nemmeno s’era resa conto, delle sue ripetute eiaculazioni incontinenti e involontarie. Si illudeva che sarebbe bastato un discorso ragionevole o una sommessa preghiera, per porre fine al suo strazio.
Così fece ancora una volta il suo ingresso nel locale, alle dieci meno un quarto, piegata goffamente sotto alla serranda abbassata; udì in quell’istante uno sportello aprirsi, il suo datore di lavoro lungo la strada la stava attendendo dentro alla sua macchina elegante; ne uscì in maniche di camicia, coi polsini rigirati attorno ai gomiti, indicandole in modo perentorio di infilarsi senza attendere oltre dentro il locale; poi le fu alle spalle, e senza troppo garbo la spinse in avanti.
Giunti dinanzi alla barra della sala nel mezzo, il signor Mariano scrutò Hélène dalla testa ai piedi, con fare rapido e inelegante; ed estraendo un sigaro ancora chiuso nel cellophane, dalla custodia nel taschino della sua giacca, le disse: “Questo qua è veramente un paese di merda … il tuo cuoco è libero di nuovo, dovremo affrontare un ricorso in appello, comincio a stancarmi di questa storia …”.
Poi riprese ancora: “Ma tu cosa puoi saperne … vieni di là”.
Hélène lo seguì nello studio con la testa bassa; poi senza attendere ulteriori suoi ordini, abbassò il capo ed appoggiò la pancia contro il duro legno della piccola scrivania; il suo datore di lavoro estrasse l’accendino ed iniziò a tirare il suo sigaro, senza aggiungere nulla.
La ragazzotta belga in quell’istante, fissava la sedia in pelle scura, ed il muro grigio liscio e piatto di fronte a lei: taceva pensierosa, sapendo che in un modo o nell’altro alla fine, il suo padrone l’avrebbe castigata in maniera esemplare, come tutte le volte precedenti. Ed invece, quel giorno il signor Mariano pareva provare un gusto speciale nell’attendere, nel farla soffrire tacendo. Aveva già l’uccello tremendamente eretto e gonfio sotto ai suoi pantaloni.
Si sedette sul lato della scrivania, osservandola lungo tutta la schiena; dopodiché, mentre continuava imperterrito a tirare il suo sigaro, le disse con tono sprezzante: “Vorrei che quel bastardo ti vedesse, come ti ho ridotta … sei una nullità, un sacco di patate meriterebbe più rispetto”, e rise in modo davvero orrendo. Dopodiché le infilò una mano disotto all’addome, iniziando lentamente a trascinarle su la gonna, senza alcuna fretta e senza precisa convinzione: venne fuori l’elastico scuro delle due calze autoreggenti, lunghe a malapena sopra il ginocchio.
Poi subito riprese: “… chissà se quel bastardo di cuoco vorrà rivederti; chissà che cosa ci trovava di speciale …”.
Hélène in quell’istante riprese a pensare ad Adrian, ed al grande timore per la sua possibile reazione, si aggiunse una vergogna profonda e viscerale; le venne quasi da piangere.
“Afferra la sedia, cameriera”, esclamò in quel momento il signor Mariano. Hélène ubbidì, ed istantaneamente fu rigida lungo tutta la schiena, allungandosi per aggrapparsi ai due braccioli disposti di fronte a lei.
Poi il suo datore di lavoro le mise una mano aperta sul didietro, sopra il tessuto morbido; l’afferrò come si afferra un pallone da spiaggia, e stringendola coi polpastrelli delle dita, tirò nuovamente il suo sigaro. A quel punto, senza attendere un solo istante, le ribaltò tutta la gonna lungo la schiena. Era stato lento e delicato nel sollevargliene un solo lembo, e adesso in un sol colpo la scoprì tutta quanta, rivelando la succinta mutandina nera cinturata di pizzo, che sul didietro non portava null’altro che un filo invisibile.
Si spostò in cucina per prelevare la solita paletta di legno, e già sentiva il pene premere in modo duro e violento dentro ai suoi pantaloni; fece rientro brandendo l’oggetto fermo nella sua mano destra, battendolo e schioccandolo in modo impietoso come sempre. Questa volta non era nemmeno necessario abbassarle gli slip, dal momento che i due glutei si stagliavano già perfettamente scoperti, pallidi e rovinati, dinanzi ai suoi occhi.
Hélène iniziò a mugolare, e non ebbe neanche l’ardire di provare a chiedere pietà; rivolse il capo al suo datore di lavoro, guardandolo negli occhi con non poca timidezza, sperando in un suo ultimo atto di clemenza. Ma quello era tutto concentrato sul muscolo che aveva dritto tra le gambe, non riusciva ad agire con alcuna lucidità, e continuava a battersi la paletta di legno contro il palmo della mano.
Gliela appoggiò un paio di volte, prima in direzione orizzontale, e poi anche in verticale, dall’alto in basso, lungo la linea invisibile del filino nero della sua mutandina; nonostante portasse ancora evidenti i segni delle percosse subite la volta precedente, era pur sempre un rotondo oggetto di color bianco pallido, umido e lattiginoso, quello che si stagliava dinanzi ai suoi occhi.
Le mise una mano sopra la gonna, all’altezza del fianco in cima, e poi allargò il braccio destro; strinse la paletta in modo più deciso, dopodiché finalmente la rovesciò tutta addosso alla ragazza. Il piccolo studio risuonò di un tonfo sordo e penoso, seguito immediatamente dall’urlo stridulo e disperato di Hélène. La batté subito una seconda volta ancora, e in questo caso il povero didietro schioccò come un pallone rigonfio, un dolore terribile.
Dopo una decina di colpi, il signor Mariano le abbassò anche le mutandine, per esporla meglio senza alcuna protezione.
La colpì nuovamente, e la ragazzotta belga piegò il capo in avanti, gemendo in modo evidente, triste e rassegnata. La batté ancora, non aveva davvero alcuna pietà per lei.
Hélène mollò i due braccioli della sedia di fronte, e poggiò il palmo delle mani sulla scrivania in legno, mugolando sempre, senza soluzione di continuità.
A quel punto il signor Mariano estrasse un piccolo oggetto dalla tasca dei pantaloni, un tappetto di gomma verde, acquistato dentro un Sexy Shop nei pressi di Piazza Vittorio.
Lo osservò per capire come andasse utilizzato, e poi fissò nuovamente il culone rosso e deforme tutto esposto dinanzi ai suoi occhi; le mutandine nere pendevano lungo le cosce di Hélène, tirate giù dall’inguine fin poco sopra le ginocchia.
Guardò il tappetto verde, e lo avvicinò ai glutei della poveretta, nel mezzo; poi finalmente comprese come andava adoperato, ed allora poggiando la paletta di legno sulla scrivania, si concentrò per intero su di lei, iniziando e tastarle i glutei con accortezza, per capire come fare per infilarglielo.
Aveva una sorta di base piatta e molle, di colore verde trasparente, rotonda e tracciata da una linea nel mezzo. Poi si sviluppava nella sua lunghezza, dapprima in una specie di collo sottile, sempre di gomma morbida, ed infine con una sorta di capocchia ovale più dura, dalla forma bombata, affusolata come una supposta.
Andava infilato direttamente nell’ano della malcapitata, e la linea nel mezzo alla base aveva una semplice e sciagurata funzione: quella d’evitare che la povera destinataria di quel dono, potesse decidere d’estrarlo e reinserirlo in un successivo momento, senza il permesso del suo padrone.
Lo appoggiò in mezzo alle natiche di Hélène, e quella ristette all’improvviso, sospirando; non aveva alcuna idea di cosa fosse quello strano oggetto di gomma, che il signor Mariano teneva stretto tra le dita; il culone le bruciava in maniera orrenda, e giammai la sciagurata cameriera avrebbe neppure immaginato, che il castigo si sarebbe adesso arricchito, di un nuovo, assurdo, ed umiliante oltraggio.
Non era semplicissimo, maneggiare quell’arnese, ed il signor Mariano dovette pertanto spostarsi di lato, sedendosi nuovamente sulla scrivania.
Le disse: “Questo aggeggio qui lo dovrai indossare per tutto il tempo… almeno fino a stasera … ed alla fine del turno verrai qui da me nello studio, e solamente io te lo toglierò”.
Poi riprese senza alcuna remora: “… e non pensare di togliertelo da sola e di rimettertelo … non puoi sapere in che verso io, ho intenzione di infilartelo”.
Ed in quel momento finalmente lo appoggiò in mezzo agli enormi glutei arroventati di lei; fece con la mano sinistra un gesto semplice e perentorio, dilatandola di lato; poi lo allontanò un istante, e con la stessa decisione con cui si infila una supposta nel sedere di un bambino, lo spinse in mezzo alle natiche della povera ragazza, la quale ululò miseramente come una cagna.
Le fu dentro per bene, un tappo rigido e severo di gomma, conficcato in mezzo all’ano; a quel punto con il dito indice della mano destra, egli decise di spingerlo ancor meglio lungo tutta la sua base, facendolo penetrare ancora più in profondità; Hélène sospirò in maniera sconsolata.
La fece rassettare e ricoprire: oltre al calore insopportabile lungo tutte le natiche tumefatte, vi era adesso questo oggetto di gomma duro e impietoso, conficcato dentro il sedere; uscì dallo studio camminando veramente a fatica, e quando fu lungo la strada, non poteva davvero credere alla sua condizione: aveva la sensazione che qualcuno le tenesse un dito costantemente infilato in mezzo ai glutei, e non c’era alcun verso di liberarsi.
Giunse a casa trovandola inaspettatamente, del tutto vuota; decise così di recarsi in bagno, e lì in preda al dolore più assurdo ed alla pena, poté contemplare quello che il suo datore di lavoro le aveva fatto: il sedere era completamente arrossato, con macchie sparse di colore nero dappertutto; ed in mezzo vi era questa specie di tappetto verde, piatto e gommoso, che le chiudeva l’ano non facendola respirare.
Si domandava come avrebbe fatto il signor Mariano, a liberarla la sera stessa, e questo accresceva ancor di più la sua angoscia; se solamente ella avesse provato, a mettersi un istante seduta, quella specie di naso di gomma si sarebbe infilato ulteriormente, irrigidendosi dentro la carne morbida e umida; doveva quindi starsene in piedi, e sarebbe stato estremamente imprudente provare a sfilarselo, non sapendo esattamente come fare ad inserirlo nuovamente nella stessa posizione.
Si preparò una minestrina di verdure, e la mangiò in silenzio nei pressi della cucina; fuori faceva molto caldo, e sotto il tessuto della gonna nera, Hélène poteva sentirselo per bene: il tappino le stava fermo, rigido e conficcato nel didietro, senza alcuna tregua e senza alcun sollievo.
Dopo un paio d’ore iniziò ad abituarsi, anche se di tanto in quanto avrebbe desiderato di venire nuovamente liberata, anche solo per un momento. Quando si appoggiò alla tazza per fare la pipì, dovette prestare massima attenzione, affinché quel fastidioso oggetto non le fuoriuscisse in modo accidentale dal didietro.
Si preparò in anticipo per recarsi al lavoro, con l’appartamento del sottoscala ancora vuoto e desolato; non prima d’essersi fatta un pianto dinanzi allo specchio del bagno, avvilita ed umiliata per quell’assurdo e persistente senso di oltraggio.
Alle cinque e mezza del pomeriggio era nuovamente lì, con le cosce che si strusciavano sotto alla gonna, ed il tappino di gomma che adesso era diventato leggermente più duro, e la faceva sentire tutto il tempo orribilmente intasata.
Questa volta il signor Mariano pareva godere in modo scellerato della situazione, e la fissava senza lasciarla un solo istante: pensava ripetutamente, a quel che la ragazza teneva conficcato nel didietro, e pregustava il momento, in cui quella poveretta l’avrebbe dovuto implorare di toglierlo.
Hélène prese a servire alcuni tavoli occupati da un gruppo di turisti, ed ebbe la netta sensazione, che tutti quanti si rendessero perfettamente conto, di quello che ella teneva infilato nel sedere; si trattava ovviamente di una sua pura e semplice suggestione, ma in quell’istante Hélène percepiva nitidamente uno strano sentimento, come se tutti quanti volessero osservarla e deriderla.
Iniziò a provare un inconfessabile desiderio, di sfiorarsi e di toccarsi, e man mano che il tempo passava, poteva sentire la peluria nera in mezzo alle cosce inumidirsi sempre di più; era l’attesa dell’epilogo, con la preannunciata estrazione del tappo di gomma da parte del signor Mariano.
Fu un gesto rapido e deciso: mentre la signora Nadia sparecchiava alcuni tavoli, quegli le fece un cenno fugace con le dita, di infilarsi dentro al suo studio; sbatté il palmo della mano sulla sua scrivania, indicando pertanto a Hélène di coricarsi in avanti. Quella non vedeva l’ora di venire liberata, e gli facilitò il compito sollevandosi direttamente la gonna ed abbassandosi le mutandine, prima ancora di piegarsi di fronte a lui.
Le tolse via il tappetto di gomma, che era oramai divenuto durissimo; era probabile, che coi liquidi sparsi in mezzo alle gambe, quel misero oggetto fosse divenuto maggiormente denso ed inflessibile, al punto da causarle anche un persistente dolore; fu gettato via dal signor Mariano nel secchio della immondizia: faceva abbastanza schifo anche semplicemente a tenerlo in mano.
Ventottesimo episodio
La preparazione per l’esame di Diritto Canonico andava avanti, tra mille distrazioni ed altrettante difficoltà. Chiara appariva meno concentrata del solito, e con una risoluzione abbastanza inattesa, quel lunedì sera, quando mancava una sola settimana alla fatidica data, ella fece intendere a Hélène di non essere più convinta di volerlo sostenere.
Fu un colpo durissimo per la studentessa belga. Provò ad insistere, implorando Chiara almeno di aiutarla per un’altra settimana ancora: ed alla fine quella, seppur controvoglia, con generosità l’assecondò; non avrebbe sostenuto il proprio esame, ma avrebbe provato ad aiutare Hélène fino all’ultimo.
Ma era sempre più evidente, come la sua coinquilina fosse completamente disinteressata, distratta ed assente; s’era comportata come una studentessa modello durante tutti i mesi passati, ma adesso sembrava solamente l’ombra di sé stessa. La follia del sesso l’aveva travolta, al punto da perdere di vista i motivi stessi per cui ella si trovava lì, a Roma, presso quella vecchia e prestigiosa Università.
Hélène rimase a casa la mattina di quel martedì, pensando oramai di dover studiare da sola per tutto il tempo; provava a concentrarsi e a respingere i pensieri più vergognosi ed umilianti: si impegnava moltissimo, e con tanta buona volontà provava a mandare a memoria tutto quanto.
L’indomani sera dovette recarsi nuovamente al locale, e per la prima volta iniziò a progettare di smettere di lavorare in quel posto; aveva dovuto rinunciare a gran parte del suo tempo libero per dedicarsi a quella mansione insulsa, venire maltrattata prima da un cuoco rozzo e ignorante, derisa da tutti, ed infine punita e picchiata dal suo datore di lavoro. Solamente per potersi permettere l’affitto, ed abitare con quelle due ragazze che le piacevano sempre di meno, oltre a pochi altri piaceri inutili e superficiali che ella s’era concessa. Non sarebbe stato forse molto meglio tornarsene al Convitto, pensava Hélène, mentre faceva ancora una volta il suo ingresso nel locale buio e semideserto.
Il contratto d’affitto dell’appartamento in via Baccina poteva essere concluso oppure rinnovato ogni sei mesi, e pertanto entro la fine d’aprile le tre ragazze avrebbero anche potuto decidere d’abbandonare quel posto. Ma vi era un aspetto che Hélène non poteva certamente trascurare: le sue coinquiline s’erano fatte carico della sua parte, per ben due mesi, e certamente sarebbe stato molto difficile, se non addirittura improbabile, chiedere loro d’abbandonare la casa alla semplice scadenza del primo semestre di contratto.
Decise pertanto di smettere di pensarci, ed entrò così in bagno per cambiarsi. Quando ne uscì, tutta stretta nei suoi soliti abiti da lavoro, incrociò il signor Mariano nel corridoio della cucina, e quegli le sorrise; era da diverso tempo che non lo faceva. Aveva iniziato a provare un’inspiegabile attrazione verso di lei, ma era unicamente la passione che egli provava nel maltrattarla, ed Hélène lo sapeva.
Ma tutte quelle pene non erano nulla, rispetto all’epilogo finale del successivo giovedì; Hélène non lo avrebbe mai più dimenticato, era del tutto ignara ed alla fine della serata, decise di cambiarsi indossando una semplice tuta bianca, con la giacca azzurra sotto il solito cappotto nero.
Ad attenderla fuori dal locale, lontani dalla vista, nei pressi della fermata dell’autobus, Adrian e il suo amico Jan se ne stavano fermi come due sentinelle.
La prelevarono di peso, uno tenendola ferma per un braccio e l’altro spingendola di forza dentro lo sportello dell’automobile; Hélène prese a gridare, ma presto la macchina filò via con la musica alzata a tutto il volume possibile, per far sì che nessuno la potesse udire.
E nessuno avrebbe saputo quel che le avrebbero combinato quella sera: a detta di Adrian, quello era il giusto castigo che la cameriera belga avrebbe dovuto subire, per averlo accusato ingiustamente dinanzi al suo datore di lavoro.
Fu costretta a fare un pompino all’amico del cuoco, una pratica davvero penosa dal momento che quegli era anche perfettamente impotente; Adrian invece l’abusò una volta ancora nel didietro, trovandola disponibile e consenziente, ma solamente a causa del timore che ella nutriva, di venire maltrattata e picchiata dai due uomini in caso di rifiuto.
A Liegi le ragazze più giovani venivano normalmente omaggiate, nel mese di aprile, dei cosiddetti doni della primavera: erano ghirlande, fiori profumati, e delicate collane di pietre colorate; il ricordo ritornò alla mente della povera ragazza, abbandonata alla fermata della stazione alle due di notte, con il delicato orifizio dell’ano ancora tutto dilatato e ricolmo di liquidi, la tenera bocca completamente oltraggiata, ed il sedere ancora dolorante. Era una fortuna che nel buio pesto dell’automobile, parcheggiata vicino alla discarica, il cuoco non si fosse nemmeno reso conto, di quanto quel povero sedere fosse ancora rigonfio di chiazze nere e deturpato da orribili bozzi.
Non avrebbe mai più rivisto il suo Adrian, dal momento che questi sarebbe stato condannato in appello a due anni di carcere, assieme al suo scellerato compare, solamente pochi giorni addietro; quegli sciagurati li avrebbero scontati solamente a metà, ma era quanto bastava a tenerli lontani da lei, per tutto il tempo necessario. Le lasciò con quel tristissimo epilogo, un ultimo ed amarissimo ricordo di sé.
Ventinovesimo episodio
La salita lungo via Merulana, all’ombra dei pochi alberi rimasti non ancora sfoltiti dagli addetti al mantenimento stradale, era davvero un autentico strazio, sapendo il triste destino che ancora una volta – per la quarta domenica di fila – Hélène si accingeva a dover scontare.
La settimana successiva sarebbe stata Pasqua, chissà se qualcosa sarebbe finalmente cambiato; ma intanto la ragazzotta belga saliva lungo la strada strisciando lentamente, senza alcuna fretta, in preda al solito sentimento.
A furia di prender botte, il sedere le era diventato come un grosso pacco di scorza dura, con due orrende placche di pelle annerite, sulla superficie dei glutei bianchi piuttosto corrugati, dalla cellulite e dal servizio ricevuto con la paletta.
Inoltre, sentiva la bocca dell’ano ancora intensamente dolorante; Adrian l’aveva sodomizzata in modo fiero e deciso, per diversi minuti, inginocchiato alle sue spalle sul sedile posteriore dell’automobile. Davanti allo sguardo impassibile di Jan, seduto sempre al posto di guida.
Hélène avanzava lungo la salita, tutta stretta nella sua gonna nera, contrita e triste, avrebbe voluto piangere.
Quella mattina aveva indossato nuovamente le sue calze più corte, nell’intento di non soffrire eccessivamente il caldo; e s’era preparata meccanicamente, mentre in casa le sue due coinquiline erano ancora alle prese con la colazione e con la doccia.
Con Paula, Hélène parlava oramai assai di rado; Chiara invece l’aveva aiutata con lo studio fino al pomeriggio di due giorni addietro, salvo poi lasciarle intendere di non poterle dedicare più alcun tempo durante il fine settimana.
E dopo poco più che ventiquattr’ore, alle undici di mattina dell’indomani, nell’aula ubicata al piano terra vicino alla sala della mensa, si sarebbe svolto l’esame che Hélène aveva tanto atteso e che adesso tanto temeva.
L’ultimo tratto di strada lo fece camminando sul lato sinistro, con un filo di vento che le scombinava leggermente i lunghi capelli lisci neri; aveva il viso bianco e delicato come sempre, forse un po’ meno gonfio e paffuto del solito. Piccoli occhietti scuri e vivaci, uno sguardo ingenuo e perduto, da bambina cresciuta malamente: tanti dettagli che quel giorno le conferivano un’aria vagamente diversa rispetto al solito.
Il signor Mariano la accolse sull’ingresso del locale prendendola per mano; non gliela stringeva dal giorno del loro primo incontro. Le disse: “Ho una sorpresa per te …”. Hélène avanzò dentro il salone illuminato solamente da alcuni faretti disposti lungo la parete, atterrita come sempre.
La fece sedere sul divanetto della sala centrale, e si volse verso la barra con tutti i calici del vino rovesciati; le disse: “… adesso chiudi bene gli occhi…”. Hélène obbedì, e dopo pochi istanti udì nell’aria chiusa e rarefatta di quel luogo, un sibilo vago e lontano; dopo qualche secondo divenne più netto e vicino. Il signor Mariano le ordinò di aprire gli occhi, e le mostrò la lunga bacchetta di legno duro che egli brandiva nella mano. La scosse una volta ancora, dall’alto in basso, con le movenze solenni d’un direttore d’orchestra.
Hélène ristette spaventata, irrigidendosi lungo tutta la spina dorsale, nella sua camicetta bianca d’ordinanza. Rimase immobile sul divano in posizione inarcata, così come s’era disposta nell’istante in cui aveva riaperto gli occhi.
Il signor Mariano scosse un paio di volte ancora, la dura bacchetta a pochi centimetri di distanza dal suo viso; e solamente in quel frangente, utilizzando l’attrezzo come se fosse la punta d’una lancia, le fece segno d’alzarsi e di entrare nel solito piccolo studio, la cui porta era ancora chiusa lì dinanzi.
Hélène allora si sollevò senza alcuna leggerezza, tenendosi ambedue le mani aperte sul volto, e muovendosi con postura sempre lievemente inarcata; a quel punto il suo padrone ebbe quasi l’istinto di colpirla sul didietro della gonna, mentre ella gli passava dinanzi. Poi si mosse alle sue spalle, con la bacchetta infilata sotto il braccio, potendo così estrarre dal taschino della camicia, un sigaro nuovo da scartare.
La porta dello studio era chiusa, e Hélène si arrestò di fronte ad essa, non sapendo esattamente cosa fare; non aveva ancora parlato da quando era entrata dentro il locale. Il signor Mariano le disse, senza alcuna cortesia: “La chiave si trova nel primo cassetto sotto alla credenza … io ti aspetto qui, rapida”.
Hélène provò per una volta ancora, l’insano istinto di scappare via da quel luogo, che sembrava sempre più simile ad un inferno. Ma non lo fece, e tornò indietro fino in fondo alla sala di mezzo, con la piccola chiave di ferro stretta nella mano. “Apri”, le ordinò il suo datore di lavoro, e così ella fece, trovando la solita scrivania di legno che l’attendeva, nella penombra della piccola stanza.
In quel momento, sentì la bacchetta di legno che le veniva imposta sul sedere, lungo il retro della gonna; il signor Mariano la stava testando, e voleva fargliela sentire in tutta la sua durezza e nel suo spessore.
Poi accese il suo sigaro, e prese a tirarlo e a tossire in maniera scomposta; infine dopo l’ennesimo colpo di tosse, le disse con tono fermo: “Se fossi stato più giovane di vent’anni … ci sarebbe stato quest’oggi un cazzo duro, al posto della bacchetta … ti dovrai contentare di questa, cameriera”.
Hélène prese a piangere disperatamente, con ambedue le mani aperte sugli occhi, e le unghie aggrappate alle sopracciglia; non poteva fare null’altro, di fronte a quelle parole così volgari e spregevoli: avrebbe voluto nascondersi.
Il signor Mariano riprese, tra una boccata di fumo e l’altra: “la paletta della cucina ti ha indurita, questo invece te lo farà a strisce …”, e si mise a ridere in modo orrendo.
Poi concluse, mentre sentiva il pene crescergli in modo informe e innaturale, fino quasi a fuoriuscirgli da un lato sotto alle mutande: “Avanti! … fammi vedere come sei messa oggi … su quella gonna”. E le diede un piccolo colpetto sul didietro di nuovo, per ribadire il concetto.
Hélène non s’era ancora piegata in avanti, e lo fece in modo spontaneo, nell’istante stesso in cui ella si sollevò la gonna, obbedendo all’ordine; il signor Mariano accese una lampada nel piccolo studio, e ne volse il braccio flessibile verso di lei, fino ad illuminare da un lato in modo trasversale e un po’ grottesco, il gigantesco popò della povera ragazza.
Si intravedevano due orribili macchie nere verticali, che le scendevano da sopra, fino alla metà esatta d’entrambi i glutei tumefatti. Il resto era tutto uno schifo di bozzi e di bucce d’arancia, una vista davvero impietosa. La mutandina color carne sembrava quasi un filo trasparente ed evanescente, illuminata di lato nella luce fioca dello studio.
Hélène continuava a piangere disperata, e non si diede pena di afferrare la sedia di fronte, come era solita fare tutte le volte; il signor Mariano glielo rammentò, puntando la bacchetta e colpendo ambedue i braccioli, prima quello sinistro e poi quello destro, in rapida sequenza.
Con una mossa decisa, le abbassò le mutandine, che a quanto pare lo disturbavano; gliele tirò giù senza liberarla in mezzo alle gambe, lasciandole il minuscolo filino rosa e l’elastico leggero entrambi discesi, che penzolavano di poco sotto alla cavalcatura della povera ragazza.
Poi le appoggiò nuovamente la dura bacchetta di legno, ed Hélène avvertì immediato, un forte ed intenso bruciore: era unicamente la spinta del legno contro le due grosse chiazze sul didietro, a causarle quella pena. Tremò al solo pensiero, di quello che l’avrebbe attesa di lì a poco.
Le disse, dopo l’ennesimo tiro di sigaro: “Te ne darò dieci, e poi metteremo il tappetto, è già pronto”. E si mise a ridere.
Poi aggiunse, con tono di voce sempre più sadico e fastidiosamente oltraggioso: “Ma devi contarle tesoro mio … semplicemente uno e poi grazie, dopodiché due … e poi avanti fino a dieci”.
Era la stessa triste umiliazione, cui era stata sottoposta durante la sua festa per i diciott’anni.
“Hai capito … stupida cameriera !?!”, urlò alle sue spalle l’uomo, appoggiandole nuovamente la bacchetta tutta quanta per intero, da sinistra a destra; al punto che in quell’istante il culone rigonfio della ragazza pareva tagliato in due, a metà, da una severa linea orizzontale scura.
Hélène mollò i due braccioli per un attimo, asciugandosi le lacrime e sospirando in modo desolato, dopodiché si piegò nuovamente con la pancia lungo tutta la scrivania, ed afferrò la sedia con tutta la forza di cui disponeva; il signor Mariano le sistemò meglio la gonna lungo la schiena.
Prese lo slancio, e la colpì, con un sibilo lungo e penoso; Hélène non resistette, e subito tirò in su la povera schiena, abbandonando i due braccioli. Emise un guaito acuto e intenso, e subito fu di nuovo con le mani poggiate sopra alla scrivania, e l’enorme sederone sollevato, che ancora oscillava scosso dalla bacchetta durissima.
“Non dici nulla ?!?...” la derise il suo padrone, carezzando la bacchetta e poi riprendendo subito: “Avanti! piegati di nuovo …”. Ma Hélène piangendo rispose: “… ma signore … fa tanto male”. Quegli allora le mise la mano lungo la schiena, con tutto il suo sigaro acceso tra le dita, e la spinse di forza ordinandole: “Giù! … pancino piatto”.
Hélène afferrò nuovamente i braccioli piangendo, poi chiuse gli occhi, e poté avvertire il sibilo nuovamente. Fu colpita ancora, stavolta leggermente più in basso, e fece uno sforzo enorme per non mollare la presa dei braccioli dinanzi a lei.
Il sederone dopo ogni scossa vibrava per qualche istante, alla luce fioca della lampadina, e sotto lo sguardo curioso e divertito del proprietario del locale; le appoggiò la bacchetta una terza volta ancora, mollandole due colpetti leggeri, per poi inarcare la schiena come un esperto giocatore di golf, allargare il braccio, ed infine scaricarle addosso la sferzata. Hélène ululò, e ancora una volta mollò la presa dei braccioli.
Il signor Mariano le si fece accanto, sul lato sinistro, avvicinandole la punta della bacchetta al viso; era davvero rude e minaccioso, come mai prima d’allora gli era capitato.
Disse digrignando i denti a Hélène: “Siamo ancora a zero stupida cameriera … non t’ho ancora sentito dire uno …”; Hélène comprese disperatamente, di avere trasgredito quei semplici ordini. Allora singhiozzò per liberarsi la gola dalle lacrime discesele in basso, ed assumendo nuovamente la posizione reclinata, chiuse gli occhi.
“Uuu…no …” ululò subito, appena fu colpita per la quarta volta, ed appoggiò il capo in avanti, con i capelli che immediatamente le si volsero da un lato.
“Non ho sentito … grazie “, ribatté il signor Mariano, e senza darle nemmeno il tempo di assestarsi, la colpì nuovamente in modo virulento, al punto che Hélène emise uno squittìo penoso, simile al verso di una scimmia.
“Ricominciamo daccapo … abbassati” le ordinò il suo datore di lavoro; Hélène per un istante si mise le mani lungo i glutei, e poté avvertire pienamente, come fossero divenuti entrambi caldi, rovinati e duri da fare spavento. La bacchetta le fu nuovamente poggiata sul didietro, sopra il dorso delle mani, al punto che ella dovette affrettarsi a toglierle di lì, per il concreto timore che venissero colpite anch’esse.
Si abbassò, il signor Mariano tirò per due volte il suo sigaro, mentre il pene era già eretto in modo deciso, al punto che se solamente Hélène si fosse voltata, lo avrebbe sicuramente intravisto, una leva inclinata di traverso sotto la stoffa di lanetta dei pantaloni.
“Giù … di nuovo”, le disse, mentre spingendole la schiena con la bacchetta, la costringeva ad abbassarsi lungo il tavolo.
A quel punto tutto si fece silenzioso, mentre il pallido sederone già interamente deturpato tremava indifeso dinanzi a lui; il proprietario del locale lo guardò, poi osservò il capo della ragazza piegato in avanti, ed infine aprì il braccio e la colpì con grande precisione e forza inaudita.
“Oo-oh uuuh… grazi oo…” mugolò Hélène; ed il signor Mariano venne immediatamente, eiaculando nei propri pantaloni in modo talmente abbondante, che parte dei liquidi gli discesero lungo le gambe fino a bagnargli i calzini giù in basso. Si eccitava davvero per quella miseria.
Se solamente Hélène lo avesse veduto, avrebbe sicuramente provato uno schifo indicibile; ed invece in quell’istante, la ragazzotta belga sentiva nuovamente montare un’assurda ossessione. Era incredibilmente, la stessa identica ed inconfessabile sensazione, provata due anni e mezzo addietro, al Camping de la Lesse. Il giorno del suo primo, vergognosissimo e rovinoso orgasmo.
Chiuse gli occhi e aprì la bocca, dopodiché fu colpita di nuovo, provando un dolore incredibile; ma senza battere ciglio rispose: “… duee signore … gra … grazie …”.
Un minuscolo rivolo di sangue iniziava a venirle fuori in cima, leggermente da un lato. Il signor Mariano, mentre sentiva i liquidi discendergli ancora lungo le gambe, lo notò, e decise quindi d’abbassare il taglio dei suoi fendenti, per non sollecitare ulteriormente quella piccolissima ferita.
Già il sedere di Hélène presentava diversi tagli orizzontali, lungo le due grosse macchie nere; era una vista sempre più imbarazzante e penosa. Il signor Mariano tirò il suo sigaro ed allargò nuovamente il braccio, dopodiché la colpì in basso, facendole schioccare ambedue le chiappe all’unisono. Hélène ululò: “oooo … ooh”, e poi “…aattro … grazie signore …”. “Ne vuoi ancora vero?” disse lui ridendo, senza rendersi conto che il tre era stato saltato.
“Sì signore, la prego ancora…”, ripeté la ragazzotta belga con tono di voce completamente anonimo. Il quinto colpo arrivò subito, facendola vibrare sulle gambe, e segnandola con un tratto leggermente trasversale, sovrapposto a tutte le striature che già la deturpavano. Un altro piccolo rivolo di sangue iniziava a formarsi sul lato sinistro, al termine d’una profonda fenditura orizzontale. Il signor Mariano lo notò di nuovo, e questa volta le mise finalmente la mano sul sedere.
Non l’aveva mai toccata prima d’allora, ed invece che limitarsi a sondare la profondità di quelle orribili striature, egli decise di tastarla, afferrandole la pelle dura e miseramente corrugata delle natiche, sentendo che erano tutte calde, bollenti, da cima a fondo.
Invece che impietosirsi, il proprietario del locale ebbe in quell’istante un attacco di autentico e puro sadismo; avrebbe voluto annientare la sua cameriera, ridurla in uno stato di nullità, vederla strisciare in terra come un oggetto inerte.
Le poggiò la bacchetta sul sedere una volta ancora, poi la allontanò per un attimo, e nuovamente gliela rovesciò addosso; quella urlò disperata: “eeee … cinquee …”, e poi: “grazieee signore …”, con le lacrime che le scendevano copiose; aveva contato il cinque per due volte senza volerlo.
La pancia di Hélène era sempre più gonfia, i fianchi le tremavano; ed il signor Mariano sapientemente aspettava, il suo piacere lui l’aveva già provato, e adesso poteva giocare con lei, anche fino al punto di lasciarla per interi minuti così, con il culone per aria, tristemente esposta nell’attesa.
Pensò di dargliene due di fila, ed allora arretrando solamente per un breve respiro, prese lo slancio e la colpì, udendo dapprima un sei, e poi senza nemmeno attendere il grazie, rovesciandole addosso una sferzata ancora più dura; alla quale Hélène rispose con un guaito davvero penoso, staccando le mani dai braccioli, e finalmente sussurrando: “se … eeette e…”; ed aggiungendo in ultimo: “… grazie padrone”.
Lo aveva chiamato in quel modo, e non più signore, come tutte le volte precedenti. Nella povera testa di Hélène, era oramai chiaro, quello che la eccitava al punto da condurla fino ad un nuovo e folle, rovinoso orgasmo; si sentiva dominata, umiliata e posseduta. E per quanto volesse negarlo in tutte le maniere possibili, il ventre le tremava al solo pensiero, di essere alla mercé di quell’uomo al tempo stesso potente e sadico, che l’avrebbe abusata e maltrattata fino alla fine.
Il signor Mariano riprese ad eiaculare, non ce la faceva più di vedere quel culo interamente segnato dai suoi colpi; era come una spugna molla che traspirava sudore, una palla di gomma bianca e nerastra sbattuta e rigonfia. Le mollò l’ottava scudisciata, e nemmeno si diede pena del fatto, che Hélène oramai annichilita nemmeno gli rispondesse.
Estrasse il tappino verde dalla tasca, con le mani che gli tremavano, e lo avvicinò al culo di Hélène, in mezzo alle natiche. La ragazzotta belga lo sentì nitidamente, quella punta gommosa e bombata che si faceva strada in mezzo alla carne spessa e sudata dei suoi glutei tutti rovinati.
Glieli dilatò con una mano, tirando sempre il suo sigaro fermo nella bocca; poi parlando a fatica avendolo sempre chiuso tra i denti, le domandò: “… lentamente … oppure tutto assieme ?!?...”.
Hélène comprese che glielo stava per infilare, ed allora abbassò il capo e chiuse gli occhi, senza rispondere; il suo padrone glielo infilò nel sedere in un solo colpo, spingendo quell’orrendo oggetto sul piccolo dorso di gomma, cosicché in un solo secondo le fu conficcato interamente, tutto quanto dentro l’ano. Poi lo spinse un poco ancora alla sua estremità, facendola mugolare in modo triste e sconsolato. Le era stato infilato nel culo per bene.
In quell’istante Hélène venne miseramente; in pochissimi attimi, dalla vagina timidamente schiusa le discese una colata di liquidi che il suo aguzzino non poté notare unicamente per via della luce fioca; ma non gli sfuggirono i gemiti di piacere della sciagurata ragazza, simili a momenti di spasimo: un susseguirsi di guaiti e di pianto, per alcuni istanti interminabili.
Il signor Mariano decise di abbandonarla per qualche minuto nello studio, per andarsi a ripulire in bagno: si era completamente infradiciato nelle mutande e sotto i pantaloni; appoggiò la bacchetta orizzontalmente lungo la schiena di Hélène, da sinistra a destra, e con tono di voce sempre più sadico e divertito, le disse: “Non dovrai farla cadere cameriera … io so bene come l’ho poggiata, per cui non provare a spostarti, se non vuoi che te ne dia altre dieci…”.
Hélène rimase ferma per un tempo lunghissimo, e per non far cadere in terra la bacchetta, dovette trattenersi con ambedue le mani aggrappate ai braccioli, e la pancia perfettamente allineata lungo il tavolo. Poteva sentire nitidamente il tappino, infilato tutto quanto dentro al sedere, e le striature orizzontali che la segnavano: avrebbe potuto quasi contarle una ad una, per quanto le facevano male.
In quel momento la ragazzotta belga aveva smesso completamente di piangere: aveva provato un nuovo ed assurdo orgasmo, nell’atto orrendo di venire umiliata e punita.
Non sapeva se si sarebbe dovuta sotterrare per la vergogna, o se piuttosto avrebbe dovuto accettare quella sua condizione, come un fatto ovvio e scontato: non era forse la piena conseguenza della sua stupidità, nonché il premio meritato per aver commesso una serie interminabile di sciagurati errori?
Quando la porta dello studio finalmente si riaprì, Hélène era ancora perfettamente immobile, con la bacchetta di legno in delicato equilibrio lungo la schiena; il signor Mariano la liberò, deridendola: “Brava cameriera … t’ho dovuto fare quel ridicolo culo a strisce … e sfondartelo pure con un tappo … ma finalmente hai imparato! … e per la prossima domenica sei dispensata, deciderò poi cosa fare di te…”.
“Mi vuole licenziare?!?” trasalì Hélène, mentre si rassettava le sue mutandine, provando a lenire con le mani il dolore insopportabile; i glutei le erano divenuti oramai, come due palloni insensibili, e lungo le due grosse placche dure che già l’affliggevano, poteva ora sentire in modo nitido, le fenditure orizzontali che la tagliavano su tutto quanto il didietro.
“Vedremo … poi vedremo”, rispose senza alcuna emozione il suo datore di lavoro; poi le fece cenno di uscire e di andarsene.
Nel pomeriggio Hélène si ritrovò nuovamente da sola in casa a studiare, con grandissima fatica; aveva anche dovuto accomodare un piccolo cuscino sopra alla sedia, non riuscendo a starsene seduta sul duro legno, nelle condizioni in cui si trovava.
Il tappino di gomma se ne stava sempre lì, infilato in modo durevole ed impietoso, nell’orifizio caldo della sventurata.
Le teneva compagnia, le ricordava costantemente di essere stata una stupida, ed in fondo di meritarselo; non bastava infatti il fatto di essere stata punita, in modo ripetuto, e di portare con sé il dolore duro e persistente di quelle botte, per tutto il tempo. Una spinta continua dentro l’ano, in maniera particolare quando se ne stava seduta, le dava la sensazione che quella punizione non fossa mai finita, e che continuasse ancora in quel preciso istante.
Alle cinque del pomeriggio uscì nuovamente, non si era nemmeno ripulita; dovette servire la saletta centrale, quella in cui il signor Mariano le aveva mostrato la bacchetta di legno quella mattina, e lo fece con rigore ed aspetto esteriore assai ordinato e compunto. Qualcosa in lei era cambiato.
Il tappino infilato nel sedere glielo ricordava di continuo, era come un promemoria: le ricordava di essere stata una vera stupida, ed il bruciore insopportabile sotto alla stoffa della gonna, col didietro segnato in verticale e in orizzontale dalle botte, ne era la diretta conferma.
Ma in quei momenti, Hélène poteva sentire finalmente, montare in sé una sorta di rinnovata obbedienza e di cieca disciplina; era come se avendo finalmente toccato il fondo dell’umiliazione e della vergogna, non avesse adesso null’altro da fare, che non di risalirne la china. Il signor Mariano la guardava sorridendo, e probabilmente non vedeva l’ora che arrivasse nuovamente il momento, di sfilare quel delizioso tappino.
Così quando fu l’una di notte, non volendola far soffrire ulteriormente, mentre la moglie andava controllando assieme a Cathy l’intero incasso della serata, quegli fece un cenno a Hélène, di infilarsi velocemente nel suo piccolo studio.
La ragazzotta belga obbedì senza fiatare; ma quando poi fu dentro, trattenendo a stento il respiro, gli disse: “Adesso te lo mostrerò, vedi … è ancora al suo posto …”. In quell’istante, volgendogli rapidamente le spalle, si sollevò la gonna con ambedue le mani, tirandosela su lungo i fianchi.
Dietro il filino quasi trasparente dello slippino color carne, si intravedeva benissimo, piegato in due sotto la spinta dei glutei neri e deteriorati, il fondo ovale dell’oggetto di gomma, conficcato per bene dentro l’ano della ragazza. Il resto della vista era orribilmente triste, e confermava lo stato di pena e di degrado in cui il proprietario del locale, aveva ridotto la sua povera cameriera: un culone gigantesco, con le sue placche nere lunghe e rigonfie, e diverse strisce orizzontali di morbida carne aperta, da un lato all’altro senza alcuna eccezione.
Quello provò nuovamente una vivace erezione, avrebbe voluto metterle le mani addosso; ma Hélène volgendosi repentinamente verso di lui, si tirò dolcemente giù la gonna, lasciandolo sorpreso e senza parole; gli disse sospirando: “Ti prego di non togliermelo … lo voglio tenere fino a domani”.
Trentesimo episodio
Chiara le diede un simpatico buffetto sul viso, e si separò da lei; erano le dieci e mezza del mattino, e l’aula in cui si sarebbe tenuto l’esame di Diritto Canonico, era ancora semivuota; Hélène si accomodò nella prima fila sulla destra, poggiando il fondoschiena lentamente sul duro legno per via del dolore insopportabile; poi quando fu appoggiata, sentì nitidamente il tappo di gomma, oramai duro e secco dopo quasi un’intera giornata di stretta asfissiante, infilarsi nuovamente tutto dentro in modo impietoso.
Osservava le altre ragazze sedute nella sala, e si domandava se ve ne fosse almeno un’altra tra le tante, altrettanto scellerata e stupida, da portarsi dietro un oggetto continuamente conficcato dentro il sedere come lei.
Finalmente, dopo una decina di minuti l’aula fu quasi interamente piena di studenti, e l’ingresso del professor Guberti fu accolto da tanti con un sospiro; per moltissimi di loro, si trattava della prima prova d’esame.
Hélène teneva una penna ed alcuni fogli bianchi disposti sulla superficie di legno chiaro, che attraversava l’intera prima fila da un lato ad un altro. Nonostante fosse solamente il sei d’aprile, faceva un caldo davvero inusuale quella mattina, e diversi studenti sventolavano i loro fogli bianchi come se fossero stati improbabili ventagli. Sotto un’elegante gonna beige, con sottili calze autoreggenti velate, Hélène avrebbe desiderato liberarsi l’orifizio oramai martoriato: il suo disagio stava diventando lentamente un tormento, con tutto il sudore e la fatica di starsene seduta sul duro legno.
Il professore iniziò a passare a tutti gli studenti, in ordine sparso, diversi temi da trattare in modo scritto per quella prova; e quello che giunse tra le mani di Hélène, dal titolo lungo almeno cinque righe, richiedeva di confrontare aspetti fondamentali della normativa attuale con i suoi relativi riferimenti storici.
Passarono almeno dieci minuti, prima che Hélène decidesse cosa scrivere come incipit, senza sapere nemmeno dove sarebbe andata a finire, con le sue conclusioni; non si sarebbe mai aspettata di dover confrontare diversi periodi storici, ed allora dedusse che sarebbe stato assai utile scarabocchiare su un foglio bianco, i principali termini concettuali su cui il confronto sarebbe stato articolato.
Tracciò allora, alcune linee orizzontali sul foglio, pensando di incasellare all’interno delle differenti sezioni, altrettanti spunti su cui avrebbe provato ad abbozzare la discussione; ma poi immediatamente si distolse, pensando che quelle linee equispaziate, vagamente tremolanti ed incerte, dovevano apparire esattamente eguali, a quelle che ancora poteva avvertire benissimo, tagliarle a fette il fondoschiena. Si distolse, ed avvertì anche una scossa di umido in mezzo alle cosce, sotto la stretta della sua mutandina di raso nero; in quell’istante anche il tappino di gomma le parve irrigidirsi, era come un richiamo all’ordine e alla disciplina.
A dispetto di tutto il tempo perso a suddividere il foglio, alcune buone idee l’erano venute alla mente, ed allora Hélène iniziò a scrivere tutto quanto di getto sull’altro foglio, pensando che alla fine il senso e la completezza del suo compito sarebbero in qualche modo, graziosamente emersi.
Passarono diversi minuti, e mentre Hélène si sistemava i capelli ed apriva una bottiglietta d’acqua minerale, si volse di lato e notò come in fondo alla seconda fila dall’altra parte, tutta fiera e compunta, sedesse Linda Prevet, l’inquilina del Convitto che aveva preso il posto di Chiara e che s’era finalmente presentata a lei da qualche settimana.
La studentessa di Grenoble stava scrivendo in modo rapido e deciso, e quella vista scatenò in Hélène un senso immane di rimorso e d’invidia; il tappino di gomma le ricordava di essere stata una stupida, e di avere commesso tantissimi errori fino al punto da meritarsi quella punizione.
E l’errore più grave in assoluto, quello che aveva dato origine a tutti i successivi disastri, era consistito proprio nel fatto di voler abbandonare il Convitto; Hélène fu scossa dalla tentazione di ritornarvi, avrebbe come minimo dovuto pagare l’affitto di tutto il mese d’aprile, e poi magari provare a risarcire le sue due coinquiline, con cui divideva l’appartamento nel sottoscala, dei primi due mesi di permanenza che le erano stati cortesemente abbonati.
Distratta da tutti questi pensieri, notò come metà del tempo a sua disposizione fosse già trascorso, senza che lei avesse potuto fare molto più che scrivere una semplice introduzione; entrò allora in uno stato d’agitazione, e prese a tagliare la sua lunga premessa, per entrare immediatamente nel vivo dell’argomento. Era come se il tempo andasse scivolando via, al punto che anche lo sforzo di scrivere le appariva in quel frangente, oltremodo faticoso.
Ebbe allora uno slancio di personalità del tutto inatteso: avrebbe dovuto fare una corsa folle per scrivere tutto, e sollevandosi solamente un poco sulla dura panca di legno, si poggiò nuovamente con tutto il suo peso, senza alcuna grazia o dolcezza, sentendo il tappo di gomma che le dilatava la carne dei glutei infilandosi pienamente fino al fondo dell’orifizio, causandole una nuova scossa di dolore.
Quella stretta nell’ano le diede finalmente la forza di cui necessitava, ed allora Hélène prese a scrivere di getto, senza particolare cura per i dettagli, arrivando presto a riempire la prima facciata del suo foglio bianco.
Scriveva, ed intanto con apparente noncuranza, saltuariamente ripeteva il movimento rimbalzando mollemente sulla panca, sentendo così l’oggetto di dura gomma che si faceva nuovamente strada in mezzo ai rivoli della carne sudata, e contrita dal pungolo costante. Guardava Linda Prevet da lontano, e di nuovo ripeteva il movimento, sbattendo con la gonna beige e con le natiche molli, contro la superficie rigida e severa di legno del sedile.
Dopo una decina di minuti, Hélène già sentiva la sua tenera vagina dilatarsi; bastarono solamente pochi istanti ed un paio di colpetti ancora, e fu travolta, provando un orgasmo davvero inopinato e insensato, nel bel mezzo dell’aula e nel corso di una prova d’esame universitario.
I liquidi si cosparsero sotto la morbida mutandina di raso, fuoriuscendone solamente in parte, fino a raggiungere l’interno della coscia tornita e rotondeggiante. Fu davvero la fine di quell’assurda situazione, ed immediatamente Hélène lo comprese: mancava solamente mezz’ora, e lei non era giunta nemmeno a metà, di quello che avrebbe pensato di poter scrivere, per cui andare avanti non sarebbe a quel punto servito assolutamente a nulla.
Attese per altri venti minuti scarabocchiando tristemente sul dorso del foglio, lo stesso che al principio ella aveva riempito per un’intera pagina, prima di arrendersi del tutto.
Non avrebbe desiderato affatto d’incrociare Linda Prevet, era ancora bagnata fradicia in mezzo alle cosce e sotto le mutandine; poi notò con non poco sollievo, il lento movimento di alcuni studenti che abbandonavano l’aula, senza consegnare il proprio scritto; con il professore rimasto tutto il tempo seduto alla propria cattedra, in posa ed atteggiamento perfettamente ieratici, che li andava scrutando con sguardo imperturbabile.
Allora Hélène infilò tutto quanto dentro alla propria borsetta, senza prestare alcuna attenzione al disordine delle cose al suo interno; e sollevandosi in piedi nella gonna beige tutta stretta attorno ai fianchi, uscì senza guardare nessuno, filando via sul lato destro, rapida e fugace come una ladra.
Giunta poi nell’androne, recuperò la sua giacchetta di pelle chiara color panna, e l’indossò con qualche sofferenza, sopra alla sua camicetta azzurra da impiegata.
Si ritrovò nel piazzale antistante l’Università, non lontana dal proprio luogo di lavoro; avrebbe dovuto attendere l’autobus per tornarsene a casa, ma un senso immane ed umiliante, di vera sconfitta, la prese all’improvviso; il tappetto di gomma conficcato nel didietro faceva il resto, ricordandole perennemente, di essere stata una povera stupida e di avere commesso tantissimi errori.
Si incamminò allora a piedi, avrebbe desiderato vivamente liberarsi da quell’oggetto che oramai era diventato duro e nodoso fino a causarle un vivo dolore, probabilmente anche a causa dei liquidi che le erano fuoriusciti da tutte le parti.
Avrebbe potuto infilarsi in qualsiasi bar lungo la strada, magari con la scusa di prendere un caffè, per poi chiedere di poter usufruire della toilette, e provare a fare da sola. Ma quel cosino le stava conficcato dentro talmente per bene, che non sarebbe stato affatto semplice estrarlo.
Prese a camminare lungo un piccolo vicolo sulla sinistra, nella direzione del Convitto, e lo fece per evitare di dover passare dalle parti del suo luogo di lavoro; all’ora di pranzo infatti il locale era già aperto, e non era improbabile poter incrociare qualcuno dei suoi colleghi, se solamente fosse transitata lì dinanzi.
Superato l’antico edificio di colore rosa del vecchio ospedale, Hélène decise di svoltare a sinistra lungo una viuzza in salita, mai percorsa prima d’allora; in quel momento il dolore lungo i glutei, oppressi per quasi due ore dal duro legno della panca, riemergeva ancor più severo e prepotente; proprio mentre il tappino di gomma sembrava apparentemente esser divenuto più sottile ed appuntito che mai: pareva avere assunto la forma sgradevole di un dito.
In quel momento il telefono squillò; era Chiara che la cercava per domandarle come fosse andata la prova d’esame, ma Hélène decise di non risponderle. Le sovvenne il pensiero di dover chiamare presto anche sua madre, e ancora una volta sentì la schiena irrigidirsi per la paura. Tutto ciò che la ragazzotta belga desiderava, era di liberarsi il didietro da quel tarlo fastidioso ed ingombrante: avrebbe anche voluto andarsene in bagno per i propri bisogni, una volta per tutte, non avendo potuto farlo la mattina stessa.
Discese allora alcune scalette, e con non poca sorpresa, Hélène si rese conto di trovarsi in un luogo a lei familiare, una via percorsa tante volte, durante le lunghe settimane d’ottobre trascorse al Convitto: era la stessa strada che ella aveva attraversato con le buste della spesa, in numerose altre circostanze, proveniente dal negozio di frutta e verdura che si trovava in una traversa successiva sulla destra.
Travolta dal dolore, a corto di idee su come fare per liberarsi, Hélène pensò che forse la persona di cui si sarebbe meno vergognata, era proprio quel giovane e fastidioso ragazzetto africano che lavorava in quel posto. Avrebbe mai potuto farlo, di farsi liberare il buchino da lui, mostrandogli ed esibendogli tutta quanta la sua vergogna e le umiliazioni che ella aveva ricevuto?
Hélène si mise le mani nei capelli, mentre anche la borsa che le penzolava da una spalla sul lato sinistro, pareva in quel momento esser divenuta più pesante d’una zavorra. Quel ragazzetto non avrebbe potuto davvero rivelarlo a nessuno, dal momento che egli non conosceva davvero nessuno: si sarebbe umiliata fino alla morte di fronte a lui, ma in fondo non era solo un semplice ed ignorante garzone di bottega?
Mentre svoltava nella strada del negozio di frutta e verdura, oramai decisa a farsi aiutare da Samir, Hélène sentiva le lacrime discenderle nuovamente sul viso; lo avrebbe fatto, di mostrarsi a quel semplice garzone, ma unicamente a condizione di imporre a sé stessa, che dall’indomani avrebbe cambiato vita, facendo finalmente tesoro di tutti i suoi errori.
Fece allora il suo ingresso dentro alla piccola bottega, non vi si era mai recata in quello strano orario, durante il passato mese d’ottobre. E lì l’accolse una donna piuttosto anziana, con le braccia nude ed i capelli raccolti in una specie di foulard bianco: nella sua lontana gioventù doveva esser stata con ottima probabilità, una corpulenta contadina.
Hélène fece finta di osservare le fragole di stagione, ma con la coda dell’occhio, ella fissava di soppiatto il retro del banchetto, cercando di intravedere Samir sul fondo buio del piccolo negozio; la signora anziana dovette notarla, ed allora con aria curiosa e senza alcun riserbo, le si rivolse dicendo: “… La signorina cerca qualcuno?”.
Hélène non trovò nulla di meglio che rispondere, mentre oramai sentiva quell’orribile tappo di gomma scoppiarle nel sedere, dicendo: “Buongiorno… vorrei prendere alcuni meloni … ma non c’è nessuno che possa accompagnarmi con le buste? ho un dolore terribile su tutta la schiena …”.
Allora la signora batté forte ambedue le mani, e chiamò a gran voce quel nome che Hélène tanto impazientemente attendeva: “Samir!!! …corri di qua, devi aiutare una persona a portare la spesa!”. Gli occhi neri e la cornea rigonfia di sangue del timido garzone emersero come dal nulla, sollevandosi dietro ad un mucchio di scatole di legno per la frutta accatastate; era possibile che il ragazzetto africano stesse dormendo in quel momento, visto l’orario ed il poco lavoro di quella caldissima giornata di primavera.
Spalancò gli occhi vivaci, tutt’insieme all’improvviso, ed aprendo la bocca in maniera un po’ esagerata, le disse quasi tremando: “Certo mademoiselle!”.
Hélène realizzò in quell’istante, di non volerlo, di non desiderare di sottoporsi a quell’immane vergogna; ma poi subito comprese, che tantomeno avrebbe voluto provare a risolvere la faccenda da sola; le faceva uno schifo tremendo, infilarsi una mano dentro al sedere.
Allora guardò Samir con quegli occhietti neri piccoli e inespressivi; gli disse con innocenza e candore, senza alcuna malizia: “… io... volevo chiederti una cortesia …”.
In quel momento la donna con il foulard in testa li fissava, ed attendeva solamente che, da un istante all’altro, la ragazzotta belga indicasse quanti e quali meloni desiderasse comperare.
Ma Hélène era sempre in piedi, imbarazzatissima, davanti al ragazzetto africano che la osservava dalla testa ai piedi. Preso poi un infinito coraggio, ella gli disse: “… li ho visti… di fuori…”, e fece cenno di voler essere seguita davanti all’ingresso del negozio lungo la strada. Samir le fu alle spalle, e subito prese a fissarle il didietro, gonfio più che mai, impacchettato tutto stretto sotto l’elegante gonna beige, che Hélène aveva indossato per l’occasione.
La ragazzotta belga si arrestò dinanzi ai meloni gialli esposti leggermente di lato, prendendo tempo fino quasi a rasentare un comportamento suscettibile di sospetto; la signora anziana che lavorava nel negozio si spostò infatti lentamente alla sua sinistra, provando a scorgerli dall’interno, ma riuscendo unicamente a vedere le spalle del giovane garzone, ed il suo braccio che gesticolava.
Hélène lo guardò nuovamente negli occhi, e provando a trattenere a stento le lacrime, gli disse in francese: “… ho un tappo di gomma infilato dentro il sedere da ieri mattina …”.
Allora Samir improvvisamente sgranò quegli occhi: non se lo sarebbe davvero mai aspettato, non gli era mai successo prima d’allora in vita sua, e nemmeno aveva compiuto diciott’anni, che una femmina si rivolgesse a lui con quei toni e parlando di quegli argomenti; come solamente un giovane africano sa fare, attivò le proprie energie ed i propri ormoni in modo esplosivo, e le sorrise. In quell’istante, già il pisello gli si era mosso sotto alle mutande, come una lunga anguilla intrappolata che ne provava rapida ad uscire.
Hélène aggiunse subito, per nulla meravigliata di quella sua reazione: “…aiutami ti prego…”, e quindi gli prese una mano, tremando come una foglia per la vergogna; quegli le rispose senza perdere un solo momento, ridendo: “…Dove?!?”; allorché Hélène, che nel frattempo stava letteralmente impazzendo per il dolore, fino al punto da non avvertire più scrupoli, osò dire: “Non avete un bagno qui?”.
Samir indicò sempre ridendo, l’interno della bottega, lasciando intendere come l’anziana donna che vi stava lavorando in quel frangente, non li avrebbe certamente lasciati entrare da soli nel bagno che si trovava lì sul retro. Allora la ragazzotta belga, non nascondendo una certa impazienza oltre alla volontà di porre fine a quell’incredibile strazio, gli disse tremando: “…dietro l’angolo … c’è un vicolo, ti prego aiutami …”.
Il ragazzo africano allora si guardò attorno, e non ci pensò un solo istante; con uno scatto si mosse prima ancora che Hélène vi s’incamminasse, al punto che dovette poi attenderla, per comprendere dove quella avesse in mente di nascondersi; la donna col foulard a quel punto si affacciò senza vederli, ma in quel momento, senza alcun sospetto, pensò che la ragazza belga avesse pagato direttamente al suo garzone, tutto quanto il dovuto: e magari anche una bella mancetta, senza bisogno di alcuna pesatura.
Era l’una e mezza passata, e all’ombra di un vicolo deserto, Hélène lentamente prese a sollevarsi l’elegante gonna beige, rivelando così le sue sottili e delicate calze autoreggenti; Samir allora le si avvicinò e l’afferrò per la vita, intendendo probabilmente farla rigirare. Ma Hélène lo respinse sussurrando: “Ma cosa fai? …sei matto ?!?”. Dopodiché si rassettò la gonna, arretrando di mezzo metro, e guardandolo negli occhi scuri e vivaci; poi gli disse: “… ho un tappo di gomma infilato nel sedere … riesci a togliermelo senza farti vedere? …ti darò cinque euro dopo, ma ti prego aiutami …”.
Allora Samir deridendola in modo davvero penoso, le rispose: “… te lo tolgo io mademoiselle… ma lei mi promette che la prossima volta posso rivederla?”.
Solamente quel dolore insopportabile poteva costringere Hélène a promettere un qualcosa, che per nessunissima ragione al mondo lei gli avrebbe concesso; osservò i due lati del vicolo, un uomo anziano stava avanzando col bastone nella mano ed un cane al guinzaglio; s’arrestò su due piedi, e fece cenno a Samir di tacere e di non fare nulla.
Una volta che quell’uomo fu passato, ripeté nuovamente la stessa sensuale mossetta di prima, e con ambedue le mani iniziò a tirarsi su la gonna, lasciandola sollevata unicamente all’altezza dell’inguine. Samir allora le si fece improvvisamente vicino, aveva il braccio che gli tremava; Hélène si volse, e senza alzare ulteriormente la gonna, provò a fatica a spostarsi le mutandine di lato, liberando la fenditura verticale che era ferma stretta in mezzo ai glutei. Quello invece di cercare di aiutarla a liberarsi, le impose subitaneamente tutto il palmo della mano destra, completamente aperto e caldo, sulla pelle delle natiche in parte scoperte; e come era inevitabile che accadesse, s’accorse subito che queste erano dure come una scorza d’arancia, e rovinate come una vecchia mela.
Tenendole la mano ferma sul didietro, quasi a volerlo proteggere dalla luce del sole, le disse balbettando: “madame… ma… ma l’hanno picchiata? perché …”. Hélène allora comprese di avere toccato veramente il fondo, e spostandosi con la mano sinistra le mutandine in modo più deciso, afferrò con la destra quella presa calda ed insistente; trascinandosela poi nel mezzo, fino a sentire le dita del ragazzetto africano che sfioravano scomposte, la piccola base di gomma del famigerato tappino.
In pochi secondi fu liberata, e non riuscì a trattenere un filo d’aria che le fuoriuscì dal didietro, senza per fortuna venire notata da lui. Lo ringraziò con un bacio sulla guancia, dimenticando i cinque euro che poco prima ella gli aveva promesso. Quegli si mise in tasca l’orrendo oggetto di gomma, pensando di conservarlo per annusarlo qualche volta quando ne avrebbe avuto il desiderio.
Samir dovette giustificarsi con l’anziana donna dalle fattezze di contadina, quando fece il suo rientro al negozio; ma non vi riuscì affatto, dal momento che subito fu punito da lei con uno sganassone, per avere perso il suo tempo appresso a quella gonnella senza guadagnare nemmeno un soldo.
Hélène invece si mosse verso la successiva fermata dell’autobus, finalmente liberata e stappata nel didietro, ma ridotta definitivamente come una miseria, annientata e spazzata via del tutto. Non avrebbe potuto in quel momento fare null’altro, che risalire la china, ripartendo da zero e dimenticando tutto il male e tutti gli errori che aveva fatto.
Trentunesimo episodio
Una serie ripetuta di tonfi, sordi e penosi, era tutto quello che gli ospiti della festa ricordavano; solamente in pochi si erano spinti fin dentro al salone, ad osservare ciò che stava accadendo in quegli istanti.
“Tuo padre ti ha fatto davvero … un culo così” le disse all’indomani Jeanne, senza davvero alcuna sensibilità.
Aveva comperato una bellissima gonna svolazzante di raso nero, sotto la quale indossò un paio di succinte mutandine bianche; faceva molto caldo e l’abbigliamento per la cerimonia doveva fare in modo che non soffrisse particolarmente il sudore durante il corso della giornata.
Trentaduesimo episodio
Il salotto è leggermente immerso nella penombra, mentre fuori divampano i primi caldi dell'estate. Per essere solamente un pomeriggio di giugno, la calura è già alquanto appiccicosa, ma grazie al cielo ogni tanto un rivolo di vento fresco attraversa la sottile fenditura della finestra aperta.
E adesso puoi rilassarti, signor Mariano; risalire al dispaccio è stato davvero faticoso oggi, e alla fine c'è stato anche questo fastidioso straordinario da sbrigare in casa.
Il salotto rettangolare ha un leggero ma persistente odore di muffa, per via dell'allagamento da guasto presente sul soffitto; e il mobilio anni Cinquanta lo rende anche un po' triste e dimesso.
Resisti alla tentazione di aprirti una lattina, al massimo puoi toglierti la camicia e restare in canottiera se vuoi; e soprattutto puoi sederti di nuovo: la vecchia sedia in legno non sarà comodissima, ma almeno non è calda come il divano in pelle accampato dinanzi al televisore.
Adesso puoi rilassarti, vecchio omone con i baffi alla Dalì; e perché no? anche aprirti un po' la cintura sul davanti. E visto che ci sei, anche sbottonarti i pantaloni eleganti di flanella.
Fallo per bene, per oggi te lo sei meritato, e non temere se a venire giù sono anche i tuoi boxer da pugile: il legno della sedia ti terrà fresco mentre accomodi il tuo largo fondoschiena tanto grezzo e inelegante, e anche un po' sudato; e quel pene così lungo e molle da tempo inoperoso, ti penzolerà tutto quanto appiccicoso in mezzo alle gambe.
Ora che ti sei un po' rilassato, guarda la parete bianca di fronte a te, a lato del mobiletto con il servizio di piatti in bella mostra: Hélène è lì, ce l'hai messa tu, di spalle con le mani aperte appiccicate al muro. È da venti minuti che piange ininterrottamente, singhiozzando e asciugandosi le lacrime tutta voltata dall’altro lato.
Eppure, stavolta la ragazzina l'ha combinata davvero grossa, e tu hai perso del tutto la tua pazienza; e adesso se ne sta in lacrime dinanzi al muro, con la sua canottierina gialla tutta stretta attillata sul davanti, il pantaloncino estivo e lo slippino sottile avvolti intorno alle ginocchia, ed il sederone tutto gonfio per le botte che le hai dato.
Hai deciso che la misura era colma, e gliele hai suonate per davvero. Quando parlare non serve più a niente, Hélène ascolta e comprende solamente il tonfo degli sculaccioni; e oggi pomeriggio gliele hai date davvero per bene, al punto che pensi che questa volta imparerà davvero a rigare dritto.
Il suo pianto incessante però inizia ad infastidirti, ma cosa puoi farle ancora, dopo averla ridotta in quel modo? Certamente lo rifaresti di nuovo senza alcuna remora.
Adesso però è tempo di rilassarsi: e la mano un po’ stanca scivola verso il pene penzolante, schiudendolo per un solo istante, fino ad emanare il suo odore alacre in mezzo all’aria completamente afosa della stanza.
Ti accorgi che è vivo, e che il sangue ha ricominciato a pulsare; fissalo per bene allora, il sederone tutto rigonfio di Hélène: sembra quasi un volto triste, ad osservarlo con attenzione; due profonde gote arrossate, ed una riga nel mezzo, lunga e silenziosa.
Lo muove un po’ lentamente, quasi volesse farlo respirare, dopo l’afflizione del castigo, mentre la schiena rimane leggermente reclinata su un lato, e le mani schiuse contro il muro.
Apri nuovamente con la mano, ed in quell’istante il tubo molle prende forma, acquisendo nerbo e sostanza. Diviene come un tronco diviso in due, e allora puoi afferrarlo nella sua metà inferiore.
È lì che il laccio della mano dà il meglio di sé: lo immagini come il nastro stretto intorno ad una salsiccia, oppure a un pacchetto chiuso bello annodato. Ti accorgi che la barriera è calata, e che il piacere ha inizio.
Il pianto della ragazzina è inesorabile, e continua sempre eguale. Vorresti ordinarle di smettere, ma poi comprendi che è a causa dei tuoi sculaccioni, che ella piange; non le dai alcuna attenzione, tanto lei non imparerà mai se non in questa maniera.
Lo riprendi meglio, è gonfio e turgido al punto giusto: apri e chiudi alla base, e oramai lo puoi ammirare, eretto come una colonna di marmo rosa. Reclini leggermente in basso la schiena, scivolando coi glutei sul davanti. Quanto sangue corre nelle vene, fino a dentro il sacchetto molle che penzola in basso, giù dalla sedia.
Il limite è superato, mentre la ragazzina continua a piangere; gli occhi tornano con insistenza a frugarla sul didietro, gonfio e deforme, con due enormi chiazze rosse; è probabile che le resteranno per diversi giorni, diventeranno prima viola e poi nere: due grossi lividi neri che l’accompagneranno fino alla prova costume, che la ragazzina non farà.
Le minuscole mutandine bianche restano sospese a metà delle sue ginocchia, né su e né giù: avvolte nell’unico punto in cui Hélène dovrà abituarsi ad indossarle d’ora in avanti. Il sederone occupa l’aria libera in mezzo al salotto di fronte ai tuoi occhi: l’hai veramente ridotta malissimo questa volta.
Ed il bastone è oramai gonfio all’inverosimile; più gonfio di quanto sia ragionevole immaginare quando è a riposo. Sembra che l’aria sotto la pellaccia dura e sudata lo riempia come il copertone di un’automobile. Non serve nemmeno più che tu lo muova, basta che tu lo trattenga saldo alla base, per sentire il sangue correre dal basso verso l’alto, in su e in giù, rassodandolo, rinforzandolo, come un pilastro di cemento armato.
È il momento di evitare grossi danni; ti levi di scatto dalla sedia, con la cinta che sbatacchia sul pavimento; solamente in quell’istante, Hélène volge i suoi occhi neri e mesti verso il basso, verso la fibbia pesante caduta in terra: per un istante teme per sé stessa, una nuova dose di percosse. Ma la tua mano destra ha già fatto per intero il suo dovere su di lei.
Lei non ha il coraggio di guardarti il pene, che è una mazza dritta e possente, mentre muovi rapido brancolando verso la cassettiera vicino al divano. Lì trovi una scatola, e dentro di essa tante bustine di plastica, che apri nervosamente.
È questione di istanti, ma tanto basta per allentare la presa del sangue attorno al suo budello; ti risiedi e devi ricominciare daccapo; ma stavolta la partita è facile, il liquido è già in circolo, e la ragazzina ti guarda proprio lì in mezzo: ha gli occhi inumiditi dal pianto ed è impaurita, impressionata dalla tua prepotenza.
Lo riprendi dal basso, agitandolo come l’asta vuota priva della bandiera. E proprio come un’asta si piega in su, e poi da un lato, mentre la stretta alla base lo dilata indefinitamente in alto, come i palloncini allungati dello stadio.
Ed è di nuovo trionfalmente eretto, ancora più dritto e monumentale che mai; il preservativo si srotola col suo odore di lattice inumidito, sporcandolo e disturbandolo, fino poco oltre la metà.
Guardi il popò di Hélène, l’ombra è scesa su di lei, ma le gote tristi e gonfie continuano a bruciare come il sole d’agosto. È di nuovo con lo sguardo riverso contro la parete, le mani schiuse, la schiena inarcata, e le caviglie leggermente divaricate. Questa volta le hai fatto davvero un culo così.
E allora stringi solo un po’ ancora, una rapida volta ancora verso l’alto, e giù alla base di nuovo, con il nerbo che finalmente si rivolge verso di te, ed è finita: tutto scorre rapidissimo come un fiume in piena, ed è un’onda di piacere interminabile, lunga come mai l’avevi provata prima, come l’applauso alla fine di un concerto grandioso. Guardi il preservativo, che è gonfio il doppio del suo contenuto, e poi volgi una volta ancora lo sguardo verso la parete, verso la ragazzina punita.
Solamente adesso, lei ti permetterà di affondare le mani nelle sue povere natiche completamente arroventate.
Hélène Pérez Houllier
Hélène ha oggi 31 anni; abita a Bruxelles nel quartiere Merode assieme ad un'amica, ed è felicemente fidanzata con un ragazzo africano di nome Samir; non si tratta del ragazzetto del negozio di frutta e verdura conosciuto a Roma, quello che ogni tanto le portava le buste con la spesa, anche se il nome è esattamente lo stesso. Non ha intenzione di sposarsi, né di avere figli per il momento. Continua di tanto in quanto a desiderare qualcosa di estremamente doloroso e proibito. E se ne vergogna molto.
Gli stivaloni neri senza le calze lunghe erano un’autentica stranezza; ma le davano quel tono da ragazza adulta e consapevole che lei tanto adorava sentirsi addosso.
Una camicetta bianca da collegiale e la gonna nera di lana completavano il tutto, facendo di lei una presenza garbata e silenziosa, nel grande giorno dei suoi diciotto anni.
Per l’occasione l’appartamento di Rue Courtois fu aperto nuovamente ai parenti e agli amici, ma la vera festa si sarebbe svolta altrove, in una discoteca del centro.
Aveva ricevuto un biglietto di auguri da parte del signor Eric, al quale ella aveva replicato per interposta persona, tramite la sorellina Bianca; quest’ultima incontrava regolarmente il vecchio patrigno di Hélène ogni quindici giorni, e riferì il sentito ringraziamento della figliastra.
Benoît invece aveva deciso di non andare alla festa, per non creare alcun tipo di difficoltà: le vacanze erano andate bene, ma non erano mancate alcune circostanze in cui Hélène era apparsa imbambolata e succube nei suoi confronti; le consegnò il suo apprezzatissimo regalo, un cospicuo assegno in denaro, e la vide incamminarsi insieme alle amiche verso il locale della festa, scortate dai vari fidanzati.
Sarebbe passato a riprenderla intorno alle undici di sera.
Il Club 84 era stato un bar di grande successo nel decennio passato, ma adesso veniva sempre più spesso utilizzato per pranzi e feste private; ad Hélène era stata riservata una piccola sala in un luogo defilato e silenzioso lontano dall’ingresso: oltre alle ragazze del liceo, erano state invitate anche le compagne dell’istituto delle suore, insieme ad un paio di vecchie amiche della scuola di canto. Jeanne s’era portata appresso il suo Patrick, mentre anche Claudia nella circostanza si era presentata assieme ad un nuovo accompagnatore, un ragazzo molto carino di cui Hélène non conobbe mai il nome.
L’Università era appena cominciata, ed Hélène passava adesso molto più tempo fuori di casa: doveva compiere molta più strada in tram rispetto ai tempi del liceo, per raggiungere la zona universitaria, e le lezioni spesso le occupavano l’intera giornata. Non nascondeva a sé stessa, il proprio totale disinteresse verso l’argomento della legge, ma nutriva sempre moltissimo entusiasmo rispetto alla prospettiva di andare a vivere in Italia.
Proprio per tale ragione, Hélène aveva persino smesso del tutto di pensare ai ragazzi; avrebbe sognato di innamorarsi proprio a Roma, durante quella che ai suoi occhi si prefigurava più come una vacanza che non come un prolungato soggiorno di studio; non guardava nessuno dei suoi nuovi compagni di università, consapevole che ben presto si sarebbe accasata in un luogo diverso, dove avrebbe trovato la sua dolce metà e sarebbe stata felice.
Il Club 84 si era nel frattempo riempito di estranei, ed alcune persone non invitate a tratti entravano ed uscivano dalla saletta riservata ad Hélène, incuriositi dal grande baccano e dall’aria di festa che si respirava lì dentro; tutte quante le ragazze quel pomeriggio si erano truccate ed acchittate al meglio e la cosa non passava di certo inosservata.
Jeanne era cresciuta ed era diventata una bionda bellissima, con i capelli lisci lunghi e la pelle dorata; il suo Patrick la baciava in continuazione suscitando l’invidia di molti. Anche Claudia nel suo piccolo era divenuta una bella ninfetta, e quella sera esibiva un vestitino corto ed attillato con tantissime paillettes: a prima vista chiunque avrebbe detto che fosse lei, la vera festeggiata, per via di quel vestito.
Hélène invece se ne stava quasi sempre seduta al tavolo, circondata dalle sue amiche più intime come Edina e Melinda, con le quali ella parlava dell’università e del nuovo ambiente in cui s’era inserita: tutte le vecchie compagne di Hélène s’erano iscritte a facoltà differenti dalla sua, per cui non v’erano mai troppe occasioni per incontrarsi. Nessuna di loro sembrava particolarmente attratta dalle nuove materie di studio, e questo fu motivo di consolazione per la ragazzotta, che ogni tanto rimpiangeva di avere abbandonato la sua grande passione per l’arte.
Provava a non pensare a quella specie di gioco perfido cui era stata sottoposta Nicole durante la propria festa di compleanno, ma ogni tanto osservava André di soppiatto, cercando di intuire che cosa quegli avesse nella testa: appariva decisamente distratto ed anche leggermente annoiato quella sera; era probabile che avesse precedentemente discusso a lungo con Sonia, dal momento che anche quest’ultima sembrava perennemente accigliata.
Fu piuttosto la stessa Nicole a crearle una pessima situazione d’imbarazzo, quando senza chiederle nemmeno il permesso, la fece invitare da uno sconosciuto a ballare.
Costui era in realtà un uomo di trent’anni che si era affacciato nella sala, chiedendo chi fosse la festeggiata; si chiamava Vincent ed era un tipo garbato dai lineamenti del viso eleganti ed un tantino anonimi. Nicole aveva evidentemente esagerato con lo champagne, e pensò bene non solamente di presentarlo ad Hélène, ma anche di costringerla a ballare con lui.
La ragazzotta si lasciò trascinare in mezzo alla sala, e tutte quante le amiche si disposero in cerchio intorno a lei; non soddisfatta, Nicole corse dall’altro lato del locale per chiedere al proprietario se avesse un disco di Ricky Martin: l’uomo che cingeva Hélène prese così a sospingerla tenendola per un fianco, facendola letteralmente arrossire, mentre tutte quante le ragazze ridevano ed ammiccavano tra di loro.
La cosa si concluse con una specie di baciamano e con la ragazzotta che ringraziava, rassettandosi leggermente la gonna che le si era scomposta; colui con cui aveva ballato fu avvicinato da André, il quale nell’assistere alla scena, aveva meditato su come impartire ad Hélène il suo tradizionale rituale previsto per tutte le diciottenni.
La festeggiata intravide i due che parlavano, e all’improvviso sentì il sangue raggelarsi dentro le vene, mentre l’uomo di nome Vincent faceva cenno di no con il viso; non voleva prestarsi a quello stupido gioco.
André sembrava insistere, e nel frattempo il suo interlocutore era stato raggiunto da un secondo uomo meno giovane di lui, un collega con il quale si trovava assieme: a costui vennero subito riferite le intenzioni bizzarre di André per animare il seguito della festa; anche Sonia si mosse incontro a loro, e ridendo di gusto si sbracciava rigirandosi diverse volte verso il centro della sala.
Fu proprio Sonia a farsi strada in mezzo a tutto il drappello degli invitati, mentre la musica di Ricky Martin andava avanti e qualcuno ancora non aveva smesso di ballare; Hélène ristette immediatamente, un istante prima di sentirsi dire nell’orecchio, che era arrivato il suo turno, di sottostare al rituale delle diciottenni. Doveva per forza stare al gioco.
Implorò Sonia, dicendole di no in modo accorato, e pregandola di non insistere; l’amica invece di comprenderla, la derise prendendola simpaticamente per l’orecchio, e le rispose amorevolmente: “Ma è solo un gioco! …non devi pensare che faccia sul serio, è solo un gioco”.
Poco importava, che lei le botte le avesse prese per davvero, e che Sonia fosse stata tra le prime a rendersene conto durante la sua festa per i quattordici anni; adesso era proprio la sua amica a trascinarla in quel baratro di vergogna e di imbarazzo, qualcosa che per nessuna ragione al mondo lei avrebbe voluto provare di nuovo.
Sperò per un istante, che tutto quanto potesse finire lì senza alcuna conseguenza; in fondo diverse amiche stavano ancora ballando, ed il volume della musica era piuttosto alto. Sonia era tornata verso l’ingresso della sala, ed Hélène fingeva adesso di non guardarla. Poi apparentemente quella sparì, così come Vincent con il suo amico, lasciando André da solo con il suo bicchiere di champagne in mano.
Di punto in bianco all’improvviso, nel bel mezzo di una canzone piuttosto scatenata che era assai di moda in quel periodo, il volume della musica si abbassò: Hélène trasalì.
Una sontuosa torta a due piani, di panna montata e delicatissimo cioccolato finemente decorato, fece il suo ingresso nella sala. Il Saint Honoré con le diciotto candeline di Rue Courtois era stato nient’altro che un semplice dessert per brindare coi parenti più anziani; la signora Dominique aveva raggiunto il locale della festa insieme alla sorellina Bianca, facendo così un’inaspettata e graditissima sorpresa ad Hélène: lo stupido gioco voluto da Sonia e da André non si sarebbe mai potuto svolgere in loro presenza.
Trascorse un’altra ora in cui tutti quanti bevevano e parlavano ad alta voce, scattando fotografie con la festeggiata e continuando a divertirsi; la signora Dominique parlottava con alcune tra le più assidue amiche della figlia, e sembrava vivamente soddisfatta del modo in cui la festa andava svolgendosi; la sorellina Bianca se ne stava defilata.
Ma ad un certo punto la madre fece cenno di doversene andare, Bianca si stava annoiando da morire e doveva ancora finire di fare i compiti; Hélène provò in tutte le maniere a fermarla, causando non poco stupore nella donna, la quale tutto si sarebbe aspettata, tranne che sua figlia insistesse affinché ella si trattenesse. Ma quella le diede un tenero bacio e l’abbracciò stringendola a sé, per qualche istante, prima di mollarle un bonario scapaccione, salutandola.
Dopo pochi minuti, le luci della sala vennero accese a giorno, e la ragazzotta vide nuovamente Vincent che insieme ad André spostava trascinandola un’elegante poltrona rossa, prelevata da qualche altra sala accanto; che cosa mai pretendeva quello sconosciuto da lei, dopo che ella gli aveva concesso controvoglia un ballo assieme? L’amico più anziano li seguiva: i due si erano praticamente uniti alla festa, grazie alla scellerata iniziativa di André e di Sonia.
Avrebbe voluto mandarli via e litigare con la sua coppia di amici, ma certamente la cosa non sarebbe passata affatto inosservata; fece allora finta una volta ancora di ignorarli, sperando che qualcosa di nuovo potesse intervenire, a distogliere l’attenzione di tutti quanti; la solidale Edina andò a domandare se si potesse accendere nuovamente la musica, e fu subito accontentata, ma nessuno aveva più voglia di ballare, la stanchezza aveva iniziato a prevalere.
Sonia allora si avvicinò alla ragazzotta con passo lieve e felpato, ed in modo cortese le porse ambedue le mani, pregandola gentilmente di seguirla: Hélène si sentì il mondo crollare addosso, ma non trovò nulla di meglio da fare, che non sorridere verso il centro della sala, facendo finta di essere complice e di trovare quel gioco tutt’altro che increscioso ed imbarazzante.
Avanzava verso la poltrona disposta sulla parete in fondo, muovendo i fianchi molli in maniera piuttosto goffa ed incerta; era incredula per quanto era sul punto di fare: a breve si sarebbe disposta per ricevere nuovamente qualcosa di molto simile al castigo d’una piccola bambina; anche se si trattava di una punizione che tutti quanti avrebbero definito null’altro che uno stupido scherzo.
“Dai Sonia, dai per favore” provò a dire all’amica ridendo, mentre quella con aria divertita ed espressione leggiadra, guardando tutto il gruppo degli invitati, li chiamava a raccolta; le ginocchia nude di Hélène con tutti i suoi stivaloni neri, furono appoggiate sul tessuto rosso in stile vittoriano dell’enorme poltrona, mentre coloro che non erano stati presenti al compleanno di Nicole, domandavano stupiti, in che cosa consistesse quell’incomprensibile rituale.
André chiese a Vincent di togliersi la propria cintura: era stato lui a ballare con Hélène per ultimo, per cui toccava a lui iniziare il gioco; Sonia chiese alla festeggiata di mettere le mani sopra lo schienale.
In quel momento tutto quanto sprofondò. La ragazzotta ricordò perfettamente di essere stata disposta allo stesso modo: era accaduto più di tre anni addietro, con le ginocchia su una poltrona simile, rivolta verso lo schienale, e per ben due volte; aveva ripreso Pascal e Jeanne con la telecamera, e si era sentita umiliata e abusata provando sensazioni inopinate di assoluta vergogna e d’inconfessabile piacere.
Adesso Jeanne era lì insieme a Patrick, e la sbirciava ridendo in modo irrispettoso: sicuramente ricordava molto bene quei momenti in cui la ragazzotta s’era prostrata a compiere tutto ciò che lei e Pascal le avevano ordinato; rideva di gusto, e parlando nell’orecchio di Patrick, raccontava tutto quanto, senza risparmiare a quest’ultimo neppure la vicenda del signor Eric e di quella festa finita in tragedia.
Le gambe nude le presero a tremare, e sotto la lunga gonna di lana nera un senso di caldo e di leggera oppressione iniziò ad impadronirsi di lei; avrebbe voluto nascondersi.
Ma era tempo che il gioco iniziasse; Sonia prese un bicchiere di champagne e disse ad alta voce: “Brindiamo alla nostra diciottenne, bon anniversaire mademoiselle”; tutti risposero ed Hélène volse il capo verso di loro, spostandosi leggermente i lunghi capelli neri che le erano scivolati sul viso.
Il primo ad avvicinarsi fu proprio Vincent, che rivolgendosi alla festeggiata dovette rendersi conto di quanto ella provasse in quegli istanti, un grandissimo disagio; sussurrò senza farsi sentire: “Le chiedo scusa signorina”, mentre teneva stretta la propria stessa cintura nella mano destra con la fibbia nascosta in mezzo al palmo. Si mise leggermente di lato, e mentre tutti quanti lo guardavano in modo curioso e leggermente sadico, mosse il braccio e rovesciò la cintura in modo blando, sul retro della gonna di lei. Hélène chiuse gli occhi e sentì un colpetto delicato sul didietro; li riaprì e pensò che era veramente null’altro che un gioco.
L’amico di Vincent afferrò la cintura rimanendo sempre sul lato sinistro della festeggiata, mentre quella se ne stava tutta reclinata in avanti sulla poltrona; prese dapprima confidenza con lo strumento: sferrò due colpi fermi, nel vuoto in mezzo alla sala, poi prese la rincorsa, ed un sibilo penoso annunciò che questa volta non si sarebbe trattato di uno scherzo. Lo schiocco sul didietro di Hélène fu netto e tutti quanti lo udirono, seguito da un piccolo urletto della malcapitata; molti risero di gusto, le aveva fatto un bel po’ di male.
Dietro di loro, era adesso arrivato il turno di Sonia; si fece passare la cintura, e sorridendo nuovamente a tutte quante le amiche disse ad alta voce: “…E con questa sono tre”. Hélène fu colpita nel mezzo, proprio laddove provava ancora un po’ di dolore. L’amica sorrise e le diede un bacio in quella posizione, allontanandosi poi con non poco orgoglio.
André lasciò che a prendere la cintura fosse adesso Nicole; quest’ultima conosceva Hélène fin da bambina, e prima ancora di colpirla pensò di abbracciarla e di carezzarla; la ragazzotta non trovò nulla di meglio che risponderle: “Quando finisce?”; sentiva molto caldo, e la schiena aveva preso delicatamente a tremarle.
Nicole fece un passetto di lato e poi sferrò un colpo morbido ma ben assestato: tutte le amiche risero nuovamente.
André era colui che aveva introdotto quel gioco, e adesso doveva dimostrare di essere più bravo degli altri con la cintura; fece cenno di volerla dapprima sciogliere muovendola avanti e indietro nel palmo della sua mano, poi mollò anche egli un paio di colpi a vuoto. Infine, si dispose nel punto migliore lasciando il didietro di Hélène per bene esposto allo sguardo di chi era nel mezzo alla sala; illuminata da alcuni faretti, si intravedeva la forma rotonda e sproporzionata dei glutei di lei, rivolta verso il pubblico.
Allargò il braccio e si udì nuovamente un sibilo: Hélène alzò la testa urlando, il colpo era stato assestato davvero bene, e le aveva fatto molto più male di quanto ella potesse temere.
Il prossimo era Patrick, ed era il sesto.
Avanzò ridendo, sembrava veramente fosse capitato lì per caso; Hélène nemmeno osava più guardare di lato, e vedere chi fosse il prossimo che l’avrebbe colpita. Ma iniziava ad avvertire un calore assurdo sotto alla gonna, e non era certamente dovuto alle poche cinghiate che ella aveva subito: era un bollore che le veniva interamente da dentro, e se ne vergognava al punto che avrebbe quasi preferito provare vero dolore, piuttosto che quell’assurdo senso di caldo.
Il compagno di Jeanne conosceva poco la festeggiata, ed allora non volle infierire; si limitò a rovesciarle la cintura sul didietro, ridendo e scusandosi in modo blando; la bionda ragazza di lui a quel punto venne avanti sistemandosi più volte i capelli, in un vestito bianco stretto ed elegante.
Poi afferrò la cintura, e carezzò Hélène lungo la schiena, poco sopra la gonna. Quest’ultima si rammentò di tutte quante le volte in cui quella l’aveva trattata come una stupida, e provò un senso indicibile di reticenza e di vergogna: a distanza di oltre tre anni, ella si sentiva nuovamente umiliata e derisa come allora.
Non contenta, Jeanne le regalò qualcosa di inopinato e totalmente irrispettoso: afferrandole per un istante il tessuto della gonna nera su ambedue i lati, la biondina fece finta di volerla sollevare; Hélène ululò e tutti quanti risero: si trattava ovviamente dell’ennesimo scherzo.
Ma tanto era bastato, per farla sentire nuovamente esposta e completamente umiliata; tacque e fu colpita, in modo fermo e deciso, mentre tutto intorno era sceso uno strano silenzio.
Un nuovo brindisi interruppe per un breve momento il supplizio della festeggiata, prima che tutto quanto riprendesse regolarmente secondo l’ordine prestabilito.
Bernardine della scuola di canto era una delle amiche più timide, e sembrava poco propensa a prestarsi a quel tipo di gioco; ma dal momento che la coda degli ospiti si andava lentamente dipanando di fronte a lei, ella si fece avanti ed afferrò la cintura, augurando alla festeggiata sommessamente ogni gioia e felicità; poi con fare per nulla disinvolto, le mollò un colpetto quasi del tutto impercettibile.
Dietro di lei, Charlène con suo marito David si mossero assieme; costui lasciò che fosse lei a battere Hélène per prima. Quella non nascose a sé stessa un certo sentimento di disagio, mentre impugnava lo stesso arnese con il quale il padre cattivo l’aveva disciplinata diverse volte da bambina. Chiuse gli occhi e senza pensarci oltre, fece la sua parte sferrando una cinghiata dura e precisa. Il marito fece altrettanto senza molto impegno, ed Hélène sollevò per un istante le spalle sistemandosi i capelli; erano arrivati a dieci.
Valérie era la più grassa di tutte le amiche di Hélène, e quella sera s’era vestita in una maniera esagerata ed anche un tantino buffa; non amava le feste e si vergognava profondamente di sé stessa: si mosse goffamente e ricevette la cintura senza apparentemente sapere come utilizzarla; nessuno si rese conto se colpì realmente Hélène o se si limitò a fingerlo, ma intanto Sonia era tornata vicino alla scena, e prendendo il comando delle operazioni, disse ad alta voce con soddisfazione: “Siamo ad undici, ne mancano ancora sette per la nostra diciottenne!”.
Il ragazzo di Claudia era davvero bello, e la festeggiata lo vide avanzare verso di lei, con la coda dell’occhio. Abbassò il capo una volta ancora, ed udì un lungo sibilo nel silenzio della sala; arrivò una scudisciata forte, del tutto inattesa. Hélène volse per un istante il capo vedendo che quegli rideva, e sentì in quel preciso istante il ventre tremarle.
“Sono dodici” esclamò Sonia, mentre la festeggiata piegata in avanti verso lo schienale della sedia, iniziava a sentire del sudore scenderle in mezzo alle cosce, sotto le strette mutandine bianche: la situazione si stava facendo davvero insopportabile per lei, anche se nessuno dei presenti poteva nemmeno lontanamente immaginarlo.
Claudia non era stata invitata al suo compleanno di quattro anni addietro, e quindi non poteva sapere nulla di quanto era accaduto. Così afferrò la cintura e si avvicinò ad Hélène sorridendo; dopodiché aprì il braccio e le mollò una sferzata assai forte e precisa in mezzo ai glutei: il riso degli invitati riempiva la sala mentre la ragazzotta sprofondava.
Venne avanti Melinda spinta alle spalle dal fidanzato della sua compagna Annette. Si trattava di una ragazza sempre molto attenta e scrupolosa, per cui ella decise di rispettare precisamente le regole del gioco: afferrò la cintura e si dispose di lato; poi si mise le mani sugli occhi per non guardare, ed infine colpì la sua vecchia vicina di banco, senza causarle apparentemente alcun dolore; ma intanto la schiena continuava a tremarle in modo penoso ed il sudore si faceva sempre più largo in mezzo alle cosce.
Sonia era tornata nei pressi di André, mentre Annette e il suo fidanzato si erano fatti avanti; Hélène udì nuovamente un sibilo ed uno schiocco deciso sul retro della gonna, seguiti da un intenso senso di caldo e da un discreto livore su entrambi i glutei nascosti di sotto.
Annette aveva tenuto il conto, e voltandosi mentre brandiva in mano la cintura, vide la sola Edina che era rimasta in piedi alle sue spalle; disse allora ridendo: “Se ho contato bene, siamo solamente in diciassette!”; nessuno le dedicò particolare attenzione, ed allora ella completò l’opera rovesciando la cintura senza particolare convinzione.
Non restava che Edina, l’amica più onesta di tutte, la quale aveva compreso quale fosse il sentimento di disagio di colei che se ne stava in quel momento piegata in avanti sulla poltrona; avrebbe voluto concludere quello stupido gioco senza farsi notare, ma venne nuovamente raggiunta da Sonia e da André, che con aria concitata desideravano parlare a tutti quanti i presenti. Allora ristette, ed attese che il marito della sua amica rivolgendosi verso il centro della sala, esclamasse: “Manca una persona, chi vuole darle l’ultima?”.
Nessuno si rese conto del fatto che Edina avesse a quel punto saltato il turno, e tutti si misero a ridere guardandosi intorno; Hélène volse allora il capo e vide nuovamente André fermo con la cintura nella mano destra. In quell’istante sentì la vagina schiudersi in modo inesorabile; aprì la bocca provando disperatamente a trattenersi.
Il marito di Sonia brandiva saldamente la cintura ed osservava la ragazzotta disposta sulla poltrona, come se intendesse prendere la mira per bene; Hélène era umida lì nel mezzo, ma provava sempre a non dare a vedere nulla ai presenti. Era giunta sull’orlo del precipizio.
Fu colpita con l’ultima scudisciata, sentendo i fianchi che le vibravano e la pelle scuotersi una volta ancora; chiuse la bocca e spalancò gli occhi provando a fare finta di niente con una fatica indicibile, mentre tremava come una foglia.
Venne raggiunta ed abbracciata da tutti quanti, in un’atmosfera di grande festa e di sfrenato divertimento; discese dalla poltrona senza rendersi conto di niente: aveva provato ancora una volta un inopinato piacere, sfiorando dolcemente il baratro della perversione e della vergogna.
Secondo episodio
Piazza San Cosimato in Trastevere, con le primissime foglie secche dell’autunno lungo tutto il lastricato, ricordava molto la Place du Grand Sablon nel centro di Bruxelles.
Hélène lo pensava, e intanto guardava il bicchiere di vino rosso mezzo vuoto poggiato sul tavolo avanti a sé.
Quella sera si festeggiavano i suoi diciannove anni, ed una nuova vita sembrava improvvisamente schiudersi davanti ai suoi occhi: Roma, la ville éternelle, e tantissime opportunità di incontri e di nuove emozionanti scoperte.
E già i due giovani camerieri che servivano nel ristorante, e che s’erano rivolti a lei chiamandola gentilmente mademoiselle, parevano osservarla in maniera oltremodo intrigante ed incuriosita; probabilmente andavano domandandosi se l’uomo seduto di fronte a lei, robusto e sportivo, fosse in realtà suo padre, o piuttosto un suo improbabile amico o compagno - del doppio della sua età.
In realtà Benoît non era nessuna delle due cose: s’era trasferito stabilmente in Rue Courtois da quasi un anno, per vivere con la madre di lei e con la sorellina Bianca.
Hélène si trovava bene con Benno – da qualche tempo lo chiamava così, in maniera completamente disinvolta e famigliare; ed era alla fin dei conti, la persona con cui si sentiva maggiormente a proprio agio, in mezzo all’ipocrisia di tutto il resto del suo piccolo ambiente.
Si era spinta perfino a parlare di sesso insieme con lui, durante le ultime settimane trascorse da soli in Italia; ma certamente si capiva benissimo come lui la considerasse ancora poco più che una bambina. Lei ci rimaneva male, ma in fondo finiva per suscitare nel compagno di sua madre, solamente un bel po’ di ilarità e di compassione.
Eppure, Benoît non lo poteva neppure immaginare, che il suo primo, inatteso orgasmo, la mademoiselle Hélène lo avesse sperimentato proprio in sua compagnia.
Ma non si era trattato affatto di un orgasmo normale, come molti altri; Hélène se ne vergognava assai e non glielo avrebbe rivelato per nessunissima ragione al mondo, ma era venuta in modo inopinato e sgraziato, un bel giorno di circa due anni addietro, mentre era con tutta quanta la famiglia in campeggio a trascorrere le vacanze estive.
Aveva combinato tutto quanto il pasticcio di testa propria: dapprima provando a farsi notare dall’uomo di sua madre, atteggiandosi in maniera goffa e ridicola come sempre; poi non contenta, ella s’era data anche parecchio da fare, pur di causare un qualsiasi tipo di reazione in lui: fino al punto di arrivare a rompere intenzionalmente la lenza della sua canna da pesca, per destare la sua attenzione.
Si era ritrovata così da sola chiusa in bagno; lì aveva immaginato di venire punita da lui, con gli sculaccioni: aveva destato la sua attenzione, ma non abbastanza.
Hélène afferrò il bicchiere e fece cenno di voler brindare di nuovo: i suoi piccoli occhietti neri dovevano brillare un bel po’ a causa dell’ottimo rosso aglianico, e Benoît prese così ad evitarne accuratamente lo sguardo; forse temeva che a furia di bere, Hélène potesse lentamente lasciarsi abbandonare a nuovi ed inappropriati atteggiamenti un po’ troppo lascivi.
A quel punto la ragazzotta iniziò a sentire la testa che le girava a causa del vino; l’uomo di sua madre allora le strinse la mano e la condusse via con sé: presero un taxi fino all’albergo Fiorenza, dove infine le fece indossare la sua elegante camicia da notte, prima di rimboccarle le lenzuola come un’innocente bambina addormentata.
Terzo episodio
Sorrise mostrando una dentatura perfetta di colore giallo opaco. Aveva gli occhi neri con la cornea rigonfia di vene rosso sangue.
Volle per forza conoscere il suo nome, e Hélène fu costretta suo malgrado a presentarsi; ma per sua fortuna, il proprietario del piccolo negozio di frutta e verdura richiamò subito all’ordine il ragazzo, di nome Samir, tirandolo via per un orecchio. Lo mise a tacere.
Hélène si allontanò sollevata, con due pesanti buste della spesa da trasportare via con sé; dopo soli pochi metri si voltò indietro, mentre era già lungo la strada; e vide nuovamente il ragazzetto africano che la sbirciava: capì in quell’istante, che egli le stava fissando insistentemente il sedere, e provò in quella circostanza un bel po’ di vergogna.
Fece ritorno al Convitto delle donne, nella vicina via di San Giovanni in Laterano, trascinandosi dietro le sue buste. Benno era partito, e la sua nuova residenza era adesso una specie di convento di suore, un luogo austero e silenzioso; lì divideva la sua dimora con Chiara, una ragazza bionda, piuttosto elegante e minuta proveniente da una cittadina di provincia nello sperduto nord d’Italia, di nome Vercelli.
Era tutto estremamente strano, quasi inverosimile: la residenza le era stata pagata quindici anni addietro dal suo vero genitore, che mai Hélène aveva conosciuto di persona in vita sua; con chiaroveggenza e mente illuminata, le aveva lasciato in eredità un prestigioso Corso di Laurea in Diritto presso la celebre Università Lateranense in Roma, con la retta e la residenza già pagate. Se poi si fosse anche laureata entro cinque anni, avrebbe ricevuto come suo ultimo lascito, nientedimeno che un ricco assegno da un milione di franchi.
Era tutto strano e meravigliosamente bello: ma adesso c’era anche la terribile complicazione dello studio, e le difficoltà di Hélène con la lingua italiana si assommavano anche al suo oramai completo ed accertato disinteresse, verso qualsiasi tematica legata al diritto e alla legge.
Hélène era cresciuta studiando materie artistiche, e adesso si ritrovava invece a disquisire di quibus e di cavilli vari, e semplicemente la cosa non le andava affatto a genio. Se n’era fatta una ragione, solamente in virtù del fatto di poter vivere in Italia, ma certamente le nuove materie di studio non le piacevano per nulla.
La sua compagna di stanza si sforzava parecchio di aiutarla; erano state messe in appartamento assieme, dal momento che la ragazza di Vercelli parlava abbastanza bene il francese.
Chiara era una studentessa modello, una ragazza attenta e scrupolosa, e durante le lezioni prendeva sempre moltissimi appunti; Hélène finì ben presto per affidarsi completamente a lei, al punto che in aula era spesso svagata e con la testa persa tra le nuvole.
Come compagna di stanza poi, Chiara era piuttosto riservata e discreta; tuttavia, non era sfuggito a Hélène il fatto che tutte le sere, lei si chiudesse nella sua cameretta per parlare al telefono assieme al suo ragazzo. Parlavano a lungo, e quest’ultima finiva spesso per sospirare e mugolare in modo sommesso e delicato dentro al microfono; dopo un po’ di volte, apparve lampante a Hélène, come la sua compagna d’appartamento si toccasse e si lasciasse andare al piacere durante quei lunghi momenti di abbandono.
Un giorno poi, mentre Chiara era uscita in giro a fare delle spese, Hélène decise di frugare un poco dentro al suo armadio e dentro ad alcuni suoi cassetti, senza alcuna vergogna: vi ritrovò un bel po’ di indumenti eleganti, di biancheria intima piuttosto succinta e provocante, con mutandine sottilissime e trasparenti, fino anche ad una guêpière in pizzo delicato e ad un paio di vaporosi reggicalze in cotone e di raso scuro.
Apparve completamente evidente a Hélène, come la sua compagna d’appartamento coltivasse una specie di duplice identità: estremamente precisa e puntigliosa nello studio, ma poi libera e sensuale ai limiti della provocazione, nella propria vita privata; ed in quell’istante Hélène provò anche un senso di profonda tristezza e di squallore: non aveva mai avuto un fidanzato in vita sua, ed era ancora, tristemente vergine.
In verità, a Chiara aveva raccontato qualcosa di ben diverso, dal momento che le aveva rivelato di aver avuto una lunga storia d’amore ai tempi del liceo, a Liegi, con un ragazzo di poco più grande di lei. Ma non era vero nulla. Le sue uniche esperienze di sesso infatti, Hélène le aveva avute in camera sua, sotto le lenzuola; aveva scoperto infatti di amare molto sfiorarsi mentre era dentro il letto, ma nulla di più.
Aveva veduto le sue amiche d’infanzia crescere, fidanzarsi una alla volta, ed infine perdere tutte quante la loro verginità; una di loro, Sonia, aveva anche avuto una meravigliosa bambina, nata da appena due settimane.
Ma se n’era dovuta fare una ragione per il momento.
Sorrise nuovamente, mostrando la sua dentatura perfetta di colore giallo opaco. Questa volta il ragazzetto africano di nome Samir la fissò in volto, e subito si propose per aiutarla a trasportare le sue pesanti buste con la spesa; Hélène era sudata ed accaldata, ed alla fine accettò un po’ controvoglia.
Durante il non breve tragitto, che a Hélène dovette apparire comunque lunghissimo, prese a parlarle nella sua stessa lingua, chiedendole da dove venisse, e che cosa facesse lì da sola in Italia. Era davvero invadente, come solo gli uomini africani sanno esserlo; e dopo solamente pochi metri di strada, Hélène si pentì amaramente di avere accettato il suo aiuto. Giunta poi dinanzi all’entrata del Convitto, dovette ribadire per almeno tre volte in maniera quasi scortese, che non era assolutamente consentito a nessun uomo, di varcarne la soglia d’ingresso.
Allora Samir fece finalmente cenno di volersene tornare al negozio, ma poi un attimo prima di allontanarsi, le sussurrò pian piano sottovoce: “Posso chiederti una cosa madame? … posso tirarmi una sega pensando a te madame? …”.
Hélène provò un misto di ribrezzo e di pena per lui; gli diede una moneta e gli disse di andare. Quando infine si voltò lui da lontano, le stava fissando ancora ed insistentemente il sedere.
Quarto episodio
Il Professor Ducré era con ottima probabilità, l’autentico spauracchio dell’intera Università. Tutti gli studenti del primo anno provavano un vivo timore nei suoi confronti, e dei suoi esami si narravano aneddoti drammatici, di plateali bocciature e di giudizi disastrosi.
Hélène riusciva a comprenderlo meglio rispetto agli altri professori, dal momento che egli parlava in italiano con tono fermo e deciso, ma al solo pensiero di dover affrontare l’esame di Diritto Privato dinanzi a lui, provava paura e brutti presentimenti.
Sperava solamente che il tempo le venisse in aiuto, e che riuscisse nel periodo che la separava di lì agli esami, a divenire sufficientemente brava e preparata da poterlo affrontare al meglio. Tuttavia, non le sfuggiva l’atteggiamento assertivo e autoritario delle sue espressioni. Lo immaginava come un antico insegnante del secolo scorso, con la bacchetta in pugno, atto a dispensare bocciature e dolorose stilettate a tutti i suoi studenti.
Teneva tutte le lezioni con una mano infilata dentro alla tasca, mentre con l’altra gesticolava, recitando a braccio articoli e sentenze in maniera pomposa e solenne: “… atti attraverso i quali un soggetto dichiara di essere a conoscenza di un fatto giuridico …”. Hélène lo guardava ammirata e spaventata, seduta in terza fila accanto a Chiara.
Aveva iniziato a rinfrescare l’aria, e alla loro sinistra stava seduta una ragazza mora e longilinea con una sciarpa di lana avvolta attorno al collo; si fece avanti spontaneamente, era argentina di Buenos Aires ed il suo nome di battesimo era Paula; senza tanti giri di parole, domandò a Hélène in un italiano misto di spagnolo, se fosse lei la ragazza belga che abitava al Convitto.
Hélène ristette un istante, meravigliata del fatto che ella fosse al corrente della sua nazionalità e della sua dimora; dovette guardare Paula con non poco sospetto, al punto che quest’ultima si dovette quasi giustificare dicendo: “… lo sento … cioè, mi dispiace … volevo solo sapere come è, questo posto qui …”. Appariva un po’ imbarazzata, ma determinata nel suo intento, di avere qualche informazione sul luogo dove Hélène abitava.
Quest’ultima cercò faticosamente di esprimersi in italiano, e con una certa fretta replicò: “… è molto piccolo, ed è molto silenzioso, ma dentro è tutto pulito e …”; fu interrotta nuovamente: “Quanto costa la retta?”, chiese direttamente Paula.
Allora Hélène fece cenno di non capire; non conosceva ancora il significato della parola retta; Paula si fece leggermente impaziente in viso, aveva la forte sensazione di perdere il suo tempo con quella conversazione così lunga e complicata, e infine chiarì meglio: “… i soldi, l’affitto, come si chiama ?…”; Hélène allora diventò tutta rossa in volto, non aveva davvero alcuna idea di quanto costasse la retta mensile del suo appartamento; del resto le era stata pagata con l’eredità del suo genitore.
Si volse allora verso Chiara, alla sua destra, la quale nel frattempo stava trascrivendo alcuni appunti.
Chiara si liberò il viso dai lunghi capelli biondi, e sorrise amabilmente alla ragazza argentina che era seduta due posti più in là; poi senza attendere oltre rispose: “Sono circa quattrocento euro al mese per l’appartamento in due …”; “Compartito? …” chiese Paula, e subito si corresse: “… per due persone intende?”; “quattrocento euro al mese per ciascuna persona” concluse Chiara, senza aggiungere molto.
Hélène comprese che le due ragazze non si erano capite, ma non fece nulla per spiegare meglio; Paula disse qualcosa in spagnolo, ma sembrava abbastanza scocciata.
La lezione riprese, e stavolta il professore aveva assunto un tono davvero incalzante, al punto che parve persino infervorarsi in un certo momento, mentre descriveva la sacralità del diritto e l’universalità del suo significato.
Il successivo lunedì, durante l’intervallo, mentre tornava dal bagno, Hélène rivide Paula seduta vicina a Chiara, nella stessa fila della volta precedente; avevano iniziato a parlare e sembravano esprimersi in modo aperto ed amichevole; ebbe una sensazione strana, come se stessero tramando qualcosa alle sue spalle, ma certamente non era così.
Si avvicinò e questa volta si dovette accomodare sul lato destro, accanto a Paula; le due stavano parlando di un appartamento che si andava liberando e di altre ragazze spagnole che se ne stavano andando. L’inizio della lezione le costrinse però a tacitarsi fin da subito.
La sera stessa, mentre Hélène stava ripulendo il tavolo per la cena, ed un odore abbastanza pesante di verdura bollita riempiva tutto il piccolo locale, Chiara entrò in cucina ed esordì dicendo: “Ce ne andiamo! Che te ne pare a te?!? … andiamo a vivere in un appartamento fuori da questo mortorio …”, e si mise a ridere.
Hélène si voltò verso di lei, mentre la pentola già bolliva schizzando leggermente fuori in tutte le direzioni.
Chiara riprese: “L’appartamento di Paula si libera, le due coinquiline se ne tornano in Spagna, sono meno di mille euro al mese in tutto !!!”.
Parlava con un tono deciso ed entusiasta, e con un’espressione che mai fino a quel giorno Hélène le aveva veduto in volto; sembrava vivamente eccitata e carica di aspettative. Hélène spense il fuoco e si pulì le mani sul grembiule, che infine sfilò rimanendo in tuta; poi la guardò con i suoi occhi piccoli ed inespressivi, e prese subito a pensare alla retta già pagata, e al fatto di non poter lasciare quel posto.
Chiara dovette intuirlo, e si fece immediatamente più scura in viso; poi riprese ancora: “Stai pensando che non puoi venire vero? Che hai la retta pagata per tutto il tempo? Ma fino a quando te l’hanno pagata?”.
Hélène ristette, ed abbassò lo sguardo; poi riprese con voce sommessa: “Mio padre io non l’ho mai conosciuto … è morto quindici anni fa … ma l’anno scorso quando ho compiuto i diciotto anni, mi è arrivata una lettera con la sua eredità …”; non resistette oltre e si mise a piangere.
Chiara si avvicinò per consolarla, ma Hélène subito si ricompose asciugandosi le lacrime dal viso: “… era stato anche lui qui in questa Università … e aveva voluto offrirmi la possibilità di studiare come lui …”; ed infine alzando la testa e mettendosi una mano nei capelli, concluse: “ma a me questi studi non interessano davvero per nulla”.
Chiara fu come sorpresa, dalla durezza e dalla determinazione della sua compagna d’appartamento; si allontanò nuovamente verso il tavolo, e alla fine le domandò: “Ma allora … perché sei venuta quaggiù a studiare ?!?”; Hélène prese un piatto dal mobiletto sopra il lavandino, e chiosò: “Avrei fatto di tutto, pur di lasciare Liegi e soprattutto per non vivere più con mia madre …”.
Finita la cena, Chiara si rinchiuse come sempre dentro alla sua stanzetta, e Hélène rimase da sola a lavare i piatti nella cucina; quest’ultima alla fine chiuse il rubinetto e fece per entrare nella sua camera da letto; fu lì che avvertì in modo nitido, dei sospiri provenienti dalla stanza di Chiara. E allora si avvicinò alla porta senza fare rumore, e si piegò in avanti per guardare attraverso la serratura.
Intravide con molta difficoltà la sua coinquilina di spalle, seduta sul letto; aveva la gonna con le pieghette tenuta su che le ricadeva sul lenzuolo, e le braccia riverse sul davanti. Tratteneva il telefono stretto sotto alla guancia, nascosto in mezzo ai suoi lunghi capelli biondi. Ad un certo punto si lasciò cadere all’indietro, con tutta la schiena distesa sul letto, e finalmente Hélène vide la mano di Chiara infilata in mezzo alle cosce, muoversi dolcemente tra una sottile peluria delicata.
Hélène arretrò, era quasi spaventata. Non aveva mai visto una ragazza toccarsi, e provò un vivo imbarazzo misto a un filo di vergogna: si sentiva sola e insoddisfatta, ed iniziò a nutrire un profondo senso di gelosia nei confronti della sua compagna d’appartamento.
L’argomento del cambio di residenza fu solo apparentemente abbandonato: Paula riprese a parlarne con le due ragazze già all’indomani, come se la decisione fosse stata già intrapresa. Mancavano solamente dieci giorni alla scadenza del contratto d’affitto, e la cosa andava sbrigata con assoluta urgenza.
Propose a Chiara e Hélène di visitare quel luogo, la sera stessa di quel mercoledì.
Era in programma un aperitivo organizzato dalle due ragazze spagnole di Girona, la cui partenza era oramai imminente, assieme ad altri tre loro amici; così Paula pensò bene di cogliere l’occasione, l’appartamento sarebbe stato certamente molto ben pulito e ordinato, per mostrare l’abitazione anche alle sue nuove compagne di Università.
Chiara accolse subito l’invito, e fu Hélène a doverle ricordare a malincuore, lo stringente orario da coprifuoco del Convitto in cui si ritrovavano: non avrebbero potuto rincasare oltre la mezzanotte.
Erano uscite assieme in pochissime circostanze all’infuori dell’Università. Non avevano infatti ancora trovato dei buoni amici con cui andarsene in giro, e Hélène era una ragazza abbastanza attenta e prudente: le era stato detto di prestare sempre molta attenzione agli uomini italiani.
Ma per l’occasione le due studentesse decisero di farsi belle: Hélène imitò la propria compagna, e scelse una gonna nera lunga e stretta proprio come quella di Chiara; sembravano veramente due collegiali in divisa, mentre vestite quasi allo stesso modo, si preparavano per uscire. Hélène vi aggiunse una giacchetta di sottile raso scuro, sopra una camicetta bianca di seta. Chiara invece indossò una canottierina azzurra, ed una specie di spolverino bianco.
Uscirono tenendosi per mano, e si incamminarono verso la fermata dell’autobus, ridendo e scherzando tutto il tempo.
Quinto episodio
Una celeberrima canzone italiana, cantata dai Gipsy Kings, le accolse all’interno del piccolo appartamento, situato nel sottoscala di un vecchio palazzo in via Baccina, nel rione Monti.
È uno di quei palazzi antichi che hanno le rampe di scale di marmo consumate e maleodoranti, con finestrone opache rivolte verso piccole e buie chiostrine con i panni appesi che pendono dai balconi.
Dentro l’appartamento, pieno di libri e di soprammobili, trovarono Paula in un abitino rosso tutto stretto attillato, e le altre due ragazze di Girona, di nome Solange e Maria Cristina.
Se la seconda era una ragazzotta con folti capelli ricci neri, vestita in jeans e completamente struccata, la prima era invece davvero assai bella ed elegante: aveva dei lunghi capelli di colore castano chiaro, ed indossava un maglioncino color panna, una minigonna marrone piuttosto succinta, ed un paio di sottili calze in tinta con la gonna, lunghe fin sopra le ginocchia, ad esibire due cosce in carne, lisce e levigate.
Si presentarono con cordialità e simpatia, accogliendo Chiara e Hélène come se fossero state due amiche di sempre; il vino versato nei loro bicchieri giustificava il clima euforico presente dentro l’appartamento, e la loro vivacità. Avrebbero lasciato l’Italia in soli dieci giorni, e certamente quello non era che il primo di una lunga serie di festini organizzati per celebrare il loro addio.
Maria Cristina era di sicuro la più normale delle tre ragazze: nacque immediatamente una buona intesa con Hélène; lei le raccontò di avere visitato Bruges tanti anni addietro, e le due presero a parlare a lungo della bellezza di quel luogo, e delle innumerevoli differenze rispetto alla Spagna; Hélène ricambiò la discussione, per quanto le fosse possibile nel suo italiano molto incerto, domandando notizie su Girona, e sullo stile di vita di quel paese.
Solange per parte sua, non era certamente una ragazza sfrenata, ma si intuiva benissimo quanto fosse piena di sé, ed assolutamente conscia del proprio fascino: non faceva davvero nulla senza prestare la massima attenzione all’armonia dei propri movimenti, al lento fruscìo dei propri capelli, ed alla delicata postura delle sue cosce bianche. Se non avesse avuto un carattere aperto e solare, sarebbe stata certamente una tipa odiosa; ed invece nel suo insieme era anche piuttosto simpatica.
Mentre Hélène e Maria Cristina se ne stavano sul divano a parlare come due vecchie amiche, le altre tre ragazze s’erano strette attorno al tavolaccio rotondo, e adesso sorseggiavano un bicchiere di vino bianco. Discutevano della casa e del contratto d’affitto; e certamente Chiara non era restata positivamente impressionata da quel luogo, per cui anche la retta mensile, solo di poco inferiore rispetto a quella già pagata per il Convitto, doveva apparirle in quell’istante, davvero oltremodo elevata.
Ma di quel posto le piaceva l’aria godereccia e leggermente peccaminosa, sembrava una specie di boudoir un po’ retrò, un bordello di inizio Novecento.
Hélène non aveva prestato troppa attenzione alla cosa, in cuor suo ancora non pensava minimamente, di dover rinunciare alla retta già pagata per la sua attuale residenza, ma se solo ella avesse dovuto esprimere un suo parere spassionato, avrebbe sicuramente detto di non amare particolarmente quel luogo, così scuro e disordinato.
Teneva le gambe accavallate, e con la punta della scarpetta senza il tacco, sfiorava la tovaglia vicino alla sedia dove se ne stava seduta Paula, leggermente inarcata in avanti, con una vertiginosa scollatura lungo tutta la schiena.
Hélène trovava quel vestito un tantino esagerato, come del resto, un po’ esagerate erano anche le calze sopra le ginocchia che indossava Solange; certamente insieme a Chiara erano un bel terzetto, mentre lei e Maria Cristina erano decisamente più caste e bambinone, e proprio per questo si erano immediatamente intese.
Paula si alzò per cambiare il disco, e mise su una noiosa musica di chitarra flamenca. Ma subito dopo, forse per deridere un po’ le sue due coinquiline spagnole, invece di tornarsene al suo posto, si spostò al centro del salone, sul vecchio tappeto in stile povero, ed iniziò ad inscenare un ballo.
Dimenava le mani con scatti improvvisi verso l’alto, scuotendo i lunghi capelli neri leggermente mossi. All’inizio Hélène dovette pensare che Paula fosse già completamente ubriaca, ma solamente dopo pochi passi ella si rese conto che quel ballo non era affatto improvvisato, ed era anzi sempre più bello e ben coordinato; a conferma del fatto, Maria Cristina aggiunse che Paula aveva studiato danza nel suo paese, ma invece del tango – per il quale è indispensabile disporre sempre di un compagno – prediligeva il ballo flamenco. Aggiunse pure che nella sua città, Girona, quel ballo era pressoché ignorato per ragione del poco nazionalismo.
Mentre Maria Cristina parlava, Paula andava avanti con la sua danza sinuosa, e le altre due ragazze sedute al tavolo, ridevano con il bicchiere di vino nella mano.
Paula avanzò verso il divano guardando Hélène dritta negli occhi, poi fece un breve semicerchio sul tappeto e le volse le terga muovendosi ed ancheggiando nella direzione opposta; infine a quel punto, mentre la musica iniziava dolcemente a rallentare, si piegò repentinamente in avanti, e a sorpresa si sollevò il vestitino sul didietro. Mostrando incredibilmente e senza alcuna vergogna, un gran bel culo del colore dell’ambra, impreziosito unicamente del filino nero della piccola e succinta mutandina.
Chiara si mise una mano sulla bocca per lo stupore, mentre Solange rise come una pazza.
In quel momento, con perfetto tempismo, qualcuno suonò al citofono; Paula ridendo disse: “… sono loro, sono arrivati”, e si sistemò la gonna.
Si udirono dei rumori e delle voci quasi baritonali lungo le scale; erano i tre amici delle ragazze, ed erano venuti lì per festeggiare insieme con loro. Chiara istintivamente si alzò in piedi, facendo cenno di non intendere restare ancora, se lei e Hélène fossero state di disturbo. Ma immediatamente Solange – con cortesia ed eleganza – la fermò pregandola col sorriso sulle labbra, di tornarsene seduta al suo posto: i tre amici erano venuti per fare baldoria, e sarebbero stati sicuramente molto felici se si fossero trattenute anche loro.
Così, mentre Paula apriva la porta ed uno alla volta i tre ragazzi venivano dentro, Chiara si sedette e fece cenno a Hélène di voler restare; quest’ultima si rivolse verso Maria Cristina, attendendo da lei qualche dettaglio in più.
Erano tre amici che frequentavano l’università pubblica assieme alle due spagnole; uno di loro era il ragazzo di Solange e si chiamava Costanzo; mentre un secondo amico si divertiva spesso con Paula, ragazza evidentemente di facili costumi. Il suo nome era Marco, ed era di gran lunga il più bello dei tre.
Il terzo amico invece si chiamava Lele; era bassino, con i capelli ricci e corti e la pelle piuttosto scura. Hélène fissò Maria Cristina, con uno sguardo che dovette apparirle di grande curiosità: ma la ragazza di Girona, intuendo quale fosse il pensiero che quest’ultima aveva in mente, subito chiarì in modo inequivoco il concetto: “Questo qui viene sempre assieme agli altri due, ma rimane sempre da solo a fumare quelle cose che non ti dico”.
Nel frattempo, Chiara si era nuovamente alzata, nella sua gonna lunga e stretta, e veniva presentata da Solange ai tre ragazzi; Hélène se ne ristette invece sul divano con Maria Cristina, e venne salutata con un cenno frugale solamente da due dei tre, senza alcun minimo interesse reciproco. Il clima della serata non sembrava coinvolgerle più di tanto, e con l’arrivo dei tre ragazzi era un po’ come se loro due, fossero divenute all’improvviso anche vagamente di troppo.
Marco e Paula non avevano perso tempo, e la ragazza argentina era già seduta sulle ginocchia di lui, che da dietro le carezzava la schiena, lungo la vertiginosa scollatura posteriore del vestito; era una schiena robusta, da atleta, levigata e scura.
Paula si atteggiava a donna matura e decisa, rispondendo alle provocazioni con risatine indisponenti, e con una voce tutto sommato piuttosto profonda, in proporzione allo slancio longilineo del suo corpo; era quasi priva di seno, e questo aspetto faceva sì che le attenzioni di Marco, fossero quasi unicamente concentrate sulla sua schiena e sulle sue gambe accavallate.
Solange invece aveva versato del vino nel bicchiere di Costanzo, e adesso i due stavano fingendo di brindare con le braccia incrociate, in modo romantico e scherzoso. Si vedeva negli occhi di lei, una discreta passione, mentre ella lo fissava con le pupille dilatate ed un sorriso meravigliosamente bello. Lui la baciò sulle labbra, senza sprofondare il colpo, e poi ripresero a parlare.
In quel momento, a Chiara non era rimasto che Lele, il quale contrariamente alle sue abitudini, aveva provato a rendersi interessante ed attraente nei suoi confronti; la biondina aveva deciso di stare al gioco, per non sentirsi estromessa dal divertimento, e allora provocava a sua volta il piccolo ragazzo, facendogli credere di essere in fondo anche non del tutto disinteressata a lui.
Era rimasta con la sua canottiera, e la sottile catenina dorata che ella indossava, era scivolata amabilmente nel mezzo del suo decolté, suggerendo all’occhio del ragazzo seduto al tavolo accanto a lei, di osservarla fino in fondo.
Solange mise su un disco di Shakira, e fece cenno di voler ballare; subito Costanzo l’assecondò, senza scomporsi più di tanto nei movimenti; balzò su anche Paula, che riprese a dimenare i suoi lunghi capelli neri, riservando a Costanzo degli sguardi che avrebbero potuto far davvero morire di gelosia, qualsiasi altra ragazza al mondo. Ma Solange invece rideva di gusto, sapendo in fondo che la sua compagna d’appartamento amava scherzare con gli uomini, e sapendo anche che solamente di lì a dieci giorni, quel suo ragazzo, sarebbe stato felicemente alla mercé di tantissime altre.
Marco invece si alzò e fece per avvicinarsi a Chiara, che continuava la sua sterile conversazione con Lele; ci volle assai poco affinché i due si dessero il cambio, tanta era l’impossibilità per quest’ultimo, di tenere testa alle aspettative della bella biondina proveniente dal nord Italia.
Marco era davvero un malandrino, e subito Chiara comprese come la situazione si stesse facendo adesso ben più seria e pericolosa; era fidanzata, ma nel vederla così disposta, con la canottierina ed il decolté in bella vista, e le gambe accavallate, chiunque avrebbe colto in lei un chiaro segnale di offerta.
Maria Cristina indicò a Hélène la scena, e quest’ultima ristette spaventata; sembrava veramente che tra i due fosse nata immediata un’intesa, mentre Paula continuava imperterrita a danzare con Costanzo, sotto lo sguardo soave e divertito di Solange.
A un certo punto però Chiara, con una mossa a sorpresa, si sollevò dalla sedia senza alcun preavviso, e si incamminò rapidamente verso il bagno; era facile che Marco si fosse fatto avanti allungando le mani, e che lei, presa da timore e rimorsi vari, avesse deciso di tagliare corto la cosa. Hélène notò come, piuttosto che in bagno, la sua compagna d’appartamento si fosse semplicemente ritirata in una cameretta lì accanto. Ebbe l’istinto di alzarsi e di andare da lei, e fu seguita anche da Maria Cristina, che tutto desiderava tranne che di rimanere lì da sola, in quel clima da baccanale.
Si ritrovarono quindi in una camera da letto piccola e angusta; in quell’istante si capì che Chiara si era veramente ubriacata, e riusciva a malapena a mettere in ordine i suoi pensieri; disse a Hélène che era forse il caso di andarsene, e che si stava facendo tardi, anche se in realtà non erano nemmeno arrivate le dieci di sera.
Si affacciò nella stanzetta anche Lele, fumando una sigaretta e tenendo un bicchiere di vino nella mano sinistra; chiese immediatamente scusa, e mentre Maria Cristina faceva per uscire e tornarsene in salone, infastidita da quell’intrusione per nulla affatto desiderata, il ragazzo la bloccò per un braccio, spaventandola; poi si mise a ridere e le disse: “Non vorrai mica entrare in salone!?! … non sarai mica impazzita… vero? …”; Maria Cristina replicò assai irritata, e alzando leggermente la voce, che fino a quel momento era sempre stata pacata e gentile, gli rispose: “… questa è la mia casa, e io posso andare dove voglio !!!”.
Ma Lele ridendo ancora più forte, le disse carezzandole i capelli: “… e allora entra pure Delicia, ma devo avvisarti che potresti scandalizzarti assai …”, e sorseggiò in un istante quel che restava nel suo bicchiere.
Maria Cristina si affacciò, e subito ristette sulla porta, immobile; Chiara se ne stava seduta sul letto mezza addormentata, mentre Hélène si rese conto che là dentro doveva per forza esserci qualcosa di strano ed esagerato, per cui si mosse dal letto avvicinandosi anch’essa alla porta del salone.
Ai piedi del tavolo, leggermente stropicciate, due paia di mutandine, una nera sottilissima e l’altra bianca più elegante, giacevano miseramente abbandonate.
Lo sguardo delle due ragazze si mosse in maniera eguale, e con esso crebbe il loro stupore, verso la parete opposta, sul lato sinistro, dove vi era disposto il divano.
Seduti comodamente uno accanto all’altro, Marco e Costanzo reggevano su le rispettive ragazze, a cavalcioni sopra le loro ginocchia. Paula a sinistra e Solange a destra. Maria Cristina e Hélène si voltarono l’una verso l’altra e la prima fece cenno di volersi mettere una mano sugli occhi per non guardare; mentre Hélène invece si appoggiò allo stipite per poter vedere ed osservare meglio.
Un insistito rumore di cintura sciolte, e di braghe lentamente abbassate, lasciava intendere quello che era inevitabile: Hélène aggrottò le ciglia, e infine guardò lì dove non doveva; le due ragazze erano già state entrambe infilate, e adesso cavalcavano assieme i due maschi, oscillando in modo un po’ goffo e scoordinato tra di loro. Paula aveva il vestitino rosso rovesciato lungo la schiena, al punto che la vertiginosa scollatura era quasi del tutto scomparsa: Hélène osservò nuovamente che, per quanto priva di seno, la ragazza argentina di contro aveva indubbiamente un gran bel culo.
Solange invece era assai più composta anche nell’atto di venire posseduta: Costanzo la sorreggeva con dolcezza tenendole la gonna di color camoscio rigirata attorno alla vita, con un piccolo lembo leggermente stropicciato che le scendeva sulla parte posteriore da un lato.
Ma quello che più di tutto impressionò Hélène, era il membro di quest’ultimo; era oltremodo lungo, e si infilava per bene tra i glutei della bella Solange, compiendo un arco ampio e flessuoso verso il centro della stanza: doveva essere davvero lunghissimo, sembrava la pompa del giardino!
La ragazza rimbalzava mollemente sul ventre di Costanzo, con le sue calze poco sopra le ginocchia, e la pelle chiara e levigata delle cosce ed il didietro in bella mostra. Dopo qualche istante prese a mugolare in modo sommesso e delicato, poggiando le mani sopra le spalle di lui.
Paula invece si agitava molto di più, e cavalcava come una puledra selvaggia. Marco la provocava e la incalzava; a un certo punto le mollò anche uno schiaffone sul sedere, facendola sussultare per un istante. Poi riprese a sbatterla in su e in giù, con il suo membro tosto, scuro e consistente, infilato come un torrione di pietra dura in mezzo alle natiche di lei.
La voce di Shakira continuava ad accompagnare quella vista così inopinata ed oscena, ma già i mugolii di piacere delle due ragazze iniziavano a sopraffare il tutto, arrivando nitidi ed inequivocabili anche dentro alla camera da letto; in quel momento, Chiara si mise una mano sulla fronte, e piegandosi in avanti prese a vomitare sul pavimento di vecchio marmo sporco.
Allora Maria Cristina corse ad assisterla, e Lele si trovò pertanto da solo, accanto a Hélène che nel frattempo era rimasta appoggiata allo stipite, ad ammirare la scena. Il ragazzo non ci pensò su un solo momento, e vistosamente eccitato dalla situazione, senza alcun pudore mosse la mano verso la gonna di Hélène, e le afferrò il didietro stringendolo con forza: era davvero tutto grosso e molle, ed il piccolo ragazzo poté tastarlo per bene, riparato solamente dal sottile filino della mutandina.
Hélène ebbe un sussulto e ristette per un istante, davvero non si aspettava un simile affronto; ma poi – con un impeto di autentica rabbia – si voltò e mollò uno schiaffone a colui che l’aveva abusata, al punto che anche Solange in quella circostanza si voltò indietro, un attimo spaventata, con i suoi occhi da gatta socchiusi e offuscati dal piacere incessante.
Hélène si mosse con rabbia verso Maria Cristina, che nel frattempo stava trasportando Chiara verso il bagno più piccolo, tenendola su per un braccio. Quest’ultima rimise quel che le restava dentro alla tazza, piegata in avanti in maniera affannata. La manata sul didietro di Lele aveva lasciato in Hélène un sentimento strano, ma non si trattava di una sensazione sgradevole; fece così ritorno nella camera da letto, dove quest’ultimo s’era nel frattempo seduto alla scrivania, intento a prepararsi qualcosa per poter fumare.
Tornò dunque sullo stipite della porta; la musica nel salone era terminata, e adesso le due ragazze cavalcavano quasi allo stesso tempo, e i due culi perfettamente sodi e leggermente inumiditi per via del sudore e del gran caldo, andavano su e giù assieme, in una danza un po’ goffa e sensuale.
L’occhio di Hélène cadde nuovamente sul membro di Marco, dritto e fermo, impalato tra le cosce di Paula; ma soprattutto su quello di Costanzo, sempre più lungo e flessuoso, che entrava in mezzo alle natiche scomposte di Solange facendo un cerchio sempre più ampio in mezzo alla stanza. A quanto pare la ragazza catalana stava avendo degli autentici spasimi, e a tratti volgeva il capo verso la sua compagna, con gli occhi dolcemente schiusi rivolti in su, e la bocca aperta.
In quell’istante Hélène sentì la propria vagina inumidirsi, sotto lo slip stretto ed attillato; faceva davvero molto caldo.
Marco estrasse il membro, tosto e diritto, dalla vagina di Paula, che con la mano si tolse i lunghi capelli neri dal viso; poi tenendolo tra sé ed il grembo della ragazza, le inondò il vestitino rosso di sperma caldo e puzzolente. Lei non era stata ancora saziata, e così s’infilò l’altra mano in mezzo alle cosce sul davanti, finendo il lavoro che il suo maschio non era riuscito a completare.
Nel frattempo, era arrivato il momento di Solange: la gonna s’era srotolata e adesso le ricopriva quasi per intero il didietro; a un certo punto il pene di Costanzo schizzò di fuori, e solamente in quell’istante Hélène riuscì ad apprezzarne per intero la lunghezza: era molle e flessuoso, ma decisamente vivo e pieno di sangue; un’altra scossa di umido le riempì lo spazio stretto in mezzo alle cosce.
La infilzò nuovamente, e stavolta lo fece dal basso, penetrandola per intero come una candela lunga e turgida.
Ma proprio in quell’istante soggiunse Chiara e trascinò via Hélène, con uno strattone; si era completamente ripulita e truccata, così che adesso ella appariva misteriosamente più bella e gentile del solito; le fece notare l’orologio, dovevano assolutamente incamminarsi.
Non degnarono Lele neppure di un saluto, dal momento che questi era sempre piegato sulla scrivania a prepararsi un qualcosa per poter fumare. Maria Cristina le condusse attraverso il salone forzandosi di guardare dall’altro lato, mentre Chiara fissò con attenzione la scena e soprattutto il pene impressionante di Costanzo.
Hélène le seguiva con la vagina completamente bagnata, e la gonna tutta stretta attorno ai fianchi; salutarono la più tranquilla delle tre ragazze con cortesia, pregandola di fare altrettanto anche con Solange che di lì a poco sarebbe partita. E proprio in quell’istante, si udì quest’ultima, mugolare ed ululare come una tenera bambina, in preda agli spasimi del piacere: era giunto davvero il momento di andarsene.
Sesto episodio
Hélène attaccò il telefono che era di completo malumore. Non sentiva sua madre troppo spesso, e quando lo faceva non era mai una sensazione particolarmente piacevole. Ad infastidirla non era solamente il tono di voce della donna, completamente assertivo e perentorio, ma soprattutto il fatto che quest’ultima si fosse lasciata riferire dal suo uomo, per filo e per segno, tutte le azioni ed i comportamenti tenuti dalla figliola durante il loro lungo soggiorno in Italia.
Vi era nelle sue parole, un continuo accenno di rimprovero, ed una neanche tanto malcelata aria di minaccia; se qualcosa mai non era andato così come doveva, al suo rientro in Belgio avrebbero sicuramente fatto i conti.
Hélène non trovò nemmeno il coraggio d’accennare minimamente alla madre, la sua nuova intenzione di cambiare residenza: qualcosa in lei s’era smosso dopo la folle serata di quel mercoledì, e adesso non riusciva neanche più a sopportare la noia mortale del Convitto, ed il silenzio un po’ surreale di quelle stanze tanto pulite ed asettiche.
Attaccò il telefono senza avere nemmeno intrapreso la non semplice discussione, in relazione al problema della retta già pagata; avrebbe voluto comprendere, se era possibile in qualche maniera ottenerne una restituzione, anche in minima parte; erano ben quattro anni di contratto.
Si mise a letto, l’indomani era nuovamente un lunedì. Non riusciva a togliersi dalla testa le immagini del festino in casa di Paula; rivedeva le due ragazze sedute a cavalcioni sui rispettivi maschi e possedute assieme. Poi ripensava al membro di Costanzo, così lungo e ricurvo: l’aveva veramente impressionata. Non le veniva dato d’ammirare un pene in carne ed ossa, dai tempi passati trascorsi in casa di Pascal, ed invece che provare fastidio o ribrezzo, Hélène era incredibilmente confusa. Quella notte si addormentò a fatica, con la testa piena di strani pensieri e con non poca inquietudine.
Al mattino, durante la colazione, Chiara intraprese nuovamente il discorso relativo al cambio d’appartamento; Hélène si stava preparando il pane con la marmellata, e leccandosi le dita timidamente rispose: “Ieri volevo parlarne con mia madre, ma ho subito capito che non era aria …”; la biondina allora tagliò corto, e con fare leggermente indispettito le disse: “Non preoccuparti Hélène; comprendo benissimo la tua situazione. I primi due mesi non pagherai nulla, sarai nostra ospite”.
“E dopo ?!?...” domandò lei, con espressione mista di curiosità e di imbarazzo; “Dopo, a gennaio, ti dovrai trovare un lavoro, qualcosa di semplice, che ti permetterà di pagare l’affitto”.
Hélène non aveva minimamente pensato a questa eventualità; ma Chiara incalzandola riprese: “Io poi fossi in te, proverei a chiedere direttamente all’amministrazione di questo posto, se c’è qualche possibilità di recuperare parte del denaro lasciato in eredità da tuo padre”.
“Altrimenti terrò la stanza, e verrò qui unicamente per studiare, quando vorrò stare un po’ tranquilla …” rispose senza pensarci troppo su Hélène. Ed in quel momento, in cuor suo ella aveva già deciso: non avrebbe assolutamente detto nulla a sua madre, né avrebbe minimamente provato ad ottenere indietro il denaro.
Sciagurata com’era, Hélène aveva preso una decisione che l’avrebbe costretta a trovarsi un lavoro per mantenersi; ma oramai il dado era tratto. Durante il pomeriggio alla lezione di Diritto Privato, le due ragazze incontrarono nuovamente Paula, vestita con una giacchetta di pelle scura e con i jeans: sembrava un’altra persona rispetto alla femmina provocante e maliarda veduta all’opera durante la folle serata con le spagnole. Non la vedevano fin da allora, avendo quest’ultima saltato la lezione del venerdì.
Prese atto con meno entusiasmo del previsto, della disponibilità delle due ragazze a trasferirsi nel suo appartamento: era strano, ma in quella circostanza la bella studentessa argentina appariva più taciturna ed inquieta del solito. Solamente qualche ora dopo, si venne a sapere che Paula era stata appena bocciata, in un esame di recupero dell’anno precedente di Storia del Diritto.
Rientrate al Convitto, dopo un frappè bevuto dentro al bar affacciato sull’ampia piazza antistante l’Università, Chiara spinse Hélène a domandare notizie al portierato. Una suorina non troppo gentile, le diede il riferimento di una tale madre Iolanda, che amministrava la residenza; le fissò un appuntamento per la mattina dell’indomani, alle ore undici. Avvisò candidamente Hélène, di presentarsi nella circostanza, puntuale e ben vestita, trattandosi di una madre superiora oltremodo seria, severa ed intransigente.
Settimo episodio
Hélène si presentò puntuale dinanzi a madre Iolanda, vestita con una camicetta azzurra ed uno stretto pantalone nero; sembrava quasi una grossa balena, per quanto le stava abbottonato attorno ai fianchi e lungo le cosce.
La suora la guardò con sospetto e con aria di vaga superiorità, seduta dietro alla sua scrivania; poi la invitò ad accomodarsi. Esordì dicendo: “Mi hanno detto che la signorina intende parlarmi di faccende legate alla retta della residenza… è così signorina !?!”. Hélène intuì subito che la conversazione sarebbe stata difficile e per di più infruttuosa; replicò balbettando, nel suo italiano assai imperfetto: “… oh no, veramente no madre … volevo solamente fare una mia domanda, per questa retta di mio padre …”.
Allora madre Iolanda, guardandola dall’alto in basso, replicò: “… suo padre? … perché mi parla di suo padre signorina … che cosa c’entra adesso suo padre?”.
Hélène si fece scura in volto, e prendendo fiato a fatica rispose: “… mio padre è morto, ma questa retta l’ha pagata per me tanti anni fa …”.
La suora fece un cenno di scuse con il braccio, e poi aprì un pesante registro. Leccandosi l’indice della mano destra un’infinità di volte, raggiunse finalmente la lettera H, dove si trovava la scheda relativa alla retta d’affitto di Hélène.
Chiuse il pesante libro, lasciando un bel po’ di polvere nell’aria leggermente maleodorante della stanza. Poi rispose: “Signorina Houllier, suo padre ha pagato la retta per tutta la durata del suo corso di studio, fino al 2012. Erano quattordici milioni e seicento mila lire nel lontano 1993. Si rende conto?”, e ripose il librone sopra un ripiano alle sue spalle.
“Cosa vuole dire … che non posso più riprendere quei soldi?”, fece Hélène, con aria persa. E la suora rispose aggrottando le ciglia: “Riprendere!?! … riprendere? che cosa vuol dire … riprendere !?!”.
Allora Hélène si sedette meglio sulla sedia, sospirando profondamente, iniziava ad avere caldo; ristette e rispose tremando: “… veramente … veramente io … io vorrei lasciare questo posto …”, e si legò i capelli in una coda di cavallo, come non faceva da tempo.
La suora si alzò in piedi e la prese su per un braccio; le disse: “… e perché mai signorina vorrebbe andarsene?”.
Hélène si lasciò sollevare, e mentre seguiva a passetti lenti madre Iolanda, che intanto avanzava verso la grande finestra adornata da un pesante tendaggio, trovò a malapena le parole per risponderle: “… veramente … veramente io voglio andare a vivere in un appartamento …”.
Vide la suora aggrottare nuovamente le ciglia e farsi minacciosa; questa stringendo il braccio di Hélène, esclamò: “… tentazioni! … stia attenta signorina, queste sono solo tentazioni!”.
Hélène la guardò preoccupata, aveva lo sguardo basso; ma madre Iolanda aveva compreso quanto fosse inutile perdere del tempo con quella sciagurata, e tornandosene indietro alla sua scrivania, concluse la discussione esclamando: “In ogni caso signorina, l’accordo sottoscritto da suo padre non prevede alcuna restituzione !”, e chiosò: “Lei può andarsene dove vuole, a suo rischio e pericolo, ma non riavrà indietro nemmeno una lira di quanto fu pagato dal suo genitore … e adesso via, se ne vada … arrivederci …”.
Hélène se ne uscì a testa bassa, con la coda tra le gambe.
Raggiunse l’Università leggermente trafelata, mentre l’aula in cui si teneva la lezione di Diritto Civile aveva già i battenti delle porte completamente chiusi; si mise allora a sedere nel corridoio, senza osare entrare.
Quando la lezione di Diritto Civile si concluse, dall’aula uscirono Chiara e Paula, ridendo e scherzando. La ragazza argentina non frequentava quel corso, ma a quanto pare era entrata nell’aula dal lato opposto prima del termine, per poter parlare con la compagna d’appartamento di Hélène.
La ragazzotta belga si avvicinò, e udì che le due studentesse stavano parlando proprio di lei; stavano discutendo animosamente, su chi tra loro due, avrebbe dovuto farsi carico della quota d’affitto che lei non avrebbe pagato.
Allora ristette, e si fermò rimanendo leggermente indietro; si rese conto solamente in quell’istante del guaio in cui si stava per cacciare, e provò un senso di pena e di rimorso. Ma oramai la decisione era stata intrapresa, ed entro solamente cinque giorni, lei e Chiara avrebbero abbandonato la loro attuale residenza per trasferirsi nel disordinato appartamento dove abitava la ragazza argentina.
Le due coinquiline spagnole lasciarono l’Italia quel sabato, che era il primo giorno di novembre, con non poca tristezza e tanta malinconia. Chiara aveva chiesto ed ottenuto due giorni di permanenza aggiuntiva al Convitto, e alla mattina dell’indomani le due ragazze prepararono i loro bagagli, e si presentarono nel buio sottoscala di rione Monti.
Hélène prese posto nella cameretta in cui Chiara s’era ritirata la volta precedente, vicino al salone. Era la stanza in cui aveva abitato Solange, mentre Chiara divise la camera più grande con Paula, laddove precedentemente si trovava anche Maria Cristina. Non appena ebbero ultimato il loro breve trasloco, la biondina decise subito di telefonare al suo ragazzo, senza attendere la sera: avrebbe finalmente avuto un pied-à-terre per poterlo ospitare a Roma, e non chiese nemmeno il permesso alle sue compagne d’appartamento, pareva letteralmente impaziente di poterlo incontrare; si limitò a comunicare il suo imminente arrivo poco prima di cena, mentre Paula stava preparandosi una minestra e Hélène andava stirando alcuni vestiti.
Lorenzo avrebbe trascorso una sola notte, quella del fine settimana, insieme con loro. Paula non fece nulla, ma si capì subito che era abbastanza scocciata di non essere stata informata sin dall’inizio. Con aria seria e piccata, disse alla biondina: “Non sta bene che tu decidi questa cosa da sola … le regole di questa casa sono che si decide tutte insieme!”. Per un attimo Hélène temette che le due potessero litigare, ma dopo solamente qualche istante, Paula prese Chiara per i capelli in modo scherzoso, senza farle del male, e ridendo le disse: “… ma per questa volta mi sta bene … si vede tanto che stai morendo dalla voglia di averlo lì, il ragazzo!”; si riferiva certamente, alla voglia di fare l’amore, e allora Chiara diede un tenero bacio a Paula, per farsi perdonare di non averle chiesto il permesso.
Iniziò così una nuova vita, le tre studentesse uscivano assieme alla mattina, e prendevano l’autobus dirette verso l’Università. Hélène era sempre più isolata, non aveva imparato affatto l’italiano, ed ora che c’era anche Paula, Chiara aveva smesso di parlare con lei in francese quando erano tutte insieme; in più, provava un senso di perenne inferiorità, per il fatto di non potersi pagare regolarmente la sua quota d’affitto.
Quei giorni Hélène ricevette un’inattesa nota di cortesia da parte delle suore del Convitto: vi era una nuova inquilina, che avrebbe condiviso il suo stesso appartamento al posto di Chiara. Hélène provò in quella circostanza un po’ di curiosità mista al solito timido rimorso: la nuova ospite si chiamava Linda Prevet e proveniva da Grenoble, in Francia. Hélène per un istante pensò che avrebbe desiderato di poterla incontrare; con quel nome così semplice ed elegante, Linda avrebbe forse potuto essere, anche un’ottima compagna. Ma quello era un pensiero davvero insensato.
Si ritirò in camera sua a studiare, prima di cadere assopita in un dolce sonno ristoratore.
Ottavo episodio
Lorenzo si presentò alla porta preceduto da Chiara, che lo teneva amorevolmente per mano; era andata a prenderlo alla stazione, e di lì erano venuti a piedi fino all’appartamento, con lui che teneva la sua borsa in spalla.
Era alto e biondo, con i capelli piuttosto lunghi e scapigliati: se invece dello zaino avesse avuto una chitarra a tracolla lungo la schiena, avrebbe tranquillamente potuto essere un cantante inglese o americano, di musica folk. Chiara si era completamente trasformata in vista del suo arrivo, e quel pomeriggio indossava una minigonna piuttosto succinta di colore bianco, con calze velate e lunghi stivali neri.
Si era truccata in maniera ammaliante, come mai prima di allora aveva fatto; di sopra indossava una camicetta rosa abbottonata fino al collo.
Hélène fu presentata a Lorenzo, mentre Paula era andata in giro a fare la spesa. Lo guardò con irresistibile attrazione, ma questi – che era visibilmente stanco ed accaldato – si limitò ad un semplice saluto; sembrava piuttosto scocciato di vederla, come se in cuor suo avesse lungamente sperato, di non trovare nessun altro lì dentro quell’appartamento.
La verità è che aveva una voglia smisurata di fare sesso con Chiara, provava una pulsione davvero incontenibile: erano passati quasi due mesi da quando lui e la sua ragazza s’erano incontrati per l’ultima volta, e nonostante il lungo viaggio in treno, e la successiva camminata per giungere a casa, aveva in quel momento un chiodo fisso dentro alla testa. Per moltissimi giorni aveva tenuto le sue energie a freno, al punto che in più occasioni il sesso lo aveva sentito vibrare, come una creatura viva dentro ai suoi pantaloni; e adesso era giunto finalmente nel luogo dove tutte quelle energie sarebbero state spese: ma vi era ora questo impedimento, questa banale ragazzotta straniera a proibire loro di esplodere in tutta la loro passione.
Chiara avrebbe voluto dire a Hélène di andarsene, ma era vestita in maniera completamente dimessa, con una culotte bianca che sembrava quasi un pigiama, ed una maglietta a girocollo, per cui si sarebbe dovuta preparare a lungo per poter uscir di casa e lasciarli liberi.
Accompagnò Lorenzo nel salone, laddove egli avrebbe dovuto pernottare, dormendo sul divano. In quell’istante Hélène domandò al nuovo arrivato, se desiderasse di bere qualcosa; ma quegli, con fare sbrigativo ed anche leggermente inelegante le rispose: “Perché non ci lasci un po’ da soli adesso? …”.
Hélène ci rimase male, ma riprese alcuni fogli con gli appunti che aveva precedentemente appoggiato sul tavolo, nel momento in cui era andata ad aprire la porta, e si ritirò in camera da letto strisciando lentamente con le sue ciabatte; in quell’istante, si sentì tristemente sola e indesiderata, era quasi sul punto di piangere.
Si chiuse in bagno per un po’, e quando ne uscì, dal salone non si udiva più nulla. Aprì nuovamente la porta della sua camera con cautela, tutto avrebbe desiderato tranne che di essere vista, ma nel salone non vi era più alcuna traccia né di Lorenzo e né di Chiara.
Allora si mosse lentamente verso il tavolo, e poi successivamente nella direzione della cucina; in quell’istante udì in modo nitido, dalla camera da letto di Chiara e Paula, degli urletti soffocati, seguiti da alcuni sbuffi di piacere. Si fermò attonita su due piedi, ed a quel punto gli urletti divennero più distinti e riconoscibili. Era Chiara che stava godendo in modo sommesso, pareva quasi gemere.
Hélène non sapeva cosa fare, inizialmente pensò di tornarsene in camera con la coda tra le gambe; ma poi avvertì come uno scatto dentro alla pancia, e subito fu bagnata in mezzo alle cosce, dentro le sue culotte.
Allora decise che avrebbe voluto spiarli, e si piegò con non poca difficoltà verso la serratura della porta. Chiunque l’avesse osservata dal didietro in quel momento, avrebbe veduto il suo enorme popò piegato in avanti, avvolto dalla misera culotte bianca, e le due mani aperte appiccicate alla porta, all’altezza di mezzo. Mise l’occhio vicino alla serratura, ed inizialmente non vide nulla; poi si allontanò un istante per riavvicinarsi di nuovo, e finalmente riuscì ad intravederli.
Chiara era in ginocchio su una vecchia poltrona, con gli avambracci piegati dietro allo schienale, e la minigonna completamente alzata.
Alle sue spalle, Lorenzo la reggeva per ambedue i fianchi, e la stava prendendo con energia e decisione. Non riusciva a vedere il pene di lui, ma doveva essere bello lungo e consistente, a giudicare dai mugolii di piacere della ragazza. Avvolte poco sopra alle sue ginocchia poi, le calze trasparenti e la mutandina di pizzo nero le impedivano completamente il movimento, cosicché Chiara era letteralmente immobilizzata, tra il dorso della poltrona, le cosce strette nel collant, ed il membro dietro di lei che la puntellava in modo fermo e inesorabile. Lorenzo sbuffava e godeva, e di tanto in quanto insultava la sua ragazza, chiamandola “troia”, oppure “maiala”.
A quanto pare questi insulti accendevano la passione in lei, che rispondeva ansimando in modo sempre più intenso, incitando il suo ragazzo a sprofondarla con più impeto ancora.
In un certo istante però, quando era sul punto di venire, Lorenzo la afferrò per i capelli e la fece voltare verso di sé; Chiara compì una specie di giravolta sulle ginocchia, ed infine piegando leggermente la schiena in avanti, assecondò il movimento del suo ragazzo, che spingendole la nuca le infilò letteralmente il membro nella bocca. Fu lì che Hélène poté finalmente vedere l’uccello di lui, che era pallido e deludente, per quanto fosse lungo e arcuato come una grossa banana.
Durò solamente pochi secondi, e Chiara si mosse rapidamente indietro, prendendosi un mare di sperma bianco e schifoso sul viso e sulla camicetta di colore rosa.
Lorenzo la fece voltare nuovamente, e completò l’opera svuotando tutto il pene, molle e sgonfio, sopra di lei.
Hélène arretrò, era in uno stato di totale confusione; in quell’istante un rumore di chiavi la ridestò, era Paula che era appena rientrata, e per una questione di pochi attimi non si era resa conto di quanto ella stava facendo. Notò tuttavia che la ragazza argentina era meravigliata di vederla in piedi dinanzi alla porta della sua camera da letto; si giustificò allora, senza che le venisse richiesto, dicendo: “… ho sentito … ho sentito dei rumori … credo che ci siano Chiara e Lorenzo lì dentro …”.
Paula allora sorrise, e le disse: “Li hai spiati vero? … è stato bello vedere ?!?”; allorché Hélène negò categoricamente, ma si vedeva benissimo come stesse chiaramente mentendo in quella circostanza; aveva ancora la vagina completamente bagnata.
“Vergognati!” le disse Paula, facendole cenno di tornarsene in camera sua. Hélène non si aspettava affatto un atteggiamento tanto duro da parte della sua coinquilina argentina; in quell’istante ella percepì nettamente, una grande diffidenza ed una profonda avversione da parte di quest’ultima. Tuttavia, non reagì e si allontanò via un po’ mestamente.
Entrò in camera sua, ed in quel preciso momento, avvertì fortissima l’esigenza di toccarsi; ma la porta non poteva essere chiusa a chiave, per cui si volse rapidamente e decise infine di entrare dentro al bagno. Lì finalmente poté rinchiudersi da sola per bene: si abbassò rapidamente le culotte, e si mise seduta sulla tazza.
Il pesante insulto di Paula le risuonava ancora, forte, chiaro e deciso dentro alle orecchie; mise due dita in mezzo alla peluria nera, in basso, e poté sentire in modo nitido il cosino umido e tutto tornito, che la tirava come un treno. Le culotte erano rimaste a mezza altezza, sotto le ginocchia divaricate.
Affondò l’intera mano, e ripensò all’insulto appena ricevuto; poi rivide Chiara piegata sul dorso della poltrona, con la gonna alzata, ed infine il pene di Lorenzo, mentre lui se lo ripuliva sul didietro di lei. Sprofondò, ed iniziò a gocciolare nella tazza, un liquido bianco denso e caldo, a fiotti.
Qualcuno in salone accese la musica, era un famoso brano di Elvis Presley: Hélène si rimise a posto le sue culotte provando un senso di vergogna indicibile; per sua fortuna Chiara volle essere gentile con lei, e bussando alla porta chiusa del bagno, le disse: “Ti va di venire con noi stasera … usciamo a bere qualcosa qui vicino …”.
Hélène ristette un istante, ma poi leggermente sollevata rispose: “… dove andate? … devo solo farmi i capelli …”.
Allora Chiara la tranquillizzò: “Non preoccuparti … c’è ancora Lorenzo sotto alla doccia, e poi tocca a me … faremo notte prima di uscire!”, e si mise a ridere di gusto; non si era ancora lavata, e quando Hélène aprì la porta del bagno, la sua coinquilina bionda era dinanzi a lei, con i capelli raccolti ed una lunga canottiera bianca che le ricopriva l’addome come se fosse stata un piccolo vestitino.
Hélène incrociò i suoi occhi, e provò nuovamente un bel po’ di vergogna; Chiara volle apparentemente infierire su di lei, e stiracchiandosi le disse: “... mi sento ancora come se mi avesse spazzolata …” e si mise a ridere nuovamente.
Era probabile che Paula le avesse rivelato, di avere intravisto Hélène mentre ella li spiava di nascosto attraverso la serratura della porta, così che adesso Chiara intendeva fare i conti giocando con lei ed umiliandola. Ma non avrebbe mai saputo se fosse realmente così.
Dopo quasi tre ore passate a dividersi il bagno per poter fare la doccia, Hélène per la prima volta in assoluto si ritrovò ad uscire la sera per gli allegri locali del rione, in un’atmosfera calda ed accogliente. Lorenzo e Chiara li seguivano tenendosi per mano, mentre Paula camminava davanti a tutti, e con lei c’erano anche Marco e Lele. Entrarono dentro ad una birreria arredata in stile bavarese, molto affollata e rumorosa, e si sedettero nella sala in fondo: Lorenzo e Chiara da un lato insieme a Paula, e Hélène con le spalle all’ingresso, davanti al ragazzo di Chiara e alla sinistra di Lele.
In quella circostanza si vide benissimo quanto Marco fosse attratto da Chiara: le fissava il viso in continuazione, al punto che anche Paula dovette accorgersene, tanto da apparire in quell’istante anche piuttosto infastidita dalla cosa. La biondina di Vercelli domandò ad Hélène, se avesse iniziato a capire un po’ meglio l’italiano.
Lele fece una battuta, e le disse: “... per esempio bella, sai che la parola scopare ha in italiano due significati?!? …”, e si mise a ridere. Marco rincarò la dose, e fissando sempre Chiara in maniera davvero insistita, aggiunse: “Anche la parola bocca in italiano ha due significati …”. La ragazza teneva infatti in quell’istante, le labbra leggermente schiuse; aveva compreso perfettamente il gioco, ed invece d’evitare di peggiorare il tutto, iniziava davvero a provarci un bel po’ di gusto. Indossava un bellissimo collarino di raso, su un vestito intero con spalline e pantaloni vaporosi di color verde oro; aveva i capelli legati, ed anche lei - alla pari di Hélène - non li acconciava spesso in questa maniera.
La ragazzotta belga rimase immobile sulla sedia, e fu proprio Lorenzo – che fino a quell’istante non l’aveva neppure degnata di uno sguardo – a metterla davvero in difficoltà dicendole: “... te l’hanno mai spiegato … il significato della parola scopare !?!”. Chiara allora prese la mano del suo ragazzo, e ridendo disse: “Lasciatela stare! … è in Italia da soli due mesi, perché siete cosi cattivi?”.
Tutti quanti risero, e Hélène provò un senso di fastidio e di abuso quasi fisico nel sentirli schiamazzare e rumoreggiare in quella maniera.
Dopo un po’ la biondina si alzò in piedi per andarsene in bagno, nel suo vestitino intero leggermente morbido e rigonfio all’altezza dei fianchi; Lorenzo prendendole una mano le disse: “Vengo anch’io con te”. Aveva notato il comportamento assai irrispettoso di Marco, ed iniziava a temere che questi intendesse provare a portargli via la ragazza; appariva oltremodo innervosito, ed in cuor suo sapeva benissimo che in moltissime altre occasioni, non ci sarebbe stato più lui lì a difenderla.
Paula sembrava del tutto indifferente a questi atteggiamenti, quella sera era stranamente meno brillante e divertente del solito; tuttavia, mentre Lorenzo e Chiara si allontanavano tenendosi per mano, fece altrettanto e strinse la mano di Marco, che sorridendo gliela baciò.
Lorenzo attese Chiara fuori dal bagno, e nell’istante in cui quella aprì la porta per avvicinarsi al lavandino, egli fece un passo in avanti dentro alla toilette, che era riservata alle sole donne; e le fu addosso con un attacco di passione rabbioso, per nulla gentile: le afferrò con ambedue le mani il pantalone lungo i glutei morbidi e profumati, stringendoglieli e sollevandoglieli tutti quanti sotto il cotone leggero.
Chiara non apprezzò affatto la cosa, ed alzando leggermente la voce, lo respinse dicendo: “Ma che cavolo ti prende!?! …”; era geloso da morire, e avrebbe voluto farla di nuovo sua in quell’istante, per sentirla posseduta e incatenata a sé.
La serata scivolò via, con Marco che apparentemente s’era calmato un po’, e adesso dedicava più attenzione a Paula, la quale s’era anche visibilmente rincuorata nel frattempo. Si spostarono in un piccolo locale della stradina accanto, dove due giovanotti dai tratti fisici vagamente irlandesi, suonavano la chitarra e cantavano in allegria.
Fu lì che Lorenzo commise il fatale errore di andarsi ad ordinare una birra, lasciando così la sua ragazza da sola assieme agli altri, in prima fila davanti al piccolo palco dove si esibivano i due giovani.
Nonostante Paula fosse solamente pochi metri più in là, ed anche Hélène li stesse osservando con attenzione, approfittando della luce molto bassa della sala Marco s’avvicinò alle spalle di Chiara, e con nonchalance le mise un palmo della mano su uno dei due glutei, tastandoglielo tutto quanto e facendogliela sentire per bene.
Hélène ristette, temendo il peggio, una reazione violenta e sconsiderata; e invece stranamente Chiara non si mosse, facendo finta di continuare ad ascoltare la musica dei due ragazzi irlandesi, ma sentendo benissimo l’impronta della manona di Marco lungo tutto il didietro, da cima a fondo.
Era inconcepibile, la sua compagna d’appartamento si stava facendo toccare il culo da un altro, proprio la stessa sera in cui ella aveva rivisto il suo, di ragazzo, il presunto innamorato che non incontrava da ben due mesi.
Hélène provò una strana sensazione di disagio, ed improvvisamente ricordò tutti i deliziosi capi di biancheria intima che aveva veduto nel cassetto della sua coinquilina: concluse in quel frangente che Chiara, contrariamente alla sua prima impressione, era tutt’altro che una timida santarellina. Ed in quella circostanza, ella stava sicuramente provando un gran piacere a venire toccata in quel modo.
Marco fu molto scaltro a mollare la presa delle natiche di lei, un istante prima che Lorenzo si riaffacciasse nella sala; questi tornò accanto alla sua ragazza, cingendole la vita in un abbraccio delicato. Quella notte avrebbero fatto l’amore di nuovo dentro al salone, al buio, in maniera discreta e silenziosa per non venire ascoltati; con Hélène immobile nel letto colta da brividi di voluttà lungo tutta la schiena.
Nono episodio
L’Università stava già lentamente, ma inesorabilmente andando in malora. Da quando si erano trasferite, Chiara non era più la studentessa modello di un tempo, e Hélène non poteva più essere aiutata da lei come era accaduto in passato; tutto si stava tremendamente complicando, e Hélène in cuor suo lo sapeva. Ma se da un lato avrebbe desiderato tornare indietro, ai giorni tranquilli e un po’ noiosi del Convitto, dall’altro era terribilmente attratta dalla vita allegra e sfrenata della sua nuova residenza, col viavai di uomini e la sfrontata leggerezza delle inquiline che l’abitavano.
Lorenzo era partito la domenica stessa, dopo una sola notte, e Chiara a quanto pare ne era restata tutt’altro che desolata e affranta: aveva preso a vestirsi e a curarsi in maniera assai più ricercata nell’aspetto, come se da quel momento in poi, qualcosa in lei si fosse definitivamente sbloccato. Paula invece sembrava tutto ad un tratto più chiusa ed introversa, era come se di contro, il freddo dell’autunno e le prime gocce di pioggia l’avessero intristita ed inaridita.
Senza alcun preavviso, la sera di quel giovedì il citofono squillò in modo perentorio ed insistito. Fu proprio Hélène a rispondere, con un semplice “oui” un po’ pomposo e decisamente fuori contesto; dall’altro lato si udirono le voci di alcuni maschi, erano Marco, Costanzo e Lele che si erano presentati dopo una cena al rione, e qualche birra di troppo.
Hélène ristette nel corridoio, poi chiese scusa un istante, e lasciando la cornetta del citofono che penzolava lungo tutta la parete, corse in cucina ad avvisare Chiara, mentre Paula era chiusa in bagno.
La biondina era completamente struccata ed indossava un pantaloncino di spugna di color fuxia; fece a Hélène un gesto della mano, di non aprire la porta ai tre ragazzi: probabilmente desiderava potersi vestire e truccare meglio. Ma nel frattempo qualcuno doveva avere aperto loro l’ingresso al piano di sopra, e adesso le voci scure e profonde dei tre amici risuonavano belle nitide lungo tutta la rampa delle scale. Dopo un solo istante, bussarono alla porta, e allora Hélène dovette chiedere loro scusa una volta ancora, sussurrando qualcosa di incomprensibile mentre osservava le tre sagome buie attraverso lo spioncino.
In quel preciso momento, ebbe un sentimento strano, di minaccia e di pericolo, ed istintivamente fece ritorno in cucina, dove però non vi era più nessuno. Si avvicinò quindi alla camera da letto delle due coinquiline, e vi ritrovò Chiara nell’intento di pettinarsi e truccarsi le ciglia, in assoluta fretta. Il campanello suonò di nuovo, e allora fu Chiara stessa a sollecitarla, dicendole: “Allora? … non vai ad aprire ?!?…”.
La porta si schiuse, Hélène era vestita con una semplice tuta e non si era neppure lavata i capelli, che erano tutti legati e piuttosto sciatti; vide i tre maschi entrare uno dopo l’altro, e solamente Lele le si avvicinò sfiorandole un braccio nell’intento di mostrarle un minimo di simpatia. Li vide accomodarsi attorno al tavolo del salone, come se quella fosse stata fin da sempre, la loro casa.
Voleva rinchiudersi nella sua camera da letto, ma per farlo avrebbe dovuto attraversare la sala, e la cosa la intimidiva assai, dal momento che i tre ragazzi l’avrebbero certamente scrutata da cima a fondo, e qualcuno avrebbe anche potuto esprimere qualche commento poco carino nei suoi confronti. Per sua fortuna Paula uscì dalla doccia proprio in quell’istante, e opportunamente avvisata da Chiara, si presentò nel salone avvolta unicamente da un elegante accappatoio con motivi colorati.
Marco esordì amabilmente, esclamando: “Cavolo quanto sei sexy con quel coso addosso !!!”; lei rise di gusto, e con una mossetta fece finta di sciogliersene la cinta; ma poi la riannodò nuovamente, andando a prendere una bottiglia di vino rosso dalla cucina. Hélène in quel momento si affacciò in salone, e fu invitata da Costanzo, che mai prima d’allora l’aveva neppure presa in considerazione, a sedersi: “Tu come ti chiami?!? …”, le disse, proseguendo poi senza attendere la sua risposta, “… stasera ti tocca farci compagnia ... ci sentiamo tutti un po’ soli…”; Hélène non sapeva cosa fare, ma di nuovo fu invitata da Lele a sedersi in mezzo a loro, tra lui e lo stesso Costanzo.
In quell’istante entrò in salone anche Chiara, e chiese a Hélène con cortesia di spostarsi di lato, per potersi sedere tra lei e l’ex ragazzo di Solange alla sua sinistra.
Paula mise su un disco di musica rock, e dopo aver versato l’intera bottiglia di vino comperata al supermercato, nei sei bicchieri da cucina disposti sul tavolo, si accomodò sulle ginocchia di Marco. In quella circostanza, Chiara si ritrovò esattamente di fronte a Paula, che se ne stava seduta addosso al suo uomo; questi le carezzava le cosce tenendole una mano infilata direttamente tra i due lembi morbidi dell’accappatoio: la bella ragazza argentina non indossava assolutamente nulla di sotto, e la sua pelle del colore dell’ambra era tutta levigata e profumata di lavanda.
Ma mentre la toccava e le palpeggiava la parte alta delle cosce, Marco fissava intensamente Chiara che era seduta lì di fronte; sembrava quasi volerle far notare, la sua manona che frugava sotto il morbido accappatoio di Paula, mentre con uno sguardo sanguigno e volitivo le teneva gli occhi addosso.
Chiara era tutt’altro che timida o remissiva, e prese nuovamente a fissarlo come aveva fatto pochi giorni addietro, dentro alla birreria bavarese, con le labbra leggermente schiuse. Marco a bassa voce disse: “… hai delle labbra caldissime …”; Paula gli tolse la mano, che si andava insinuando sempre più in alto verso l’inguine, e ridendo in modo rabbioso e beffardo, gli disse: “La smetti di provarci con Chiara?!? … ma non hai visto che ha il ragazzo? …”. Era forse la prima volta in assoluto nella sua vita, in cui Paula provava un senso così vivo e odioso, di travolgente gelosia.
Costanzo si volse verso Chiara, e con eleganza le domandò: “Come si chiama il tuo ragazzo?”. Questa senza pensarci un solo istante, rispose: “Non deve interessarvi … comunque si chiama Lorenzo e tra cinque minuti devo pure chiamarlo…”.
“Salutamelo tanto !!!” esclamò Marco ridendo, e senza perdere altro tempo infilò nuovamente la mano sotto il lembo dell’accappatoio di Paula, raggiungendo direttamente l’interno delle due cosce tornite e calde.
Hélène stava sorseggiando il suo bicchiere di vino rosso, ed era vagamente sovrappensiero; Lele era alla sua destra e ancora una volta si stava preparando le sue cose per poter fumare. Costanzo la chiamò in causa dicendo: “E tu invece … tu ce l’hai il ragazzo?!? …”. Hélène ristette, non si aspettava davvero una simile domanda; poi raccolse tutte le sue forze, e con tono fermo rispose: “… io … io ho avuto una storia con un ragazzo in Belgio … ma adesso no, adesso sono sola…”. “E allora stasera non scappi!” le disse Marco, mentre con la mano continuava a tastare le cosce di Paula. Hélène sentì una stretta in mezzo alle gambe, ma Costanzo la tranquillizzò: “…non dargli retta … fosse per lui tutte le sere dovrebbero finire sempre allo stesso modo!”, e si mise a ridere.
Lele si ridestò un momento, e guardando Hélène in viso, prese la parola dicendo: “… l’hai mai fatto con un ragazzo italiano?”. Costanzo allora lo apostrofò in malo modo, reagendo: “Piantatela ragazzi! … vi sembra il modo di rivolgervi ad una persona che avete conosciuto da così poco tempo?... può bastare così …”.
In quell’istante Chiara si levò in piedi, erano le dieci ed era arrivato il momento di chiamare Lorenzo al telefono; la presa di posizione di Costanzo, che aveva assunto le difese di Hélène, l’aveva decisamente colpita, e forse proprio per ricompensarlo o piuttosto per darglielo semplicemente a notare, nell’atto di allontanarsi, ella gli poggiò una mano sulla spalla, con dolcezza. Dopodiché si mosse lentamente verso la cucina ed infine si chiuse nella sua camera da letto.
Il disco era andato avanti, e adesso la musica era diventata piuttosto fastidiosa; Paula allora si liberò dalla presa di Marco, e si alzò in piedi per andare ad abbassare il volume, non voleva affatto che i vicini di casa si lamentassero una volta ancora. In quel momento anche Costanzo si alzò, con disinvoltura, e prese a girare per l’appartamento.
Hélène notò per bene la scena, e comprese come questi andasse cercando la stanza in cui si era rinchiusa Chiara; anche Marco dovette notarlo, e si fece stranamente scuro in viso, come se in cuor suo desiderasse anch’egli di poter fare altrettanto. Ma fu presto distratto nuovamente dalla bella argentina, che tornò a sedersi sopra di lui, ma stavolta a cavalcioni sulle ginocchia, abbracciandolo con energia e passione attorno alle sue spalle larghe e robuste.
Lele, che nel frattempo aveva finito di prepararsi da fumare, prese una mano di Hélène, ed invitandola ad alzarsi le disse: “Andiamo cocca … lasciamoli soli …”.
Hélène ristette un istante, ma poi con fermezza rifiutò quell’inopinato invito, cosicché Lele s’allontanò di suo conto.
Ma Marco quella sera era lievemente ubriaco e piuttosto di malumore, sapeva che Costanzo era in giro per la casa e che era sul punto di provarci con Chiara, e semplicemente non tollerava affatto l’idea, di non poterci essere lui, al suo posto; Paula gli stava sopra, con il solo accappatoio indosso, ma in quel momento il bel ragazzo italiano non riusciva proprio a provare alcun trasporto verso di lei; pensava unicamente alla bocca calda e schiusa di Chiara.
Spostò Paula di peso, e la fece sedere sulla sedia accanto a sé, dove precedentemente era stato seduto Costanzo; quella lo guardò con espressione assai infastidita, e trangugiando il suo vino gli disse: “… che diavolo ti succede guapo … sei diventato impotente allora!?! …”, e gli rise in faccia in modo davvero violento ed offensivo. Questi dovette prenderla davvero a male, e allora levandosi in piedi la sollevò dalla sedia per un braccio, trascinandola di peso verso la cucina. Hélène vide tutta la scena, mentre Lele era già nella cameretta di lei, ed un odore assai intenso di fumo ne inondava tutto l’angusto spazio.
Lì Marco la costrinse di forza a piegarsi in avanti sul tavolaccio di legno, e con un gesto rapido le rovesciò tutto quanto l’accappatoio lungo la schiena, scoprendole per intero il sedere meraviglioso. Poi con una manata robusta e schioccante, le afferrò lo spazio in mezzo all’inguine e tra i glutei, facendola sussultare. Paula provò una sensazione di viva costrizione e di desiderio, e fu subito bagnata per bene tra le cosce.
Ma non c’era davvero alcun verso di farlo quella sera. Marco era veramente in uno stato di grande confusione e di rabbia, ed allora in modo istintivo, ricoprì il didietro della ragazza abbassandole l’accappatoio, tirandola nuovamente su per un braccio; ed infine esclamò: “Vatti a rivestire … non mi vai proprio oggi …”.
Quella dovette provare un senso immane di fastidio, e voltatasi verso di lui, gli mollò uno schiaffone vigoroso.
Nel frattempo Costanzo aveva trovato la porta della cameretta di Chiara, e stava ascoltando di nascosto la conversazione tra lei e Lorenzo; dopo il loro incontro a Roma quelle telefonate erano divenute ora, tutte ricolme di domande e piene di sospetti; solamente alla fine, Chiara aveva iniziato a fare quello che il suo ragazzo le chiedeva, e adesso sedeva sul letto con la mano sinistra infilata dentro al pantaloncino di spugna, fingendo di provare del piacere, ma senza fare troppo sul serio.
Costanzo allora spinse con delicatezza la porta, e vide nella penombra la sagoma della ragazza, seduta sul letto col telefono all'orecchio e la mano infilata tra le gambe. Ella non fece né disse nulla nel vederlo entrare, e allora lui – preso un bel po’ di coraggio – le si fece più vicino, fino a presentarsi dritto in piedi, a pochissima distanza da lei.
Chiara si tolse repentinamente la mano dalle mutandine, e con grandissima sorpresa da parte di Costanzo, fece quello che giammai lui avrebbe nemmeno immaginato: gli abbassò la cerniera dei pantaloni. Questi ristette meravigliato, era una cosa inaudita, davvero inverosimile; ma senza poi perdere un solo istante, le facilitò il compito sciogliendosi la cintura ed aprendosi per bene i due bottoni sul davanti. Venne fuori una mutanda bianca griffata, rigonfia in modo esagerato, come un pacco stretto e duro di carne compatta.
Chiara continuava a mugolare sommessamente nel telefono, in modo un po’ scontato e banale; ripeteva di continuo: “Sì … lo sento … adesso lo sento …”, e intanto con un gesto tanto deciso quanto sconsiderato, infilò la mano sinistra dentro alla bianca mutanda di Costanzo.
Il pacco chiuso e compatto era in realtà morbido e arrotolato come una ciambella; non appena lo afferrò, Chiara comprese che si trattava di un oggetto mostruosamente lungo e molle. Lo estrasse un poco alla volta, e subito si ritrovò dinanzi ad una specie di proboscide penzolante, bianca e nerboruta.
Riprese a mugolare: “sììì … sono bagnata adesso … e tu …”, ma l’unica cosa che in quel momento destava la sua attenzione, era quel membro impressionante che vibrava nell’aria a pochi centimetri da lei.
L’afferrò a metà, e mentre dall’altro capo del telefono Lorenzo aveva già preso a masturbarsi, con chiari segni di godimento, Chiara fece altrettanto con Costanzo, e subito lo vide irrigidirsi un poco alla volta, prima alla base, e poi lungo tutta la sua smisurata estensione; in pochi secondi il grosso membro fu quasi completamente duro ed eretto.
Lo afferrò per bene, e con dolcezza iniziò a muoverlo tenendolo stretto e saldo nel palmo della sua mano; Costanzo le mise ambedue le mani sopra la testa, sui suoi capelli lunghi e biondi. Nel frattempo, Lorenzo stava ansimando, e presto sarebbe venuto in modo triste e solitario dall’altro lato del telefono. Allora Chiara prese il pene di Costanzo nel punto di mezzo, ed iniziò a masturbarlo come si deve. In quell’istante, ella prese a mugolare e a deglutire con intensità, come una bambina; Lorenzo dall’altro capo del telefono, la incitava.
Quando la telefonata finì, Chiara aveva il viso bianco e delicato tutto sporco di appiccicoso sperma, con Costanzo che l’aveva lasciata a concludere la sua amorosa conversazione, mentre nel frattempo si ripuliva nel bagno lì accanto.
Hélène era rimasta da sola in salone, e aveva visto rientrare Marco tutto scuro in volto, mentre di Paula non vi era in giro più alcuna traccia; questi si scolò il suo vino, sembrava abbastanza arrabbiato. Poi si sedette accanto a lei. Hélène arretrò tutta quanta spaventata, ma quello senza darle nemmeno il tempo di pensare, le prese un braccio portandola a sé; dopodiché con l’altra mano la prese di forza dietro alla nuca. Infine, con un movimento repentino la baciò sulle labbra, infilandole tutta quanta la lingua profonda dentro alla sua bocca, schiusa e calda.
Decimo episodio
Nessuno avrebbe dovuto saperlo, che quello era stato il suo primo, vero, bacio alla francese. Le amiche di Hélène, ai tempi della scuola, lo chiamavano semplicemente il primo click: ed ecco che Hélène, a diciannove anni suonati, aveva avuto il suo primo click assieme ad un ragazzo italiano, davvero bellissimo, ma purtroppo completamente indifferente e totalmente disinteressato a lei; al punto che subito dopo averla baciata, le aveva persino chiesto di lasciarlo da solo.
Era stata una sensazione strana, non bella ma sicuramente emozionante; Hélène non stava nella pelle, ma tantomeno poteva rivelarlo ad alcuno: come già per il suo primo orgasmo, così anche il suo primo click sarebbe rimasto un piccolo segreto.
La serata del giovedì aveva lasciato degli strascichi difficili da ricomporre, e Paula che aveva un carattere altero e forte, aveva già dall’indomani deciso di interrompere qualsiasi rapporto con Marco. Aveva compreso benissimo, come questi fosse irresistibilmente attratto da Chiara, e la cosa semplicemente non le andava giù. Da parte sua invece, la biondina se ne stava tranquilla al suo posto e neppure ci pensava più di tanto. Tutto ad un tratto all’improvviso, i tre ragazzi avevano smesso di frequentare il loro appartamento.
Un martedì mattina, mentre usciva di casa sul tardi, e le sue coinquiline erano già fuori da un pezzo, Hélène raccolse una bustina bianca dentro alla buca della posta. Non vi era riportato alcun indirizzo, né apposto alcun francobollo; v’era solamente uno scarabocchio scritto a penna, con calligrafia rozza e inelegante, che ne citava il destinatario: per Chiara.
Hélène mise la piccola busta nella sua borsa, e mentre attendeva l’inizio della lezione di Diritto Canonico, vedendo che la sua coinquilina bionda non era ancora arrivata, ebbe un’assurda tentazione, di aprire quella busta.
Ristette per un istante, e si guardò intorno, ma di Chiara non vi era in giro ancora nessuna traccia; quando infine la lezione ebbe inizio, Hélène si rese conto che la sua coinquilina era semplicemente seduta due file più in basso, probabilmente era entrata in aula solamente all’ultimo.
Allora fece quello che giammai in cuor suo avrebbe pensato di poter fare: aprì con delicatezza la bustina, e ne estrasse un foglio scritto a mano con stile incerto. Iniziò a leggere con irresistibile stoltezza, e subito ristette meravigliata.
“Ciao Chiara, sono Marco.
Ti ho cercata su internet e alla birreria, ma niente da fare. Ma io non mi arrendo! Volevo infatti dirti, che per te manderei tutto quanto all’aria, gli amici, l’università, la mia stessa vita …
Da quando t’ho vista con quel vestitino intero addosso, non ho più smesso di desiderarti, e adesso non riesco più a pensare a nessun’altra ragazza all’infuori di te.
Lo devo confessare … la tua bocca mi fa letteralmente impazzire! … vorrei baciarla, ma soprattutto … vorrei sentirla mentre me lo scaldi, sono sicuro che ti piacerebbe :-) …
Ti lascio il mio numero 3474197521, ti prego di chiamarmi o di scrivermi, se non vuoi vedermi impazzire …”
Hélène richiuse il foglietto con le cosce che le tremavano. Lo rimise dentro alla sua piccola busta, e lo nascose in un taschino all’interno della borsetta. Poi, quando comprese di essere inesorabilmente bagnata fradicia in mezzo alle gambe, lo estrasse nuovamente, e trascrisse quel numero di telefono, così complicato e difficile, registrandolo nella sua rubrica. Adoperò un insospettabile nome francese, Pascal, in maniera da evitare qualsiasi rischio di venire scoperta.
Non contenta, mentre la lezione andava avanti ed il professore insisteva col suo tono di voce lento e monocorde, Hélène estrasse nuovamente il telefono, ed ebbe una sorta di folle idea: avrebbe spedito un messaggio a Marco, fingendo di essere Chiara. Era una vera sciocchezza, e la ragazzotta belga in cuor suo lo sapeva; ma in fondo non era stato proprio Marco a baciarla in modo futile e irruento, senza alcuna ragione? Non era forse una sua legittima possibilità, quella di sognare che quel ragazzo fosse suo, dopo essere stata baciata in maniera sciagurata e insensata?
Allora si fece coraggio, e scegliendo attentamente le parole per non rischiare di fare errori, scrisse:
“Ciao Marco, sono Chiara. Ho letto la tua lettera, mi sei simpatico, ma la mia bocca è calda solamente per il mio ragazzo :-)”
Scrisse queste parole, sapendo benissimo che si trattava di un’autentica scelleratezza. Ma voleva vedere quale sarebbe stata la reazione di Marco; ed in quell’istante, alla grande curiosità per la strana situazione, si univa un fremito bollente lungo tutta la schiena.
La risposta arrivò dopo meno di cinque minuti, e fu meno divertente di quanto Hélène avesse sperato.
“Hai fatto male a darmi il tuo numero :-) … ti tormenterò finché non lo prenderai tutto bello stretto … in quella bocca … Sto scherzando ma non troppo …”
Certamente il suo numero di telefono sarebbe stato oggetto di continui messaggi. Hélène lo comprese immediatamente; e non passarono nemmeno due ore, che Marco già riprese a scriverle, alternando frasi più delicate e gentili, ad altrettanti autentici deliri di passione, senza risparmiare a volte parole assai volgari.
“In questo momento sono arrapato come un toro da monta … è un bene per te, che io non ti sia alle spalle dolcezza mia :-) … potrei farti pentire, di essere nata femmina”
Spesso Hélène non rispondeva nemmeno, si stava lentamente rendendo conto, di essersi messa dentro l’ennesimo pasticcio.
Ben presto Marco pretese di poterla incontrare, pensando sempre che al suo posto ci fosse Chiara. Una mattina, mentre Hélène era sull’autobus diretta all’Università, il suo telefono squillò, ed era proprio lui che la cercava. Ebbe un’esitazione simile ad un attimo di panico, ma subito decise di non rispondere, non sapendo bene come gestire la situazione.
Irruente com’era, Marco insistette con nuovi ed ostinati squilli, fino al punto in cui, esasperato le scrisse: “Perché non rispondi bellezza … ho una voglia matta di schiaffartelo in bocca stamattina…”.
Hélène era sempre più preoccupata, avrebbe voluto porre fine a quel gioco così pesante e assurdamente insensato. Pensò che avrebbe potuto incontrare Marco di persona in pieno giorno per spiegargli tutto quanto, oppure mandargli un messaggio che chiarisse definitivamente le cose; ma aveva un serio timore della possibile reazione di lui, e così non fece nulla. La situazione precipitò un mercoledì sera, quando ciò che non doveva assolutamente accadere, si verificò come una sadica coincidenza: Marco incontrò Chiara sotto l’ingresso del palazzo in via Baccina.
I loro sguardi si incrociarono in modo sanguigno e violento; e subito lui le fu addosso, stringendola a sé; rotolarono giù per le scale baciandosi appassionatamente, come due amanti che non si incontravano da anni.
Lei indossava un jeans stretto e aderente; Marco le mise immediatamente una mano sul sedere, facendola subito sobbalzare. Con un ultimo tratto residuo di razionalità, Chiara lo respinse e subitaneamente suonò al campanello della porta, che si aprì. Era Hélène dietro lo spioncino, che li fissava impaurita. Ma quello filò via su per le scale, temendo che vi fosse Paula lì dentro al suo posto.
Grazie al cielo la storia dei messaggi al telefono non era venuta ancora alla luce, ma oramai Hélène sapeva che sarebbe bastato assai poco, un nuovo casuale incontro, affinché quel suo stupido gioco venisse smascherato.
Allora si fece coraggio, e tremando per le possibili conseguenze, la mattina del nove di dicembre, lo chiamò.
Undicesimo episodio
Quel fine settimana sarebbe stato più lungo degli altri, essendo anche il lunedì per via eccezionale, un giorno festivo. Dopo una rapida doccia Lorenzo si presentò nella piccola stanza da letto della squallida pensione vicino alla stazione, con il solo asciugamano indosso. Coricata sulle lenzuola, Chiara lo attendeva, nuda in un completo di morbido intimo nero. Indossava un bellissimo reggicalze, succinto e delicato, ed una specie di piccolo busto al posto del reggiseno. Le microscopiche mutandine di pizzo bianco, aderenti e sensuali, erano ancora perfettamente al loro posto.
Tra di loro non vi era più alcuna poesia, dopo la precedente visita di Lorenzo e tutte le successive manifestazioni di assurda gelosia da parte di quest’ultimo. Chiara lo sapeva, e per tale ragione, aveva provato a tenerlo lontano dall’appartamento delle ragazze e da tutti i suoi pericoli.
Così adesso una piccola stanzetta grigia e polverosa li ospitava, e senza alcuna eleganza Lorenzo si apprestava ad accostarsi alla sua fidanzata; questa appena lo vide uscire dal bagno, si sollevò seduta sul bordo del letto, e cingendolo alla vita, ne liberò i fianchi lasciando cadere in terra l’asciugamano ancora umido: lui era già perfettamente eretto, ed anche completamente fradicio di umori.
Lorenzo non era certamente un tipo cerimonioso, ed afferratala subito sulla schiena morbida, abbassò la cerniera che le chiudeva lungo il dorso il meraviglioso bustino, e lo divelse in maniera irruenta e frettolosa, liberando in un sol colpo i seni bianchi leggermente rigonfi e penzolanti di lei.
Chiara allora pensò di fare in fretta, non si sentiva particolarmente a proprio agio in quella situazione del tutto squallida, e con la mano destra strinse il membro del suo ragazzo, iniziando ad aprirlo e chiuderlo in modo rapido e deciso; con il risultato di vederlo irrigidirsi in maniera immediata, come una trave di legno duro.
Gli mise l’altra mano sul petto, depilato e muscoloso, carezzandolo con dolcezza. Allora Lorenzo, si piegò sopra di lei, ed immediatamente concentrò la sua attenzione sull’elastico bianco delle sue mutandine.
Chiara lo aiutò respingendolo con il palmo della mano schiusa, e si liberò i fianchi tirandosele giù lungo le cosce e fino in basso alle caviglie, esibendo così senza vergogna una meravigliosa vagina profumata.
Presto Lorenzo le fu sopra, con i muscoli del petto attaccati ai suoi seni morbidi e bianchi; armeggiava con ambedue le mani in mezzo alle cosce di lei, provando a trovare la via della vagina già tutta inumidita. Chiara si fece avanti ed ancora una volta afferrò il pene di Lorenzo, robusto e rigonfio di calore, e maneggiandolo con maestria, se lo appoggiò in mezzo alle cosce, nel punto in cui le sue tenere labbra mollemente schiuse, potevano ospitarlo.
Le fu dentro in modo rapido e indolore; solamente in quell’istante, Lorenzo ebbe un sussulto di vero piacere, irrigidendosi in modo ancor più virulento e appassionato. Montò allora in posizione eretta, innalzandosi sul palmo delle mani, e come un atleta che compie delle flessioni, prese a sbatterla in modo deciso e vigoroso.
In quel frangente, in maniera piuttosto inattesa, Chiara iniziò a provare anch’essa del sano godimento. Coricata sul letto, con le cosce completamente divaricate, mugolava con la bocca leggermente aperta, gli occhi sottili schiusi per il piacere, e la vagina inondata dal membro forte e robusto del suo ragazzo.
Lorenzo era presto giunto sul punto d’impazzire; fissava il ventre ed il bacino della sua ragazza, adornato dal delicato indumento di raso scuro, con i filini tiratissimi; e di tanto in quanto, la osservava dal basso, mentre lei godeva, con il viso rivolto in su.
Andò avanti ancora, trattenendo l’imminente orgasmo con non poca fatica. Lo entusiasmava vedere la sua ragazza mugolare, nella penombra della stanza polverosa, coricata sul letto con le cosce aperte, e la bocca schiusa. Le mise le mani sui seni, stringendoli fino al punto di farle del male, e continuando a penetrarla in maniera irruenta e decisa.
Ebbe un ultimo sussulto di lucidità, ed allora dopo solamente una breve pausa per riprendere il respiro, tornò a montarla con determinazione, provando a trascinarla con sé nel vortice. Chiara ansimava e godeva, questa volta sul serio, scuoteva i fianchi e si dimenava come una femmina in calore. Il ragazzo prese ad aumentare il ritmo, compiendo flessioni ancor più ampie e decise, e vedendola arrossarsi in viso, con la bocca spalancata e i bianchi denti in bella mostra. Il pene entrava ed usciva dalla vagina di lei come un pistone di legno duro, dall’alto verso il basso, in su, e in giù.
La spinse ancora per un bel po’ di tempo, finché non fu completamente gonfio di sperma e di sangue bollente; allora finalmente estrasse il pene, lungo e duro da fare spavento, e compiendo un piccolo balzo in avanti, lo impose tra i seni morbidi della sua ragazza.
Lei lo accolse senza troppa convinzione, ma era oramai troppo tardi per difendersi: già lui aveva preso ad eiaculare in modo copioso e caldo, inondandole le guance, il collo gentile ed il viso, di seme schifoso, vivido e giallo.
Quel lunedì mattina Chiara accompagnò il suo Lorenzo a prendere il treno, dopo un’ultima scappatella consumata di fretta poco prima di uscire. Si salutarono con un bacio appassionato sul lato della banchina: si sarebbero rivisti dopo solamente due settimane, nella loro città; ma qualcosa era ineluttabilmente finito tra di loro, e Chiara lo sapeva.
E l’indomani, facendosi infinitamente coraggio, Hélène decise finalmente di telefonare a Marco; lo fece alle nove, quando le sue due coinquiline erano già uscite di casa per andare all’Università. Il martedì mattina infatti, per coincidenza di orari, Hélène non aveva lezione prima delle dieci, quando puntuale ella si presentava in aula al cospetto del professor Guberti, che insegnava Diritto Canonico.
Ma quella mattina le cose sarebbero andate diversamente.
Marco rispose al telefono dopo solamente due squilli, palesemente eccitato e meravigliato; l’accento francese ed il tono monocorde di Hélène lo fecero immediatamente ridestare. Ella esordì con non poca vergogna, dicendo con la voce che le tremava: “… no, non sono lei … non sono Chiara…”; chiunque avesse veduto la scena dall’interno dell’appartamento di Hélène, avrebbe colto l’enorme imbarazzo della ragazza belga, seduta sul divano con le gambe accavallate, e le braccia tremolanti.
“… non sono Chiara … non te la prendere …”; “… no, non era tutto uno scherzo … ma non te la prendere dai …”.
Marco era tremendamente adirato, giammai Hélène avrebbe minimamente immaginato, che la sua reazione potesse essere tanto decisa e rabbiosa. Ad un certo punto le disse: “Tu sei solo una stupida … meriteresti solamente che io venissi lì adesso … e ti dessi quello che ti sei cercata …”.
Hélène non se lo sarebbe mai aspettato, ma in quel momento, invece di continuare a provare timore, sentì nuovamente come uno scatto in mezzo alle cosce, e fu inopinatamente bagnata dentro alle sue mutandine.
“Con quelle come te … è inutile parlare !!!”, insisteva Marco, mentre Hélène dall’altro lato del telefono, tratteneva a stento il respiro, paralizzata dall’emozione più sordida e dalla voluttà più indicibile.
“Cosa posso fare per farmi perdonare …”, ebbe l’ardire di chiedere, mentre oramai sentiva l’utero schiudersi ed il ventre ribollire in un mare di liquidi rigonfi e caldi.
“Cosa puoi fare!?! … eh !?!” rispose Marco, sempre più adirato. Poi dopo un solo istante, venne alle conclusioni: “Dovrei solamente venire lì, e farti un culo grosso così in maniera da farti pentire … di essere così stupida …”.
Hélène trasalì, non immaginava nemmeno che la fantasia lurida e sconsiderata di Marco, potesse arrivare ad elaborare una punizione così esagerata, giammai lei si sarebbe spinta così in là nella propria perversione.
“Adesso tu rimani lì, intanto io lo so che sei in casa …”. Come facesse a saperlo, questo Hélène non avrebbe mai potuto comprenderlo né immaginarlo. Ma a quanto pare Marco era assai ben informato sugli orari delle lezioni delle tre ragazze, passava molto tempo ad osservarle, più di quanto esse avessero potuto sospettare.
Hélène attaccò il telefono con la schiena e le gambe che le tremavano, non sapeva assolutamente cosa fare. Guardò l’orologio, erano le nove e mezza e avrebbe certamente fatto tardi alla lezione di Diritto Canonico. Ma intanto sentiva ancora quel brivido assurdo dentro alla pancia, in mezzo all’inguine; si precipitò in bagno che non ce la faceva più, ed ancora una volta sedutasi sulla tazza, con la gonna sollevata e le mutandine scese giù all’altezza degli stivali, si sfiorò fino a cadere di nuovo in un orgasmo irresistibile e irrefrenabile, al punto che dovette trattenere a stento le grida.
Si sistemò come meglio poteva, con la carne bianca delle cosce e dei glutei che le usciva da tutte le parti sotto alle mutandine ed in mezzo alla stoffa della gonna e della camicia. Raccolse tutta la poca lucidità di cui disponeva, ed uscì di casa trascinandosi indietro la sua borsa con i libri, senza nemmeno guardare l’orologio, con la certezza che avrebbe fatto tardi.
Marco continuò a tormentarla con diversi messaggi contenenti minacce e promesse di future botte.
Ma col lento trascorrere dei giorni, Hélène presto comprese che si trattava di un semplice gioco, e venuto meno quel timore iniziale per le possibili conseguenze, prese così a corrispondere a quello sciagurato scambio di insulti, con toni a tratti anche provocanti, e a tratti remissivi. La eccitava in modo davvero inaudito, il pensiero di dover essere punita da Marco.
Una doccia gelata Hélène la ebbe la sera della domenica, quando erano sedute al tavolo tutte assieme con Chiara e Paula; quest’ultima prese la parola e disse alla sua coinquilina bionda, con tono vagamente altezzoso: “Guarda che io lo so che tu ti vedi con Marco … e so anche che te lo scopi …”; Chiara diventò improvvisamente tutta rossa in viso, ma il vero autentico imbarazzo fu di Hélène, che tutto si aspettava tranne che questo.
Ebbe un brivido freddo e repentino sulla fronte, ed istintivamente abbassò lo sguardo. “Da quando lo vedi?”, riprese la ragazza argentina, con tono seccato e monocorde.
Chiara si liberò il viso dalla frangia di capelli biondi, e con fare disinvolto le rispose: “Li ho visti tutti e tre una sera al rione, ci siamo divertiti un sacco, sarà stato tre settimane fa…”. “E poi …?”, insistette Paula. “E poi … niente … mi ha dato il numero e l’ho chiamato … tutto qua … vuoi sapere come l’abbiamo fatto!?! ...”. Paula si versò del vino rosso, mentre Hélène sentiva le gambe tremare per l’imbarazzo; era assai probabile che Marco, avesse potuto rivelare a Chiara di quel loro assurdo scambio di messaggi.
Paula cambiò rapidamente argomento, come se i restanti dettagli non le interessassero più di tanto. Guardò Hélène con un amabile sorriso, tra di loro non vi era mai stata una vera simpatia, e sorseggiando il suo bicchiere di vino, lentamente le disse: “E tu guapa … quando te lo trovi un lavoro per pagare l’affitto? … da gennaio sono trecentotrenta euro al mese anche per te …”.
A quanto pare Chiara ne aveva parlato con Paula, le due ragazze parevano già perfettamente d’accordo tra di loro; la coinquilina bionda guardando Hélène con dolcezza, prese la parola a sua volta dicendo: “Ho visto che al bar dall’altro lato dell’Università … stanno cercando una cameriera per la sera… potresti provare”. Hélène non aveva ancora capito benissimo le parole di Chiara, e balbettando leggermente imbarazzata, le domandò: “… che cosa vuole dire … una cameriera per la sera ...”; allora Chiara riprese: “…alla sera quel locale diventa una birreria, una specie di ristorante … e stanno cercando una cameriera, potresti essere tu”.
“Se vuoi domani pomeriggio ti accompagno …”, le disse Paula con tono ancora più altezzoso; Hélène ebbe allora una reazione leggermente piccata, e guardando la ragazza argentina negli occhi, rivelando una personalità fino a quel momento sconosciuta alle sue due compagne d’appartamento, ribatté: “Conosco la strada, posso andarci da sola, grazie …”.
“Chiedi di Nadia”, le suggerì con la consueta cortesia Chiara, aggiungendo: “… è la moglie del proprietario ed è romena, ho già parlato anche di te con lei due giorni fa…”.
A quanto pare, le due ragazze avevano già combinato tutto quanto alla perfezione, senza rivelarle nulla. Così la scellerata Hélène alla fine si mise a dormire con non poca inquietudine, quella notte: Chiara si vedeva con Marco, ed era così che la biondina aveva già messo le corna al suo Lorenzo; i due avevano probabilmente anche lungamente commentato, lo stupido scambio di messaggi con Hélène, e si trattava certamente di una incredibile vergogna.
In più, per quanto oramai ostili l’una verso l’altra, Chiara e Paula si erano adoperate assieme per trovarle un lavoro, fino al punto di parlare con la moglie del proprietario del locale situato nell’ampio viale posto dinanzi all’Università.
Così il pomeriggio del diciassette di dicembre, vestita con un cappotto grigio un po’ demodé, e con i lunghi capelli neri raccolti in una coda di cavallo, Hélène fece per la prima volta il suo ingresso nel Caffè che prendeva il nome dalla lunga strada adiacente, chiedendo direttamente della signora Nadia in mezzo ai pochi tavoli occupati da alcuni turisti.
Seduta dietro ad un’ampia barra di legno, ingombra di numerose bottiglie e di eleganti calici per il vino rovesciati, Nadia le sorrise; avrà avuto non oltre quarant’anni, e Hélène non s’aspettava affatto che ella potesse essere così giovane.
Chiamò a gran voce una cameriera bionda, di nome Cathy, chiedendo a quest’ultima di rimanere alla cassa per qualche istante; ed intimando a Hélène di seguirla, si aprì dinanzi a sé una vecchia porta di legno, che dava sul retro del locale, oltre la quale vi era celato, una specie di piccolo ufficio.
Quando furono dentro, Nadia la guardò da cima a fondo, e sorridendo le disse: “Come sei carina !!!... ma parli anche bene l’italiano ?!?...”; Hélène ristette, ma senza darle nemmeno il tempo per rispondere, la donna riprese il discorso: “Levati pure il cappotto … mettiti comoda …”. L’aiutò a spogliarsi, Hélène indossava un maglioncino grigio stretto sopra ad una gonna nera. Allora la donna la scrutò ancora una volta con attenzione, e sorridendo aggiunse: “Ti piace tanto la cucina italiana … vero?”, e si mise a ridere.
Hélène rispose alla prima domanda, senza dissimulare un certo imbarazzo: “... capisco l’italiano… ma devo migliorare molto per parlare bene …”; ma oramai la donna sembrava decisa, e scrutandola ancora una volta da cima a fondo, le domandò: “… ti hanno già spiegato come funziona qui da noi ?!? sai già quanto si guadagna? …”. Hélène fece segno di no con il capo, allorché la donna si appoggiò alla parete, e scandendo le parole col dito alzato, le disse: “Il contratto è tutto in nero, così intanto non paghi le tasse … poi lavori dal mercoledì alla domenica per sette ore, dalle sei all’una … e sono seicentocinquanta euro al mese”.
Era una cifra per niente male; non solamente Hélène si sarebbe potuta pagare l’affitto della casa, ma avrebbe anche avuto metà di quello stipendio per sé, per le sue esigenze personali; ad esempio, avrebbe potuto comperare una nuova borsetta, adorava alcuni modelli di pelle nera che aveva veduto nei negozi vicino casa. Oppure una elegante giacca di pelliccia, che andava molto di moda quell’anno.
Si schiuse in un ampio sorriso, e disse che era pronta a cominciare a partire dal dieci di gennaio, quando sarebbe ritornata in Italia, dopo le vacanze in Belgio.
La donna allora ricambiò il sorriso, e guardando il calendario le disse: “Ascoltami tesoro, è meglio che cominciamo dal mercoledì quattordici, però il sabato o la domenica prima passa a trovarci a quest’ora… ti pagheremo solamente metà mese per questa volta, e ti farò conoscere mio marito”.
Hélène non aveva mai lavorato in vita sua, e ristette un attimo pensierosa; poi domandò con candore: “… ma … ma non dobbiamo firmare nulla?”. La donna la prese sotto il braccio, ed accompagnandola con dolcezza fuori dal piccolo ambiente, prese il suo cappotto e le diede una delicata pacca sul sedere.
Si salutarono nei pressi dell’ampio bancone, con una stretta di mano, mentre il locale intorno a loro aveva improvvisamente preso vita, pieno di gente rumorosa e di luci colorate sparse dappertutto.
Dodicesimo episodio
Il volo che da Roma l’aveva condotta a Bruxelles, era stato un autentico incubo; Hélène non amava l’aereo, e come se non bastasse quella volta vi erano state non poche turbolenze lungo la rotta, durata ben oltre le due ore. Il rapido viaggio in treno fino alla stazione centrale, e di lì verso Liegi non era stato nulla rispetto a quell’autentico tormento. Trovò ad attenderla la madre Dominique, assieme a Benoît alla Gare des Guillemins, lungo l’affollata banchina piena di gente.
La città era completamente adornata di luci, con addobbi di tantissimi colori, e tutte le vetrine illuminate per il Natale.
Hélène provava in quel momento anche del piacere nel ritornare a casa; gli odori di zucchero filato e di dolci, caratteristici del suo paese, riempivano l’aria del lungo androne attraverso la stazione, e di tutta la zona pedonale che si estendeva fino a pochi isolati da lì. Si era coperta per timore del freddo, ma quel pomeriggio sembrava che tutto fosse stato predisposto a puntino per accoglierla.
Dovette rispondere a moltissime domande, raccontare diverse cose, e per pochi minuti Hélène si sentì nuovamente a casa propria, felice ed entusiasta come una bambina.
Giunti nella dimora in Rue Courtois, ella decise subito che non avrebbe rivelato nulla del suo cambio di residenza, né del lavoro come cameriera che si era procurata solamente pochi giorni addietro. Non vi era alcuna ragione, per incorrere nella rabbia e nel disappunto di sua madre; la decisione di trasferirsi era davvero stupida ed ingiustificata, e Hélène in cuor suo lo sapeva: e sua madre non gliela avrebbe certamente fatta passare liscia se solamente glielo avesse riferito.
Raccontò moltissime cose dell’Università, e diede prova di conoscere abbastanza bene anche l’italiano, quando il compagno di sua mamma le mostrò un piccolo volantino che aveva portato via con sé, con alcune indicazioni per raggiungere l’albergo dove avevano alloggiato assieme.
Vi era un’inattesa armonia tra Hélène e sua madre, al punto che quella sera la ragazzotta si mise a letto con un senso di profonda tenerezza e di felicità; pensò tra sé e sé, che la distanza era in fondo una strana maniera per rafforzare i rapporti famigliari, laddove la vita quotidiana tendeva inevitabilmente ad incrinare le cose.
La conversazione tra Hélène e Bianca si concentrò immediatamente sull’Italia, e sulla vita di quel paese lontano; contrariamente a quanto fatto con sua madre, Hélène decise di non nascondere nulla alla sorellastra, della sua nuova abitazione, e delle divertenti serate al rione con le sue coinquiline. Bianca mostrò un vivo interesse verso quei racconti, era spesso segregata in casa, ma si capiva bene quanto ella fosse piena di sogni e di curiosità per quel mondo così diverso e distante.
Passò il Natale, ed anche il Capodanno in modo sereno e spensierato: Hélène rivide tutte le sue amiche in varie circostanze, Nicole e Jeanne e le altre compagne dell’istituto delle suore. Quasi tutte loro si erano oramai fidanzate, ma questo Hélène già lo sapeva, e non era affatto una novità.
Non rivelò a nessuna di loro, assolutamente alcun dettaglio, del suo primo ed unico bacio alla francese: la maniera in cui Marco l’aveva trattata dopo quegli accadimenti, l’aveva persuasa del fatto che fosse tutto consistito in un semplice ed accidentale momento di follia. Nulla di cui andare felice ed orgogliosa, al cospetto delle avventure piacevoli e leggiadre di tutte quante le sue compagne di scuola.
Tredicesimo episodio
Chiara accettò volentieri di accompagnarla, e le due ragazze si ritrovarono nuovamente a parlare da sole, in francese, come non accadeva da tempo.
La biondina lungo la strada confidò a Hélène, di essersi praticamente lasciata con Lorenzo, aggiungendo che quest’ultimo ancora non si era rassegnato alla sconfitta, ed in cuor suo s’illudeva che tutto fosse ancora come prima. La chiamava in continuazione, tormentandola con la sua gelosia ingiustificata e ridicola, al punto che per Chiara quella vicenda era oramai divenuta uno strazio insopportabile.
Da settimane si vedeva regolarmente con Marco, che le piaceva moltissimo; ed in quel frangente, prendendo Hélène per un braccio, le disse apertamente di essere a conoscenza dei loro messaggi, ma anche di non essere per nulla infastidita, trattandosi solamente di uno stupido scherzo.
Hélène provò un atroce imbarazzo, ma parlandole sempre in francese, Chiara aggiunse di non essere affatto informata di quanto essi si scrivevano, ma semplicemente di sapere che si trattava di uno stupido gioco.
Assorbita da tutti questi pensieri umilianti e penosi, Hélène fece il suo ingresso nel Caffè, trovandovi la signora Nadia seduta dietro il bancone, intenta a preparare alcune fatture. Chiara la seguiva a breve distanza, guardandosi intorno.
Quando Nadia la vide, subito si levò in piedi accogliendola con un amabile sorriso. Ed in quel preciso istante, dal piccolo spazio nascosto dietro alla porta di legno sul retro, uscì un uomo non giovane, sulla sessantina, con i capelli piuttosto disordinati e bianchi, ed un lungo sigaro stretto tra le dita. Spostò la donna senza troppa cortesia, e fu dinanzi alle due ragazze. Quel signore era Mariano, il proprietario del locale.
Guardò Chiara con vivace interesse ed entusiasmo, domandandole subito: “Sei tu la ragazza belga?”; ma questa non rispose, lasciando che fosse Hélène a presentarsi, nel suo italiano misto di francese.
L’uomo prese la mano di Hélène, e stringendola con fare cerimonioso, le disse: “… mi aveva detto mia moglie che ti piaceva la cucina italiana … ma a noi va bene così, dimmi solo che taglia porti tesoro”. Le avrebbero ordinato la divisa da lavoro, una semplice camicia bianca con il collo alla coreana, ed una gonna scura lunga un palmo sopra il ginocchio. Le scarpette, rigorosamente nere senza il tacco, le avrebbe invece portate direttamente Hélène.
Le presentò una ragazza piuttosto seriosa, che si faceva chiamare Elle e che veniva dalla Germania. A dispetto della sua giovane età, Elle era tra le cameriere più serie ed affidabili, e spesso le venivano assegnate mansioni di grande responsabilità. Insieme a lei vi erano anche Cathy, Veronica e Rosaleen, tutte ragazze tra i venti ed i venticinque anni, impiegate per una stagione o poco più. Gli unici colleghi maschi erano invece italiani, si chiamavano Leo e Daniele; a vederli non si sarebbe detto affatto, che fossero interessati alle donne, avevano un atteggiamento effemminato.
Il signor Mariano chiese ad Elle di prendersi in carico la giovane Hélène e di aiutarla durante il suo apprendistato, a partire dal mercoledì immediatamente successivo; la divisa da cameriera sarebbe stata pronta e Hélène avrebbe dovuto presentarsi lì dieci minuti prima per cambiarsi ed indossarla. Come ultimo atto prima di lasciarla andare, a Hélène vennero presentati coloro che se ne stavano tutto il tempo chiusi nella cucina: erano tre ragazzi romeni, e si chiamavano Ivan, Adrian e Gheorghe. Costoro al contrario dei due camerieri italiani, avevano fattezze piuttosto ineleganti e virili, e senza nemmeno tanta grazia scrutarono Hélène da cima a fondo, come si fa con le bestie al mercato, lasciando subito intendere a quali dettagli fossero interessati.
Mentre quella veniva introdotta, Chiara se ne stava seduta da sola vicino all’ingresso, e parlava al telefono con Marco. Rideva di gusto, nel descrivere i camerieri e i cuochi, ed il futuro ambiente di lavoro della sua coinquilina belga.
Hélène ottenne un anticipo di cinquanta euro, ma le fu detto chiaramente che il resto lo avrebbe ricevuto solamente a fine mese, dopo aver dimostrato di saper lavorare bene come tutte le altre, con puntualità e cortesia.
Così iniziò un periodo nuovo, in cui Hélène si recava direttamente dall’Università al suo luogo di lavoro, senza dover passare da casa. Il primo giorno trovò la sua divisa pronta per lei, e la dovette indossare sotto lo sguardo attento di Nadia. Per sua fortuna quel giorno Hélène aveva scelto un casto paio di calze intere di colore scuro, e così quel cambio d’abito non fu tanto imbarazzante come avrebbe potuto.
Entrò nella sala e subito la giovane kellerina tedesca, iniziò ad istruirla; avrebbe servito un tavolo di vivaci e rumorosi studenti, quattro ragazzi già piuttosto brilli, che con ottima probabilità frequentavano gli stessi corsi di Hélène.
Ordinarono una bottiglia di Falanghina ed alcuni antipasti a base di pesce, senza darle apparentemente troppo peso.
A metà serata, dopo essere andata in bagno a fare la pipì, Hélène diede un’occhiata al suo telefono, e vi ritrovò del tutto inatteso, un messaggio di Marco. Era da diverso tempo che questi aveva smesso di scriverle.
“Vedi di fare la brava e di trattare bene gli uomini, sennò vengo subito lì e ti sistemo per le feste …”
Lo lesse e subito ripose il telefono nella sua borsetta. Ma contrariamente al suo primo naturale istinto, subito Hélène fu distolta da un senso strano di timore.
Uno dei quattro studenti la riconobbe, e le disse sorridendo: “Ma tu non sei la ragazza belga che viene ai corsi?”; Hélène fece cenno di sì, si vedeva che era assai imbarazzata. Fu così che Elle la prese sotto un braccio, e parlandole nell’orecchio le disse: “Anch’io vado qui all’Università … qui tutte le ragazze frequentano gli stessi corsi … ma non devi dare mai troppa confidenza alle persone, non puoi farlo …”.
Alla fine della serata Hélène era sfinita. Mise il suo cappotto nero direttamente sopra alla divisa del lavoro, portando via con sé una borsa bianca con i vestiti del pomeriggio. Trovò sul suo telefono un nuovo messaggio di Marco, che scherzando diceva: “Hai fatto la brava … per oggi niente sorprese ma stai attenta a come ti comporti …”.
Elle le stava sempre accanto, dandole continui consigli e utili raccomandazioni; vi era invece uno dei tre cuochi, quello di nome Adrian, che non si limitava affatto a servirle i piatti o a prendere degli ordini da lei. Era dalla prima sera che egli la osservava: aveva i capelli scuri piuttosto corti, un fisico snello di buona statura, con spalle non troppo robuste.
La fissava in continuazione, mentre Hélène entrava ed usciva dalla cucina, con i fianchi stretti nella sua solita gonna nera.
Per fortuna l’uomo non aveva alcuna possibilità di disturbarla, dal momento che Hélène staccava all’una di notte, quando quegli era ancora impegnato a ripulire i piatti e la cucina. Quel cuoco non le piaceva davvero per nulla, era insistente e pesante, e la scrutava sempre allo stesso modo, con aria desiderosa e sanguigna. Gli altri due cuochi dovevano essersi resi conto della cosa, e di tanto in quanto le sorridevano in maniera ammiccante e del tutto irrispettosa.
La situazione sarebbe precipitata la sera del ventinove di gennaio, quando Hélène era in bagno a cambiarsi dopo avere finito il lavoro. Adrian spinse forte la porta con tutta la serratura chiusa, e quella si aprì, rivelando Hélène al suo interno, nell’intento di indossare un paio di jeans; aveva le mutandine color panna, strette e rotonde attorno al monte di Venere. La ragazza belga fu rapida nel richiudere la porta serrandosela dinanzi con rabbia e decisione; ma non poteva neppure immaginare, che da quel momento in avanti sarebbe iniziato il suo tormento.
In quegli stessi giorni, Chiara e Hélène avevano cominciato a prepararsi per un primo esame di metà anno, nella complicata materia di Diritto Civile. Hélène tremava al pensiero di dover affrontare quella prova di lì entro poche settimane, ma per sua fortuna Chiara era ben disposta ad aiutarla in quel periodo; e spesso lo faceva studiando insieme con lei durante le sere del lunedì e del martedì, quando Hélène non doveva andarsene al lavoro.
E proprio una sera di quella stessa settimana, mentre la ragazzotta belga si trovava al lavoro dentro al solito locale, ella vide entrare dalla grande porta a vetri sulla strada le inconfondibili sagome di Marco e di Lele.
Quelli si sedettero al tavolo senza nemmeno salutarla, ma la fissavano in continuazione, e sembravano quasi divertirsi un mondo, a provocarla in modo spudorato ed irrispettoso. Ed il messaggio che arrivò sul telefono di Hélène, era assolutamente disgustoso: “Mi piaci vestita da cameriera … vorrei alzarti quella gonna …”.
Nonostante i due ragazzi avessero fatto in modo di sedersi lì vicino per essere serviti da lei, la fortuna volle che fosse Veronica quella sera ad occuparsi di loro. La solita Elle comunque prese Hélène da un lato, e senza tanti giri di parole le disse: “Io credo che tu hai troppe distrazioni quando lavori … devi ignorare gli uomini … non guardarli, perché non sei pagata per questo … hai capito …?!?”.
Ma Hélène si muoveva tra i tavoli della sala, con la mente assolutamente confusa. Era fortemente condizionata dalla loro presenza, ed andò avanti a grande fatica fintanto che quelli non decisero di andarsene, dopo avere regolarmente pagato il conto alla sua collega.
“Non mi piace come ti muovi sei una grassona … mettiti subito a dieta sennò ci penso io” fu il regalo finale di Marco, al termine di quella lunga serata indimenticabile.
Quattordicesimo episodio
Il professor Martini annunciò le modalità della prova d’esame, che sarebbe cominciata di lì a poco, la mattina di quel mercoledì 4 di febbraio: Hélène se ne stava seduta nelle ultime file in alto a destra, accanto a Chiara, e stava letteralmente tremando di paura, mentre lo ascoltava; il suo grado di preparazione era infatti del tutto insoddisfacente.
Il compito scritto assegnato a Hélène aveva come oggetto, lo spazio pubblico, un tema trattato a lungo durante le lezioni, e che la ragazza belga aveva mandato a memoria per bene. Scrisse pertanto quello che ella ricordava, con svariati errori calligrafici e senza alcuna ispirazione. Ma intanto riuscì a completare la prova e consegnò il suo manoscritto firmandolo con il proprio cognome. Altrettanto fece Chiara, e subito abbracciò Hélène, felicitandosi con lei per essere riuscita a consegnare il proprio lavoro in tempo utile.
Uscirono dall’edificio e decisero di andarsi a bere un tè in un elegante bar qualche isolato distante. In quel frangente un nuovo messaggio giunse sul telefono di Hélène.
Chiara la guardò con occhi vivaci e carichi di sospetto, erano già sedute al tavolo in una sala ovattata e silenziosa. Poi prese a dirle: “Che fai non lo leggi ?!?...”; la ragazza belga temeva che la sua amica intendesse vedere coi suoi occhi, quello che Marco andava scrivendole.
“Andiamo, guardalo!”, la esortò, mentre Hélène sentiva le gambe tremarle sotto il tavolo, ed il ventre ingrossarsi.
“Facciamo così …”, riprese nuovamente la biondina, “adesso tu lo leggi senza dirmi nulla … e io mi limiterò ad osservare l’espressione del tuo viso …”; e si mise a ridere di gusto.
“Che fai allora?” insistette. Allorché Hélène si decise ad estrarre il telefono dalla borsetta; e continuando a tremare tutta quanta, si apprestò a leggere il messaggio. Vi era scritto: “Questa sera si festeggia … o devi essere bacchettata…?”.
Hélène ristette immobile con sguardo inespressivo.
Chiara dovette comprenderlo subito, che quel messaggio non le aveva causato esattamente un sentimento molto piacevole, ed aggrottando le ciglia domandò con fare non proprio disinvolto: “… Marco è un maiale … vero? ...”.
Hélène fece cenno di sì con la testa, e ripose via il suo telefono; allorché Chiara, intendendo alleggerire un poco la discussione, riprese con tono scherzoso: “Non ci fare caso, io lo so cosa ti scrive … ma a te piace veramente venire trattata così ?!?...”; “Così … come? ...” domandò Hélène, che nel frattempo stava scivolando nel baratro della vergogna e teneva lo sguardo basso; “… voglio dire … così come ti tratta lui, tu lo sai cosa voglio dire …”.
Hélène continuò a fingere di non capire, ma oramai la situazione era divenuta fin troppo imbarazzante, ed allora ella decise di aprirsi, ed alzando lo sguardo rispose: “No, non mi piace davvero per niente … digli di smettere per favore”.
Chiara sciolse tutto in una risata leggermente indisponente, e prendendo la mano della sua amica, le disse sottovoce: “…non ti preoccupare, il cane che abbaia non morde …”. Hélène non conosceva per nulla questo modo di dire e non comprese affatto il significato di quella frase. Ma per sua fortuna, in quell’istante ella ricevette una provvidenziale telefonata da parte di sua madre, che attendeva con non poca apprensione di sapere come fosse andata la sua prima prova d’esame; ciò pose fine a quella conversazione così fastidiosamente intima ed imbarazzante, e le consentì di finire il suo tè in santa pace.
Quella sera Hélène andava servendo un paio di tavoli, uno occupato da una coppia di giovani fidanzati che la trattavano con fare davvero sgradevole e tono decisamente altezzoso, ed un altro animato da un gruppo di allegre giovani, sicuramente straniere, molto probabilmente anche loro frequentanti la stessa Università.
Hélène entrava ed usciva dalla cucina, ed a seconda dei piatti ordinati, veniva servita da Adrian oppure da Gheorghe; il terzo cuoco di nome Ivan s’era infatti licenziato da alcuni giorni, e adesso i due lavoranti romeni erano rimasti là dentro a faticare da soli; il signor Mariano aveva deciso di non sostituire il più anziano dei tre - gli incassi non stavano andando molto bene diceva, a giustificazione di questa sua scelta.
Adrian era quello che batteva la carne, e preparava delle bistecche piuttosto ricche e abbondanti; Gheorghe era invece quello che preparava i primi, i contorni e le insalate.
Nel frattempo, Hélène serviva il tavolo delle giovani studentesse, assai vivaci e rumorose nonostante non avessero bevuto assolutamente nulla; una di loro parlava il francese, ed intuendolo dall’accento di Hélène, le rivolse la parola nella sua stessa lingua. La cameriera, che era stata lungamente istruita sulla necessità di non esibire troppa confidenza coi clienti, rispose in modo sommesso e poco entusiasta. Ripresero così a parlare subito tra di loro, e Hélène intese come colei che poc’anzi le aveva rivolto la parola, la stesse adesso descrivendo alle sue amiche in termini assai poco gentili.
La ragazzotta nel frattempo fece nuovamente il suo ingresso in cucina; era stanca e appesantita, quella sera i due tavoli le stavano dando non poco lavoro da fare, e la fatica della lunga giornata e della prova d’esame iniziavano a farsi sentire; così si avvicinò ad Adrian per ordinare alcune cose, e vide quello che la fissava in basso, senza alcun rispetto.
Vi rientrò dopo alcuni minuti, e prese l’hamburger di manzo appena preparato, destinato alla coppia di clienti antipatici ed altezzosi; si ritrovò dinanzi ad Adrian, mentre Gheorghe non era lì, probabilmente era appena andato in bagno. Vide i suoi occhi pieni di voluttà, e subito comprese quanto egli aveva in mente: si voltò sperando di fare in fretta ad uscire, ma in quell’istante lui si spostò verso di lei e le mollò una manata fortissima sul didietro, che schioccò come in un tonfo sordo e penoso, scuotendola sui glutei gonfi e abbondanti.
Hélène entrò nella sala piena di vergogna, con le lacrime agli occhi; e nemmeno si rese conto, che quella manata le aveva lasciate chiare ed evidenti, alcune chiazze di farina intorno alla gonna nera stretta e aderente. Fu proprio la signora Nadia ad avvisarla, prendendola da parte e dicendole: “Cosa diavolo hai fatto sul sedere? … hai una bella manata di farina bianca sul didietro … ma chi diavolo è stato a toccarti ?!? dimmelo che lo licenziamo ...”.
Hélène comprese come Nadia avesse assai pochi dubbi su chi fosse stato, in realtà, a toccarla; ma senza spiegarsene nemmeno la ragione, ella decise di tacere, forse per non incorrere nell’ira del cuoco romeno. Si giustificò in maniera assai improbabile, dicendo di essersi appoggiata al tavolo, e di non essersi affatto resa conto di essere sporca; allora quella le mise una mano sulla gonna e massaggiandola nervosamente, la liberò da quei vistosi segni bianchi.
Mentre la serata stava per concludersi, entrando nuovamente in cucina, la ragazzotta rivide il cuoco che la scrutava con la sua solita aria di sfida; si allontanò da lui con espressione completamente indisponente, dicendogli in modo serio ed accorato: “… non lo fare più… non ci provare mai più… sennò lo dico alla signora Nadia!”.
Si prese un’altra manata, ancora più forte, sul didietro, sotto gli occhi indifferenti ed ignari dell’altro cuoco Gheorghe. Uscì dalla cucina come se l’avessero oltraggiata.
Quindicesimo episodio
Il martedì successivo vennero esposti i risultati dell’esame di Diritto Civile. Chiara li lesse mentre Hélène era ancora in casa, e dal momento che quest’ultima era stata bocciata, preferì che fosse essa stessa a vederli per prima con i propri occhi. Fu un’autentica doccia gelata, dal momento che Hélène sperava in cuor suo di avercela fatta; ed invece il suo risultato fu estremamente negativo, al contrario di Chiara che invece superò l’esame con una brillante valutazione.
Si intuiva bene quanto la sua coinquilina fosse in gran imbarazzo quel giorno, non aveva nemmeno il coraggio di parlare, dello sciagurato esito di quella prova; fu proprio Hélène nell’intervallo della lezione, a confidarle: “Tu hai fatto il possibile per aiutarmi … ma queste materie non fanno davvero per me …”, e si coprì candidamente il viso per nascondere alcune timide lacrime. Chiara allora le prese delicatamente la mano, e stringendola le disse: “Non è vero Hélène … devi solamente impegnarti un poco di più ed essere un po’ meno distratta … e sono sicura che ce la farai”.
In quel frangente e per la prima volta in assoluto, Hélène cominciò a realizzare tra sé e sé, che probabilmente quell’avventura non sarebbe andata avanti a lungo, e che presto o tardi, se ne sarebbe dovuta tornare a casa.
Quel sabato si festeggiava San Valentino, ed i tavoli del locale erano stati tutti addobbati con tante rose rosse; si annunciava del duro lavoro da fare.
Hélène divideva con Veronica i tavoli della saletta centrale, mentre Rosaleen serviva le coppie sedute vicino all’ingresso e Cathy dava una mano alla cassa. Quella sera tutte le ragazze erano state abbellite con un fiore bianco nei capelli, rigorosamente legati assieme. L’unica eccezione era la solita Elle, che avendo un taglio sbarazzino da maschietto, era stata risparmiata.
Hélène quella sera segnava un mese esatto da quando aveva iniziato a lavorare; con l’esperienza era divenuta molto più rapida e disinvolta, al punto che anche la signora Nadia aveva smesso di controllarla tutto il tempo, e la stessa Elle adesso la seguiva sempre meno. Eppure, proprio quella sera, e per la prima volta, Hélène combinò davvero un grosso pasticcio dei suoi: ad una coppia che aveva ordinato due piatti di risotto alla cantonese, portò per errore due piatti di risotto alla milanese, e pure con non poco ritardo; rimediare non fu semplice, dal momento che il risotto impiega molto tempo per venire preparato: fu pertanto così, che all’atto di pagare il conto, la coppia chiese di poter parlare direttamente con il proprietario.
Il signor Mariano non era lì quella sera, non si faceva mai vedere al locale di sabato, ed allora ad ascoltare quella coppia di clienti insoddisfatti intervenne la signora Nadia; Hélène li osservava da debita distanza, e sentiva le gambe tremarle per la paura. La donna che era stata servita da lei, parlava e gesticolava guardando la signora Nadia con furore, ed anche il suo compagno a volte di tanto in quanto interveniva, rincarando la dose; salutarono la moglie del proprietario senza troppa cordialità, e quella rispose allargando le braccia in modo sommesso con un cenno di scuse.
“Che cosa le hanno detto?” chiese Hélène continuando a tremare; Nadia allora la prese a sé per un braccio, e parlandole nell’orecchio le riferì: “… hanno detto che non verranno mai più, e poi mi hanno detto che sei lenta e poi …”; Hélène iniziò a temere per sé stessa, ma la signora Nadia sospingendola per un fianco la fece rientrare di corsa nella sala, vi erano ancora numerosi tavoli in attesa di essere serviti. Alla fine della serata le cameriere erano letteralmente stremate, ed una alla volta si sciolsero i capelli e si cambiarono. Cathy fu venuta a prendere dal suo fidanzato italiano, un uomo sulla trentina alto ed elegante, che aveva parcheggiata sul bordo della strada la sua potente automobile sportiva; anche Rosaleen mentre si cambiava, confidò alle sue colleghe, di doversi precipitare a casa del suo ragazzo che oramai la attendeva da troppo tempo. Veronica invece era addirittura sposata, anche se il marito si trovava in un’altra città per motivi di lavoro. L’unica single tra le cameriere del locale, era proprio Elle.
Hélène fece per sciogliersi i capelli, ma in quell’istante con sua grande sorpresa trovò un mazzo di nove rose rosse appoggiato sopra la sua borsa bianca, avvolto in un drappo di cellophane; le altre ragazze non erano attorno, e vicino a lei si trovava unicamente Leo, uno dei due camerieri maschi. La guardò e sorridendo le disse con la sua consueta grazia: “…non penserai mica che sia stato io?!?”, e si mise a ridere. Hélène lo fissò, era ancora assai meravigliata per quel dono del tutto inatteso, e a quanto pare non apprezzò nemmeno quella battuta. “… e leggi il bigliettino… no ?!?”, ribatté il cameriere indicando in basso.
Stretto intorno al cellophane, tenuto insieme da un elegante nastro rosso, un minuscolo bigliettino bianco portava con sé una semplice dedica: “Per la bambina più furbetta e cattivella del mondo”, ed in fondo a chiudere il tutto “Ti voglio, Lele”.
Leo allora riprese il discorso, e le disse: “Hai visto che non sono io, anche se il nome mi somiglia …”, e si mise a ridere. Aveva letto il bigliettino, e non era stato il solo. Infatti, di lì a poco, mentre Hélène recuperava le sue cose dalla borsa per potersi cambiare, vide appoggiata allo stipite la sagoma di Adrian che la scrutava dall’alto in basso.
“Cosa vuoi?!?” l’apostrofò Hélène, il cui iniziale stupore per quel dono inatteso, aveva presto lasciato il posto ad uno strano sentimento di smarrimento e di timore. Ma Adrian non rispondeva, ed allora Hélène fece per rimettere il suo ricambio dentro alla borsa, pensando di andarsene a casa direttamente col suo abito da lavoro.
A quel punto il cuoco romeno finalmente aprì bocca, e con voce spezzata e roca, le disse: “Tienilo quel fiore sulla testa che sembri quasi una spagnola … ed invece quelli là li devi buttare … subito”.
E poi senza attendere oltre, le domandò: “Chi è … Lele eh?”.
Hélène si sentì tremare tutta, tra le gambe e lungo la schiena; rispose balbettando: “Chi sei tu, per potermi dire cosa devo fare …”. Ma subito si rese conto di avere sbagliato, dal momento che quello le si fece più vicino, in modo minaccioso. Hélène sentì la pressione salirle, avrebbe voluto chiamare qualcuno, ma dalla sala del locale si udivano oramai sporadici rumori, unicamente di sedie che si spostavano e di posate rimesse in ordine.
Allora ristette attaccata al muro, mentre Adrian oramai era ad un passo da lei; le fu vicino, ed infine con un gesto rapido e sconsiderato, le prese i fiori dalle mani e li scaraventò in un secchio per lavare i pavimenti. Poi non contento la afferrò per un braccio, provando a trascinarla con sé dentro il bagno.
Per fortuna in quell’istante si udì la voce della signora Nadia, che dalla sala richiamava Hélène: era prevista una paternale di quelle severe, per avere scontentato quella coppia di clienti che erano usciti lamentandosi. La ragazzotta belga dovette sentirsi ripetere più volte, che era lenta ed impacciata, e che era perennemente distratta mentre serviva.
La moglie del proprietario concluse dicendole: “…per questa volta non dirò nulla a mio marito … ma ai prossimi che si lamentano di te, dovremo vederne le conseguenze tesoro …”.
Si scusò sommessamente, e non osò domandare a quali conseguenze si riferisse la signora Nadia, era una minaccia vaga anche se piuttosto seria. Ma poté uscire dal locale indisturbata, e filò dritta verso la fermata dell’autobus.
Sul telefono trovò due messaggi, uno del solito Marco che la insultava, e l’altro – ancor più sciagurato - di Lele; li lesse entrambi provando un immane senso di fastidio. Ma intanto giunse a casa sana e salva, dopo una serata di lavoro davvero pesante ed umiliante, e con una buona mattina di domenica avanti a sé per potersi riposare.
Stava prendendo coscienza di piacere agli uomini; non le era mai accaduto prima d’allora, ma a quanto pare il calore e la passione della gente di Roma avevano cambiato di molto le cose. Si sentiva ancora incredibilmente confusa nella testa, Lele non le interessava davvero per nulla, e Hélène non aveva nemmeno ringraziato per il mazzo di fiori che egli le aveva regalato, né risposto al suo scontato e banale messaggio; del resto il numero di telefono a Lele, lei non lo aveva neppure mai dato.
Adrian era invece un tipo aggressivo, e Hélène aveva un vivo timore di lui; lo spaventava la sua natura animale, il suo lato passionale e incontrollato. Ma intanto, mentre girava per le bancarelle del mercato cercando biancheria intima a basso costo, erano quegli occhi sanguigni e virulenti che ella teneva fissi nella mente, e non riusciva a dissimulare a sé stessa, un senso strano di attrazione e di smarrimento.
Il mercato era un luogo assai caotico, ma in pieno giorno e con soli trenta euro in tasca, per giunta vestita semplicemente in tuta e con le scarpe da ginnastica ai piedi, Hélène volle vivere da sola quella sua prima esperienza, ed anche acquistare alcuni capi di lingerie che le servivano.
Sentiva che da un momento all’altro le sarebbe accaduto, di cadere nella ragnatela, di finire tra le braccia di un uomo; e allora voleva essere pronta nel migliore dei modi. Il perizoma nero cinturato di pizzo in cima era forse un po’ troppo largo sul davanti, ma dietro presentava unicamente un filino sottile quasi invisibile, e le stava bene; le calze autoreggenti da abbinargli, erano incredibilmente corte, sembravano quasi dei lunghi calzettoni, ed arrivavano solo di poco oltre il ginocchio.
Ma con la gonna scura del lavoro quelle calze andavano alla perfezione, la lasciavano libera disotto, e adesso che il locale era spesso anche riscaldato in maniera un po’ eccessiva, le avrebbero dato sollievo. Così quella domenica Hélène attraversò il lungo viale in salita, diretta verso il suo luogo di lavoro, con grande fremito e turbamento.
Ma Adrian quella domenica non c’era; era stato sospeso per un giorno solo, per ragioni misteriose. Al suo posto vi era nuovamente il vecchio cuoco Ivan, richiamato per una serata solamente, per rimediare a quella situazione; le cameriere andavano interrogandosi sul perché di quello strano provvedimento, ma nessuna ne aveva compreso il motivo. Si accennava a problemi con la polizia o forse addirittura con la droga; Gheorghe era muto come un pesce, e faceva finta di non sapere assolutamente nulla.
La signora Nadia alla fine della serata decise di tranquillizzare tutti, e prendendo i camerieri in disparte uno alla volta, li informò del fatto che vi erano stati unicamente alcuni problemi con la questura, ma che dall’indomani il loro cuoco romeno sarebbe rientrato regolarmente al suo posto.
Allora Hélène si recò in bagno per cambiarsi, senza provare alcun timore; abbassò la cerniera sul retro della gonna, e se la lasciò cadere lungo le cosce, finché non fu giù in terra intorno alle scarpette senza il tacco. Si rimirò l’addome ed il sedere girandosi avanti e indietro dinanzi allo specchio; era grassa e sgraziata, e quegli indumenti intimi così smaccatamente provocanti, le lasciavano decisamente troppa carne scoperta, da tutte le parti, piena rigonfia di cellulite.
Indossò un pantalone scuro e vi mise sopra il suo solito cappotto nero; si sentiva stranamente sola e insoddisfatta, e mentre al buio in piedi attendeva l’autobus lungo la strada, nemmeno fu minimamente sollevata dal fatto di non avere ricevuto, per questa volta, alcun deplorevole messaggio.
Sedicesimo episodio
Il professor Ducré iniziò a parlare dell’esame, e lo fece nella maniera più subdola, spiegando come dovevano comportarsi tutti gli studenti che desideravano poterlo rimandare. Era solamente metà febbraio, ma le prime sessioni sarebbero iniziate già a maggio, e certamente sarebbero stati davvero in pochi, a cimentarsi con quella difficilissima prova al loro primo tentativo.
Paula era seduta accanto a Hélène, e quel giorno appariva radiosa e di ottimo umore, mentre Chiara era rimasta a casa, a letto raffreddata e leggermente ammalata; l’argentina si rivolse alla sua coinquilina, prima che riprendesse la lezione dopo l’intervallo, e le disse: “Lele c’è rimasto davvero molto male… non l’hai nemmeno considerato un poco … e mi ha anche detto di averti regalato delle rose”; Hélène provò ancora una volta del vivo disagio, ma con la studentessa di Buenos Aires andava sempre così sin dal primo giorno.
Si fece forza, e trattenendo a stento la rabbia rispose: “… non so nemmeno perché me le abbia comperate …”, allorché Paula le mise una mano sulla spalla, con disinvoltura, e le disse: “Si è dichiarato con te, gli piaci … e tu cosa aspetti, vuoi rimanere vergine per tutta la vita?!?”.
Per Hélène fu peggio di una frustata. Non avrebbe mai saputo se la sua coinquilina stesse provocandola, o se realmente ella credesse che lei era veramente vergine; tutte le storie che Hélène si era inventate, non erano bastate per convincere le sue due compagne d’appartamento, che ella avesse realmente avuto un ragazzo nel suo lontano passato.
Allora replicò leggermente piccata, a bassa voce: “Ma cosa dici?”; ma Paula non aggiunse nulla. Tra ragazze si capiva benissimo, come lei non avesse mai avuto una vera esperienza, e per quanto Hélène s’illudesse, le sue bugie erano oramai note e acclarate da tempo.
Il termine della lezione interruppe quella non semplice conversazione, e finalmente Hélène rimase da sola, dal momento che Paula si era mossa nell’edificio accanto per seguire un corso del secondo anno. Si accomodò seduta nella sala quasi vuota della biblioteca, ed iniziò a studiare in tranquillità.
In quel momento però fu nuovamente presa da uno strano turbamento: aveva negli occhi lo sguardo aggressivo di Adrian, mentre quegli le strappava dalle mani senza alcun ritegno, il mazzo di fiori regalatole da Lele; e poi ripensava al pene lungo e arcuato di Costanzo, o a quello più largo e tosto di Marco; infine rivide anche Lorenzo, mentre quegli eiaculava copiosamente, sulla schiena della sua coinquilina.
Fare l’amore doveva essere davvero molto doloroso, pensava tra sé e sé Hélène, mentre le pagine del libro che teneva aperto sulla scrivania, erano divenute fogli insulsi pieni di macchie nere prive di significato. Un dolore simile ad un abuso, ad una violenta forzatura: un oggetto duro e vibrante conficcato in mezzo alle gambe … peggio di un castigo.
Quel pensiero era davvero troppo, ed allora si sforzò parecchio per ricomporsi, ma oramai era scivolata nel baratro di quei turbamenti sporchi e vergognosi, ed il resto della giornata non le fu per nulla di aiuto.
Era inquieta e quell’ossessione non voleva proprio saperne di lasciarla in pace; dovunque ella andava, vedeva sempre degli uomini che la fissavano, e li immaginava tutti quanti con il loro sesso fermo tra le mani, pronti a farle provare quello che da tempo ella avrebbe dovuto conoscere.
La sera del diciotto di febbraio decise di calmarsi un poco prima di recarsi al lavoro, e lo fece bevendo una buona camomilla spruzzata col limone nella sala da tè, in perfetta solitudine. Aveva lasciato a casa il suo provocante intimo nero acquistato al mercato, si sentiva tremendamente grassa e inadeguata con quella roba indosso.
Entrata in cucina, subito vide Adrian con un vistoso livido scuro sopra l’occhio: come spesso accade alle femmine, immediatamente Hélène provò un vivo senso di pena e di preoccupazione per lui; e senza nemmeno pensarci un solo istante, gli fu vicino e gli domandò che cosa fosse successo.
Quegli le rispose con tono di voce scontroso: “Che cosa diavolo ti importa!?! … tu sei solo una donna …”. Ci rimase male, ma fu presto Veronica a rivelarle in maniera garbata nell’orecchio, la verità: “Ha preso dei pugni, c’è stata una rissa sabato notte, credo che avessero guardato alcune ragazze degli altri … stagli lontana …”.
Ma intanto Hélène continuava a provare pena per lui, e quando fu nuovamente dentro alla cucina per ordinare una bistecca di manzo, si fece vicina e gli disse: “Dovresti stare a casa, quel livido deve fare ancora molto male …”.
Adrian non la degnava di alcuna considerazione quella sera; e Hélène non riusciva nemmeno a capire, se fossero i pugni presi ad averlo completamente trasformato, o se piuttosto fosse proprio lei, a non piacergli più.
Si sentì all’improvviso nuovamente sola ed indesiderata, e tutto ad un tratto, ella prese a cercare Adrian con lo sguardo come mai avrebbe nemmeno minimamente immaginato. Ripensò alle parole di Cathy, quando la bionda cameriera qualche settimana prima, le aveva confessato delle avances di quel cuoco passionale, in un suo recentissimo passato.
Era evidente come ci avesse provato con tutte, e forse Hélène non era che la meno desiderabile, tra le cameriere che si aggiravano per il locale; fu presa da un senso di amarezza e di squallore.
Servì un tavolo di ragazzi vivaci e divertenti, e nemmeno si diede pena di osservarli; entrava in cucina sperando di venire nuovamente provocata, e solamente di rado quegli le volgeva gli occhi, senza apparentemente mostrare alcun interesse. Al termine della serata Hélène entrò in bagno per cambiarsi, e si rese conto di desiderare in modo inaudito, che lui fosse lì di nuovo, nascosto dietro la porta per lei. Alla fine, si ritirò in casa triste e delusa.
L’indomani era il giovedì di Carnevale; il signor Mariano pretese che tutte le cameriere indossassero un piccolo orpello, o un semplice gioco in maschera; portò dunque con sé alcuni accessori, ed una alla volta li impose alle ragazze che lavoravano nel locale. Fu così che Elle dovette diventare una nuotatrice con la cuffia e gli occhialini sopra alla testa, Veronica fu costretta ad acchittarsi come una donna vecchia ed impiumata degli anni Venti; Rosaleen invece si dovette truccare come una tenera bambina con le trecce. A Hélène toccò in sorte il travestimento da poliziotta, un berretto blu con la visiera, occhiali da sole, ed un paio di finte manette in plastica che le pendevano attaccate alla vita.
E come se andassero eseguendo un preciso compito, quella sera vennero a trovarla senza alcun preavviso, Marco e Lele.
E questa volta fecero davvero in modo di essere serviti da lei.
All’inizio Lele le mise anche una mano dentro alle sue manette, trattenendola vicina, mentre ella passava nei pressi del loro tavolo; era vistosamente allegro e anche un po’ ubriaco. Hélène fu nuovamente dalle loro parti, e con fare rapido ed apparentemente distaccato chiese loro, se intendessero ordinare qualcosa. Era davvero imbarazzata.
Marco allora le rispose senza mezzi termini: “Ti ordiniamo, di venire via a casa con noi questa sera … le manette però le usiamo noi …”. Allora Hélène si allontanò profondamente infastidita, mentre già Elle le si era fatta vicina, intuendo come vi fosse qualcosa di inusuale e strano, con quel tavolo. La ragazzotta si impose di andare avanti come se niente fosse, ma non era per nulla facile farlo, sentendosi addosso quei loro sguardi così volgari ed insistenti.
Ritornò presso di loro, intenta a prendere il loro ordine con pochissima cortesia; in quel momento Marco, senza alcun rispetto per lei, le suggerì di osservare direttamente sul proprio telefono: l’ordine le era stato inviato tramite un messaggio.
Hélène allora si allontanò un istante nel corridoio, e prelevando il telefono dalla propria borsetta, lesse inorridita: “Prepara quelle belle chiappotte … non scappi stasera …”
Non resistette oltre, e ritornando dentro alla sala, disse a Marco tremando tutta quanta: “Devi piantarla con i tuoi messaggi … non sono la tua serva …”.
Fu udita da diverse persone, ed in particolare da Nadia, che se ne stava ferma alla cassa a preparare il conto per tutti i tavoli che avevano finito la cena.
Quella si fece improvvisamente scurissima in viso, e levandosi i sottili occhiali dalla fronte, chiuse la cassa con la chiave e si mosse verso il centro del locale; afferrò Hélène fortissima per un braccio, e se la trascinò via con sé, nel corridoio antistante la cucina. Lì si tirò indietro la frangetta di capelli finti biondi, e trattenendo a stento le parole, la apostrofò dicendole: “Che cosa cazzo dici !?!... ma chi sono quelli lì nella sala?!? … ti hanno sentita tutti quanti !!!”.
Hélène allora capì di averla combinata veramente grossa, e tenendosi una mano su una guancia, le rispose con voce davvero sommessa e spenta: “Mi perdoni signora Nadia … quei due mi stanno insultando tutta la sera”.
La moglie del proprietario del locale non le credette, e con un gesto istintivo e leggermente sopra le righe, le mollò un forte ceffone, ritirando poi subito la mano. Hélène arretrò in lacrime, si sentiva davvero abusata ed umiliata. Aveva il berretto da poliziotta e gli occhiali da sole leggermente scomposti per via dell’inattesa percossa.
La serata riprese, e per fortuna Marco e Lele – che s’erano dovuti rendere perfettamente conto di quanto era accaduto – avevano smesso di provocarla e di metterla in difficoltà.
Quando poi Hélène entrò in cucina per ordinare due piatti di filetto, vide nuovamente gli occhi di Adrian che la fissavano in modo aggressivo ed insistito; le disse con voce ferma: “Dimmi solamente quale dei due è Lele … vado lì io e gli spacco la faccia”.
Hélène avvertì in quelle parole un senso di protezione e di inattesa delicatezza. Appoggiò allora entrambi i piatti che ella teneva in mano, sulla lunga barra bianca della cucina; ed avvicinandosi nuovamente al cuoco, in modo del tutto inopinato, gli sfiorò una mano con un gesto di tenerezza e di sottile complicità; poi gli sussurrò amorevolmente dentro l’orecchio, mentendogli in maniera spudorata: “… è il più bello dei due”.
Quegli allora le diede un buffetto su una guancia, facendola arrossire; ed infine, senza attendere nemmeno che lei uscisse dalla cucina, si diresse rapido e deciso verso la sala in cui si trovavano gli ospiti; in un solo istante fu vicino al tavolo di Marco e Lele, e puntando con lo sguardo il primo dei due, gli disse dritto in faccia: “Tu sei solo un perdente, lascia stare la mia ragazza, sennò io ti ammazzo …”.
Marco e Lele lasciarono immediatamente il locale, e riferirono tutto quanto alla signora Nadia che si trovava alla cassa; dissero che si erano lamentati con Hélène dal momento che quella non li aveva serviti in tempi rapidi, e che si trattava di una cameriera anche piuttosto maleducata. Ed infine le diedero conto dell’inaudita sfuriata del cuoco, che a quanto pare, di quella cameriera era il fidanzato o qualcosa del genere, e che li aveva addirittura minacciati.
Era decisamente troppo, ed allora la signora Nadia risolse di riferire tutto quanto a suo marito, che si trovava chiuso nel piccolo studio nascosto sul retro del locale.
Alla fine della serata, mentre tutte le cameriere si andavano cambiando ed i cuochi ripulivano la cucina, il signor Mariano si fece avanti col suo sigaro acceso in bocca, noncurante del fastidio causato dal fumo a tutti quanti i lavoranti, e schioccando le dita si affacciò nel corridoio gridando: “Adrian e Hélène! …adesso con me, nello studio”.
Il primo a seguirlo fu proprio il cuoco romeno, con aria spavalda e camminata alquanto sicura di sé; Hélène invece tremava tutta quanta, e mentre rimetteva ai piedi le sue scarpette, che s’era sfilata via pensando di potersi cambiare, sentiva tra sé e sé, che questa volta avrebbe rischiato di perdere sul serio, il suo primo ed unico lavoro.
Il signor Mariano si sedette dietro alla sua piccola scrivania, con il sigaro sempre acceso in bocca e le braccia conserte, mentre il cuoco e la cameriera si trovavano in piedi dinanzi a lui, non troppo distanti l’uno dall’altra. Quello esordì dicendo: “Mi aveva avvisato mia moglie … che stavate combinando dei bei casini voi due …”; Hélène accennò timidamente ad una risposta, ma quegli noncurante riprese: “… qui mi parlano di pomiciate tra di voi dentro alla cucina, di occhiatacce in bagno …”; poi aggiunse: “Ma stasera avete davvero superato ogni limite! … meritereste veramente di venire licenziati subito per quello che avete combinato …”.
Adrian allora, senza pensarci un solo istante, prese la parola con fare rapido e indispettito, rispondendo: “Hélène è la mia ragazza, lei mi può anche licenziare … ma se un uomo provoca la mia ragazza … io posso anche fargli del male!”.
Hélène avvertì in quel frangente un moto dentro, un senso di assurda perdizione e di timore mai provati fino ad allora; si trovava in quel momento, all’una di notte stanca e accaldata, e sul punto di perdere il suo primo impiego, ma finalmente fidanzata con un uomo.
Il signor Mariano la guardò dalla testa ai piedi, e senza nascondere un ghigno sadico, le disse: “E tu tesoro cosa dici? …intanto togliti quelle manette dalla gonna, che sei ridicola…”.
Hélène se le sfilò via dalla vita, e le poggiò sulla scrivania di legno del signor Mariano; poi guardando di lato, verso il cuoco romeno, disse: “Quei ragazzi mi hanno provocata, ed io ho reagito, dopodiché ho riferito tutto quanto al mio fidanzato”. Adrian le strinse la mano, rimanendo a debita distanza, sempre in piedi dinanzi alla scrivania.
Più che una paternale, sembrava una cerimonia di matrimonio; il signor Mariano si alzò in piedi, ed avvicinandosi a loro disse: “Io non posso impedirvi di essere fidanzati l’uno dell’altra, anche se come proprietario di questo locale io preferirei che ciò non fosse …”, ed infine concluse: “…ma sappiate che stasera avete davvero oltrepassato ogni limite; ed al prossimo sgarro, verrete entrambi licenziati subito all’istante, e liquidati senza alcuna cortesia!”.
Allora se ne uscirono di lì, mano nella mano, come due teneri innamorati; quando poi furono nuovamente soli nel corridoio, Adrian prese Hélène per un braccio, e la trascinò a sé per baciarla. Quella si lasciò trasportare, ed in un solo istante la lingua del cuoco romeno fu dentro alla sua bocca, per alcuni attimi interminabili. Le affondò la mano nel sedere, senza alcuna difesa e senza alcuna protezione. Le ordinò infine di attenderlo, l’avrebbe accompagnata a casa con l’autobus notturno non appena la cucina fosse stata ripulita e riordinata.
Hélène obbedì sapendo di andare incontro a nuovi ed ulteriori problemi. Si sedette in attesa nel corridoio buio, lontano dallo sguardo della signora Nadia, che continuava a sistemare le fatture e le ricevute di alcuni fornitori con la sua consueta e maniacale attenzione.
Era seduta in silenzio, e sentiva le gambe tremarle, e la vagina aprirsi e schiudersi in modo assurdo. Era tutta stretta sotto un paio di calze contenitive di color carne; ed in quel momento ella sapeva bene, che cosa l’attendeva solamente di lì a pochi istanti, in quella stranissima serata di Carnevale.
Diciassettesimo episodio
“Perché non ti sei cambiata?” fu la prima cosa che le disse Adrian, mentre si sfilava lentamente i suoi guanti di plastica trasparenti. Li gettò via nel secchio della cucina, mentre Hélène intanto non rispose, restandosene immobile sull’uscio del corridoio. Era l’una e mezza di notte, il locale era oramai buio e silenzioso; ad attenderli era rimasto il solo Gheorghe, ed il signor Mariano che chiudeva sempre le serrande a metà lungo la strada, e dormicchiava nel suo studio guardando un noioso programma di politica nel suo piccolo televisore.
“Non avevi qualcosa di più elegante per me ?!?”, insistette il cuoco, trascinandosi via Hélène per una mano, attraverso i tavoli con le sedie rovesciate ed i pesanti fusti della birra accatastati vicino all’ingresso. La cameriera era agitata e terribilmente ansiosa quella sera, sapeva che Adrian avrebbe voluto concludere, e in ogni caso non l’avrebbe lasciata andare via con un semplice bacio della buonanotte; in preda ad uno stato di grande confusione, nemmeno aveva pensato di levarsi gli abiti da lavoro, cosicché ella ancora portava indosso la sua camicetta bianca, e la gonna scura di sempre.
Si ritrovarono in piedi alla fermata dell’autobus, mano nella mano, con Gheorghe immobile accanto a loro: offriva in continuazione, sigarette al collega di lavoro, senza curarsi più di tanto di Hélène che era nel mezzo, avvolta nella sua giacca di colore blu scuro.
L’autobus notturno che passava per la stazione era sempre pieno di ambulanti e di senzatetto rumorosi e maleodoranti. Hélène di norma saliva e restava in piedi dalle parti dell’autista; ma quella sera, essendo accompagnata da due uomini, accettò di entrare dalla porta posteriore, e si sedette in mezzo a loro nella fila di posti sistemata sul fondo.
Lì all’improvviso notò un giovane ragazzo dalla pelle scura, che la sbirciava, fissandola senza davvero alcun ritegno in mezzo alle gambe leggermente schiuse; sollevò lo sguardo ed incrociò i suoi occhi luccicanti e sanguigni, e subito lo riconobbe: era Samir, il ragazzetto africano del negozio di frutta e verdura, che Hélène aveva frequentato ai tempi oramai lontani in cui abitava nel Convitto delle suore.
Anche lui la riconobbe, e le si fece incontro brancolando in mezzo all’autobus; era piuttosto alticcio e puzzolente. Le si fece dinanzi, e giunto in fondo le protese una mano chiamandola in modo esplicito, tanto che tutti quanti lo poterono udire: “…Mademoiselle!”. Adrian allora si sollevò in piedi, e lo respinse in maniera brutale, facendolo rotolare indietro fino al punto da cui s’era inizialmente mosso. Quello fece nuovamente per riavvicinarsi, ma si capiva come fosse davvero ubriaco; allorché fu gioco facile per il cuoco romeno, allontanarlo nuovamente con un forte calcione nel sedere, fino a vederlo ruzzolare quasi in terra.
Discese dall’autobus alla fermata successiva, subito dopo l’incrocio, e dalla strada ancora fissava Hélène con quei suoi occhi sgranati, tutti lucidi e bagnati.
Quando l’autobus raggiunse la grande piazza in fondo alla salita, Hélène si sollevò improvvisamente in piedi, e guardando Adrian negli occhi, con dolcezza gli disse: “Ecco io adesso devo scendere …”. Non si capiva se fosse un invito per lui ad accompagnarla, ma il cuoco romeno aveva evidentemente ben altre intenzioni, e le idee davvero molto chiare. La trattenne per un braccio, stringendola molto forte, e trascinandola platealmente indietro fino a farla sedere nuovamente, le disse: “Dove credi di andare a quest’ora?!? …ti porto io a dormire bella”. “Non posso! …domattina devo andare all’Università …” ribatté Hélène, con un accenno di vero disagio. Aveva compreso come quegli non intendesse semplicemente accompagnarla a casa, ma volesse condurla con sé in qualche altro luogo. La ragazzotta prese a tremare tutta, e guardando nuovamente Adrian dritto negli occhi, lo implorò: “…ti scongiuro … dove vuoi portarmi?!?”.
Quegli disse qualcosa nella sua lingua a Gheorghe, che Hélène non comprese; dopodiché si rivolse a quest’ultima e le sussurrò nell’orecchio: “Ti piace la pensione da Antonella?”, e si mise a ridere bofonchiando.
Era uno squallido albergo a ore, ed il cuoco non si diede pena di pagarne più di un paio, mentre tenendo sempre Hélène ferma per un braccio, la poteva sentire tremare tutta quanta dalla testa ai piedi. Gheorghe se ne era andato da alcuni minuti, si era separato da loro al capolinea dell’autobus di fronte alla stazione.
“Cosa vuoi farmi?” domandò Hélène mentre stringendo il corrimano, si apprestava barcollando leggermente a salire la prima mezza rampa di scale; “indovina un po’… ?!?” la derise Adrian, muovendosi rapidamente alle sue spalle, e le mollò un simpatico sculaccione sul sedere.
Quella continuò a salire, ed Adrian alle sue spalle gliene diede un altro, facendola letteralmente sobbalzare. Quando furono di fronte alla porta della stanza numero nove, Hélène era già vergognosamente bagnata fradicia, e non riusciva a capire quanta fosse in lei la paura, o piuttosto il desiderio più sordido, di venire posseduta per la prima volta.
Giunti infine dentro alla stanza, buia e disadorna, Adrian sospinse Hélène sul letto, ed in ultimo si sfilò via il piumone di dosso, ordinandole: “Io vado a farmi una doccia … tu intanto spogliati …”.
Era letteralmente atterrita e spaventata; se nell’atto di salire le scale ella s’era persino eccitata suo malgrado, adesso invece quello che Hélène poteva provare, era terrore autentico, un tremore lungo la schiena fin giù alle caviglie, che la teneva del tutto immobilizzata, seduta ferma sul letto.
Non si spogliò né fece nulla, mentre l’orologio segnava le due e un quarto, e l’indomani la lezione di Storia del Diritto sarebbe cominciata alle nove in punto. Sentiva le cosce che le scoppiavano, dentro a quel paio di calze contenitive tanto spesse, e l’elastico intorno alla vita che quasi la soffocava.
Finalmente Adrian uscì dal bagno, con le sole mutande indosso: aveva un fisico snello e nodoso, con una discreta peluria sul petto; la massa presente all’interno dello slip lasciava davvero poco spazio all’immaginazione. “Che cosa hai fatto tutto questo tempo … sei ancora vestita?!?”, fece lui non nascondendo una certa rabbia ed impazienza; Hélène non trovò nulla di meglio da rispondere, che sussurrare tremando tutta quanta: “… ho paura…”.
Allorché Adrian ristette per un istante, guardandola in basso come faceva sempre tutte le volte: “Vuoi dirmi che non l’hai ancora fatto … che sei vergine?”, e scoppiò a ridere in una maniera davvero irrispettosa.
Hélène non rispose, allorché il cuoco capì di dover prendere interamente il comando delle operazioni; accese una lampadina vicino al letto e spense le luci della stanza, dopodiché si rassettò le mutande sul davanti, come a volersi risvegliare da un certo torpore; poi infine guardando Hélène negli occhi, le ordinò: “In piedi, tirati su la gonna …”.
Quella obbedì, ma era davvero completamente terrorizzata; vennero fuori le calze intere contenitive, di color carne, che erano spesse ed elasticizzate all’altezza del bacino; al disotto, si intravedeva a malapena, una grossa mutanda di pizzo bianco, che la copriva per intero sul davanti, come un largo triangolo di stoffa che dall’inguine saliva su fino alla vita.
Quegli allora con un balzo le fu addosso, e cercando nervosamente l’elastico delle calze, con un unico gesto – quasi doloroso per quanto fu perentorio – gliele tirò giù, scoprendole per intero i fianchi ed il monte di Venere. Gliele lasciò all’altezza di metà coscia, dopodiché le ruotò i fianchi facendola voltare.
Hélène era oramai vinta e non faceva nulla per opporsi; si lasciò girare di spalle muovendo alcuni timidi passetti sulle sue piccole scarpette nere, e si ritrovò a quel punto con lo sguardo rivolto verso il letto, le mani tremolanti che sorreggevano la gonna, ed i glutei bianchi miseramente scoperti, riparati unicamente da un ridicolo filino bianco nel mezzo, rivolti verso Adrian dietro di lei.
Quello fu il momento in cui tutto precipitò; Hélène si ritrovò ambedue le mani del cuoco, nerborute e calde, immerse nella carne abbondante e nella cellulite delle sue natiche molli. Avrebbe voluto liberarsi, ma quella presa era più forte di una catena, la teneva immobilizzata con le dita che la sprofondavano dappertutto; nel frattempo era arrivata puntuale e decisa, una erezione di quelle buone, che per sua fortuna Hélène non poté vedere al primo istante.
Con le calze intere strette giù attorno alle cosce, le mani del cuoco che la tastavano dappertutto, e la gonna sollevata, Hélène sentì nuovamente una fitta dentro lo stomaco, e di lì giù fin dentro la vagina. Era bagnata di nuovo, e non capiva più, se fosse la paura a prevalere, oppure il desiderio di farlo.
Adrian a quel punto la fece voltare e le ordinò di sedersi sul letto, dicendole: “Basta con questo culo, mi hai annoiato … adesso me lo devi prendere in mano!”.
Ancora una volta la ragazzotta belga obbedì, e mentre si disponeva seduta sul letto, con le calze sempre abbassate a metà delle cosce, tirò giù con dolcezza le mutande del cuoco, fino a scoprirgli per intero il pene, che era tozzo, rigonfio di vene e già scoperto in cima. Lo afferrò in mezzo, senza sapere esattamente cosa fare, era vistosamente inesperta ed incredibilmente imbarazzata.
Non aveva mai preso in mano un uccello in vita sua, ed il primo che le era dato in sorte era piccolo ma tutto tosto, un corto mattarello da cucina piuttosto duro e consistente.
Adrian le spostò la mano con una certa rabbia, aveva compreso quanto Hélène fosse completamente impacciata ed incapace di toccarlo; la guardò con le sopracciglia arcuate e le disse: “Sei davvero scarsa, guarda come si fa …”; ed afferrandoselo per bene, iniziò ad aprirlo e chiuderlo velocemente, rendendolo ancora più sodo e compatto, e soprattutto bagnandosi in modo lento e inesorabile.
Hélène allora lo prese a sua volta, aveva capito come si doveva comportare, ed iniziò a fare altrettanto, aprendolo e chiudendolo in modo deciso; ma si muoveva un po’ troppo a scatti, per cui piuttosto che di piacere, quella mano un po’ troppo maldestra lo stava riempendo di fastidio e di disagio.
Allora egli decise che era il caso di piantarla, e le tolse nuovamente la mano senza alcuna possibilità d’appello, intimandole: “Spero che tu sia già bagnata … perché non ho tanto tempo da perdere con te …”.
Ed in realtà Hélène era completamente fradicia, al punto che se ne poteva avvertire persino l’odore, della sua vagina sudata e umida. Le abbassò ulteriormente le calze, sotto le ginocchia, e con un gesto rapido e deciso le tirò giù le mutandine, che raggiunsero così le calze in basso, lasciandole il ventre ed il pube completamente scoperti.
Dopodiché si inginocchiò tra le sue gambe, ed afferrandola per le caviglie gliele aprì all’improvviso, spalancandole come si spalanca una finestra, in una mattina d’estate.
Fu un gesto talmente deciso e violento, che le dure calze contenitive si strapparono nel mezzo, lasciandole unicamente una banda di tessuto lunga e sfilacciata, ad impedirle di allargare le cosce ulteriormente. La mutandina aveva l’elastico lento, e non le impedì affatto il movimento.
Era seduta sul letto, con la gonna sollevata attorno ai fianchi, le mutandine calate e le calze mezze divelte; Adrian le fu inginocchiato dinanzi, e finalmente iniziò a sfiorarle la folta peluria nera dell’inguine, con la testa del membro duro e compatto. Hélène provava invano a respingerlo tenendogli ambedue le mani sul petto, sui peli scuri e irti che egli aveva sul davanti. Ma era una resistenza debole per nulla convinta, era come se intendesse unicamente ritardare la sua capitolazione, la sua fine.
Con un ulteriore gesto, ancor più forte ed imperioso, Adrian le divelse completamente quel che restava delle sue calze nel mezzo, divaricandole definitivamente le cosce; poi le tirò via la mutandina dai piedi, armeggiando con fare inelegante e infastidito finché non gliela tolse via del tutto.
A quel punto poté finalmente appoggiarle il pene, che nel frattempo era diventato duro come un piccolo blocco di marmo, in mezzo alle labbra socchiuse della vagina.
Hélène abbassò lo sguardo, ed improvvisamente con un riflesso istintivo e del tutto inatteso, iniziò a piangere sommessamente; aveva paura, ma non voleva dirlo.
Adrian non se ne curava affatto, ma lentamente e gradualmente, prendeva possesso sempre di più, dello spazio morbido chiuso tra le due labbra delicate, un poco alla volta, in attesa di incontrare il muro innocente della sua verginità. Hélène piangeva con le lacrime che le rigavano il viso, ma Adrian era del tutto noncurante, rasentando quasi la maleducazione.
Ad un certo punto però egli si rese conto che la ragazza non era per nulla bagnata, e che l’operazione sarebbe stata senz’altro molto complicata; allora le prese i capelli sollevandole il viso, e guardandola negli occhi con quel suo sguardo duro e aggressivo, le disse: “Adesso apri bene le cosce e statti zitta e muta… se non vuoi che ti apra pure il culo …”.
Il viso di Hélène era bianco e delicato; se solamente Adrian fosse stato un ragazzo normale, e non un uomo grezzo e inelegante, avrebbe anche potuto innamorarsi di lei in quell’istante; era tenera ed innocente come una bambina, con le gambe divaricate ed i collant divelsi che le erano rimasti sotto alle ginocchia, come due miseri calzettoni trasparenti.
E la vagina nel mezzo, schiusa come una bocca morbida, adornata dalla sua peluria nera e soffice, era finalmente e nuovamente bagnata.
Allora appoggiò rapidamente la testa del pene, dopo averlo schiuso di nuovo e masturbato per qualche piccolo istante, e fu ad un passo dalla sua membrana sottile. Dopodiché fece un piccolo movimento indietro, e poi infine piegandosi in avanti, con un unico colpo forte e deciso, la sprofondò.
Hélène fu subito un lago di sangue, che le colava sulle lenzuola del letto e sui polpacci avvolti da quel che restava, delle sue calze color carne. Adrian le montò sopra, con il ventre appoggiato alla pancia di lei, ed iniziò a spingerla sempre più a fondo, senza alcuna pietà per il suo dolore e per tutto il sangue che le stava cadendo giù.
Hélène a quel punto provò a respingerlo con la forza, adoperando anche le unghie nel tentativo di farlo allontanare; finì anche per afferrargli i capelli, tirandolo via per la testa; ma quello andava avanti imperterrito, sbattendola in mezzo alle gambe con il suo mattarello piccolo ma tremendamente compatto.
Prese a gemere come una cagna, ululando al ritmo di quelle fitte lunghe e dolorose, via via sempre più lente, finché non fu vinta ancora una volta, ed iniziò ad avvertire il brivido salirle lungo la schiena: era l’orgasmo in arrivo, inatteso perché preceduto da quei minuti interminabili di dolore.
Ma Adrian glielo negò, estraendo il pene che era un nerbo interamente ricoperto di sangue, rosso come un pezzo di carne cruda. Glielo appoggiò sulla pancia, laddove la gonna nera già la ricopriva con la sua ombra; poi riprese a masturbarsi, come se tutti quei minuti ininterrotti di sesso non fossero stati ancora sufficienti a procurargli il piacere di cui egli aveva bisogno. Ed infine prese a schizzare fuori tantissimo sperma, sulla pancia e sulla veste rigirata di Hélène, inondandola tutta quanta, per alcuni secondi davvero lunghi ed interminabili. Le prese la mano e la costrinse a completare l’opera, imponendole di continuare a masturbarlo, tutto sporco com’era e fino all’ultima goccia, lasciandolo vuoto ed esausto.
La abbandonò così riversa sul letto, con le cosce ancora aperte divaricate, ed un lago di sangue in mezzo, ed il copriletto di lanetta grigia completamente imbrattato. Hélène aveva ripreso a piangere, e si teneva una mano sul viso mentre con l’altra, quella che aveva adoperato per masturbare Adrian, provava invano a levarsi tutto lo sperma appiccicoso di dosso. Piangeva e singhiozzava, anche se non riusciva a capire se quelle lacrime le venissero fuori per causa del dolore fisico e dell’abuso che ella aveva subito, o per l’emozione di essere divenuta finalmente una donna.
Quando Adrian uscì dal bagno, era nuovamente rivestito, e tirandola su per un braccio la costrinse ad assumere una posizione seduta sul letto; le portò direttamente un rotolo intero di carta igienica, invitandola a pulirsi tra le gambe per quanto le fosse possibile. La ragazzotta avrebbe desiderato almeno una parola di conforto, una tenera carezza; invece tutto quello che il cuoco riuscì a dirle, fu un rude e scortese invito a fare in fretta: “Andiamo bellezza, mica possiamo passare la notte qui …”.
La prese nuovamente per un braccio facendola alzare, e Hélène tenendosi una mano aperta a nascondere timidamente il pube, raccolse con l’altra il suo paio di mutandine che il cuoco le aveva sfilato di dosso; infine tenendosi sempre una mano sul davanti, e l’altra, in cui teneva stretto il suo slippino sul didietro, corse via sculettando fin dentro il bagno. Quello la guardò mentre la ragazzotta si allontanava, e si rese conto che era davvero piuttosto grossa, molto di più di quanto si sarebbe detto vedendola da vestita.
Ritrovò il cuoco che fumava seduto alla scrivania, non nascondeva una certa impazienza; discesero le scale senza parlare, e quando furono finalmente nel piazzale antistante la stazione, erano già passate le quattro.
Adrian mise Hélène sul suo autobus, lo stesso dell’andata, e la abbandonò lì senza attendere nemmeno per un minuto. Si fece dare da lei, il numero del telefono, pur dicendole che non l’avrebbe affatto chiamata durante il giorno.
Diciottesimo episodio
Non lo aveva mai fatto, di dormire nuda. Ma quella notte si sentiva sporca, tremendamente sporca e abusata; non avrebbe indossato nulla sotto le lenzuola, quasi come fosse un’espiazione, come se dovesse purificarsi.
La vagina le faceva ancora piuttosto male, era stata aperta e dilatata, e spinta in fondo per diversi minuti.
Hélène non dormì quasi nulla, e quando la sveglia suonò dopo meno di tre ore di inutili tentativi, nel vano e ostinato proposito di addormentarsi, ella poté avvertire benissimo di essersi ammalata.
Avvisò Paula, che nel frattempo stava facendo la colazione, e quella guardandola con la solita espressione giocosa e furba, le disse: “Ti ha fatto ammalare eh …”, e si mise a ridere.
L’avevano sentita rientrare, erano forse le quattro e mezza, e la cosa non era certamente passata inosservata; stranamente Chiara quella mattina appariva piuttosto scontrosa e fredda, ma Hélène non ci mise molto a concludere, che doveva essere stato forse Marco a riferirle dalla reazione sconsiderata di Adrian, la sera precedente al locale.
Se ne stette a casa da sola tutto il tempo, e quando arrivò il primo pomeriggio, decise perfino di telefonare alla signora Nadia, comunicandole che non sarebbe andata al lavoro quella volta. Non riusciva a togliersi quell’odore di dosso, il seme bollente con cui era stata violata. E mentre si asciugava dopo l’ennesima doccia, poteva vedersi benissimo nello specchio, grassa e deforme, e per giunta pure immolata e svergognata; era una sensazione davvero spiacevole.
Adrian non la chiamò nemmeno alla sera, doveva avere intuito perfettamente la situazione; fu invece stranamente la sua collega Veronica a telefonarle, intorno alle sette e mezza, non nascondendole una certa apprensione: “Che cosa ti ha fatto?”; sembrava sinceramente preoccupata per lei.
Seduta a tavola assieme a Chiara e Paula, Hélène poteva sentire ancora la massa di quell’oggetto piccolo e tosto, infilato tra le gambe; non vedeva l’ora che quella giornata ricolma di ossessioni le voltasse finalmente le spalle, sperando di stare meglio la mattina dell’indomani. Mangiò la sua minestrina senza aggiungere null’altro, e concluse il tutto con una camomilla tiepida senza zucchero.
Il sabato era una bellissima giornata di sole; Chiara era andata a spasso con Marco, e Paula stava preparandosi per un esame che avrebbe dovuto sostenere entro una decina di giorni. Adrian continuava a non chiamarla, e Hélène provava nel suo intimo, un profondo senso di tristezza e di solitudine; non sapeva se avrebbe dovuto continuare a considerare, quel cuoco romeno, come una specie di suo amante o addirittura di suo fidanzato; o se avrebbe piuttosto dovuto attrezzarsi fin da subito, per poterlo dimenticare.
Dinanzi alle ripetute ed insistite domande di Paula durante la cena della sera precedente, Hélène era stata muta come una statua di gesso; ma poi alla mattina dell’indomani, aveva abbandonato le sue difese, confidando alla pettegola coinquilina argentina tutto quanto; e prendendosi pure un simpatico pizzicotto sul seno, con il riconoscimento di essere finalmente diventata una donna come tutte le altre.
Indossò le calze autoreggenti, sentiva che il timore era in buona parte passato; la mutandina nera le avvolse i fianchi lasciandola libera sul didietro, laddove la stoffa delicata della gonna cadeva giù stringendole il fondoschiena per bene.
Fece il suo ingresso nel locale già vestita da cameriera, e non poté ignorare gli sguardi vivaci e curiosi delle altre ragazze, ed il ghigno sadico ed anche velatamente minaccioso della signora Nadia. Tutte quante sapevano che era uscita insieme al cuoco la sera del giovedì, e sembravano volerlo quasi sottolineare con le loro occhiate ammiccanti, i loro sorrisi eloquenti ed ironici.
Entrò in cucina e subito fu accolta da Adrian con incredibile freddezza. Fu un attimo breve ma interminabile per Hélène, che si era preparata per quell’istante fin dalla mattina; quegli la salutò in maniera rapida e disinteressata, continuando a tagliare la carne e a scherzare con Gheorghe come se davvero nulla fosse.
Sarebbe stata una serata terribilmente difficile per Hélène: scrutata da tutti, ma ignorata dal cuoco romeno che le aveva tolto la verginità solamente due giorni addietro; si sentiva davvero presa in giro e umiliata. Servì i tre tavoli più piccoli nella sala centrale, ed ogni volta che entrava in cucina provava una fitta dentro allo stomaco; ma quegli nemmeno le corrispondeva con un cenno fugace, era semplicemente come se tra di loro non fosse accaduto davvero nulla.
Si ritirò in bagno per fare la pipì, e mentre poggiava i glutei bianchi e molli sopra alla tazza gelata, sentiva le gambe tremarle sotto alle ginocchia: avrebbe voluto parlare con colui che la aveva fatta sua in modo così insulso ed inaudito, senza nessun amore e senza davvero alcuna poesia.
Decise così di attendere fino alla fine, ma mentre una ad una le cameriere si rivestivano ed abbandonavano il locale, Hélène non resistette oltre, sentiva gli occhi della signora Nadia e degli altri camerieri maschi che la scrutavano, come una povera bambina sedotta e abbandonata.
Salì allora sul suo autobus senza attendere la chiusura, non aveva nemmeno portato con sé il ricambio; quando poi fu giunta vicino casa, lungo la discesa che percorreva al buio ogni volta con non poco timore, sentì all’improvviso il suo telefono squillare.
Aprì nervosamente la borsetta, era l’una e mezza di notte e l’intuito le diceva chiaramente, che non poteva essere altri che lui. Rispose tutta trafelata, con il solito “oui” sempre così inappropriato sia per l’orario, che per il suo interlocutore.
Quegli l’aggredì verbalmente, esclamando: “Dove cavolo pensi di andare senza di me eh? …bella troia che non sei altro”. Fu un’autentica doccia gelata, giammai Hélène si sarebbe aspettata di venire trattata a quel modo.
Poi senza attendere la sua replica quegli riprese: “Ti ho vista in bagno … come ti sei acconciata stasera … dimmi dove cavolo devi andare vestita così!”.
L’aveva spiata ancora una volta, e Hélène non se ne era resa per niente conto; abbozzò allora una timida risposta, biascicando le parole a bassissima voce mentre scivolava giù lentamente lungo la strada: “…Ma … ma non mi hai nemmeno salutata questa sera … cosa vuoi adesso da me …”.
“Senti bambola …” riprese Adrian, senza attendere oltre; “Questa sera non ti ho filata perché ho altro da fare hai capito…” e concluse: “Ma domani sera mettiti bella in tiro come oggi, ti porto io a ballare bambola”.
Attaccò il telefono, mentre già era giunta all’incrocio della strada; si sentiva terribilmente spaventata e confusa. In pochi istanti fu vicino al portone di casa, e di lì notò una grossa macchina elegante accostata lungo il marciapiede: con una certa sorpresa, al suo interno intravide proprio Chiara, con i suoi inconfondibili capelli biondi, che si baciava appassionatamente con Marco.
L’indomani Hélène si recò nuovamente al mercato, ancora una volta non aveva dormito quasi nulla, ed era perennemente agitata e turbata. Ma sapeva benissimo che quella sera non sarebbe sfuggita alle grinfie del cuoco romeno, ed al solo pensiero di dover replicare il sordido finale del passato giovedì, provava un sentimento indefinibile, di paura ma anche di irresistibile attrazione.
Indossare un reggicalze non faceva assolutamente per lei, pensò Hélène mentre ne rimirava un paio, tutti sporchi e stropicciati, pescati dalla cesta dell’intimo usato e squallido, nella bancarella maggiormente provvista; invece trovò un bel paio di collant autoreggenti neri, con un fascione scuro in cima, e la righina su tutto il lato posteriore. Le piacque anche la mutandina color carne, piuttosto sottile sul davanti, ed invisibile sul fondoschiena: le ricordava quella che tanti anni addietro le aveva regalato Edina, per la sua festa di compleanno.
Prese anche un balconcino nero che prometteva meraviglie col suo seno, che non era troppo grande, ma morbido abbastanza da poter essere agevolmente stretto e sollevato.
Spese un po’ di soldi, ma quando alla sera giunse il momento di recarsi al locale, si sentiva forse per la prima volta in vita sua, bella ed attraente; percorse il tratto in salita che la portava al suo luogo di lavoro, sotto una fitta pioggia battente, riparandosi con un piccolo ombrello nero. Con le cosce nude sotto alla gonna, che si strofinavano di continuo.
Diciannovesimo episodio
Come annunciato e come abbondantemente atteso, quella sera Adrian aveva nuovamente intenzione di portarsela a letto. Hélène lo capì immediatamente quando lo vide di soppiatto entrando dentro la cucina; aveva l’occhio vivace e scuro, e sembrava già piuttosto eccitato e carico di desiderio.
Glielo fece intendere esplicitamente, parlandole sottovoce, senza farsi sentire da Gheorghe che nel frattempo stava prendendo un ordine da Rosaleen.
“Stanotte tu verrai ospite a casa mia; ti farò ballare tra quelle coscione bianche …”.
Hélène fu subito, ed inopinatamente, tutta fradicia in mezzo alle gambe, in maniera assurda. Dovette chiudersi in bagno e provare a ripulirsi con la carta igienica, senza però risolvere di molto il problema; continuava infatti a bagnarsi di tanto in quanto, e non riusciva a smettere di eccitarsi al solo pensiero di quello che l’attendeva.
Non le era mai accaduto di sentirsi così, in vita sua: aveva il ventre rigonfio di liquidi, il monte di Venere perennemente umido, e di tanto in quanto delle profondissime scosse, di autentica voluttà; si sentiva veramente come una femmina animale travolta dai calori dell’accoppiamento, e la primavera non era nemmeno ancora giunta al suo inizio.
Girava tra i tavoli con la testa persa tra le nuvole; e commise anche un paio di stupidi errori con alcuni clienti, ma senza serie conseguenze per sua fortuna; la signora Nadia infatti non se ne rese nemmeno conto.
Passarono cinque ore, lunghissime e quasi interminabili, e per almeno altre due volte la ragazzotta belga dovette infilarsi nel bagno, nel tentativo di ripulirsi l’umido che aveva tra le cosce e che l’accompagnava dall’inizio della serata.
Mentre il tempo trascorreva, un sentimento di indicibile vergogna iniziava ad affacciarsi nella sua testa, dapprima timidamente e sommessamente, ma poi in modo sempre più deciso ed insistito; era come un severo richiamo alla disciplina e all’amor proprio. Adrian le notò i seni sotto alla camicia bianca: era l’effetto del balconcino, che a quanto pare faceva assai bene il suo dovere; quella sera infatti la fissava spesso e volentieri sul davanti, tralasciando la metà inferiore cui era oramai abituato.
E quella sera Hélène ricevette per la prima volta una timida proposta, un invito galante da parte di un uomo di mezza età grigio e stempiato e per nulla attraente, che se ne stava seduto tutto da solo nel tavolo in fondo alla sala: e la rifiutò con non poco stupore e senza nemmeno tanta cortesia.
Si rese conto che era il seno ad attrarre di molto gli uomini, di tutte le età e di ogni specie; per tutti quegli anni ella non aveva mai pensato a questo aspetto, ma in quel momento mentre per una volta ancora era seduta sulla tazza nel tentativo di pulirsi, Hélène decise solennemente, che non si sarebbe mai più separata dal suo prezioso balconcino.
Arrivò finalmente l’una, e Hélène preferì attendere il suo cuoco nel corridoio senza cambiarsi; durante l’attesa fu interrogata dalla signora Nadia, col suo consueto atteggiamento severo ed inquisitorio: la coppia di proprietari non vedeva affatto di buon grado quella loro relazione, e Hélène arrivò a comprendere, come vi fosse il serio rischio che ciò potesse anche compromettere il suo posto di lavoro, se la cosa fosse andata avanti a lungo.
Fuori dal locale, oltre la saracinesca mezza abbassata, un misterioso amico di Adrian, di nome Jan era venuto a prenderli; li attendeva dentro ad un’automobile bassa e squadrata vecchia di almeno trent’anni. Sulle prime Hélène provò un discreto spavento nell’osservare la sagoma scura dell’uomo immobile dietro il vetro, seduto al posto di guida. Poi, una volta entrata nella macchina sul sedile posteriore, tenuta per mano, notò come quegli fosse piuttosto bassino e buffo, sembrava come un nano tutto timido ed accigliato.
Adrian le mise subito una mano sulla coscia, senza attendere nemmeno che Jan mettesse in moto; mentre Gheorghe si era accomodato sul sedile davanti accendendosi una sigaretta.
Hélène dovette provare non poca vergogna, i due uomini che erano lì con loro, avrebbero potuto vedere tutto quanto, e la cosa le causava un indicibile imbarazzo ed un senso immane di fastidio; fece allora leggermente per scostare quella mano, ma come tutta risposta Adrian le afferrò con decisione l’altra coscia, quella sulla destra, spingendosi fin sotto alla gonna, dove l’elastico scuro del collant terminava stringendosi nella sua pelle bianca e indifesa.
Hélène emise un sospiro, e nel frattempo poté scorgere in modo nitido, l’occhio fisso e curioso dell’uomo seduto al posto di guida, che guardava tutta la scena, mentre l’automobile era sempre ferma col motore acceso; in quell’istante Adrian le disse nell’orecchio: “… sei calda come una cagna”, facendola letteralmente sussultare. Finalmente la vettura si mosse lentamente, con qualche rumore sinistro, imboccando la discesa fino al successivo incrocio, dove poi voltò sulla destra nella direzione della stazione; fu un itinerario non breve, in cui il cuoco si spinse fino a sfiorarle le mutandine sotto alla gonna, trovandola già completamente bagnata; le disse allora: “… hai voglia di prenderlo … stasera ti do io una bella lezione”, facendola sprofondare nel baratro della vergogna più assoluta.
Gheorghe discese alla fermata dei pullman, con l’ennesima sigaretta stretta tra le dita, ed incrociò anche egli lo sguardo di Hélène. Ripresero la strada lungo il vialone immenso diretto in direzione est, infilandosi infine in un rivolo di pertugi a senso unico, al punto che Hélène dovette intuire come fossero oramai giunti in prossimità della loro destinazione.
Jan abbandonò la vecchia automobile posteggiata dinanzi ad un bidone dell’immondizia, e li seguì mentre mano nella mano, Adrian e Hélène camminavano lungo il marciapiede buio e sporco; in quell’istante la ragazzotta belga trasalì: l’amico del cuoco romeno sarebbe salito su a casa con loro.
Aprì il portone del palazzo e fece loro strada, infilandosi nel piccolo androne sulla sinistra, ed infine su una stretta rampa di scale; Adrian accompagnò Hélène affondandole una mano dentro la gonna, stringendola nel mezzo e sospingendola in su come se volesse trascinarla da dietro; quella ristette ed emise anche un piccolo gridolino, che chiaramente l’altro uomo poté udire in modo distinto. Giunsero al secondo piano, dove finalmente Jan aprì la porta di casa, dileguandosi dentro una stanza nei pressi della cucina.
La ragazzotta belga era inquieta e spaventata, temeva che i due uomini potessero farle del male; ma ci pensò immediatamente Adrian a tranquillizzarla, lasciandole subito intendere che cosa voleva da lei. Le tolse il cappotto di dosso, e le ordinò di disporsi in ginocchio sul divano voltata di spalle. Voleva fare in fretta.
Sulle prime Hélène si rifiutò, rimanendo immobile nei pressi di un tavolo con espressione persa; allora Adrian con una sola mano afferrò la spalliera del divano e lo fece ruotare sul pavimento di piastrelle scure, apparentemente senza alcuno sforzo, raschiando per terra in modo fastidioso e rumoroso. Hélène non si era mossa, ma il divano era adesso posto dinanzi a lei, a un passo dalle sue ginocchia; Adrian allora la spinse con delicatezza lungo la schiena, accomodandola così com’egli desiderava: poi si mosse verso un mobiletto posto di lato, ed afferrato dal cassetto un telecomando, accese il televisore sulla parete di fronte, esattamente davanti agli occhi di Hélène, solamente due metri più in là.
Era un orribile film porno, già nel pieno del suo svolgimento, in cui una donna bionda non troppo magra e bella, veniva esplicitamente abusata da un grosso uomo di colore: la ragazzotta lo riconobbe immediatamente, era lo stesso identico film, l’orrenda sequenza vista tantissimi anni prima, in casa di Pascal; un’inspiegabile ed assurda coincidenza.
In quel momento Hélène sentì in modo vivido la vagina schiudersi, e tutto lo spazio vuoto nel mezzo ricolmo di umido, pronto all’amplesso; si impersonava nella donna bionda del film, e provava brividi di autentico spasimo.
Dopo qualche istante interminabile, ella si voltò, ma di Adrian non vi era adesso nessuna traccia; vide però l’ombra bassa e tozza dell’altro uomo dietro la porta che la spiava, ed immediatamente ristette raggelata; ma con prudenza e intelligenza Hélène non disse né fece nulla, era una situazione davvero pericolosa quella in cui si era cacciata.
Ma in quel momento il timore prese nuovamente a prevalere, e nonostante il film andasse avanti e adesso gli uomini di colore in azione fossero addirittura due, Hélène se ne stava fredda e terrorizzata, inginocchiata ferma sul divano come un automa insensibile.
Si voltò di nuovo, e Jan era sempre lì, immobile; ne poteva scorgere nitidamente l’ombra.
Non si mosse ancora una volta, e dopo un minuto o poco più, finalmente udì la porta del bagno che si apriva, ed il rumore dello scatto di un accendino. Adrian fu alle sue spalle, con i soli pantaloni della tuta indosso, e la sigaretta accesa in bocca.
Le mise le mani sulla gonna, all’altezza del sedere, senza affondargliele nel morbido; poi con decisione afferrò la stoffa e la trascinò su un poco alla volta, sollevandola. Hélène mugolava, non sapeva più cosa fare, ma di nuovo sentiva i liquidi ribollirle nel ventre. Presto la gonna finì interamente rivoltata attorno ai fianchi, e tutta la carne bianca delle cosce, strette nell’elastico penoso delle calze autoreggenti, ed i glutei pallidi e rigonfi, furono esposti dinanzi agli occhi del cuoco, e dell’altro suo amico che li stava spiando.
Adrian a quel punto le affondò ambedue le mani nella carne morbida, ed esclamò a gran voce: “Sono mie! …stasera queste due chiappone sono mie !!!”, e si mise a ridere, mentre gliele massaggiava da dietro, scuotendola per bene.
Hélène fu nuovamente bagnata del tutto, mentre il film adesso indulgeva in riprese quasi degne di un documentario di anatomia, con dettagli fin troppo accurati della donna e dei due aguzzini di colore che la stavano letteralmente devastando in tutti gli orifizi disponibili.
Nemmeno le abbassò le mutandine, ma afferrandole il filino in cima sul didietro, lo tirò a sé spostandolo leggermente di lato; Hélène sentì in quel momento la punta rotonda e tozza del pene di lui, che si insinuava in mezzo ai glutei, poco sotto il forellino dal basso. Ci mise un istante a realizzare con vero terrore, che quello sciagurato aveva la ferma intenzione di fare a lei, quello che uno dei due uomini di colore stava facendo in quel frangente alla malcapitata bionda del film.
Ebbe allora una reazione, e poggiando improvvisamente uno dei due piedi in terra, riuscì a respingere con la mano destra quel membro che la spingeva insistentemente tra le natiche.
Adrian reagì in modo molto violento, e le mollò uno scapaccione fortissimo, facendola subito ritornare nella posizione reclinata; dopodiché le afferrò con una mano il ginocchio, costringendola nuovamente con ambedue le gambe sul divano. Infine, con uno scatto improvviso, le abbassò le mutandine poco sotto l’elastico delle calze.
Hélène volse allora il capo verso di lui, in quell’istante aveva preso timidamente a piangere; l’ombra scura dell’altro uomo non si era mossa di un millimetro, e continuava a spiarli.
Adrian le disse in faccia: “È inutile che reagisci bellezza … intanto stasera ho già deciso … ti faccio il culo”.
Hélène provò un brivido lungo la schiena e subito fu annichilita dal terrore; poi trovò per puro istinto, il coraggio di rispondere, nell’unico modo possibile per potersi salvare: “… ti devo confessare … anche se mi vergogno a dirtelo …”; “Che cosa?!?” ribatté il cuoco impaziente; “non … non sono andata in bagno stamattina …”. Quegli le mollò un altro scapaccione facendole veramente molto male, dopodiché urlò a gran voce: “Sei una troia!!! …e fai pure schifo!”, e le mise ambedue le mani attorno ai fianchi assestandola meglio sul divano. Dopodiché si abbassò del tutto i pantaloni della tuta e anche le mutande, che fino a quel momento aveva tenute scese a mezz’asta.
Cominciò a batterle il membro da sotto, contro la peluria nera abbondante, sentendo che Hélène era oramai pronta.
Le fu dentro dal basso, con un movimento rapido e preciso, infilzandola con decisione nella vagina tutta umida; Hélène ululò come una bambina, alzando leggermente il capo, dopodiché allungò gli avambracci, fino ad aggrapparsi con le mani alla spalliera del divano. Adrian fece un passetto in avanti e poté stringerla ancora meglio, ribaltandole la gonna lungo la schiena.
Prese a sbatterla come un sacco di patate, avanti e indietro, con la testa piegata in basso. Hélène provava invano a restare in posizione eretta, ma quelle fitte le arrivavano fin dentro alla nuca, costringendola sempre più contro lo schienale.
“Ti insegno io ad andare in bagno la mattina …” la redarguiva Adrian, mentre tenendola sempre più forte, poteva sentirla tremare tutta quanta, tra le cosce bagnate, completamente fradicie e calde; Hélène continuava ad ululare, quelle spinte le squassavano il ventre. Trovò la forza di voltare il capo una volta sola, e dietro all’avambraccio robusto e nerboruto di Adrian, oltre il petto forte e villoso di lui, poté scorgere nuovamente la sagoma di Jan, uscito direttamente allo scoperto, che si masturbava con la mano destra infilata dentro ai pantaloni.
Socchiuse gli occhi inumiditi, oramai non riusciva nemmeno più a provare vergogna. Il cuoco continuava a sbatterla come un oggetto inerte, e Hélène teneva a quel punto la testa piegata in basso, coi lunghi capelli neri che le ricadevano sui cuscini del divano. Un poco alla volta, il brivido divenne un’onda di piacere, che dal collo discese giù lungo la schiena, fino a raggiungerle i fianchi morbidi e abbondanti, dove le mani di Adrian la tenevano ferma saldamente.
Spalancò la bocca, tutte le resistenze erano crollate; si lasciò così sprofondare nel baratro in modo inaudito e doloroso, mugolando come una bestia: “Ooo-oooh … ooo…”.
Adrian se ne rese conto, dalla scossa di bagnato che improvvisamente lo invase attorno alla carne dura e irta del pene. Volle allora completare l’opera, e prendendola per i capelli le liberò la vagina, costringendola infine a voltarsi, con una gamba distesa in giù e l’altro ginocchio sempre piegato sul divano, e lo slip avvolto di sopra. La tirò a sé, facendola infine discendere in maniera alquanto goffa, e trascinandosela dietro come un animale al guinzaglio, sempre costringendola per i lunghi capelli neri, fino a farle davvero molto male.
Infine, si sedette su una sedia vicino al tavolo, e tirandola ancora, la fece inginocchiare in mezzo alle sue gambe; lì le prese la nuca costringendola così ad accogliere tra le labbra il suo membro, duro come una severa mazza di legno.
Hélène non reagì e non disse nulla, ma era tremendamente spaventata; si ritrovò quell’oggetto viscido e puzzolente infilato nella bocca, non riusciva nemmeno ad urlare né sapeva come fare per liberarsi: sentì unicamente la mano forte di Adrian che la prese nuovamente sopra alla nuca, spingendola in giù. Finì soffocata da un’onda di liquido bollente, dentro alla gola, in un incubo di improvviso, autentico ed indicibile schifo.
Adrian continuava a eiacularle dentro, senza soluzione di continuità, tenendola ferma con ambedue le mani sopra alla testa. Quando la liberò, Hélène era già annichilita in terra, disposta a quattro zampe come un cane, con la gonna sempre rigirata attorno ai fianchi, le mutandine scese, e le calze autoreggenti leggermente scomposte.
Lo vide ripulirsi dal basso verso l’alto, pochi centimetri sopra di lei, con freddezza e disprezzo; poi la prese una volta ancora per i capelli, e sospingendola con davvero poco garbo, la costrinse giù, fino a farla coricare con la pancia lungo il pavimento, e le gambe leggermente piegate.
Le disse puntandole il dito contro: “Questa volta te la sei cavata con un pompino troia che non sei altro … ma la prossima volta ti apro il culo come meriti”.
La povera sciagurata si mise a dormire sul divano, senza nemmeno cambiarsi e ripulirsi; fu lasciata lì senza che nessuno le dicesse nulla, né Adrian e né tantomeno Jan, che nel frattempo era completamente sparito.
Dopo alcune ore, Hélène aprì gli occhi in uno stato di totale agitazione e di disagio; la lezione delle nove del mattino, non avrebbe certamente potuto seguirla, ma ciò che di più la spaventava, era il fatto di non avere assolutamente alcuna idea, di come fare per ritornarsene a casa.
Jan si affacciò nella sua stanza, trovandola in piedi, ancora stravolta e completamente spettinata. Per la prima volta Hélène poté udire la sua voce, era balbuziente e probabilmente non del tutto sano di mente. Le disse che poteva prendere un autobus fino alla metropolitana, e che Adrian era dovuto uscire per alcune faccende private.
La ragazzotta belga chiese il permesso per poter fare una doccia, ma l’acqua calda era già completamente finita; si raccolse allora i capelli in una coda di cavallo, erano le sette e mezza del mattino, e facendosi infinitamente coraggio, si incamminò a piedi fino alla stazione della metropolitana; proprio mentre il sole iniziava timidamente ad illuminare, l’alta cima degli orribili palazzoni popolari di zona.
Non fu nemmeno necessario dover attendere che le sue coinquiline uscissero, per poter rientrare nella sua dimora perfettamente sola e del tutto indisturbata: arrivò alla Stazione Tiburtina dopo più di mezz’ora, e quando infine giunse a casa, la trovò già completamente vuota e silenziosa.
Ventesimo episodio
L’Università era diventata un ostacolo quasi impossibile da sormontare, pensava Hélène quella mattina, mentre con immane fatica provava a leggere alcuni appunti di almeno due settimane addietro. Ad un certo punto prese il telefono, e si rese conto che la madre l’aveva provata a chiamare per almeno tre volte la sera prima.
Provò un senso di grande urgenza e di preoccupazione, e allora sedutasi sul letto, dopo un lungo sospiro decise di richiamarla, temendo che quella potesse essersi piuttosto adirata, per il fatto che Hélène non le avesse affatto risposto.
La madre era al lavoro, e non poteva parlarle in modo chiaro ed esplicito.
Ma ad un certo punto le disse, cambiando repentinamente il tono della sua voce: “Ho appreso con piacere alcuni giorni fa… da Bianca… che adesso abiti in un bell’appartamento, con altre due brave stupidone come te, e tanti altri ragazzi con molta voglia di divertirsi che vi ronzano attorno … non è così Hélène ?!?”.
Quest’ultima tacque, ma avvertì chiaramente quella netta sensazione, che non provava da tempo, di autentico timore e di minaccia. La madre allora riprese: “Non mi hai detto nulla e non immagino nemmeno come tu possa permettertelo … non mi interessa, ma io so solamente una cosa …”, e concluse: “Quando vieni qui, preparati perché a me tu le bugie non le dici … hai capito stupida?!?”.
Hélène attaccò il telefono e adesso aveva una sola certezza: non appena avesse rimesso piede nella sua casa a Liegi, il benvenuto sarebbe stato una volta ancora, non privo di dolorose conseguenze; la madre non la dava infatti certo ad intendere, era sempre severissima con lei quando serviva.
Eppure, quella mattina Hélène aveva preso nuovamente a ripensare a casa, come se in cuor suo ella desiderasse finalmente di potervi ritornare; era diventata una donna, non aveva più alcun timore del sesso, avendolo provato in maniera dura e verace, e fino al punto da trarne anche del piacere. Sentiva come se la sua missione si fosse finalmente compiuta, quasi come se tutta quella lunga e sciagurata avventura, fosse servita unicamente a farle perdere una volta per tutte, la sua verginità.
Adrian era davvero un uomo rozzo e ignorante; in ben due occasioni quello l’aveva abusata, ma era oramai evidente come non desiderasse avere con Hélène alcuna relazione stabile, quanto piuttosto di poterla sfruttare e sbatacchiare come una bambolotta, come meglio egli credeva. Non l’aveva chiamata neppure quel giorno, ed era altrettanto evidente come non provasse alcun trasporto né alcun interesse nei suoi confronti; Hélène iniziò a pensare tra sé e sé, di doverlo presto dimenticare.
Così si risvegliò la mattina del martedì ben intenzionata a dedicarsi allo studio e all’Università, ed a lasciarsi quella sua vicenda così torbida ed amaramente insignificante, ben presto alle sue spalle.
Ventunesimo episodio
Il professor Ducré continuava imperterrito le sue lezioni, nonostante fossero rimasti pochissimi oramai gli studenti del primo anno disposti a seguirlo. L’aula che nei primi tempi era stata sempre affollata e rumorosa, era divenuta settimana dopo settimana sempre più quieta ed accogliente. Di contro, gli argomenti trattati divenivano di volta in volta sempre più ostici e complicati, al punto che quella settimana Hélène decise che avrebbe anch’essa, smesso di seguirlo.
Fu il primo timido segnale di resa, ed improvvisamente le giornate divennero un po’ più lunghe, con qualche ora in più per rilassarsi o per concentrarsi sullo studio.
La telefonata di sua madre e le concrete minacce che quella le aveva rivolto, rafforzarono in Hélène la convinzione di stare commettendo un grave errore; Adrian non solo non provava alcun sentimento verso di lei, ma la trattava unicamente come un oggetto di sesso, in maniera davvero irriverente oltre che esplicita.
La ragazzotta belga aveva così deciso la sera di quel martedì, che non si sarebbe mai più concessa al cuoco romeno; lo fece con non poca inquietudine, sapendo bene che non avrebbe avuto altra opportunità di lì a breve, per provare il vero piacere così come l’aveva provato l’ultima volta. Ma era pur sempre una persona ragionevole, di buona educazione, e si rendeva conto di quanto quella strana relazione fosse sbagliata e portatrice di grandi disgrazie.
Si preparò quindi la mattina del mercoledì in modo da risultare il meno attraente possibile; con le calze contenitive e le mutande bianche, oltre ai capelli raccolti in una specie di coda di cavallo piuttosto insignificante.
Durante la lezione di Diritto Civile, seduta in fondo all’aula accanto a Chiara, le rivelò senza troppi giri di parole, di voler evitare ulteriori guai con quell’uomo che l’aveva abusata; la biondina dal canto suo annuì senza scomporsi più di tanto: era probabilmente non scontenta, che Hélène intendesse agire in quel modo; era stato Marco a parlarle in modo davvero pessimo di Adrian, e la decisione di Hélène confermava che non si trattava di un errore.
Si salutarono nel piazzale antistante l’Università, alle cinque e mezza, con Chiara che attendeva l’autobus alla fermata completamente affollata di gente, e Hélène che attraversava la strada di corsa per non fare tardi al lavoro.
Il locale quel pomeriggio era vuoto e silenzioso; vi erano non pochi rimasugli in giro, di quel che era stata la Grande Festa di Carnevale della sera precedente. Hélène entrò in punta di piedi, e subito incrociò lo sguardo di Elle, nascosta ancora in una tuta grigia, che la salutò in modo serio e distaccato.
Si recò in bagno guardando di soppiatto dentro alla cucina, in maniera da non venire osservata: vide Gheorghe che giocava col suo telefono, e riconobbe l’ombra scura di Adrian vicino al tavolaccio bianco, che indossava i guanti di plastica.
Hélène si mise la sua camicia bianca, abbottonandosi fino al collo sopra il balconcino nero; era fredda ed impeccabile al punto giusto. La musica latina le ricordava le vecchie serate dell’appartamento, quando venivano a trovarle i ragazzi tutti assieme; entrò nella sala e chiese alla signora Nadia quale fosse il compito che l’attendeva quella volta.
Dovette servire i tavoli vicino all’ingresso, che di norma erano quelli più difficili, essendo piuttosto lontani dalla cucina. Hélène prese diversi ordini, e senza tanta esitazione si recò da Adrian e Gheorghe per riferire tutto quanto.
Si sforzava parecchio di parlare con fare distante e professionalmente ineccepibile; ma in cuor suo si sentiva ancora piuttosto emozionata, al cospetto di colui che la aveva abusata e maltrattata per ben due volte.
Adrian si limitò ad osservare bofonchiando, quanto non trovasse affatto attraente l’acconciatura di Hélène, commentando ad alta voce: “… quella coda te la taglio”.
Passarono almeno tre ore, e la ragazzotta cominciava a prendere coscienza d’esser piuttosto forte e distaccata. Ma proprio in quell’istante, come un fulmine a ciel sereno, mentre prendeva in mano due piatti di bistecca dal tavolaccio bianco della cucina, Adrian le si fece vicino e le sussurrò nell’orecchio: “Stasera io ti apro il culo … cicciona”.
Fu un solo attimo, ma Hélène non lo avrebbe mai più dimenticato per tutto il resto della sua vita; le passarono davanti agli occhi diverse istantanee del suo passato, tante altre volte in cui qualcuno l’aveva minacciata paventandole una punizione o qualche altra forma di castigo.
Si fece coraggio ed iniziò a pensare, a come avrebbe potuto fare per poterlo evitare; in fondo sarebbe bastato filare via dal locale senza nemmeno farsi notare, per non incorrere in alcun rischio. Ma poi come avrebbe agito all’indomani, per evitare la collera del cuoco romeno? come si sarebbe presentata dinanzi a lui la sera successiva? Hélène rimuginava tutto il tempo, e presto dovette rientrare in cucina per ordinare tre piatti di verdure grigliate.
Si rivolse a Gheorghe facendo finta d’ignorare Adrian, ma quest’ultimo la fissava tutto il tempo: aveva capito come la ragazzotta belga non avesse davvero alcuna intenzione di concedersi a lui, ed iniziava a provare fastidio, il suo orgoglio ne sarebbe risultato incredibilmente ferito.
Allora mentre Hélène si allontanava, Adrian la inseguì afferrandola per la coda di cavallo, arrestandola e facendole davvero piuttosto male; quella si girò tutta rossa in viso, ma memore dei pasticci combinati nel locale la settimana precedente, si trattenne dall’alzare la voce. Tuttavia, non nascose affatto una reazione rabbiosa, e fissando il cuoco, disse digrignando i denti: “Cosa vuoi da me!”.
Adrian la trascinò a sé, del tutto noncurante del fatto che Gheorghe li stesse osservando, e tirandola ancor di più per i lunghi capelli, fino ad avvicinarle il volto, le rispose: “Non penserai mica di andartene senza di me questa sera…”, e le mollò l’ennesimo scapaccione sul retro della gonna, liberandola.
Il resto della serata passò nell’incubo dell’angoscia più profonda; Hélène non sapeva davvero come avrebbe potuto fare ad evitarlo, arrivò perfino a pensare di poter scrivere un messaggio a Marco, implorando di venire a salvarla.
Ogni minuto che passava, sentiva avvicinarsi la sua fine, e temeva anche per il dolore che avrebbe potuto provare, certamente il cuoco sarebbe stato assai poco delicato con lei, date le terribili premesse.
Ebbe un ultimo timido sussulto di orgoglio, e mentre i tavoli si svuotavano lentamente uno ad uno, la ragazzotta belga pensò che avrebbe potuto negarsi esplicitamente ad Adrian, magari adducendo una qualsiasi scusa, quantomeno per rimandare quella pena.
Fu così che attese per qualche istante ancora nel corridoio, man mano che le altre ragazze uscivano ed i camerieri andavano spostando i tavoli nella sala; e se ne stava seduta ferma nella penombra, con le mani aperte sopra le ginocchia. Adrian la notò, ed allora affacciandosi con fare furtivo lungo il corridoio, le diede un buffetto sul viso e con tono di voce fermo e determinato le disse: “Brava bambina … lo vedi che quando vuoi sei brava…”.
Era decisamente troppo; trattenuta contro la sua stessa volontà, costretta ad attendere per subire un qualcosa che in quel momento era per lei peggio d’un abuso, e perfino anche umiliata e derisa. Si alzò in piedi, vide che la sala in quel momento era stranamente vuota, ed istintivamente pensò di prendere il suo cappotto e di provare a fuggire via.
Ma la borsa bianca con il cambio era solamente qualche metro più in là, oltre la porta della cucina; se Hélène avesse indossato il suo cappotto, forse Adrian avrebbe potuto rendersi conto della sua intenzione. Scivolò allora attraverso il corridoio fino a raggiungere la sua borsa, senza venire osservata. Dopodiché passò nuovamente tenendo quella borsa stretta sotto il braccio, tutta quanta trafelata.
Infine, giunta nuovamente nei pressi dell’attaccapanni dove vi era appeso il suo cappotto, pose la borsa sullo sgabello dinanzi a lei, e si guardò intorno.
In quel preciso istante Adrian uscì per andarsene in bagno.
Aveva sfilato via i guanti, e si avvicinò alla porta della toilette fischiettando; fu un solo istante, ed i suoi occhi incrociarono quelli di Hélène. E come spesso succede ai bambini che sanno di avere commesso una marachella, o che sono sul punto di compirne una, anche Hélène lo guardò in modo miseramente esplicito, rivelando nei propri occhi l’infelicissima intenzione di scappare via.
Era decisamente troppo per un carattere fiero e deciso come quello del cuoco romeno; strinse i denti in modo feroce, e trattenendo a stento la voce, allungò il braccio che sembrava lungo e snodato, ed afferrando la mano di Hélène la trascinò via a sé, al punto che il cappotto che quella aveva impugnato, cadde in quell’istante improvvisamente in terra.
Hélène ristette, ma senza urlare né reagire si lasciò tirare via, e presto si ritrovò con quello scellerato dentro alla toilette. Adrian chiuse di forza il chiavistello alle sue spalle, mentre Hélène biascicando parole a bassissima voce, lo implorava: “… noo qui no … ti prego …”.
“Stai zitta … troia!”, riprese lui, dandole ancora un altro sculaccione. Poi la fece rigirare sulle sue scarpette, e la spinse di forza contro il lavandino, piegata sul davanti.
Hélène mugolava, avrebbe voluto gridare. Ma quegli le mise una mano sulla bocca, armeggiando con l’altra all’altezza della sua cintura, in attimi di grande trambusto e concitazione; la ragazzotta belga era oramai piegata dinanzi a lui, con la pancia sospinta interamente contro il lavandino, ed il viso rivolto verso lo specchio, nella luce pallida e soffusa proveniente dallo spazio claustrofobico del bagno.
Il cuoco con un gesto secco e deciso, le sollevò la gonna attorno ai fianchi; vennero fuori le spesse calze contenitive di Hélène, che le ricoprivano la casta mutanda bianca tutta avvolta intorno al sedere; in quell’istante quella riprese a mugolare, con la mano forte di Adrian ancora stretta sulla bocca: “… non lo fare, ti prego non lo fare ti scongiuro …”.
Ma quello già aveva preso di mira l’elastico delle calze, ed apparentemente senza alcuna fatica, gliele abbassò fino poco sopra le ginocchia, lasciandola piegata in avanti con tutta la carne bianca delle cosce in bella mostra. Hélène sembrava quasi un animale da macello, con la sua pelle spessa e trasparente illuminata dalla pallida luce del bagno.
“Adesso poggia le mani sullo specchio e non aprire quella boccaccia … sennò ti ammazzo …”, la minacciò Adrian.
Hélène obbedì terrorizzata, mentre intanto qualcuno stava passando nel corridoio dietro la porta chiusa alle loro spalle.
Fu un solo istante, e questi si sciolse la cintura dei pantaloni aprendoseli sul davanti, ed estraendo il suo mattarello compatto e tosto dalle mutande. Hélène lo sentì immediatamente, come un giocattolo di legno che la sbatteva contro lo slip da un lato.
Osò aprire bocca, e disse a bassa voce, trattenendo a stento le lacrime: “noo dietro no … ti prego …”.
Si ritrovò le mutande abbassate alla stessa altezza delle calze, ed il culo rotondo completamente di fuori, enorme e sproporzionato, dinanzi al pene eretto e bagnato del suo aguzzino. Adrian le disse bofonchiando: “Non ti sei ancora messa a dieta? … mi fai schifo …”.
Hélène prese nuovamente a piangere, avrebbe voluto scappare via, ma era veramente impossibile; quegli le mise una mano in mezzo alle cosce, in basso all’altezza dell’inguine, e subito si rese conto che la ragazzotta non era per nulla bagnata, contrariamente alle volte precedenti.
“Ti faccio vedere io come si fa”, disse ridendo in modo rabbioso, e si sputò sul palmo dell’altra mano, dopodiché le mise direttamente quella mano in mezzo ai glutei bianchi, dilatandoli, facendole sentire il bagnato nel centro, poco sotto il forellino più piccolo. Hélène trasalì raggelata, ed alzò lievemente il busto, scivolando con le mani in basso verso il lavandino; Adrian allora le prese ambedue i polsi da dietro, lasciandole il membro che penzolava ancora piuttosto molle vicino al sedere, e glieli impose sui due lati del lavandino, uno a sinistra, ed uno a destra.
Poi finalmente afferrò il pene, aprendolo e chiudendolo un paio di volte. Con la destra infine dischiuse uno dei due glutei di Hélène, allargandola tutta di lato, e le appoggiò quel bastone in modo piuttosto deciso, nel mezzo, dove l’ano stretto di Hélène si apriva come una timida feritoia.
Guardò la gonna rovesciata della ragazza belga, la schiena di lei riversa sul davanti, con la testa in fondo rivolta contro lo specchio: le afferrò la coda di cavallo costringendola a guardarsi mentre lui le stava alle spalle ed era pronto a sodomizzarla. Hélène aveva le lacrime lungo tutto il viso, piangeva e singhiozzava.
Tenendola sempre per i capelli, prese infine a spingere con l’altra mano il pene, che si faceva strada a fatica in mezzo alla carne bianca e sudata del didietro di Hélène; raggiunse la bocca dell’ano, e spingendo sempre più con precisione nel mezzo, lo sentì lentamente schiudersi, ma non abbastanza.
Decise allora di bagnarla ancora un po’, e lo fece alla stessa maniera, facendole schioccare ambedue le natiche nel mezzo. Poi appoggiò nuovamente il pene, che era grosso e duro da fare spavento, e tirando sempre Hélène per i capelli, le disse: “Non urlare troia”. Lo inserì leggermente con la punta, poi con la destra le afferrò il fianco stringendolo con vigore. Infine, inarcò il bacino e le diede una sferzata improvvisa, sfondandola tutta quanta in un sol colpo.
Hélène emise un urlo penoso, e lui allora dovette nuovamente tapparle la bocca con la sinistra; era probabile che qualcuno da fuori potesse averli sentiti. Prese allora a spingere più forte che poteva, avanti e indietro, ma era come incastrato nel mezzo, nella carne calda e ancora stretta del didietro di lei.
Allora con entrambe le mani, con un gesto imperioso e violento, le afferrò tutto il sedere dilatandolo per bene; poi fece come per estrarre il pene, ma lo fece unicamente per arretrare, inarcarsi mollemente, ad affondarla una volta per tutte. Hélène urlò nuovamente, e allora qualcuno bussò alla porta, loro non avrebbero mai saputo chi fosse; Adrian rispose con la voce roca e spezzata: “Un attimo ancora …”.
Prese a sodomizzarla con vigore, scuotendola avanti e indietro per i fianchi, con la gonna leggermente scesa in cima, e le calze sempre strette attorno alle ginocchia; la sventurata mugolava con il naso sospinto contro lo specchio, e la coda di cavallo rovesciata da un lato. La sbatacchiava come un oggetto di carne nuda, ed il rumore dei colpi era sordo ed ovattato, ma le sferzate le arrivavano dritte fin dentro allo stomaco, squassandola.
Pochi minuti sarebbero bastati per aprirle il didietro dilatandolo del tutto, e lasciandole un foro tondo e scuro in mezzo ai glutei deformati. Ebbe la sciagurata idea di venirle direttamente nell’ano, e lo fece senza alcun rispetto, inondandola dentro e fuori, come uno stretto bicchiere che trabocca di liquido giallo e schifoso.
Continuò a sospingerla anche quando fu asciutto e secco, quasi a volerle fare del male, sentendola tremare tutta in mezzo alle cosce bianche e sulle scarpette nere senza il tacco; poi finalmente estrasse il pene e si tirò frettolosamente in su i pantaloni.
In quell’istante il cuoco romeno si fermò ad osservarla, e con compiacimento contemplò quanto di bello le aveva appena fatto: lo spazio sopra l’inguine e nel mezzo era tutto arrossato, e circondava la bocca rotonda dell’orifizio aperto, che tremava senza rinchiudersi su sé stesso.
Le mise una mano aperta sul sedere, come a volerle ribadire il suo dominio e la sua forza. Poi senza aggiungere nulla, si aprì la porta alle spalle e filò via. Hélène prese a piangere in modo ininterrotto, tremava disperata davanti allo specchio, con i capelli che nel frattempo si era sciolti, davanti al viso.
Rimase almeno altri cinque minuti così, piegata in avanti con il sedere di fuori, a piangere e a singhiozzare amaramente come una bambina, senza alcuna soluzione di continuità.
Dopo un po’ si rassettò le sue mutande bianche e le calze lacrimando sempre in modo accorato, con le guance bagnate e gli occhi umidi, mentre fuori nel corridoio alcune voci di uomini rimbombavano minacciose.
Trovò la forza di ripulirsi il viso, ma non osò liberarsi dei liquidi appiccicosi che avvertiva ancora in basso nel mezzo.
Uscì dal bagno e raccolse il suo cappotto, sperando di non incrociare davvero nessuno lungo il corridoio; prese la borsa bianca e si mosse nervosamente. Ma proprio mentre usciva dal locale per andarsene via verso la fermata, intravide la solita macchina scura parcheggiata lì di fuori, e Jan in piedi presso lo sportello: e così trasalì nuovamente. Quegli la chiamò balbettando, non ricordava il suo nome e si limitava a gesti e versi da scimpanzé.
Hélène corse via tutta trafelata, discese lungo la strada arrancando, attraversò il semaforo e presto giunse alla fermata successiva, dove nessuno la seguiva. Arrivò a casa nel sottoscala buio, a grande fatica: tremava ancora come una foglia al vento, ed erano quasi le due di notte.
Ventiduesimo episodio
Il sedere continuò a farle molto male per almeno altri tre giorni di seguito. Non riusciva a liberarsi di quel pensiero ossessivo, quella stretta sul didietro, quel bastone duro e severo che l’aveva aperta in due come una mela. Hélène era sprofondata in un mutismo inspiegabile, al punto che presto le sue due coinquiline iniziarono a preoccuparsi per lei.
La più irriverente era come al solito Paula; l’argentina le domandava in modo pettegolo e irrispettoso, che cosa mai le avesse combinato il suo cuoco maschio. Chiara invece aveva intuito perfettamente, come potessero esserci stati dei problemi. Hélène era stata quasi stuprata e violentata, anche se si trattava dello stesso uomo al quale ella s’era già concessa, apparentemente con piena volontà e consenso, per ben due volte nel corso della precedente settimana.
Per sua fortuna, tutto quanto si rivolse ben presto in pura e semplice indifferenza: Adrian aveva preso completamente ad ignorarla; la trattava semplicemente come una cameriera, fissandola sempre sul davanti ma quasi mai negli occhi. Era finito tutto, improvvisamente, quella sera dentro al bagno del locale; all’impeto di quell’inculata così irruenta e penosa.
Tutti si resero conto, che tra di loro non vi erano più alcuno sguardo né alcuna comunicazione. La signora Nadia fu la prima a non nascondere a Hélène la sua soddisfazione, e riprese quindi a trattarla in modo affabile, come al principio.
In quei giorni, la ragazza belga iniziò a prepararsi assieme a Chiara, per l’esame di Diritto Canonico che era previsto nel mese d’aprile; nel frattempo, le serate al locale erano divenute di gran lunga più faticose, ora che Elle aveva lasciato il lavoro per tornarsene in Germania. Non era stata sostituita, con la solita giustificazione che gli affari non stessero andando troppo bene.
Ma la sua assenza si notava parecchio, soprattutto quando vi erano delle grandi tavolate da servire, e molti dettagli importanti da tenere assieme. Quella settimana si concluse con la Festa della Donna, di domenica, durante la quale la signora Nadia offrì a tutte quante le cameriere del locale un simpatico brindisi.
Hélène si stava lentamente abituando all’indifferenza di Adrian, divenuta giorno dopo giorno sempre più simile, ad una sorta di non troppo velato e sottile disprezzo. L’aveva abusata e maltrattata, ma era a questo punto evidente, come quegli non la trovasse neanche un minimo attraente e neppure desiderabile; che l’avesse fatta sua unicamente per giocare con lei o per umiliarla, era l’atroce sospetto che la ragazza belga nutriva oramai da alcuni giorni.
Ne parlò con Chiara in modo aperto, non nascondendo anche una certa amarezza; e la coinquilina bionda replicò con grande rassegnazione, osservando come taluni uomini alla pari di colui che l’aveva iniziata, provino un piacere smisurato, nel trattare le donne come se fossero le loro povere schiave; facendole intimamente sentire come delle pure nullità. O come delle stupide bambole di gomma.
Hélène ammise di essersi sentita proprio così, con il suo cuoco romeno. Ma ciò che ella non avrebbe assolutamente rivelato, per nessunissima ragione al mondo, era il fatto che fosse proprio quel tipo di sensazione, nell’angolo più recondito e oscuro del suo intimo, a provocarle un assurdo ed inconfessabile piacere.
Il fastidio provato durante quei momenti d’abuso, improvvisamente s’era volto in una fonte inesauribile di perversione e d’eccitazione, in modo vergognosamente indecente; fino al punto tale, che una di quelle sere, Hélène si toccò nel letto ripensando agli istanti in cui era stata spiata da Jan, mentre Adrian la prendeva sul divano.
Proseguirono studiando, con l’esame che era previsto solamente di lì ad un mese, con buona lena e grande determinazione. Ma giorno dopo giorno, Hélène sentiva nuovamente montare la sua voluttà, in un crescendo mai provato prima d’allora, una sorta di china depravata ed ossessiva. Riprese ad indossare il suo intimo smaccatamente sensuale, senza sapere nemmeno quale fosse la ragione.
E la sera di quel venerdì di marzo, Hélène si rese conto di desiderare ancora una volta, che Adrian l’abusasse. Come una gatta in calore, che passa il suo tempo a strusciarsi contro tutti gli spigoli appuntiti che essa incontra, quella sera Hélène entrava ed usciva da quella cucina spesso, decisamente troppo spesso; il cuoco romeno, che certamente aveva fin dal principio notato quell’assurdo cambio di atteggiamento, prese allora a stare al gioco in maniera volgare e spudorata. Dapprima tastandole il sedere una volta ancora, mentre Hélène passava imprudentemente nelle sue vicinanze; e poi appoggiandole direttamente una mano sul pube, senza davvero alcun ritegno, facendola trasalire.
Il peggio sarebbe accaduto sul finire, quando Hélène prelevò dal tavolaccio bianco un intero vassoio di flute ripieni al sorbetto di limone. Sollevò quel vassoio e volse le spalle ad Adrian, che intanto aveva preso a guardarla.
Gheorghe era girato di lato, stava mettendo diversi piatti dentro alla lavastoviglie facendo non poco rumore; Adrian capì che avrebbe potuto fare di Hélène tutto ciò che egli voleva: ed allora la fermò trattenendola per un fianco. In quell’istante la ragazzotta ristette immobile in piedi, col vassoio in delicato equilibrio fermo tra le mani.
Non poteva muoversi né voltarsi, altrimenti i flute di sorbetto disposti sul vassoio si sarebbero sicuramente rovesciati creando un vero disastro; attese allora che Adrian le sollevasse inopinatamente la gonna sul didietro, fino a scoprirle per intero il sedere bianco, adornato da un filino nero invisibile e dalla sua corona di delicato pizzo in cima.
Le affondò ambedue le mani, con i suoi guanti trasparenti, nelle natiche molli e tremolanti, stringendole e rilasciandole diverse volte, sempre con la gonna ben alzata; i bicchierini iniziarono a tintinnare miseramente nel vassoio, senza rovesciarsi. Hélène in quell’istante socchiuse gli occhi, sentiva quelle mani affondarla nella pelle e nell’animo, umiliandola e facendola godere; fu prossima a raggiungere anche un assurdo orgasmo, ferma in piedi come una stupida, col vassoio sempre stretto tra le mani.
Adrian la palpeggiò a lungo, come e peggio di una bestia, sentendole la pelle vibrare come la superficie morbida di un tamburo. La liberò unicamente quando udì dei passi nel corridoio; Rosaleen si affacciava nella cucina, e vide Hélène in piedi con il vassoio sempre stretto nelle mani, Adrian alle sue spalle che frettolosamente le rimetteva giù la gonna, e Gheorghe che da lontano le fissava il sedere. Spalancò la bocca, con grande stupore.
Hélène filò via senza cambiarsi e senza attendere nemmeno un solo istante, quando giunse l’ora, in preda ad uno stato di grande vergogna e di terribile confusione, e con la certezza di avere combinato un nuovo, enorme pasticcio; l’indomani tutte quante le cameriere, e la signora Nadia, lo avrebbero saputo, e si sarebbero inesorabilmente prese gioco di lei e della sua incorreggibile scelleratezza.
Ventitreesimo episodio
Hélène alternava lunghi momenti di sobrietà e rigore, con episodi di autentica ed irresistibile voluttà. Quella mattina ad esempio, provava infinita vergogna per quanto combinato durante la serata precedente: essersi fatta toccare in quel modo da Adrian, praticamente in maniera pubblica ed esplicita, al punto tale che anche Rosaleen aveva potuto vederli, significava avere davvero oltrepassato ogni limite.
Si vergognava di sé stessa e avrebbe voluto ricominciare tutto quanto daccapo: riabilitare la propria dignità e la propria reputazione, che erano state oramai senza alcun dubbio compromesse; ma poi le bastava unicamente incorrere in un pensiero sbagliato, per sprofondare nuovamente nel baratro dell’ossessione più perversa.
Si domandava se anche per le altre ragazze fosse lo stesso: se tutte quante provassero i suoi medesimi bollori di stomaco e gli stessi suoi inconfessabili desideri; nessun’altra poteva certamente dirsi talmente scellerata e priva di dignità, da essersi resa ridicola così come aveva fatto lei.
Era ovvio come da quel momento in avanti, Hélène avrebbe dovuto far di tutto pur di mantenere una forma di disciplina e di controllo. Stabilì pertanto, in un istante di grande freddezza e determinazione, alcuni principi cui si sarebbe rigorosamente attenuta, di lì a seguire: non avrebbe mai più indossato le sue calze autoreggenti, nonostante fossero davvero molto utili e pratiche; avrebbe anche messo da parte tutte le mutandine più succinte e vistose, dal momento che non servivano a nulla.
Decise tuttavia di continuare ad indossare il suo balconcino, in considerazione del fatto che sembrava piacere molto agli uomini. E di certo in fondo, nella sua vita Hélène tutto avrebbe voluto divenire, fuorché una monaca di clausura.
Adrian era piuttosto serio ed accigliato quella sera; la cosa ovviamente non dispiacque per nulla a Hélène. Sembrava a tratti anche preoccupato, non era affatto la medesima persona irruenta ed impulsiva di sempre; vi fu moltissimo lavoro da sbrigare, e ancora una volta l’assenza di Elle si fece notare in maniera evidente, specialmente sul finire della serata, quando c’era da preparare il conto per diversi tavoli.
La cameriera tedesca era stata infatti, per molto tempo l’unica cui fosse consentito di aprire la cassa del denaro con le chiavi. Questo permetteva alla signora Nadia di dividere l’onere dei conti, e di portare anche il resto in banconote ai vari tavoli, velocizzando di molto le operazioni.
Dopo le dimissioni di Elle, la grande responsabilità era stata affidata a Cathy, la cameriera bionda altrettanto prudente ed esperta. Ma quest’ultima al contrario di Elle nutriva un’incrollabile fiducia nei confronti delle proprie colleghe, per cui spesso lasciava che le altre cameriere portassero da sole il denaro, per poi prelevare dalla cassa il resto.
La signora Nadia quella sera avvertiva un’inspiegabile sonnolenza, aveva bevuto la sua solita spremuta al limone con lo zucchero, e adesso non riusciva proprio più a tenere gli occhi aperti; era una donna fiera ed orgogliosa, per cui andò avanti tutto il tempo con la testa che le vacillava.
Hélène invece andava servendo i tavoli dalle parti dell’ingresso; mentre portava via alcuni piatti e liberava la tovaglia dov’erano stati precedentemente seduti alcuni giovani, intravide con grande stupore, la sagoma bassa e sbilenca di Jan che attraversava la porta a vetri, entrando in modo furtivo dentro il locale stracolmo di persone.
Era stata lungamente istruita, sulla necessità di dare sempre cordialmente il benvenuto, a tutti coloro che entrassero dentro il locale; e così fece anche stavolta, dopo il primo istante di smarrimento, nel vedere colui che l’aveva spiata in maniera indecente e vergognosa poche settimane addietro.
Teneva una pila di piatti stretti vicino al grembo, ma volle fare per bene e fino in fondo il suo dovere, per cui voltandosi leggermente sul lato destro, nella direzione della porta a vetri, sorrise a Jan in modo palesemente innaturale e con evidente imbarazzo. Gli disse: “Buonasera signore, è solo?”.
Quegli rispose in modo incomprensibile, con un’espressione del viso ironica e indecifrabile; Hélène allora gli si fece più vicina, ed avvertì anche un discreto malodore. Lo lasciò nei pressi della lunga barra, dove erano disposti i calici del vino, apparentemente senza interessarsi più di tanto a lui.
Quando entrò nella cucina, Hélène riferì ad Adrian con tono di voce fermo e distaccato, di avere veduto il suo compare all’interno del locale aggirarsi tra i tavoli, forse nell’intento di bere qualcosa. Quegli la trattò con insolito atteggiamento scontroso, era evidentemente più tirato e nervoso del solito, respingendola: “Che cosa ti interessa bellezza …vai di là e servi i tavoli … invece di farmi perdere tempo”.
Fu talmente rude e scortese, che Hélène provò un forte senso di disagio e fu quasi sul punto di reagire malamente.
Uscì dalla cucina, e di Jan non vi era più in giro alcuna traccia. Lo cercò dapprima nella sala centrale, ed in ultimo in quella vicino all’ingresso; ebbe persino l’ardire di domandare a Cathy, se per caso avesse veduto un uomo basso e buffo, e leggermente claudicante. Era un assiduo conoscente di Adrian, aggiunse senza alcuna malizia.
Avrebbe voluto fare per bene il proprio dovere, e capire se qualche cameriera l’avesse infine servito, o se quegli fosse piuttosto uscito dal locale tutto solo e scontento; Cathy rispose di non avere visto assolutamente nulla.
Ma proprio in quel precisissimo istante, come travolta da una scossa elettrica improvvisa, la cameriera bionda trasalì raggelata: si batté con una mano aperta la fronte, esclamando tutta ad un tratto a gran voce: “La cassa, diavolo la cassa!”.
Erano sparite diverse banconote, per il valore di oltre tremila euro. La signora Nadia dovette riprendersi immediatamente dal suo incomprensibile ed inusuale torpore; e subito chiamò a raccolta Cathy, in un faccia a faccia durissimo, consumato dietro la barra di legno, che non passò certamente inosservato nemmeno ai tanti clienti seduti dentro il locale.
Cathy allargava di continuo le braccia, ma la signora Nadia le puntava il dito addosso a ripetizione, minacciandola. La cameriera bionda dovette pertanto riferire tutto quanto, compresi i dettagli che le aveva rivelato Hélène: un uomo basso e leggermente zoppo era entrato nel locale, per poi uscirne subito dopo, apparentemente senza consumare nulla.
La signora Nadia telefonò immediatamente al marito, il quale come tutti i sabati, s’andava trastullando in qualche luogo poco raccomandabile, con le carte da poker e con la roulette. Lo chiamò, e quegli diede immediata disposizione, di tenere tutti i camerieri e i cuochi chiusi dentro il locale, fintanto che tutti i clienti non fossero andati via, e fece intendere che si sarebbe precipitato sul posto di lì a poco.
Hélène era agitata e turbata: era abbastanza evidente come potesse essere stato proprio Jan, a fare sparire il denaro. Si domandava tra sé e sé, se avrebbe dovuto confessare tutto quanto, e quali sarebbero state alla fine le conseguenze per lei. Non c’era da scherzare con quella gente, rifletteva.
Il pensiero andò ad Adrian, con non poco timore per la possibile reazione che quegli avrebbe avuto, qualora Hélène avesse in modo scellerato confessato tutto quanto. E subitaneamente, la verità apparve ai suoi occhi chiara e lampante: lo strano atteggiamento tenuto dal cuoco romeno durante l’intera serata, la sua rabbiosa reazione quando lei era entrata in cucina per riferirgli di avere veduto Jan; evidentemente s’era trattato di un piano architettato con cura nei minimi dettagli da entrambi.
E Hélène non poteva certo sapere, che la spremuta al limone della signora Nadia, la stessa che quella beveva tutte le sere, era stata sapientemente ritoccata con abbondanti dosi di sonnifero, così da farla intorpidire e quasi addormentare.
Un clima scuro scese improvvisamente sul locale, mentre i tavoli si andavano completamente svuotando; nel frattempo il signor Mariano aveva fatto il suo rapido ingresso sul posto, tutto quanto trafelato, infilandosi senza tanti convenevoli nel piccolo studio chiuso sul retro.
Dopo qualche minuto, tra gli ignari camerieri si sparse la voce che il proprietario stesse ora riguardando tutte le immagini riprese dalla telecamera disposta sopra l’ingresso, rivolta verso l’interno delle prime due sale. Hélène udì la cosa, inizialmente con scarso interesse; ma poi, non appena realizzò come erano andati gli eventi, si sentì tutt’insieme ad un tratto sprofondare.
Aveva accolto Jan salutandolo, lo aveva preceduto e accompagnato non lontano dalla cassa, e proprio lì lo aveva abbandonato da solo, proseguendo infine fin dentro alla cucina. Aveva anche rivelato a Cathy, di essere a conoscenza di come quegli fosse un intimo amico di Adrian; tutto quanto il gioco si andava ricomponendo alla perfezione, e Hélène adesso sentiva le gambe tremarle, e la testa brulicare di paura: che cosa l’avrebbe aspettata?
Una alla volta, il signor Mariano volle parlare in privato con tutte quante le cameriere del locale: le tenne sedute nel corridoio come se avessero dovuto prender parte ad un processo, mentre la signora Nadia le controllava imponendo loro di tacere in assoluto e rigoroso silenzio.
Sfilarono nell’ordine Cathy, Veronica, e Rosaleen. Hélène fu tenuta in disparte, era evidente come il signor Mariano intendesse ascoltarla per ultima; ne ebbe diretta conferma, quando vide passare anche Daniele e Leo, i due camerieri maschi. Infine, fu la volta di Gheorghe, che tremava spaventato. Tornò a pulire la cucina senza dire una parola.
Rimasero nel corridoio Adrian e Hélène, con la signora Nadia che li guardava in modo davvero severo e minaccioso; nella sua mente, erano chiaramente loro due i colpevoli.
La ragazzotta belga non resistette oltre, e prese a piangere e a singhiozzare; e fu anche questo interpretato come un chiaro segnale di colpevolezza. Al punto che la signora Nadia, in preda ad un evidente stato di rabbia, le afferrò addirittura un orecchio, puntandole il dito contro il viso, ed insultandola: “Avrei dovuto saperlo, che eri solo una stupida senza cervello… ma stavolta avrai finalmente quello che meriti!”.
Dopo dieci o forse venti, interminabili minuti, mentre fuori le serrande erano già quasi completamente abbassate, Adrian e Hélène furono convocati assieme dal signor Mariano, proprio come in quella lontana sera di metà febbraio, quando Hélène aveva perduto la sua verginità.
Ma questa volta l’espressione del viso, ed il tono di voce del proprietario del locale erano ben diversi. Teneva il sigaro acceso stretto tra le dita, e digrignava i denti con ferocia; perfino il rude ed aggressivo cuoco, pareva tremare in quell’istante, dinanzi all’uomo seduto dietro la scrivania, che batteva i pugni sul tavolo in continuazione.
Esordì dicendo: “Pensavate di farmi fesso tutti e due vero?!? …ma quanto siete bravi!”. Poi riprese: “Ma non sapevate che qui abbiamo le telecamere, e che noi vi osserviamo tutto il tempo eh?!? … non sapevate nemmeno che quel vostro amico, che vi attende sempre fuori dal locale, lo avevamo già visto e lo conoscevamo bene?”.
E concluse: “Siete proprio degli stupidi, e per giunta pure dei dilettanti”, e fece finta di ridere, tradendo una grande rabbia. “Dovrete parlarne con il giudice adesso … e io vi rovino a tutti e due lo sapete?”. Adrian si fece coraggio e provò a controbattere qualcosa, ma fu subito messo a tacere.
La sua posizione era veramente difficile da difendere: Jan abitava con lui, ed era entrato nel locale sapendo perfettamente dove si trovava la cassa, approfittando della sciagurata leggerezza di Cathy e delle altre cameriere. Erano troppi gli elementi atti a dimostrare chiaramente, come lui avesse potuto fornire al suo compare, tutte quante le informazioni necessarie ad attuare il loro piano.
Il signor Mariano gli puntò il dito addosso e gli disse senza alcun dubbio, né incertezza: “Da questo momento sei licenziato, non presentarti più in questo locale se non vuoi che io chiami la polizia … e sarai denunciato assieme al tuo amico per furto organizzato, dovrete restituire tutto quanto e finirete tutti e due in prigione, e mi auguro che ci rimarrete davvero a lungo!”.
Adrian si sfilò i guanti di plastica con un gesto rapido e scontroso, e glieli sbatté sulla scrivania con apparente aria di sfida, ma in realtà si trattava unicamente di un moto di disappunto e di rassegnazione. Infatti, subito dopo li riprese e volse le spalle uscendo dalla stanza senza fiatare; era evidente come tutto ciò rappresentasse una chiara ammissione di colpevolezza, e Hélène si ritrovò così da sola, dinanzi all’uomo seduto dietro alla scrivania con il suo sigaro sempre acceso nella mano.
Quegli prese ad osservarla, scrutandola dalla testa ai piedi, con fare apparentemente tranquillo e rilassato; Hélène tremava in modo vistoso, tutta quanta agitata e sudata, e le calze strette e abbottonate attorno ai fianchi la facevano sentire ferma e imbalsamata, come una statua.
Mariano continuava ad osservarla, con un sorriso simile ad un ghigno rabbioso, ironico e divertito al tempo stesso.
Passato qualche istante interminabile, quello prese finalmente la parola, e dopo l’ennesima boccata del suo sigaro, le disse scrutandola ancora una volta dalla testa ai piedi: “E tu? …sembravi così carina e brava … e ti sei messa a trafficare con questi qua, gente da galera!”.
Hélène si mise a piangere sommessamente, non aveva la forza di reagire; avrebbe voluto dire qualcosa, rispondere che lei non c’entrava davvero nulla, ma non riusciva ad aprire la bocca e a parlare; il signor Mariano riprese guardandola negli occhi: “Tu sei una di loro, e meriteresti di essere denunciata … ma mi fai pena e non voglio rovinarti tutta quanta assieme …”. E fece un nuovo tiro del suo sigaro.
Poi aggiunse: “È evidente come loro ti abbiano sfruttata per i loro fini … e tu fai il loro gioco? Meriteresti d’essere licenziata anche solo per la tua stupidità”. Hélène continuava a piangere e a singhiozzare, con una mano aperta sul viso, e la testa piegata in basso; aveva assunto una postura ricurva sulle spalle veramente umile e penosa.
Mariano apparentemente rifletté qualche istante sul suo conto, e dopo l’ennesima tirata del suo sigaro, concluse: “Io non credo che tu sia una mela marcia ragazza, preferisco pensare che tu sia semplicemente una stupida”; aprì una mano e la poggiò sul tavolo come a voler stabilire un precetto, ed infine alzando la voce le disse: “Domattina ti voglio qui, alle dieci puntuale, e non sgarrare di un minuto hai capito!?! … ti spiegherò io come si lavora e come si sta al mondo, hai bisogno di una lezione e devi ringraziarmi per la mia pazienza … e adesso via, sparisci”.
Hélène sfilò via a testa bassa, davanti allo sguardo severissimo ma anche assurdamente curioso della signora Nadia; quest’ultima non aveva infatti ancora compreso, che cosa il marito avesse intenzione di fare con lei; e subito accolse con totale disaccordo, la sua decisione: l’avrebbe trattenuta tra le cameriere del locale, nonostante tutto quello che Hélène aveva combinato.
Ventiquattresimo episodio
Dovette uscire di domenica mattina, e lo fece vestita ancora una volta con gli abiti da lavoro. Non aveva infatti alcuna idea, di che cosa il signor Mariano avesse in mente per lei, e nel dubbio essa aveva pensato di tenersi addosso gli stessi vestiti di sempre.
Alle sue due coinquiline Hélène non disse nulla, Chiara era ancora a letto che dormiva essendo rientrata a sera tardi dopo essere stata a casa di Marco; Paula invece le domandò dove avesse intenzione di andare di domenica mattina così presto, ma non insistette più di tanto. Così la ragazzotta belga si ritrovò a risalire nuovamente a piedi lungo la strada che portava al locale, immersa in enormi dubbi e in grande inquietudine.
Giunta dinanzi alla porta d’ingresso, trovò la serranda mezza abbassata, e dovette piegarsi leggermente in avanti per entrare nel locale buio, pieno di fusti di birra accatastati l’uno contro l’altro. Chiese permesso con la sua solita voce da bambina, teneramente anonima, ma sulle prime nessuno rispose. Fece allora timidamente un passetto in avanti, e giunse nei pressi della barra della sala centrale; lì finalmente vide il signor Mariano, col suo solito sigaro, che sistemava alcune carte dentro ad un cassetto nei pressi della credenza, senza apparentemente dare alcun peso alla presenza di lei.
La stava completamente ignorando, senza alcuna attenzione né alcun riguardo; Hélène ristette in piedi, decise di rimanere immobile come un manichino, nei pressi della barra. Pensò di dover attendere che quegli completasse le sue mansioni, tacendo in silenzio e senza interferire affatto.
Ogni tanto quello la guardava, aveva indosso un paio di occhiali per leggere, e la scrutava con severità, col viso piegato in basso, senza mai parlarle né darle alcun cenno di saluto. Passati almeno dieci minuti, la ragazzotta belga iniziò a pensare, che potesse essersi presentata lì fin troppo presto, e facendosi un po’ di coraggio domandò: “Vuole che io ritorni più tardi signore?”. Ma allora Mariano finalmente aprì bocca, e tossendo leggermente per via del fumo, disse senza alcuna esitazione: “Neanche per sogno … tu devi restare lì immobile zitta e muta finché non ho finito, avrò tempo per te dopo”.
Hélène abbassò timidamente il capo, aveva capito di avere commesso un errore a prendere l’iniziativa con quella domanda frettolosa ed inopportuna. Assunse pertanto un’espressione leggermente contrita e triste, con la testa piegata in basso, e le mani intrecciate sul grembo, attendendo che quegli avesse tempo di dirle cosa doveva fare. Ma l’uomo era sparito dentro il suo studio, e per almeno altri cinque minuti non successe nulla, la situazione era difficile ed il timore iniziava ad assalirla.
Quando poi era giunta sul punto, di iniziare ad agitarsi, fu finalmente convocata dal signor Mariano, con un semplice schiocco di dita: “Vieni … avanti …”.
Lo trovò come al solito dietro alla sua scrivania, col sigaro in mano, e gli occhiali che adesso aveva tirato su all’altezza della fronte larga e corrugata. Le disse: “Ferma lì, in piedi”.
Hélène prese nuovamente a tremare, era evidente come quegli non avesse intenzione di trattarla in modo gentile e caloroso; ma ristette provando a non tradire alcun disagio né imbarazzo, ad un metro di distanza dall’uomo, che stava sempre seduto dietro alla sua scrivania.
“Come avrai intuito … non siamo qui per una circostanza piacevole …”, riprese il proprietario del locale, e finalmente si levò anche egli in piedi, trattenendo sempre il suo sigaro fermo tra le dita. “Il cuoco ed il suo compare sono già agli arresti, mi spiace per te ma non potrai rivederli molto presto…”, ed aggiunse: “Quanto a te poi …”, riprese, “Potrai forse cavartela con molto meno, se solo adesso fai quello che ti dico”.
Hélène iniziò a temere seriamente, che quegli intendesse approfittare di lei, ed immediatamente avvertì uno scatto tra le gambe; non aveva minimamente pensato a questa sciagurata eventualità, e non sapeva proprio come mai avrebbe potuto reagire.
Ma il signor Mariano girò attorno alla scrivania, venendo nei suoi pressi; a quel punto, sempre col sigaro stretto nella mano, le fu accanto e le sfiorò con un dito la gonna, di lato, come se intendesse disegnarle una linea giù dal fianco, fino in basso dove si liberava la calza scura sopra il ginocchio. Poi finalmente disse: “Sono un uomo di sessant’anni … e non credo di poterti dare la lezione che meriteresti …”.
Le continuava a segnare la gonna con un dito, in su e in giù, mentre con la destra adesso aveva ripreso a tirare il suo sigaro, noncurante dell’immane fastidio che il fumo causava alla ragazza, nello spazio piccolo e angusto dello studio.
“Ho sempre pensato …” aggiunse, “che tu fossi una ragazza veramente stupida, e adesso ne ho avuto la diretta conferma; e se solo non avessi sessant’anni, a questo punto io ti punirei, trattandoti esattamente come si merita una stupida cameriera…”.
Insisteva nel ribadire il concetto, e Hélène nel frattempo taceva terrorizzata; aveva capito benissimo come quegli intendesse riferirsi nel suo discorso sconnesso, ad un atto sessuale. Volse il capo verso di lui, con gli occhi gonfi di lacrime ed un’espressione totalmente costernata e persa.
“Devi quindi ringraziare” riprese Mariano, “il fatto che io da molti anni, non riesca più a prendere una donna”, e batté una mano sul tavolo; diede l’ennesima boccata di sigaro, e prese a girare per la stanza, dicendo: “Ma tu cosa ne puoi sapere di tutto questo … adesso piegati sulla scrivania”.
Fu lì che Hélène comprese, come verosimilmente non avrebbe potuto mai farla franca, senza avere come minimo mostrato le sue nudità al proprietario del locale. Fu una sensazione talmente lacerante e fastidiosa, che la ragazzotta belga ebbe come un insano istinto, di reagire e di ribellarsi; ma ancora una volta non disse e non fece nulla, aveva sempre moltissima paura di perdere il suo posto di lavoro.
Si piegò allora umilmente in avanti, con la pancia distesa lungo tutta la scrivania; il signor Mariano le si fece più vicino, e tirando sempre il suo sigaro le disse: “Brava, dimostrami adesso di essere una cameriera brava e obbediente…”; e poi aggiunse: “Aggrappati ai braccioli della mia poltrona con tutte e due le mani … brava”.
Hélène fu costretta a giacere così, piegata in avanti con il volto riverso incontro alla sedia e le mani che reggevano i due braccioli dinanzi a lei, in una posizione assai scomoda e per di più, davvero umiliante. Mariano prese a girare avanti e indietro alle sue spalle col suo sigaro nella bocca, e a fissarle il didietro della gonna, che si stagliava rotondo ed ingombrante, tutto rivolto verso il centro della stanza.
Era evidente come lui intendesse irriderla fino in fondo, e così come passo successivo, le impose di alzarsi la gonna; lo fece dopo diversi minuti di angosciante attesa, ordinandole: “Senza muoverti adesso … con le mani tirati su quella stupida gonna… fammi vedere le mutande che hai addosso”.
Hélène ebbe un’improvvisa scossa di autentico tremore, e biascicando parole a bassissima voce, prese ad implorarlo: “… cosa vuole farmi signore … la scongiuro”. Quegli batté il pugno sul tavolo, ed abbassandosi leggermente verso di lei da un lato, le disse digrignando i denti: “Se non fai quello che ti dico, io ti denuncio e dico tutto quanto alla polizia!”.
Hélène sollevò penosamente la gonna con ambedue le mani, tirandosela su un poco alla volta, finché non fu completamente arrotolata attorno ai fianchi, e lo fece singhiozzando e deglutendo miseramente come una bambina. Non era affatto bello ciò che in quel momento ella esibiva dinanzi agli occhi dell’anziano proprietario del locale: un didietro grosso come un pallone, avvolto dentro ad uno spesso paio di calze intere di colore piuttosto scuro, sotto le quali a malapena traspariva una larga mutandina, scura anch’essa, di morbido raso.
Hélène ristette in quella posizione, afferrando nuovamente i braccioli della sedia con ambedue le mani, senza sapere che cosa il signor Mariano le avrebbe adesso ordinato di fare, e piangendo. Quegli tossì un paio di volte in maniera vistosa e innaturale, come a voler sottolineare una certa meraviglia ed un certo stupore; in realtà non si aspettava affatto che quella visione potesse arrivargli a fare un simile effetto: sentiva infatti il pene tirargli di nuovo sotto i pantaloni, in maniera piuttosto inattesa e altrettanto evidente.
Decise allora di insistere, voleva davvero ridurre la povera cameriera in uno stato di totale afflizione e pena. Le disse quindi: “Da oggi in poi, non indosserai più questa robaccia … ti voglio leggera e snella sotto alla gonna, con le cosce completamente nude … e non costringermi a controllarti tutto il tempo chiaro !?!…”, e poi riprese: “E adesso giù! abbassati quella ridicola calzamaglia che non sembri nemmeno una donna…”.
Hélène per un istante non fece nulla, e subito il proprietario del locale lo interpretò come un atto di diniego; ma invece di adirarsi o di costringerla, egli fece qualcosa di ancor più subdolo e terrificante; pensò che avrebbe potuto punirla con un oggetto da cucina, e mentre sentiva il pene vibrargli insistentemente dentro ai pantaloni, le urlò alle spalle: “Io vado di là a prendere lo sai che cosa? … una bella paletta di legno per te … e tu se non vuoi farmi perdere del tutto la pazienza, fatti trovare pronta con la calzamaglia abbassata”.
Uscì dallo studio sbattendone la porta; in quel momento Hélène si ritrovò da sola, con la gonna avvolta intorno ai fianchi, le mani strette attorno ai due braccioli, e le gambe che le tremavano; avrebbe voluto fare qualcosa, reagire o addirittura provare a scappare; ma così facendo avrebbe sicuramente perduto il suo posto di lavoro, e avrebbe dovuto trovarsi un nuovo modo di pagarsi l’affitto per la casa. Senza contare che il signor Mariano avrebbe potuto addirittura pensare di denunciarla, con il rischio di passare qualche serio guaio con la polizia.
Quindi ristette angosciata, senza muoversi; respirava profondamente nell’ambiente buio e angusto dello studio, rimanendo sempre nella posizione reclinata, tacendo e sospirando. Ancora non immaginava che il signor Mariano intendesse punirla sul serio, pensava in cuor suo che quegli intendesse piuttosto, spogliarla lentamente per poi poterla toccare, almeno così aveva interpretato i suoi continui riferimenti al fatto di non essere più abbastanza giovane.
Certamente non aveva fatto così come quegli le aveva ordinato, di abbassarsi le calze: e allora quando la porta dello studio si aprì nuovamente, subito Hélène trasalì nel sentire il rumore della paletta di legno che l’uomo batteva contro la sua stessa mano. Le disse immediatamente: “Non fai come ti dico e non ubbidisci? … allora significa che vuoi proprio prenderle … te le devo suonare per davvero ?!?”.
Hélène provò a rimediare alla situazione e lo fece in modo rapido e goffo, abbassandosi le calze non senza un po’ di fatica, dato che le si erano incollate alla pelle sudata dei glutei e delle cosce. A quel punto si ritrovò in posizione eretta, con la gonna sempre sollevata, le mani aperte sulla scrivania, e le spalle rivolte al suo datore di lavoro, che brandiva sempre la paletta colpendosi continuamente il palmo della mano.
Il sederone, bianco e molle, era unicamente riparato dalla mutandina di raso, larga ma non troppo alta sul didietro; al punto che la morbida fessura in mezzo ai glutei ne veniva fuori su in cima, invitando colui che le stava alle spalle, impietoso, a completare il lavoro tirandola giù.
E così fece il signor Mariano, senza attendere oltre, ma lasciandole il sottile indumento di raso poco sotto le natiche, in maniera da non esporre affatto le intimità della povera ragazza; le aveva semplicemente liberato i glutei, ma non aveva alcuna intenzione di scoprirle il resto. Si sentiva infatti il pene spingere come un bastone vivo dentro alle mutande, come non gli accadeva da molto tempo; ma sapeva anche di non poterle fare nulla, e per tale ragione aveva preferito evitare di peggiorare la situazione.
Hélène a quel punto provò un nuovo scatto nel ventre; prese a tremare sulle cosce, e si assestò meglio con la pancia riversa sul tavolo, inarcandosi ed afferrando i due braccioli in modo da essere meglio distesa. Non capiva come mai invece di provare angoscia o timore, al contrario in quel momento ella sentisse le vene vibrarle e la pelle respirare intensamente su entrambi i fianchi rigonfi; era nuovamente quell’assurda voluttà, incomprensibile ed inesorabile, che inopinatamente la travolgeva. La ragazzotta belga prese a piangere sommessamente, si vergognava di sé stessa al punto tale che, se solamente ella avesse potuto, sarebbe sparita immediatamente da lì.
Ma invece era piegata contro la scrivania, con la gonna alzata e le calze e le mutandine di raso abbassate, esibendo il suo didietro gonfio e deforme dinanzi agli occhi sgranati e increduli del suo anziano datore di lavoro.
Quegli riprese a battersi la paletta sul palmo della mano sinistra, e fu a quel punto che Hélène iniziò ad avvertire un prolungato brivido su tutta quanta la schiena: era la stessa, inconfessabile sensazione del suo primo, lontano orgasmo, mai più sperimentata sin da allora. Si piegò allora ancor di più, e strinse i braccioli della sedia più forte che ella poteva. Il signor Mariano nel frattempo era diventato incredibilmente duro dentro ai suoi pantaloni.
Le disse: “Hai un culo di cui dovresti vergognarti … ma cosa ci trovava quel delinquente a sbatterti così come faceva?”.
Hélène in quell’istante avvertì un sentimento ancor peggiore, d’annullamento e di prostrazione; afferrò allora sempre più forte i due braccioli, e premendo con la pancia contro il duro legno della scrivania, iniziò inopinatamente a desiderare che l’uomo in piedi alle sue spalle, la battesse con la paletta.
Ma quello proprio non ne voleva sapere, continuava a girare avanti e indietro per l’angusto spazio dello studio, con il pene duro come un bastone dentro ai pantaloni, e l’arnese da cucina stretto nella mano destra; Hélène respirava a fatica, con la pelle molle e pallida dei glutei e le cosce che le tremavano vistosamente.
L’uomo avrebbe voluto estrarre il pene, e provare a possederla; ma sapeva che con ottima probabilità si sarebbe subito afflosciato, ed allora preferiva insistere in quel ridicolo gioco, tenendo in questa maniera alta la sua passione, assurdamente eretto come egli era. Impose alla ragazza, piegata sulla scrivania, di dire qualcosa per discolparsi, e quella allora balbettò come un automa, con la sua solita voce flebile ed anonima: “Le chiedo davvero perdono … non lo farò più…”.
In quell’istante il signor Mariano sentì tutto crollare, ed iniziò ad eiaculare nelle sue stesse mutande, in maniera ridicola e vergognosa; provò a trattenersi con la forza dei nervi, ma poi si arrese quasi subito, al punto che ben presto i suoi pantaloni furono ricoperti da una squallida chiazza di bagnato su tutto il davanti, umida e puzzolente. Fu a quel punto che egli decise, che avrebbe punito la ragazza per davvero, e lo fece unicamente affinché col passare del tempo, quella ridicola chiazza si potesse lentamente asciugare.
Allora le poggiò la paletta sul didietro, senza colpirla; poi le disse con voce tutt’altro che gentile: “Non ti denuncerò stupida cameriera … ma adesso preparati perché le prendi per bene”.
La batté con forza inattesa, facendola immediatamente sussultare e sollevare sulle braccia; Hélène emise un urlo davvero contrito e penoso, davvero non immaginava che quello potesse farle così male: “… oooo … uuh”.
Già il sederone della poveretta accennava ad arrossarsi, al punto che il signor Mariano si dovette persino meravigliare, di quanto il suo primo colpo l’avesse segnata per bene; ma ci voleva ancora molto tempo, affinché la chiazza di bagnato che egli aveva sui pantaloni, si asciugasse del tutto; allargò quindi nuovamente il braccio, e la batté con rabbia e violenza una volta ancora, facendole rimbalzare i glutei come una povera palla di gomma. Hélène reclinò nuovamente il capo in avanti, e prese a sospirare come una bambina.
Il suo padrone ricominciò a bagnarsi dentro le mutande, non capiva davvero che cosa gli stesse accadendo, mentre il gigantesco popò che si stagliava dinanzi alla sua vista, tremava vistosamente, nella penombra leggermente triste della stanza; la colpì una volta ancora, sentendola vibrare come un animale, causandole un dolore davvero immane.
In quel momento Hélène iniziò ad avvertire un brivido assurdo, lungo i fianchi ed in mezzo alla tenera bocca della vagina, leggermente schiusa: era il principio dell’orgasmo oramai in arrivo, il più umiliante di tutti, e non sapeva proprio cosa mai avrebbe potuto fare, per evitarlo; la quarta scudisciata la colpì mentre provava invano a rassettarsi con gli avambracci, costringendola a coricarsi per intero sul davanti, senza alcuna difesa.
Man mano che il castigo andava avanti, la ragazzotta belga sentiva il ventre ingrossarsi penosamente, ed il didietro esploderle. Non c’era davvero nulla che ella potesse fare, per evitare quella fine del tutto vergognosa.
Il signor Mariano riprese a tirare il suo sigaro, e vistosamente scosso da tutta quanta la scena, gettò la paletta di legno in terra, ordinando: “Per oggi basta così, ne hai avute abbastanza”; Hélène tacque, ferma immobile e piegata sul davanti, umiliata e derisa. Dopodiché l’uomo tirando nuovamente il suo sigaro, aggiunse con voce ferma e tracotante: “… ma non pensare che tutta la faccenda finisca semplicemente così… domenica prossima andiamo avanti, stessa ora … e puntuale!!! Ti abituerai a startene piegata su questa scrivania … stupidissima cameriera”.
Venticinquesimo episodio
Hélène attendeva l’autobus alla fermata con il viso rivolto in basso, non osava nemmeno guardare le macchine che le passavano davanti; si era rivestita e rassettata nel piccolo studio, seguita dallo sguardo accigliato e severo del proprio datore di lavoro; e solamente adesso, mentre aspettava in piedi in silenzio alla fermata, la ragazzotta belga realizzava fino in fondo ciò che le era appena accaduto: il signor Mariano gliele aveva date, l’aveva punita come si fa con le bambine, battendole il sedere con una dura paletta di legno, fino a farglielo diventare tutto rosso e gonfio.
E adesso Hélène se lo poteva sentire per bene, per quanto era gonfio, quel sederone tutto chiuso e impacchettato dentro alle sue ridicole e spesse calze contenitive. Era caldo quasi da scoppiare, e con ottima probabilità, era anche piuttosto pieno di macchie nere e di bozzi.
Era oramai da cinque anni che Hélène non le prendeva, ma per la prima volta nella sua vita, a punirla non era stato né un suo genitore, né un suo stretto e congiunto parente.
Per tale ragione, Hélène si sentiva adesso tremendamente confusa: non capiva fino a che punto avrebbe dovuto vergognarsi per quanto le era accaduto, era stata veramente umiliata come una stupida bambina, o se piuttosto avesse dovuto considerare quella punizione come un bene necessario, come un castigo dovuto e riparatore.
Quando infine salì sull’autobus che era tutto pieno e traballante, nemmeno ebbe l’ardire di sedersi, per quanto le faceva ancora male.
Giunse a casa che era mezzogiorno suonato, e vi ritrovò Chiara in cucina, che se ne stava seduta con la sua colazione; s’era alzata molto tardi, mentre Paula era uscita in giro per negozi, dalle parti della vicina via Nazionale.
Hélène ovviamente non disse né lasciò trasparire nulla della sua condizione; ma dopo alcuni istanti, fece finalmente rientro nella sua cameretta, e lì lentamente iniziò a sfilarsi di dosso le sue calze. Era terrorizzata da quello che avrebbe veduto, il suo aspetto, e trasalì quando finalmente volse le terga verso lo specchio del bagno, con la gonna leggermente sollevata e le mutandine abbassate; il signor Mariano l’aveva ridotta davvero molto male, e come Hélène temeva, alcune parti dei suoi glutei avevano assunto adesso un orribile colore violaceo, apparivano come tumefatte.
Iniziò a singhiozzare tristemente nella sua solitudine, ed a vergognarsi profondamente di sé stessa: era stata talmente stupida, da provare addirittura un inopinato senso di piacere, mentre veniva battuta; ma adesso, di fronte alla vista di quel culone così brutalmente gonfio e malridotto, provava un sentimento incredibile di pena e di afflizione.
L’unico modo per alleviare il bruciore era quello di lasciare le natiche libere, senza mutandine e senza calze indosso. Mise su pertanto il suo delicato slippino color carne, e si rimirò nuovamente dentro lo specchio, con infinita vergogna e totale disagio. Poi indossò le sue solite calze autoreggenti, come era del resto strettamente necessario; le erano infatti tornate alla mente le disposizioni datele dal proprio datore di lavoro, di tenere sempre le cosce nude sotto alla gonna, quando era impegnata dentro il locale.
Bastò ricordarlo e connettere così tutti quanti i suoi pensieri, per farla scivolare nell’angoscia più buia e profonda: quella punizione sarebbe infatti andata avanti. Il signor Mariano l’avrebbe controllata e tenuta costantemente sotto pressione, fino alle paventate nuove botte che già egli le aveva promesso, per la domenica successiva.
Si presentò al lavoro che ancora camminava a fatica, con le natiche martoriate coperte unicamente dal tessuto delicato della gonna, che ne leniva maggiormente il dolore ed il calore insopportabile; il proprietario quella sera era lì, ed era stranamente ed interamente concentrato su di lei. La signora Nadia, per parte sua dovette pensare, che quegli lo facesse unicamente per poterla sorvegliare dopo il pasticcio combinato la volta precedente; ma in realtà, la sua vera intenzione era quella di osservarla e di continuare ad umiliarla, ricordandole in questo modo la maniera forte in cui egli l’aveva punita la mattina stessa.
Hélène si muoveva a fatica tra i tavoli, con il sedere che continuava a brulicarle di caldo sotto alla gonna; e quando a metà serata si chiuse in bagno per fare la pipì, non poté risparmiarsi nuovamente la vista sgradevole, di quel didietro così gonfio e deforme, una vergogna indicibile.
In cucina era ritornato Ivan, il cuoco romeno maggiormente esperto; avrebbe ripreso a lavorare al posto di Adrian, la cui assenza si notava non poco. Come se non bastasse, tutte quante le cameriere adesso osservavano Hélène con non poco sospetto e con grandissimo disprezzo: immaginavano che lei fosse stata complice del furto compiuto la sera precedente, e si domandavano come mai fosse ancora lì al suo posto, a lavorare insieme con loro.
Quella sera, Hélène prese per la prima volta a desiderare fortemente, di lasciare Roma e l’Italia; disprezzata e derisa da tutti, senza un fidanzato che nemmeno la corteggiasse, e adesso per giunta punita e umiliata con il castigo.
Ritornò tristemente a casa nel buio sottoscala, con un senso di tale afflizione, che nemmeno si diede cura di scegliere il pigiama adatto, che non le provocasse nuovo dolore per i lividi che aveva sul didietro con la stoffa di lanetta spessa.
Passarono le sere successive a studiare Diritto Canonico insieme con Chiara, con pochissima concentrazione ed evidenti difficoltà; la biondina non faceva null’altro che parlarle di uomini, mentre Hélène continuava a provare un discreto dolore su tutto quanto il didietro: quei bruttissimi lividacci viola, non ne volevano proprio sapere di venire via.
Paula invece se ne stava sempre più tempo per conto suo, chiusa in un atteggiamento introverso e misterioso; s’era barricata dentro ad un suo mutismo strano e indecifrabile, del tutto inaspettato per una ragazza dal carattere allegro e solare come il suo.
Il mercoledì mattina i segni viola che Hélène aveva sul sedere, erano divenuti completamente neri; la ragazzotta belga poté così indossare nuovamente un casto paio di mutande normali. Ma non poté fare a meno di metter su, per una volta ancora, le proprie calze autoreggenti scure: temeva che il proprietario del locale potesse arrivare fino al punto di controllarla, così come aveva minacciato.
La signora Nadia era sempre estremamente rigorosa e severa nei suoi confronti, era evidente come la sopportasse a malapena, e come la disprezzasse in maniera irreparabile.
Nel frattempo, Hélène venne a sapere qualcosa in più sul conto di Adrian e del suo amico Jan: fu Gheorghe infatti a rivelarle che i due erano ancora a piede libero, dopo un giorno intero trascorso in questura; sarebbero stati sentiti dal giudice assieme al signor Mariano ed alla moglie Nadia, la mattina stessa dell’indomani. Il cuoco aggiunse con espressione mesta, di sentirsi davvero dispiaciuto per i suoi due connazionali, ma di temere che realmente essi avessero potuto architettare tutto quanto.
Un messaggio di Adrian raggiunse non senza sorpresa, il telefono di Hélène esattamente quella sera; era la prima volta in assoluto in cui quegli le scriveva, e lo fece in modo davvero irrispettoso ed inelegante: “Te la sei scampata solo perché l’hai data al proprietario … troia che non sei altro”.
La situazione si stava facendo insopportabile, e Hélène temeva sempre di più per sé stessa; finalmente all’indomani venne confermata dalla signora Nadia a tutte quante le cameriere del locale, la notizia dell’arresto del cuoco romeno e del suo compare. Hélène era innocente, nemmeno il giudice aveva trovato nulla di strano nel modo in cui ella aveva accompagnato uno dei due colpevoli, presso il bancone con la cassa; un nuovo messaggio scriteriato di Adrian, accusava invece Hélène di avere testimoniato il falso contro di lui, pur di incastrare lui e l’altro suo amico.
Era davvero troppo, e Hélène decise pertanto di aprirsi e di confidare ancora una volta, tutti quanti quei suoi problemi e tutte le sue vicende a Chiara, la mattina stessa del sabato. Lo fece ancora una volta mentre Paula era uscita, rivelando alla sua coinquilina bionda tutta quanta la torbida faccenda del furto, e le minacce ricevute; omettendo però chiaramente, il triste epilogo della domenica mattina e le botte prese.
E già l’indomani la scena si sarebbe ripetuta. Hélène non aveva mai smesso di pensarci, ed in ogni minuto che passava sentiva di nuovo montare la sua angoscia; quel piccolo ufficio, quella scrivania, la paletta di legno; tutto era così nitido e minaccioso, al punto che mentre si apprestava ad andare al lavoro il sabato sera, Hélène prese a rimuginare e a temere, per ciò che le sarebbe accaduto la mattina dopo.
Il signor Mariano non c’era, e per tutto quanto il tempo la ragazzotta belga fu scossa ed agitata: la mancanza di sue disposizioni per la mattina dell’indomani la lasciava in un profondo stato di incertezza. Avrebbe dovuto presentarsi puntuale alle dieci, così come lui le aveva precedentemente ordinato, o sarebbe stata dispensata da quella nuova umiliazione? Andava avanti e indietro tra i tavoli e la cucina, e ricordava con tristezza l’epilogo di tutta quanta la sua storia con Adrian, e poi il furto combinato solamente una settimana addietro.
Fu una serata di duro lavoro, con due lunghe tavolate nella sala centrale, e clienti molto rumorosi e volgari; del signor Mariano non vi era in giro alcuna traccia, come del resto accadeva sempre regolarmente ad ogni sabato. Hélène si mise così a letto in preda ad un’assurda confusione, su quanto avrebbe dovuto fare la mattina dell’indomani.
Puntò tuttavia la sua sveglia alle otto, non sapendo ancora bene come comportarsi; ma poi, subito dopo il risveglio, comprese fino in fondo quanto sarebbe stata sbagliata, la scelta di non presentarsi.
Il signor Mariano avrebbe potuto licenziarla, mentre invece nel possibile caso contrario, qualora ella si fosse presentata contro la sua stessa volontà, avrebbe sempre potuto dispensarla e rispedirla a casa senza alcun disturbo.
Indossò ancora una volta la gonna del lavoro, sapendo bene che un paio di pantaloni sarebbero stati inutili ed oltremodo scomodi, per tutto ciò che verosimilmente l’attendeva; la scelta delle calze autoreggenti, quelle più corte e leggere, fu quasi un bene necessario, mentre le mutandone bianche avrebbero probabilmente limitato di molto i suoi danni, qualora il suo datore di lavoro le avesse lasciate al loro posto.
E invece le mutandone le furono da subito abbassate, fino all’altezza delle ginocchia, prima ancora che Hélène potesse provare a controbattere. La ragazzotta si ritrovò già dopo pochi istanti completamente soggiogata, con la gonna nera rovesciata lungo la schiena, le sue calze autoreggenti scese sulle ginocchia, ed il culone interamente di fuori, esposto dinanzi allo sguardo duro e severo del signor Mariano.
Solamente a quel punto quegli prese a parlarle, camminando avanti e indietro alle sue spalle, ed osservando i due poveri glutei ancora neri e gonfi dopo il trattamento subito la volta precedente. Concluse con non poco dileggio: “… l’altra domenica t’ho dato un semplice antipasto, quest’oggi faremo sul serio, e mi spiace che te ne siano bastate così poche per ridurti tanto male, ma le cameriere stupide come te, non imparano se non in questa maniera …”.
Furono le premesse di un castigo durissimo, senza attenuanti; la paletta di legno fu rovesciata sul didietro di Hélène una ventina di volte, senza interruzioni e senza alcuna pietà; le urla sommesse e soffocate della ragazzotta belga, non parevano suscitare nel suo datore di lavoro, davvero alcuna compassione o alcun cedimento.
La ridusse assai peggio della volta precedente, gonfia come un sacco di patate e rossa come un peperone. Le ordinò di lasciare lì le sue mutande, e di incamminarsi verso casa con la sola gonna indosso e con le calze autoreggenti sopra le ginocchia, punita e umiliata in modo tale da doversi veramente vergognare per tutto il tempo.
Ventiseiesimo episodio
Chiara si presentò all’appuntamento in leggero ritardo, aveva passato molto tempo a scegliere sia il proprio trucco, che i propri vestiti. Non lo aveva mai fatto prima d’allora, di uscire insieme con due uomini; e così quella sera, per la prima volta nella sua vita, ella provava uno strano sentimento di vergogna misto a pudore.
Era stato Marco a dirle apertamente, di essere perfettamente a conoscenza d’ogni suo singolo tradimento, con Costanzo, e di non esserne per nulla ingelosito: la considerava infatti poco più che una semplice puttanella, da saziare e da soddisfare, e se n’era fatto tranquillamente una ragione, di come un solo uomo non le sarebbe mai potuto bastare.
Chiara quella sera si vergognava; e nonostante sotto il cappotto bianco e la minigonna rosso bordeaux indossasse unicamente un sottile paio di calze trasparenti, proprio mentre si recava all’appuntamento presso il locale, lo stesso laddove più di quattro mesi addietro Marco l’aveva toccata per la prima volta, ebbe quasi l’istinto di ritornare indietro.
Ma oramai s’approssimava all’ingresso lungo la strada, e Marco s’era accorto di lei, al punto che dall’interno del locale ancora vuoto e silenzioso egli s’era mosso per venirle incontro. Le diede un bacio di quelli appassionati, stringendole i fianchi lungo la cinta del suo cappotto bianco, e la condusse dentro tenendola per mano.
Le offrì un calice di raffinato Shiraz, lasciando subito intendere quale fosse il tenore di quella attesissima serata.
Costanzo era seduto di fronte a lei, mentre Marco era disposto di lato, e le teneva una mano stretta dentro la sua, adagiata direttamente sul grembo della ragazza.
Fu proprio l’amico a rompere gli indugi, rivelando apertamente a Chiara, quanto egli fosse intrigato dalla situazione che si era venuta a creare: “Avevamo tutti e due voglia di vederti questa sera … e allora abbiamo pensato di farlo assieme, invece che di litigare … in fondo siamo sempre stati dei buoni amici!”, e si mise a ridere in modo gentile.
Marco riprese il discorso, aggiungendo: “Ma non ti ci devi abituare affatto amore … io sono uno di ampie vedute, ma tu mi hai già messo troppe corna con Costanzo. E allora che corna siano, ma una volta sola, per bene, e senza vergogna!”. A quel punto egli alzò il calice per brindare, in modo pomposo e solenne; ed anche Costanzo fece altrettanto.
La biondina era evidentemente in imbarazzo; si era recata all’appuntamento con non poca curiosità, per quello stranissimo ménage à trois; ma adesso si rendeva conto di essere caduta veramente in basso, e soprattutto di venire trattata dai suoi due uomini unicamente come una piccola sgualdrina, senza alcun rispetto e senza nessun amore.
Avrebbe probabilmente voluto ritirarsi, ma era chiaramente troppo tardi per poterlo fare; trangugiò quindi il suo vino senza troppa convinzione, e già sentiva un brivido salirle lungo tutta la schiena.
La portarono fuori con Marco che la teneva per mano, e Costanzo che con altrettanta disinvoltura le carezzava i capelli; videro la fermata dell’autobus, con il quale avrebbero raggiunto la casa del primo dei due; ed in quel momento tutto quanto precipitò: Marco la strinse a sé per baciarla, era abbastanza alticcio e non si diede pena del suo amico, che alle spalle di lei, le teneva ambedue le mani sul retro della gonna, con il cappotto bianco leggermente sollevato; in quell’esatto momento Chiara sembrava veramente una povera stupida, e se ne rendeva perfettamente conto, al punto d’augurarsi vivamente che da nessuna delle macchine di passaggio lungo la strada, s’accorgessero di quanto quei due le stavano facendo.
Sull’autobus la situazione si calmò per un istante, con la biondina seduta accanto al suo ragazzo, e Costanzo in piedi nei pressi, in grande vena di scherzi e di battute; poi una volta giunti in viale Ventuno Aprile, i tre scesero ed attraversarono la strada buia, con Chiara nel mezzo tenuta per mano da entrambi.
In quello stesso frangente, Hélène studiava da sola in casa, e non riusciva proprio a venire a capo degli appunti lasciatile in consegna dalla sua coinquilina; se ne stava seduta sulla sedia del salone, dentro una morbida tuta grigia, con il sedere che le scoppiava tutto quanto all’interno, fresco ancora delle botte di due giorni addietro; era stata umiliata ancora una volta, e la sua condizione iniziava ora ad apparirle come un male necessario ed inevitabile: quel dolore che poteva sentire per bene, costante e persistente, era un duro pegno da pagare per mantenere il suo posto di lavoro.
Sfogliava avanti e indietro le pagine del quaderno scritte a mano, e provava a trascrivere qualcosa su un foglio bianco, in francese, nel tentativo di mandare a memoria alcuni semplici concetti; in quell’istante Paula guardava la televisione in cucina in assoluta solitudine, Costanzo proprio non ne voleva sapere di risponderle al telefono quella sera.
I due amici fecero il loro ingresso nell’appartamento del sesto piano, tenendo entrambi Chiara per una mano; Marco le aprì i bottoni del cappotto sul davanti e Costanzo glielo sfilò via lungo le spalle, gettandolo sul tappeto del salone.
In quel momento le furono entrambi addosso: Marco era di fronte a lei, e l’abbracciò mettendole una mano attorno alla vita e l’altra tutta aperta e stretta sul sedere; Costanzo da dietro le afferrò ambedue i seni con vigore, facendola sussultare; il primo le mise la lingua dentro la bocca, mentre il secondo la baciava da dietro con passione lungo tutto quanto il collo. La biondina poteva sentire quelle mani frugarla dappertutto.
Costanzo fu il primo a tirarle su la gonna, noncurante della mano di Marco che la stringeva; Chiara non indossava null’altro al disotto dei suoi collant, ed una striscia sottile di peluria color castano chiaro si stagliava dinanzi agli occhi ammirati del suo fidanzato; che in quel frangente, avendo la mano sinistra libera l’affondò direttamente tra le cosce di lei, facendola docilmente inarcare in avanti.
A quel punto Chiara si volse leggermente indietro con la testa, liberando le proprie labbra da quelle di lui, e ripreso un attimo il fiato sospirò: “… siete due maiali … lasciatemi”.
Marco interruppe quella lunga tortura, prendendole un braccio ed iniziando a trascinarla via con sé: Chiara fu così tutto ad un tratto liberata dall’assedio di quelle tastate insistenti e volgari, e seguì il suo ragazzo, piegata sempre in avanti e con la gonna sollevata; Costanzo si rassettò i pantaloni e prese a seguirli, aveva capito come Marco intendesse adesso passare ai fatti concreti.
La trascinò nei pressi d’un basso tavolino in legno, adornato da eleganti imbottiture in pelle, che si trovava dinanzi alla parete opposta, circondato da un divano dall’aspetto piuttosto antico ed austero. Quando fu lì vicino, Marco prese la sua ragazza per ambedue le mani, sollevandole con grazia come se intendesse invitarla a ballare, e fece in modo che ella poggiasse ambedue le ginocchia su quel tavolino basso e scomodo. La biondina lo lasciò fare, montando sopra quella specie di piedistallo, con la gonna sempre alzata per bene; Costanzo guardava la scena sorridendo ed attendendo il proprio turno, aveva compreso come Marco volesse prendere la sua ragazza per primo.
Quella nel frattempo si era accomodata con ambedue le ginocchia disposte sul tavolo, leggermente divaricate, e le mani aperte e gentilmente poggiate lungo l’imbottitura; Costanzo notò la peluria di colore quasi rossastro e la sottile fenditura tra le cosce sul didietro, sotto la trasparente e delicata velatura dei suoi collant. Scelse subito di liberarsi dei pantaloni e delle scarpe invernali, restando pertanto in un maglione scuro a pelle, con una mutanda grigia mostruosamente rigonfia sul davanti.
Marco guardò il suo amico per un istante, e si mise a ridere; mentre Chiara iniziava ad ansimare e a deglutire, girata di spalle, con tutti quanti i capelli biondi riversi sul lato del viso, e la nuca leggermente piegata in giù; era già pronta per venire abusata dai suoi due uomini.
Marco espresse un cenno d’intesa verso Costanzo, invitandolo a passare dall’altro lato del tavolino; poi, prima ancora di spogliarsi o di togliere le calze alla sua fidanzata, decise di tenerla ferma con ambedue le mani sulle spalle, lungo il suo soffice maglioncino di lanetta bianca. Costanzo le fu davanti, a pochi centimetri di distanza dal viso; solamente a quel punto Chiara ebbe una reazione istintiva di autentico rifiuto, e voltandosi verso il suo fidanzato sospirò: “…lasciami, sei un vero porco … lasciami…”.
Ma quegli, in preda ad un vero e proprio spirito sadico e perverso, le teneva ferme le spalle, e ridendo le disse: “Hai voluto la bicicletta … e adesso, pedala troia! datti da fare…”.
Chiara di fronte a quel comportamento davvero irrispettoso da parte del suo ragazzo, non reagì e decise di stare al gioco; ma non nascose un moto di rabbia e di disappunto, dal momento che non si aspettava affatto di venire trattata così.
Comprese tuttavia, come non avrebbe potuto fare null’altro che stare alle sue disposizioni, e così tutto all’improvviso ella decise di abbandonarsi, e di gestire la situazione come meglio poteva. Con la mano destra sfiorò allora la mutanda di Costanzo, sentendo che era già duro e tirato; gliela abbassò leggermente sul davanti, quanto bastava per veder rimbalzare fuori la sua lunga proboscide bianca, ancora piegata a metà lungo tutta la sua estensione.
Si chinò allora leggermente in giù, e guardandolo con quegli occhi solo apparentemente innocenti, schiuse le labbra lasciandosi invadere da quel nerbo ancora ripiegato in basso e rinchiuso su sé stesso; lo accolse con la gentilezza e la tenera inconsapevolezza di una bambina, come se fosse il rubinetto lungo e flessuoso di una fontanella nel parco.
Solamente a quel punto utilizzò la sua mano sinistra, per afferrarlo nel mezzo, sentendolo immediatamente pulsare e vibrare, come un oggetto di carne viva ricolmo di sangue bollente. Lo prese a succhiare con dolcezza, osservando gli occhi di lui dal basso, con infinite delicatezza e leggerezza, come se fosse stato un gioco.
Hélène aveva smesso di studiare, non riusciva veramente a concentrarsi, il dolore su tutto quanto il didietro era qualcosa di totalmente insopportabile; decise pertanto di indossare una camicetta da notte, con le mutandine sottili di sotto, non potendo metter su il suo consueto pigiama. Si risolse di chiamare sua madre, la quale come al solito le ricordò quanto fosse adirata, di saperla alloggiata in un appartamento assieme ad altre due ragazze, nonostante il suo genitore le avesse lasciato in eredità la retta pagata per il Convitto.
Nel frattempo, Marco s’era interamente spogliato, rimanendo con la sola canottiera bianca indosso, esibendo anch’egli un pene lungo come una spada, rigido e nerboruto. A quel punto questi prese di mira le calze di Chiara, senza chiederle alcun permesso; gliele sfilò giù un poco alla volta, lasciandogliele sospese a metà coscia, liberandola completamente. Venne fuori una vagina tremolante ed umida, che respirava nell’aria rarefatta della stanza, già bella pronta per venire affondata.
Marco appoggiò allora la testa del pene, dopo averlo massaggiato un paio di volte, sulla peluria morbida e delicata; Chiara strinse con ambedue le mani il membro di Costanzo, restando così in ginocchio sul tavolo, leggermente reclinata in avanti, con i seni che le penzolavano sotto il maglioncino di lanetta: non aveva indosso null’altro, ma nessuno dei due ragazzi s’era dato la pena di spogliarla.
Marco le mise la mano sinistra sopra la gonna, lungo tutta la schiena, e con la destra prese infine ad armeggiare il pene, in basso tra le cosce di lei; era duro come una trave di legno, e Chiara lo sentì nitidamente, umido e bagnato.
A quel punto le afferrò i fianchi, appoggiandole il membro tra le labbra schiuse e delicate della vagina; Chiara mollò per un attimo la presa di Costanzo, lasciandolo libero ed eretto, e si dispose con ambedue le mani aperte sul tavolo: poi chiuse gli occhi e aprì la bocca. Fu penetrata in un istante.
Riprese immediatamente a succhiare la proboscide disposta dinanzi a lei, seguendo il ritmo con cui veniva battuta da Marco. Si muoveva con tutto il corpo, e con le spalle, assecondando le fitte che le arrivavano ben dritte dentro alla testa: ed assai presto i tre presero a muoversi quasi allo stesso tempo, all’unisono.
Hélène provava intanto ad addormentarsi; erano solamente le dieci e mezza, e non c’era davvero alcun verso di chiudere occhio quella sera; sotto le lenzuola, nude e scoperte, le sue natiche bianche come il latte scoppiavano di calore, rigonfie di lividi nerastri e viola, ed orribilmente deturpate.
Marco insisteva sbattendo la sua ragazza con energia e vigore, senza riuscire però a trascinarla nel vortice dell’orgasmo; Chiara sembrava piuttosto concentrata sul membro vivo di Costanzo, che adesso era divenuto talmente eretto, da riempirla tutta quanta fino in fondo alla gola.
Ad un certo punto quest’ultimo avvertì lo sperma salirgli dal basso, fin dentro a tutto il muscolo rigonfio: decise pertanto che avrebbe voluto usarlo, e senza chiedere nemmeno il permesso al suo compare che era in piedi dall’altro lato, glielo estrasse repentinamente dalle labbra, e prendendola per ambedue le spalle fece cenno di volerla rigirare.
Marco comprese quali fossero le intenzioni del suo amico, e decise così d’assecondarlo, liberando il pene completamente fradicio dalla vagina della sua ragazza; Chiara compì a quel punto una giravolta sulle ginocchia, volgendo infine gli occhi al suo ragazzo, e le terga a Costanzo.
Costui le mise ambedue le mani sotto alla gonna, laddove la schiena terminava sopra il delicato rigonfiamento del bacino; senza spingere troppo, le appoggiò la dura proboscide in mezzo alle gambe, dal basso, facendogliela sentire per intero, e sfiorandole la peluria delicata e le sottili labbra morbide.
Chiara riconobbe subito quell’uccello, così lungo e ruvido, ed improvvisamente si schiuse in un bagnato invito a sprofondarla, colando giù dall’inguine alcune gocce di soffice umore bianco, che quegli poté notare benissimo.
La penetrò dal basso, vedendola innalzarsi leggermente con il busto. Chiara ristette subito, in preda ad un autentico attacco di voluttà; prese a muoversi in avanti e indietro, lasciando che Costanzo alle sue spalle rimanesse perfettamente fermo e immobile, con la sola mano appoggiata sotto alla sua gonna rigirata.
Hélène nel frattempo s’era addormentata, con la coperta riversa da un lato, e la pancia rivolta verso il lenzuolo; i suoi glutei arroventati potevano così respirare liberamente, esposti senza alcun riparo, verso il soffitto bianco.
Marco decise di sfilare via il maglioncino della sua ragazza, e subito vide i suoi seni torniti e bianchi rimbalzare di fuori, cadendo in basso. Glieli afferrò entrambi con le mani, stringendoli fino a torturarle i capezzoli; Chiara si fece più vicina inarcando leggermente la schiena verso l’alto, così che alle sue spalle Costanzo le cinse ambedue i fianchi, assumendo pertanto una postura leggermente reclinata.
La biondina a quel punto aumentò il ritmo, era praticamente tutta seduta sul membro di lui, mentre Marco di fronte le teneva stretti i capezzoli tra le dita, ed il pene infilato per bene nella bocca; aveva la gola invasa dalla sua passione, e presto prese a mugolare intensamente, al punto da poterne udire il lamento, mentre aumentava la velocità dei suoi colpi, in modo davvero ossessivo e quasi disperato.
Venne tutta assieme all’improvviso, arrestandosi sulla sua seduta, con Costanzo che a quel punto le mise ambedue le mani aperte sui glutei morbidi per frenarne l’impeto. Dovette estrarre il pene smisurato con grande prontezza, stava anch’egli impazzendo; e presolo per una mano come se fosse una pompa tutta rigonfia d’acqua, le inondò la schiena di sperma giallo e caldo, in grande quantità.
Fu un orgasmo lunghissimo quello dell’amico di Marco, piegato sulla schiena liscia e delicata della biondina; quest’ultima, una volta liberata da quell’oggetto che le aveva tenuto la vagina impegnata, riprese a soddisfare Marco con la bocca, con grandissima dedizione; il membro di Costanzo le penzolava adesso dietro il sedere scoperto, molle e bagnato.
Dopo solamente alcuni istanti, Marco le liberò i seni e le afferrò ambedue le orecchie, facendole inghiottire ancor più, se mai fosse stato possibile, il suo sesso oramai rigonfio e allo stremo. La trascinò a sé e prese a muoversi avanti e indietro sprofondandola nella bocca.
Poi esplose urlando, tenendo sempre la sua ragazza ferma per le orecchie, in modo che ella non potesse sfuggire dall’ingoiare tutto quanto il seme che egli aveva in corpo: erano stati tantissimi i giorni, che egli aveva trascorso in impaziente attesa.
Ventisettesimo episodio
Salì a piedi l’ultimo tratto di strada, sotto un sole cocente, nonostante fosse solamente il ventinove di marzo.
Aveva lasciato il sottoscala in una situazione di totale disordine, con Paula sotto il getto d’acqua scrosciante della doccia, e Chiara appena alzata, coi capelli arruffati ed un pigiama bianco ricamato a fiori.
Tutto intorno a lei la città s’andava lentamente risvegliando, coi timidi rumori delle poche serrande aperte nei negozi, e la solita puzza di smog delle macchine ferme davanti ai semafori. Avrebbe voluto parlare a cuore aperto con il signor Mariano, implorandolo di liberarla da quell’inutile ossessione, di risparmiarle il ripetersi di quell’assurdo rituale, che sarebbe andato in scena per la terza volta.
Ma qualcosa le lasciava intendere, come questi avesse invece iniziato a provare durante quei momenti d’intimità, un autentico rigurgito di sadica perversione, un sordido desiderio inconscio e latente; e nemmeno s’era resa conto, delle sue ripetute eiaculazioni incontinenti e involontarie. Si illudeva che sarebbe bastato un discorso ragionevole o una sommessa preghiera, per porre fine al suo strazio.
Così fece ancora una volta il suo ingresso nel locale, alle dieci meno un quarto, piegata goffamente sotto alla serranda abbassata; udì in quell’istante uno sportello aprirsi, il suo datore di lavoro lungo la strada la stava attendendo dentro alla sua macchina elegante; ne uscì in maniche di camicia, coi polsini rigirati attorno ai gomiti, indicandole in modo perentorio di infilarsi senza attendere oltre dentro il locale; poi le fu alle spalle, e senza troppo garbo la spinse in avanti.
Giunti dinanzi alla barra della sala nel mezzo, il signor Mariano scrutò Hélène dalla testa ai piedi, con fare rapido e inelegante; ed estraendo un sigaro ancora chiuso nel cellophane, dalla custodia nel taschino della sua giacca, le disse: “Questo qua è veramente un paese di merda … il tuo cuoco è libero di nuovo, dovremo affrontare un ricorso in appello, comincio a stancarmi di questa storia …”.
Poi riprese ancora: “Ma tu cosa puoi saperne … vieni di là”.
Hélène lo seguì nello studio con la testa bassa; poi senza attendere ulteriori suoi ordini, abbassò il capo ed appoggiò la pancia contro il duro legno della piccola scrivania; il suo datore di lavoro estrasse l’accendino ed iniziò a tirare il suo sigaro, senza aggiungere nulla.
La ragazzotta belga in quell’istante, fissava la sedia in pelle scura, ed il muro grigio liscio e piatto di fronte a lei: taceva pensierosa, sapendo che in un modo o nell’altro alla fine, il suo padrone l’avrebbe castigata in maniera esemplare, come tutte le volte precedenti. Ed invece, quel giorno il signor Mariano pareva provare un gusto speciale nell’attendere, nel farla soffrire tacendo. Aveva già l’uccello tremendamente eretto e gonfio sotto ai suoi pantaloni.
Si sedette sul lato della scrivania, osservandola lungo tutta la schiena; dopodiché, mentre continuava imperterrito a tirare il suo sigaro, le disse con tono sprezzante: “Vorrei che quel bastardo ti vedesse, come ti ho ridotta … sei una nullità, un sacco di patate meriterebbe più rispetto”, e rise in modo davvero orrendo. Dopodiché le infilò una mano disotto all’addome, iniziando lentamente a trascinarle su la gonna, senza alcuna fretta e senza precisa convinzione: venne fuori l’elastico scuro delle due calze autoreggenti, lunghe a malapena sopra il ginocchio.
Poi subito riprese: “… chissà se quel bastardo di cuoco vorrà rivederti; chissà che cosa ci trovava di speciale …”.
Hélène in quell’istante riprese a pensare ad Adrian, ed al grande timore per la sua possibile reazione, si aggiunse una vergogna profonda e viscerale; le venne quasi da piangere.
“Afferra la sedia, cameriera”, esclamò in quel momento il signor Mariano. Hélène ubbidì, ed istantaneamente fu rigida lungo tutta la schiena, allungandosi per aggrapparsi ai due braccioli disposti di fronte a lei.
Poi il suo datore di lavoro le mise una mano aperta sul didietro, sopra il tessuto morbido; l’afferrò come si afferra un pallone da spiaggia, e stringendola coi polpastrelli delle dita, tirò nuovamente il suo sigaro. A quel punto, senza attendere un solo istante, le ribaltò tutta la gonna lungo la schiena. Era stato lento e delicato nel sollevargliene un solo lembo, e adesso in un sol colpo la scoprì tutta quanta, rivelando la succinta mutandina nera cinturata di pizzo, che sul didietro non portava null’altro che un filo invisibile.
Si spostò in cucina per prelevare la solita paletta di legno, e già sentiva il pene premere in modo duro e violento dentro ai suoi pantaloni; fece rientro brandendo l’oggetto fermo nella sua mano destra, battendolo e schioccandolo in modo impietoso come sempre. Questa volta non era nemmeno necessario abbassarle gli slip, dal momento che i due glutei si stagliavano già perfettamente scoperti, pallidi e rovinati, dinanzi ai suoi occhi.
Hélène iniziò a mugolare, e non ebbe neanche l’ardire di provare a chiedere pietà; rivolse il capo al suo datore di lavoro, guardandolo negli occhi con non poca timidezza, sperando in un suo ultimo atto di clemenza. Ma quello era tutto concentrato sul muscolo che aveva dritto tra le gambe, non riusciva ad agire con alcuna lucidità, e continuava a battersi la paletta di legno contro il palmo della mano.
Gliela appoggiò un paio di volte, prima in direzione orizzontale, e poi anche in verticale, dall’alto in basso, lungo la linea invisibile del filino nero della sua mutandina; nonostante portasse ancora evidenti i segni delle percosse subite la volta precedente, era pur sempre un rotondo oggetto di color bianco pallido, umido e lattiginoso, quello che si stagliava dinanzi ai suoi occhi.
Le mise una mano sopra la gonna, all’altezza del fianco in cima, e poi allargò il braccio destro; strinse la paletta in modo più deciso, dopodiché finalmente la rovesciò tutta addosso alla ragazza. Il piccolo studio risuonò di un tonfo sordo e penoso, seguito immediatamente dall’urlo stridulo e disperato di Hélène. La batté subito una seconda volta ancora, e in questo caso il povero didietro schioccò come un pallone rigonfio, un dolore terribile.
Dopo una decina di colpi, il signor Mariano le abbassò anche le mutandine, per esporla meglio senza alcuna protezione.
La colpì nuovamente, e la ragazzotta belga piegò il capo in avanti, gemendo in modo evidente, triste e rassegnata. La batté ancora, non aveva davvero alcuna pietà per lei.
Hélène mollò i due braccioli della sedia di fronte, e poggiò il palmo delle mani sulla scrivania in legno, mugolando sempre, senza soluzione di continuità.
A quel punto il signor Mariano estrasse un piccolo oggetto dalla tasca dei pantaloni, un tappetto di gomma verde, acquistato dentro un Sexy Shop nei pressi di Piazza Vittorio.
Lo osservò per capire come andasse utilizzato, e poi fissò nuovamente il culone rosso e deforme tutto esposto dinanzi ai suoi occhi; le mutandine nere pendevano lungo le cosce di Hélène, tirate giù dall’inguine fin poco sopra le ginocchia.
Guardò il tappetto verde, e lo avvicinò ai glutei della poveretta, nel mezzo; poi finalmente comprese come andava adoperato, ed allora poggiando la paletta di legno sulla scrivania, si concentrò per intero su di lei, iniziando e tastarle i glutei con accortezza, per capire come fare per infilarglielo.
Aveva una sorta di base piatta e molle, di colore verde trasparente, rotonda e tracciata da una linea nel mezzo. Poi si sviluppava nella sua lunghezza, dapprima in una specie di collo sottile, sempre di gomma morbida, ed infine con una sorta di capocchia ovale più dura, dalla forma bombata, affusolata come una supposta.
Andava infilato direttamente nell’ano della malcapitata, e la linea nel mezzo alla base aveva una semplice e sciagurata funzione: quella d’evitare che la povera destinataria di quel dono, potesse decidere d’estrarlo e reinserirlo in un successivo momento, senza il permesso del suo padrone.
Lo appoggiò in mezzo alle natiche di Hélène, e quella ristette all’improvviso, sospirando; non aveva alcuna idea di cosa fosse quello strano oggetto di gomma, che il signor Mariano teneva stretto tra le dita; il culone le bruciava in maniera orrenda, e giammai la sciagurata cameriera avrebbe neppure immaginato, che il castigo si sarebbe adesso arricchito, di un nuovo, assurdo, ed umiliante oltraggio.
Non era semplicissimo, maneggiare quell’arnese, ed il signor Mariano dovette pertanto spostarsi di lato, sedendosi nuovamente sulla scrivania.
Le disse: “Questo aggeggio qui lo dovrai indossare per tutto il tempo… almeno fino a stasera … ed alla fine del turno verrai qui da me nello studio, e solamente io te lo toglierò”.
Poi riprese senza alcuna remora: “… e non pensare di togliertelo da sola e di rimettertelo … non puoi sapere in che verso io, ho intenzione di infilartelo”.
Ed in quel momento finalmente lo appoggiò in mezzo agli enormi glutei arroventati di lei; fece con la mano sinistra un gesto semplice e perentorio, dilatandola di lato; poi lo allontanò un istante, e con la stessa decisione con cui si infila una supposta nel sedere di un bambino, lo spinse in mezzo alle natiche della povera ragazza, la quale ululò miseramente come una cagna.
Le fu dentro per bene, un tappo rigido e severo di gomma, conficcato in mezzo all’ano; a quel punto con il dito indice della mano destra, egli decise di spingerlo ancor meglio lungo tutta la sua base, facendolo penetrare ancora più in profondità; Hélène sospirò in maniera sconsolata.
La fece rassettare e ricoprire: oltre al calore insopportabile lungo tutte le natiche tumefatte, vi era adesso questo oggetto di gomma duro e impietoso, conficcato dentro il sedere; uscì dallo studio camminando veramente a fatica, e quando fu lungo la strada, non poteva davvero credere alla sua condizione: aveva la sensazione che qualcuno le tenesse un dito costantemente infilato in mezzo ai glutei, e non c’era alcun verso di liberarsi.
Giunse a casa trovandola inaspettatamente, del tutto vuota; decise così di recarsi in bagno, e lì in preda al dolore più assurdo ed alla pena, poté contemplare quello che il suo datore di lavoro le aveva fatto: il sedere era completamente arrossato, con macchie sparse di colore nero dappertutto; ed in mezzo vi era questa specie di tappetto verde, piatto e gommoso, che le chiudeva l’ano non facendola respirare.
Si domandava come avrebbe fatto il signor Mariano, a liberarla la sera stessa, e questo accresceva ancor di più la sua angoscia; se solamente ella avesse provato, a mettersi un istante seduta, quella specie di naso di gomma si sarebbe infilato ulteriormente, irrigidendosi dentro la carne morbida e umida; doveva quindi starsene in piedi, e sarebbe stato estremamente imprudente provare a sfilarselo, non sapendo esattamente come fare ad inserirlo nuovamente nella stessa posizione.
Si preparò una minestrina di verdure, e la mangiò in silenzio nei pressi della cucina; fuori faceva molto caldo, e sotto il tessuto della gonna nera, Hélène poteva sentirselo per bene: il tappino le stava fermo, rigido e conficcato nel didietro, senza alcuna tregua e senza alcun sollievo.
Dopo un paio d’ore iniziò ad abituarsi, anche se di tanto in quanto avrebbe desiderato di venire nuovamente liberata, anche solo per un momento. Quando si appoggiò alla tazza per fare la pipì, dovette prestare massima attenzione, affinché quel fastidioso oggetto non le fuoriuscisse in modo accidentale dal didietro.
Si preparò in anticipo per recarsi al lavoro, con l’appartamento del sottoscala ancora vuoto e desolato; non prima d’essersi fatta un pianto dinanzi allo specchio del bagno, avvilita ed umiliata per quell’assurdo e persistente senso di oltraggio.
Alle cinque e mezza del pomeriggio era nuovamente lì, con le cosce che si strusciavano sotto alla gonna, ed il tappino di gomma che adesso era diventato leggermente più duro, e la faceva sentire tutto il tempo orribilmente intasata.
Questa volta il signor Mariano pareva godere in modo scellerato della situazione, e la fissava senza lasciarla un solo istante: pensava ripetutamente, a quel che la ragazza teneva conficcato nel didietro, e pregustava il momento, in cui quella poveretta l’avrebbe dovuto implorare di toglierlo.
Hélène prese a servire alcuni tavoli occupati da un gruppo di turisti, ed ebbe la netta sensazione, che tutti quanti si rendessero perfettamente conto, di quello che ella teneva infilato nel sedere; si trattava ovviamente di una sua pura e semplice suggestione, ma in quell’istante Hélène percepiva nitidamente uno strano sentimento, come se tutti quanti volessero osservarla e deriderla.
Iniziò a provare un inconfessabile desiderio, di sfiorarsi e di toccarsi, e man mano che il tempo passava, poteva sentire la peluria nera in mezzo alle cosce inumidirsi sempre di più; era l’attesa dell’epilogo, con la preannunciata estrazione del tappo di gomma da parte del signor Mariano.
Fu un gesto rapido e deciso: mentre la signora Nadia sparecchiava alcuni tavoli, quegli le fece un cenno fugace con le dita, di infilarsi dentro al suo studio; sbatté il palmo della mano sulla sua scrivania, indicando pertanto a Hélène di coricarsi in avanti. Quella non vedeva l’ora di venire liberata, e gli facilitò il compito sollevandosi direttamente la gonna ed abbassandosi le mutandine, prima ancora di piegarsi di fronte a lui.
Le tolse via il tappetto di gomma, che era oramai divenuto durissimo; era probabile, che coi liquidi sparsi in mezzo alle gambe, quel misero oggetto fosse divenuto maggiormente denso ed inflessibile, al punto da causarle anche un persistente dolore; fu gettato via dal signor Mariano nel secchio della immondizia: faceva abbastanza schifo anche semplicemente a tenerlo in mano.
Ventottesimo episodio
La preparazione per l’esame di Diritto Canonico andava avanti, tra mille distrazioni ed altrettante difficoltà. Chiara appariva meno concentrata del solito, e con una risoluzione abbastanza inattesa, quel lunedì sera, quando mancava una sola settimana alla fatidica data, ella fece intendere a Hélène di non essere più convinta di volerlo sostenere.
Fu un colpo durissimo per la studentessa belga. Provò ad insistere, implorando Chiara almeno di aiutarla per un’altra settimana ancora: ed alla fine quella, seppur controvoglia, con generosità l’assecondò; non avrebbe sostenuto il proprio esame, ma avrebbe provato ad aiutare Hélène fino all’ultimo.
Ma era sempre più evidente, come la sua coinquilina fosse completamente disinteressata, distratta ed assente; s’era comportata come una studentessa modello durante tutti i mesi passati, ma adesso sembrava solamente l’ombra di sé stessa. La follia del sesso l’aveva travolta, al punto da perdere di vista i motivi stessi per cui ella si trovava lì, a Roma, presso quella vecchia e prestigiosa Università.
Hélène rimase a casa la mattina di quel martedì, pensando oramai di dover studiare da sola per tutto il tempo; provava a concentrarsi e a respingere i pensieri più vergognosi ed umilianti: si impegnava moltissimo, e con tanta buona volontà provava a mandare a memoria tutto quanto.
L’indomani sera dovette recarsi nuovamente al locale, e per la prima volta iniziò a progettare di smettere di lavorare in quel posto; aveva dovuto rinunciare a gran parte del suo tempo libero per dedicarsi a quella mansione insulsa, venire maltrattata prima da un cuoco rozzo e ignorante, derisa da tutti, ed infine punita e picchiata dal suo datore di lavoro. Solamente per potersi permettere l’affitto, ed abitare con quelle due ragazze che le piacevano sempre di meno, oltre a pochi altri piaceri inutili e superficiali che ella s’era concessa. Non sarebbe stato forse molto meglio tornarsene al Convitto, pensava Hélène, mentre faceva ancora una volta il suo ingresso nel locale buio e semideserto.
Il contratto d’affitto dell’appartamento in via Baccina poteva essere concluso oppure rinnovato ogni sei mesi, e pertanto entro la fine d’aprile le tre ragazze avrebbero anche potuto decidere d’abbandonare quel posto. Ma vi era un aspetto che Hélène non poteva certamente trascurare: le sue coinquiline s’erano fatte carico della sua parte, per ben due mesi, e certamente sarebbe stato molto difficile, se non addirittura improbabile, chiedere loro d’abbandonare la casa alla semplice scadenza del primo semestre di contratto.
Decise pertanto di smettere di pensarci, ed entrò così in bagno per cambiarsi. Quando ne uscì, tutta stretta nei suoi soliti abiti da lavoro, incrociò il signor Mariano nel corridoio della cucina, e quegli le sorrise; era da diverso tempo che non lo faceva. Aveva iniziato a provare un’inspiegabile attrazione verso di lei, ma era unicamente la passione che egli provava nel maltrattarla, ed Hélène lo sapeva.
Ma tutte quelle pene non erano nulla, rispetto all’epilogo finale del successivo giovedì; Hélène non lo avrebbe mai più dimenticato, era del tutto ignara ed alla fine della serata, decise di cambiarsi indossando una semplice tuta bianca, con la giacca azzurra sotto il solito cappotto nero.
Ad attenderla fuori dal locale, lontani dalla vista, nei pressi della fermata dell’autobus, Adrian e il suo amico Jan se ne stavano fermi come due sentinelle.
La prelevarono di peso, uno tenendola ferma per un braccio e l’altro spingendola di forza dentro lo sportello dell’automobile; Hélène prese a gridare, ma presto la macchina filò via con la musica alzata a tutto il volume possibile, per far sì che nessuno la potesse udire.
E nessuno avrebbe saputo quel che le avrebbero combinato quella sera: a detta di Adrian, quello era il giusto castigo che la cameriera belga avrebbe dovuto subire, per averlo accusato ingiustamente dinanzi al suo datore di lavoro.
Fu costretta a fare un pompino all’amico del cuoco, una pratica davvero penosa dal momento che quegli era anche perfettamente impotente; Adrian invece l’abusò una volta ancora nel didietro, trovandola disponibile e consenziente, ma solamente a causa del timore che ella nutriva, di venire maltrattata e picchiata dai due uomini in caso di rifiuto.
A Liegi le ragazze più giovani venivano normalmente omaggiate, nel mese di aprile, dei cosiddetti doni della primavera: erano ghirlande, fiori profumati, e delicate collane di pietre colorate; il ricordo ritornò alla mente della povera ragazza, abbandonata alla fermata della stazione alle due di notte, con il delicato orifizio dell’ano ancora tutto dilatato e ricolmo di liquidi, la tenera bocca completamente oltraggiata, ed il sedere ancora dolorante. Era una fortuna che nel buio pesto dell’automobile, parcheggiata vicino alla discarica, il cuoco non si fosse nemmeno reso conto, di quanto quel povero sedere fosse ancora rigonfio di chiazze nere e deturpato da orribili bozzi.
Non avrebbe mai più rivisto il suo Adrian, dal momento che questi sarebbe stato condannato in appello a due anni di carcere, assieme al suo scellerato compare, solamente pochi giorni addietro; quegli sciagurati li avrebbero scontati solamente a metà, ma era quanto bastava a tenerli lontani da lei, per tutto il tempo necessario. Le lasciò con quel tristissimo epilogo, un ultimo ed amarissimo ricordo di sé.
Ventinovesimo episodio
La salita lungo via Merulana, all’ombra dei pochi alberi rimasti non ancora sfoltiti dagli addetti al mantenimento stradale, era davvero un autentico strazio, sapendo il triste destino che ancora una volta – per la quarta domenica di fila – Hélène si accingeva a dover scontare.
La settimana successiva sarebbe stata Pasqua, chissà se qualcosa sarebbe finalmente cambiato; ma intanto la ragazzotta belga saliva lungo la strada strisciando lentamente, senza alcuna fretta, in preda al solito sentimento.
A furia di prender botte, il sedere le era diventato come un grosso pacco di scorza dura, con due orrende placche di pelle annerite, sulla superficie dei glutei bianchi piuttosto corrugati, dalla cellulite e dal servizio ricevuto con la paletta.
Inoltre, sentiva la bocca dell’ano ancora intensamente dolorante; Adrian l’aveva sodomizzata in modo fiero e deciso, per diversi minuti, inginocchiato alle sue spalle sul sedile posteriore dell’automobile. Davanti allo sguardo impassibile di Jan, seduto sempre al posto di guida.
Hélène avanzava lungo la salita, tutta stretta nella sua gonna nera, contrita e triste, avrebbe voluto piangere.
Quella mattina aveva indossato nuovamente le sue calze più corte, nell’intento di non soffrire eccessivamente il caldo; e s’era preparata meccanicamente, mentre in casa le sue due coinquiline erano ancora alle prese con la colazione e con la doccia.
Con Paula, Hélène parlava oramai assai di rado; Chiara invece l’aveva aiutata con lo studio fino al pomeriggio di due giorni addietro, salvo poi lasciarle intendere di non poterle dedicare più alcun tempo durante il fine settimana.
E dopo poco più che ventiquattr’ore, alle undici di mattina dell’indomani, nell’aula ubicata al piano terra vicino alla sala della mensa, si sarebbe svolto l’esame che Hélène aveva tanto atteso e che adesso tanto temeva.
L’ultimo tratto di strada lo fece camminando sul lato sinistro, con un filo di vento che le scombinava leggermente i lunghi capelli lisci neri; aveva il viso bianco e delicato come sempre, forse un po’ meno gonfio e paffuto del solito. Piccoli occhietti scuri e vivaci, uno sguardo ingenuo e perduto, da bambina cresciuta malamente: tanti dettagli che quel giorno le conferivano un’aria vagamente diversa rispetto al solito.
Il signor Mariano la accolse sull’ingresso del locale prendendola per mano; non gliela stringeva dal giorno del loro primo incontro. Le disse: “Ho una sorpresa per te …”. Hélène avanzò dentro il salone illuminato solamente da alcuni faretti disposti lungo la parete, atterrita come sempre.
La fece sedere sul divanetto della sala centrale, e si volse verso la barra con tutti i calici del vino rovesciati; le disse: “… adesso chiudi bene gli occhi…”. Hélène obbedì, e dopo pochi istanti udì nell’aria chiusa e rarefatta di quel luogo, un sibilo vago e lontano; dopo qualche secondo divenne più netto e vicino. Il signor Mariano le ordinò di aprire gli occhi, e le mostrò la lunga bacchetta di legno duro che egli brandiva nella mano. La scosse una volta ancora, dall’alto in basso, con le movenze solenni d’un direttore d’orchestra.
Hélène ristette spaventata, irrigidendosi lungo tutta la spina dorsale, nella sua camicetta bianca d’ordinanza. Rimase immobile sul divano in posizione inarcata, così come s’era disposta nell’istante in cui aveva riaperto gli occhi.
Il signor Mariano scosse un paio di volte ancora, la dura bacchetta a pochi centimetri di distanza dal suo viso; e solamente in quel frangente, utilizzando l’attrezzo come se fosse la punta d’una lancia, le fece segno d’alzarsi e di entrare nel solito piccolo studio, la cui porta era ancora chiusa lì dinanzi.
Hélène allora si sollevò senza alcuna leggerezza, tenendosi ambedue le mani aperte sul volto, e muovendosi con postura sempre lievemente inarcata; a quel punto il suo padrone ebbe quasi l’istinto di colpirla sul didietro della gonna, mentre ella gli passava dinanzi. Poi si mosse alle sue spalle, con la bacchetta infilata sotto il braccio, potendo così estrarre dal taschino della camicia, un sigaro nuovo da scartare.
La porta dello studio era chiusa, e Hélène si arrestò di fronte ad essa, non sapendo esattamente cosa fare; non aveva ancora parlato da quando era entrata dentro il locale. Il signor Mariano le disse, senza alcuna cortesia: “La chiave si trova nel primo cassetto sotto alla credenza … io ti aspetto qui, rapida”.
Hélène provò per una volta ancora, l’insano istinto di scappare via da quel luogo, che sembrava sempre più simile ad un inferno. Ma non lo fece, e tornò indietro fino in fondo alla sala di mezzo, con la piccola chiave di ferro stretta nella mano. “Apri”, le ordinò il suo datore di lavoro, e così ella fece, trovando la solita scrivania di legno che l’attendeva, nella penombra della piccola stanza.
In quel momento, sentì la bacchetta di legno che le veniva imposta sul sedere, lungo il retro della gonna; il signor Mariano la stava testando, e voleva fargliela sentire in tutta la sua durezza e nel suo spessore.
Poi accese il suo sigaro, e prese a tirarlo e a tossire in maniera scomposta; infine dopo l’ennesimo colpo di tosse, le disse con tono fermo: “Se fossi stato più giovane di vent’anni … ci sarebbe stato quest’oggi un cazzo duro, al posto della bacchetta … ti dovrai contentare di questa, cameriera”.
Hélène prese a piangere disperatamente, con ambedue le mani aperte sugli occhi, e le unghie aggrappate alle sopracciglia; non poteva fare null’altro, di fronte a quelle parole così volgari e spregevoli: avrebbe voluto nascondersi.
Il signor Mariano riprese, tra una boccata di fumo e l’altra: “la paletta della cucina ti ha indurita, questo invece te lo farà a strisce …”, e si mise a ridere in modo orrendo.
Poi concluse, mentre sentiva il pene crescergli in modo informe e innaturale, fino quasi a fuoriuscirgli da un lato sotto alle mutande: “Avanti! … fammi vedere come sei messa oggi … su quella gonna”. E le diede un piccolo colpetto sul didietro di nuovo, per ribadire il concetto.
Hélène non s’era ancora piegata in avanti, e lo fece in modo spontaneo, nell’istante stesso in cui ella si sollevò la gonna, obbedendo all’ordine; il signor Mariano accese una lampada nel piccolo studio, e ne volse il braccio flessibile verso di lei, fino ad illuminare da un lato in modo trasversale e un po’ grottesco, il gigantesco popò della povera ragazza.
Si intravedevano due orribili macchie nere verticali, che le scendevano da sopra, fino alla metà esatta d’entrambi i glutei tumefatti. Il resto era tutto uno schifo di bozzi e di bucce d’arancia, una vista davvero impietosa. La mutandina color carne sembrava quasi un filo trasparente ed evanescente, illuminata di lato nella luce fioca dello studio.
Hélène continuava a piangere disperata, e non si diede pena di afferrare la sedia di fronte, come era solita fare tutte le volte; il signor Mariano glielo rammentò, puntando la bacchetta e colpendo ambedue i braccioli, prima quello sinistro e poi quello destro, in rapida sequenza.
Con una mossa decisa, le abbassò le mutandine, che a quanto pare lo disturbavano; gliele tirò giù senza liberarla in mezzo alle gambe, lasciandole il minuscolo filino rosa e l’elastico leggero entrambi discesi, che penzolavano di poco sotto alla cavalcatura della povera ragazza.
Poi le appoggiò nuovamente la dura bacchetta di legno, ed Hélène avvertì immediato, un forte ed intenso bruciore: era unicamente la spinta del legno contro le due grosse chiazze sul didietro, a causarle quella pena. Tremò al solo pensiero, di quello che l’avrebbe attesa di lì a poco.
Le disse, dopo l’ennesimo tiro di sigaro: “Te ne darò dieci, e poi metteremo il tappetto, è già pronto”. E si mise a ridere.
Poi aggiunse, con tono di voce sempre più sadico e fastidiosamente oltraggioso: “Ma devi contarle tesoro mio … semplicemente uno e poi grazie, dopodiché due … e poi avanti fino a dieci”.
Era la stessa triste umiliazione, cui era stata sottoposta durante la sua festa per i diciott’anni.
“Hai capito … stupida cameriera !?!”, urlò alle sue spalle l’uomo, appoggiandole nuovamente la bacchetta tutta quanta per intero, da sinistra a destra; al punto che in quell’istante il culone rigonfio della ragazza pareva tagliato in due, a metà, da una severa linea orizzontale scura.
Hélène mollò i due braccioli per un attimo, asciugandosi le lacrime e sospirando in modo desolato, dopodiché si piegò nuovamente con la pancia lungo tutta la scrivania, ed afferrò la sedia con tutta la forza di cui disponeva; il signor Mariano le sistemò meglio la gonna lungo la schiena.
Prese lo slancio, e la colpì, con un sibilo lungo e penoso; Hélène non resistette, e subito tirò in su la povera schiena, abbandonando i due braccioli. Emise un guaito acuto e intenso, e subito fu di nuovo con le mani poggiate sopra alla scrivania, e l’enorme sederone sollevato, che ancora oscillava scosso dalla bacchetta durissima.
“Non dici nulla ?!?...” la derise il suo padrone, carezzando la bacchetta e poi riprendendo subito: “Avanti! piegati di nuovo …”. Ma Hélène piangendo rispose: “… ma signore … fa tanto male”. Quegli allora le mise la mano lungo la schiena, con tutto il suo sigaro acceso tra le dita, e la spinse di forza ordinandole: “Giù! … pancino piatto”.
Hélène afferrò nuovamente i braccioli piangendo, poi chiuse gli occhi, e poté avvertire il sibilo nuovamente. Fu colpita ancora, stavolta leggermente più in basso, e fece uno sforzo enorme per non mollare la presa dei braccioli dinanzi a lei.
Il sederone dopo ogni scossa vibrava per qualche istante, alla luce fioca della lampadina, e sotto lo sguardo curioso e divertito del proprietario del locale; le appoggiò la bacchetta una terza volta ancora, mollandole due colpetti leggeri, per poi inarcare la schiena come un esperto giocatore di golf, allargare il braccio, ed infine scaricarle addosso la sferzata. Hélène ululò, e ancora una volta mollò la presa dei braccioli.
Il signor Mariano le si fece accanto, sul lato sinistro, avvicinandole la punta della bacchetta al viso; era davvero rude e minaccioso, come mai prima d’allora gli era capitato.
Disse digrignando i denti a Hélène: “Siamo ancora a zero stupida cameriera … non t’ho ancora sentito dire uno …”; Hélène comprese disperatamente, di avere trasgredito quei semplici ordini. Allora singhiozzò per liberarsi la gola dalle lacrime discesele in basso, ed assumendo nuovamente la posizione reclinata, chiuse gli occhi.
“Uuu…no …” ululò subito, appena fu colpita per la quarta volta, ed appoggiò il capo in avanti, con i capelli che immediatamente le si volsero da un lato.
“Non ho sentito … grazie “, ribatté il signor Mariano, e senza darle nemmeno il tempo di assestarsi, la colpì nuovamente in modo virulento, al punto che Hélène emise uno squittìo penoso, simile al verso di una scimmia.
“Ricominciamo daccapo … abbassati” le ordinò il suo datore di lavoro; Hélène per un istante si mise le mani lungo i glutei, e poté avvertire pienamente, come fossero divenuti entrambi caldi, rovinati e duri da fare spavento. La bacchetta le fu nuovamente poggiata sul didietro, sopra il dorso delle mani, al punto che ella dovette affrettarsi a toglierle di lì, per il concreto timore che venissero colpite anch’esse.
Si abbassò, il signor Mariano tirò per due volte il suo sigaro, mentre il pene era già eretto in modo deciso, al punto che se solamente Hélène si fosse voltata, lo avrebbe sicuramente intravisto, una leva inclinata di traverso sotto la stoffa di lanetta dei pantaloni.
“Giù … di nuovo”, le disse, mentre spingendole la schiena con la bacchetta, la costringeva ad abbassarsi lungo il tavolo.
A quel punto tutto si fece silenzioso, mentre il pallido sederone già interamente deturpato tremava indifeso dinanzi a lui; il proprietario del locale lo guardò, poi osservò il capo della ragazza piegato in avanti, ed infine aprì il braccio e la colpì con grande precisione e forza inaudita.
“Oo-oh uuuh… grazi oo…” mugolò Hélène; ed il signor Mariano venne immediatamente, eiaculando nei propri pantaloni in modo talmente abbondante, che parte dei liquidi gli discesero lungo le gambe fino a bagnargli i calzini giù in basso. Si eccitava davvero per quella miseria.
Se solamente Hélène lo avesse veduto, avrebbe sicuramente provato uno schifo indicibile; ed invece in quell’istante, la ragazzotta belga sentiva nuovamente montare un’assurda ossessione. Era incredibilmente, la stessa identica ed inconfessabile sensazione, provata due anni e mezzo addietro, al Camping de la Lesse. Il giorno del suo primo, vergognosissimo e rovinoso orgasmo.
Chiuse gli occhi e aprì la bocca, dopodiché fu colpita di nuovo, provando un dolore incredibile; ma senza battere ciglio rispose: “… duee signore … gra … grazie …”.
Un minuscolo rivolo di sangue iniziava a venirle fuori in cima, leggermente da un lato. Il signor Mariano, mentre sentiva i liquidi discendergli ancora lungo le gambe, lo notò, e decise quindi d’abbassare il taglio dei suoi fendenti, per non sollecitare ulteriormente quella piccolissima ferita.
Già il sedere di Hélène presentava diversi tagli orizzontali, lungo le due grosse macchie nere; era una vista sempre più imbarazzante e penosa. Il signor Mariano tirò il suo sigaro ed allargò nuovamente il braccio, dopodiché la colpì in basso, facendole schioccare ambedue le chiappe all’unisono. Hélène ululò: “oooo … ooh”, e poi “…aattro … grazie signore …”. “Ne vuoi ancora vero?” disse lui ridendo, senza rendersi conto che il tre era stato saltato.
“Sì signore, la prego ancora…”, ripeté la ragazzotta belga con tono di voce completamente anonimo. Il quinto colpo arrivò subito, facendola vibrare sulle gambe, e segnandola con un tratto leggermente trasversale, sovrapposto a tutte le striature che già la deturpavano. Un altro piccolo rivolo di sangue iniziava a formarsi sul lato sinistro, al termine d’una profonda fenditura orizzontale. Il signor Mariano lo notò di nuovo, e questa volta le mise finalmente la mano sul sedere.
Non l’aveva mai toccata prima d’allora, ed invece che limitarsi a sondare la profondità di quelle orribili striature, egli decise di tastarla, afferrandole la pelle dura e miseramente corrugata delle natiche, sentendo che erano tutte calde, bollenti, da cima a fondo.
Invece che impietosirsi, il proprietario del locale ebbe in quell’istante un attacco di autentico e puro sadismo; avrebbe voluto annientare la sua cameriera, ridurla in uno stato di nullità, vederla strisciare in terra come un oggetto inerte.
Le poggiò la bacchetta sul sedere una volta ancora, poi la allontanò per un attimo, e nuovamente gliela rovesciò addosso; quella urlò disperata: “eeee … cinquee …”, e poi: “grazieee signore …”, con le lacrime che le scendevano copiose; aveva contato il cinque per due volte senza volerlo.
La pancia di Hélène era sempre più gonfia, i fianchi le tremavano; ed il signor Mariano sapientemente aspettava, il suo piacere lui l’aveva già provato, e adesso poteva giocare con lei, anche fino al punto di lasciarla per interi minuti così, con il culone per aria, tristemente esposta nell’attesa.
Pensò di dargliene due di fila, ed allora arretrando solamente per un breve respiro, prese lo slancio e la colpì, udendo dapprima un sei, e poi senza nemmeno attendere il grazie, rovesciandole addosso una sferzata ancora più dura; alla quale Hélène rispose con un guaito davvero penoso, staccando le mani dai braccioli, e finalmente sussurrando: “se … eeette e…”; ed aggiungendo in ultimo: “… grazie padrone”.
Lo aveva chiamato in quel modo, e non più signore, come tutte le volte precedenti. Nella povera testa di Hélène, era oramai chiaro, quello che la eccitava al punto da condurla fino ad un nuovo e folle, rovinoso orgasmo; si sentiva dominata, umiliata e posseduta. E per quanto volesse negarlo in tutte le maniere possibili, il ventre le tremava al solo pensiero, di essere alla mercé di quell’uomo al tempo stesso potente e sadico, che l’avrebbe abusata e maltrattata fino alla fine.
Il signor Mariano riprese ad eiaculare, non ce la faceva più di vedere quel culo interamente segnato dai suoi colpi; era come una spugna molla che traspirava sudore, una palla di gomma bianca e nerastra sbattuta e rigonfia. Le mollò l’ottava scudisciata, e nemmeno si diede pena del fatto, che Hélène oramai annichilita nemmeno gli rispondesse.
Estrasse il tappino verde dalla tasca, con le mani che gli tremavano, e lo avvicinò al culo di Hélène, in mezzo alle natiche. La ragazzotta belga lo sentì nitidamente, quella punta gommosa e bombata che si faceva strada in mezzo alla carne spessa e sudata dei suoi glutei tutti rovinati.
Glieli dilatò con una mano, tirando sempre il suo sigaro fermo nella bocca; poi parlando a fatica avendolo sempre chiuso tra i denti, le domandò: “… lentamente … oppure tutto assieme ?!?...”.
Hélène comprese che glielo stava per infilare, ed allora abbassò il capo e chiuse gli occhi, senza rispondere; il suo padrone glielo infilò nel sedere in un solo colpo, spingendo quell’orrendo oggetto sul piccolo dorso di gomma, cosicché in un solo secondo le fu conficcato interamente, tutto quanto dentro l’ano. Poi lo spinse un poco ancora alla sua estremità, facendola mugolare in modo triste e sconsolato. Le era stato infilato nel culo per bene.
In quell’istante Hélène venne miseramente; in pochissimi attimi, dalla vagina timidamente schiusa le discese una colata di liquidi che il suo aguzzino non poté notare unicamente per via della luce fioca; ma non gli sfuggirono i gemiti di piacere della sciagurata ragazza, simili a momenti di spasimo: un susseguirsi di guaiti e di pianto, per alcuni istanti interminabili.
Il signor Mariano decise di abbandonarla per qualche minuto nello studio, per andarsi a ripulire in bagno: si era completamente infradiciato nelle mutande e sotto i pantaloni; appoggiò la bacchetta orizzontalmente lungo la schiena di Hélène, da sinistra a destra, e con tono di voce sempre più sadico e divertito, le disse: “Non dovrai farla cadere cameriera … io so bene come l’ho poggiata, per cui non provare a spostarti, se non vuoi che te ne dia altre dieci…”.
Hélène rimase ferma per un tempo lunghissimo, e per non far cadere in terra la bacchetta, dovette trattenersi con ambedue le mani aggrappate ai braccioli, e la pancia perfettamente allineata lungo il tavolo. Poteva sentire nitidamente il tappino, infilato tutto quanto dentro al sedere, e le striature orizzontali che la segnavano: avrebbe potuto quasi contarle una ad una, per quanto le facevano male.
In quel momento la ragazzotta belga aveva smesso completamente di piangere: aveva provato un nuovo ed assurdo orgasmo, nell’atto orrendo di venire umiliata e punita.
Non sapeva se si sarebbe dovuta sotterrare per la vergogna, o se piuttosto avrebbe dovuto accettare quella sua condizione, come un fatto ovvio e scontato: non era forse la piena conseguenza della sua stupidità, nonché il premio meritato per aver commesso una serie interminabile di sciagurati errori?
Quando la porta dello studio finalmente si riaprì, Hélène era ancora perfettamente immobile, con la bacchetta di legno in delicato equilibrio lungo la schiena; il signor Mariano la liberò, deridendola: “Brava cameriera … t’ho dovuto fare quel ridicolo culo a strisce … e sfondartelo pure con un tappo … ma finalmente hai imparato! … e per la prossima domenica sei dispensata, deciderò poi cosa fare di te…”.
“Mi vuole licenziare?!?” trasalì Hélène, mentre si rassettava le sue mutandine, provando a lenire con le mani il dolore insopportabile; i glutei le erano divenuti oramai, come due palloni insensibili, e lungo le due grosse placche dure che già l’affliggevano, poteva ora sentire in modo nitido, le fenditure orizzontali che la tagliavano su tutto quanto il didietro.
“Vedremo … poi vedremo”, rispose senza alcuna emozione il suo datore di lavoro; poi le fece cenno di uscire e di andarsene.
Nel pomeriggio Hélène si ritrovò nuovamente da sola in casa a studiare, con grandissima fatica; aveva anche dovuto accomodare un piccolo cuscino sopra alla sedia, non riuscendo a starsene seduta sul duro legno, nelle condizioni in cui si trovava.
Il tappino di gomma se ne stava sempre lì, infilato in modo durevole ed impietoso, nell’orifizio caldo della sventurata.
Le teneva compagnia, le ricordava costantemente di essere stata una stupida, ed in fondo di meritarselo; non bastava infatti il fatto di essere stata punita, in modo ripetuto, e di portare con sé il dolore duro e persistente di quelle botte, per tutto il tempo. Una spinta continua dentro l’ano, in maniera particolare quando se ne stava seduta, le dava la sensazione che quella punizione non fossa mai finita, e che continuasse ancora in quel preciso istante.
Alle cinque del pomeriggio uscì nuovamente, non si era nemmeno ripulita; dovette servire la saletta centrale, quella in cui il signor Mariano le aveva mostrato la bacchetta di legno quella mattina, e lo fece con rigore ed aspetto esteriore assai ordinato e compunto. Qualcosa in lei era cambiato.
Il tappino infilato nel sedere glielo ricordava di continuo, era come un promemoria: le ricordava di essere stata una vera stupida, ed il bruciore insopportabile sotto alla stoffa della gonna, col didietro segnato in verticale e in orizzontale dalle botte, ne era la diretta conferma.
Ma in quei momenti, Hélène poteva sentire finalmente, montare in sé una sorta di rinnovata obbedienza e di cieca disciplina; era come se avendo finalmente toccato il fondo dell’umiliazione e della vergogna, non avesse adesso null’altro da fare, che non di risalirne la china. Il signor Mariano la guardava sorridendo, e probabilmente non vedeva l’ora che arrivasse nuovamente il momento, di sfilare quel delizioso tappino.
Così quando fu l’una di notte, non volendola far soffrire ulteriormente, mentre la moglie andava controllando assieme a Cathy l’intero incasso della serata, quegli fece un cenno a Hélène, di infilarsi velocemente nel suo piccolo studio.
La ragazzotta belga obbedì senza fiatare; ma quando poi fu dentro, trattenendo a stento il respiro, gli disse: “Adesso te lo mostrerò, vedi … è ancora al suo posto …”. In quell’istante, volgendogli rapidamente le spalle, si sollevò la gonna con ambedue le mani, tirandosela su lungo i fianchi.
Dietro il filino quasi trasparente dello slippino color carne, si intravedeva benissimo, piegato in due sotto la spinta dei glutei neri e deteriorati, il fondo ovale dell’oggetto di gomma, conficcato per bene dentro l’ano della ragazza. Il resto della vista era orribilmente triste, e confermava lo stato di pena e di degrado in cui il proprietario del locale, aveva ridotto la sua povera cameriera: un culone gigantesco, con le sue placche nere lunghe e rigonfie, e diverse strisce orizzontali di morbida carne aperta, da un lato all’altro senza alcuna eccezione.
Quello provò nuovamente una vivace erezione, avrebbe voluto metterle le mani addosso; ma Hélène volgendosi repentinamente verso di lui, si tirò dolcemente giù la gonna, lasciandolo sorpreso e senza parole; gli disse sospirando: “Ti prego di non togliermelo … lo voglio tenere fino a domani”.
Trentesimo episodio
Chiara le diede un simpatico buffetto sul viso, e si separò da lei; erano le dieci e mezza del mattino, e l’aula in cui si sarebbe tenuto l’esame di Diritto Canonico, era ancora semivuota; Hélène si accomodò nella prima fila sulla destra, poggiando il fondoschiena lentamente sul duro legno per via del dolore insopportabile; poi quando fu appoggiata, sentì nitidamente il tappo di gomma, oramai duro e secco dopo quasi un’intera giornata di stretta asfissiante, infilarsi nuovamente tutto dentro in modo impietoso.
Osservava le altre ragazze sedute nella sala, e si domandava se ve ne fosse almeno un’altra tra le tante, altrettanto scellerata e stupida, da portarsi dietro un oggetto continuamente conficcato dentro il sedere come lei.
Finalmente, dopo una decina di minuti l’aula fu quasi interamente piena di studenti, e l’ingresso del professor Guberti fu accolto da tanti con un sospiro; per moltissimi di loro, si trattava della prima prova d’esame.
Hélène teneva una penna ed alcuni fogli bianchi disposti sulla superficie di legno chiaro, che attraversava l’intera prima fila da un lato ad un altro. Nonostante fosse solamente il sei d’aprile, faceva un caldo davvero inusuale quella mattina, e diversi studenti sventolavano i loro fogli bianchi come se fossero stati improbabili ventagli. Sotto un’elegante gonna beige, con sottili calze autoreggenti velate, Hélène avrebbe desiderato liberarsi l’orifizio oramai martoriato: il suo disagio stava diventando lentamente un tormento, con tutto il sudore e la fatica di starsene seduta sul duro legno.
Il professore iniziò a passare a tutti gli studenti, in ordine sparso, diversi temi da trattare in modo scritto per quella prova; e quello che giunse tra le mani di Hélène, dal titolo lungo almeno cinque righe, richiedeva di confrontare aspetti fondamentali della normativa attuale con i suoi relativi riferimenti storici.
Passarono almeno dieci minuti, prima che Hélène decidesse cosa scrivere come incipit, senza sapere nemmeno dove sarebbe andata a finire, con le sue conclusioni; non si sarebbe mai aspettata di dover confrontare diversi periodi storici, ed allora dedusse che sarebbe stato assai utile scarabocchiare su un foglio bianco, i principali termini concettuali su cui il confronto sarebbe stato articolato.
Tracciò allora, alcune linee orizzontali sul foglio, pensando di incasellare all’interno delle differenti sezioni, altrettanti spunti su cui avrebbe provato ad abbozzare la discussione; ma poi immediatamente si distolse, pensando che quelle linee equispaziate, vagamente tremolanti ed incerte, dovevano apparire esattamente eguali, a quelle che ancora poteva avvertire benissimo, tagliarle a fette il fondoschiena. Si distolse, ed avvertì anche una scossa di umido in mezzo alle cosce, sotto la stretta della sua mutandina di raso nero; in quell’istante anche il tappino di gomma le parve irrigidirsi, era come un richiamo all’ordine e alla disciplina.
A dispetto di tutto il tempo perso a suddividere il foglio, alcune buone idee l’erano venute alla mente, ed allora Hélène iniziò a scrivere tutto quanto di getto sull’altro foglio, pensando che alla fine il senso e la completezza del suo compito sarebbero in qualche modo, graziosamente emersi.
Passarono diversi minuti, e mentre Hélène si sistemava i capelli ed apriva una bottiglietta d’acqua minerale, si volse di lato e notò come in fondo alla seconda fila dall’altra parte, tutta fiera e compunta, sedesse Linda Prevet, l’inquilina del Convitto che aveva preso il posto di Chiara e che s’era finalmente presentata a lei da qualche settimana.
La studentessa di Grenoble stava scrivendo in modo rapido e deciso, e quella vista scatenò in Hélène un senso immane di rimorso e d’invidia; il tappino di gomma le ricordava di essere stata una stupida, e di avere commesso tantissimi errori fino al punto da meritarsi quella punizione.
E l’errore più grave in assoluto, quello che aveva dato origine a tutti i successivi disastri, era consistito proprio nel fatto di voler abbandonare il Convitto; Hélène fu scossa dalla tentazione di ritornarvi, avrebbe come minimo dovuto pagare l’affitto di tutto il mese d’aprile, e poi magari provare a risarcire le sue due coinquiline, con cui divideva l’appartamento nel sottoscala, dei primi due mesi di permanenza che le erano stati cortesemente abbonati.
Distratta da tutti questi pensieri, notò come metà del tempo a sua disposizione fosse già trascorso, senza che lei avesse potuto fare molto più che scrivere una semplice introduzione; entrò allora in uno stato d’agitazione, e prese a tagliare la sua lunga premessa, per entrare immediatamente nel vivo dell’argomento. Era come se il tempo andasse scivolando via, al punto che anche lo sforzo di scrivere le appariva in quel frangente, oltremodo faticoso.
Ebbe allora uno slancio di personalità del tutto inatteso: avrebbe dovuto fare una corsa folle per scrivere tutto, e sollevandosi solamente un poco sulla dura panca di legno, si poggiò nuovamente con tutto il suo peso, senza alcuna grazia o dolcezza, sentendo il tappo di gomma che le dilatava la carne dei glutei infilandosi pienamente fino al fondo dell’orifizio, causandole una nuova scossa di dolore.
Quella stretta nell’ano le diede finalmente la forza di cui necessitava, ed allora Hélène prese a scrivere di getto, senza particolare cura per i dettagli, arrivando presto a riempire la prima facciata del suo foglio bianco.
Scriveva, ed intanto con apparente noncuranza, saltuariamente ripeteva il movimento rimbalzando mollemente sulla panca, sentendo così l’oggetto di dura gomma che si faceva nuovamente strada in mezzo ai rivoli della carne sudata, e contrita dal pungolo costante. Guardava Linda Prevet da lontano, e di nuovo ripeteva il movimento, sbattendo con la gonna beige e con le natiche molli, contro la superficie rigida e severa di legno del sedile.
Dopo una decina di minuti, Hélène già sentiva la sua tenera vagina dilatarsi; bastarono solamente pochi istanti ed un paio di colpetti ancora, e fu travolta, provando un orgasmo davvero inopinato e insensato, nel bel mezzo dell’aula e nel corso di una prova d’esame universitario.
I liquidi si cosparsero sotto la morbida mutandina di raso, fuoriuscendone solamente in parte, fino a raggiungere l’interno della coscia tornita e rotondeggiante. Fu davvero la fine di quell’assurda situazione, ed immediatamente Hélène lo comprese: mancava solamente mezz’ora, e lei non era giunta nemmeno a metà, di quello che avrebbe pensato di poter scrivere, per cui andare avanti non sarebbe a quel punto servito assolutamente a nulla.
Attese per altri venti minuti scarabocchiando tristemente sul dorso del foglio, lo stesso che al principio ella aveva riempito per un’intera pagina, prima di arrendersi del tutto.
Non avrebbe desiderato affatto d’incrociare Linda Prevet, era ancora bagnata fradicia in mezzo alle cosce e sotto le mutandine; poi notò con non poco sollievo, il lento movimento di alcuni studenti che abbandonavano l’aula, senza consegnare il proprio scritto; con il professore rimasto tutto il tempo seduto alla propria cattedra, in posa ed atteggiamento perfettamente ieratici, che li andava scrutando con sguardo imperturbabile.
Allora Hélène infilò tutto quanto dentro alla propria borsetta, senza prestare alcuna attenzione al disordine delle cose al suo interno; e sollevandosi in piedi nella gonna beige tutta stretta attorno ai fianchi, uscì senza guardare nessuno, filando via sul lato destro, rapida e fugace come una ladra.
Giunta poi nell’androne, recuperò la sua giacchetta di pelle chiara color panna, e l’indossò con qualche sofferenza, sopra alla sua camicetta azzurra da impiegata.
Si ritrovò nel piazzale antistante l’Università, non lontana dal proprio luogo di lavoro; avrebbe dovuto attendere l’autobus per tornarsene a casa, ma un senso immane ed umiliante, di vera sconfitta, la prese all’improvviso; il tappetto di gomma conficcato nel didietro faceva il resto, ricordandole perennemente, di essere stata una povera stupida e di avere commesso tantissimi errori.
Si incamminò allora a piedi, avrebbe desiderato vivamente liberarsi da quell’oggetto che oramai era diventato duro e nodoso fino a causarle un vivo dolore, probabilmente anche a causa dei liquidi che le erano fuoriusciti da tutte le parti.
Avrebbe potuto infilarsi in qualsiasi bar lungo la strada, magari con la scusa di prendere un caffè, per poi chiedere di poter usufruire della toilette, e provare a fare da sola. Ma quel cosino le stava conficcato dentro talmente per bene, che non sarebbe stato affatto semplice estrarlo.
Prese a camminare lungo un piccolo vicolo sulla sinistra, nella direzione del Convitto, e lo fece per evitare di dover passare dalle parti del suo luogo di lavoro; all’ora di pranzo infatti il locale era già aperto, e non era improbabile poter incrociare qualcuno dei suoi colleghi, se solamente fosse transitata lì dinanzi.
Superato l’antico edificio di colore rosa del vecchio ospedale, Hélène decise di svoltare a sinistra lungo una viuzza in salita, mai percorsa prima d’allora; in quel momento il dolore lungo i glutei, oppressi per quasi due ore dal duro legno della panca, riemergeva ancor più severo e prepotente; proprio mentre il tappino di gomma sembrava apparentemente esser divenuto più sottile ed appuntito che mai: pareva avere assunto la forma sgradevole di un dito.
In quel momento il telefono squillò; era Chiara che la cercava per domandarle come fosse andata la prova d’esame, ma Hélène decise di non risponderle. Le sovvenne il pensiero di dover chiamare presto anche sua madre, e ancora una volta sentì la schiena irrigidirsi per la paura. Tutto ciò che la ragazzotta belga desiderava, era di liberarsi il didietro da quel tarlo fastidioso ed ingombrante: avrebbe anche voluto andarsene in bagno per i propri bisogni, una volta per tutte, non avendo potuto farlo la mattina stessa.
Discese allora alcune scalette, e con non poca sorpresa, Hélène si rese conto di trovarsi in un luogo a lei familiare, una via percorsa tante volte, durante le lunghe settimane d’ottobre trascorse al Convitto: era la stessa strada che ella aveva attraversato con le buste della spesa, in numerose altre circostanze, proveniente dal negozio di frutta e verdura che si trovava in una traversa successiva sulla destra.
Travolta dal dolore, a corto di idee su come fare per liberarsi, Hélène pensò che forse la persona di cui si sarebbe meno vergognata, era proprio quel giovane e fastidioso ragazzetto africano che lavorava in quel posto. Avrebbe mai potuto farlo, di farsi liberare il buchino da lui, mostrandogli ed esibendogli tutta quanta la sua vergogna e le umiliazioni che ella aveva ricevuto?
Hélène si mise le mani nei capelli, mentre anche la borsa che le penzolava da una spalla sul lato sinistro, pareva in quel momento esser divenuta più pesante d’una zavorra. Quel ragazzetto non avrebbe potuto davvero rivelarlo a nessuno, dal momento che egli non conosceva davvero nessuno: si sarebbe umiliata fino alla morte di fronte a lui, ma in fondo non era solo un semplice ed ignorante garzone di bottega?
Mentre svoltava nella strada del negozio di frutta e verdura, oramai decisa a farsi aiutare da Samir, Hélène sentiva le lacrime discenderle nuovamente sul viso; lo avrebbe fatto, di mostrarsi a quel semplice garzone, ma unicamente a condizione di imporre a sé stessa, che dall’indomani avrebbe cambiato vita, facendo finalmente tesoro di tutti i suoi errori.
Fece allora il suo ingresso dentro alla piccola bottega, non vi si era mai recata in quello strano orario, durante il passato mese d’ottobre. E lì l’accolse una donna piuttosto anziana, con le braccia nude ed i capelli raccolti in una specie di foulard bianco: nella sua lontana gioventù doveva esser stata con ottima probabilità, una corpulenta contadina.
Hélène fece finta di osservare le fragole di stagione, ma con la coda dell’occhio, ella fissava di soppiatto il retro del banchetto, cercando di intravedere Samir sul fondo buio del piccolo negozio; la signora anziana dovette notarla, ed allora con aria curiosa e senza alcun riserbo, le si rivolse dicendo: “… La signorina cerca qualcuno?”.
Hélène non trovò nulla di meglio che rispondere, mentre oramai sentiva quell’orribile tappo di gomma scoppiarle nel sedere, dicendo: “Buongiorno… vorrei prendere alcuni meloni … ma non c’è nessuno che possa accompagnarmi con le buste? ho un dolore terribile su tutta la schiena …”.
Allora la signora batté forte ambedue le mani, e chiamò a gran voce quel nome che Hélène tanto impazientemente attendeva: “Samir!!! …corri di qua, devi aiutare una persona a portare la spesa!”. Gli occhi neri e la cornea rigonfia di sangue del timido garzone emersero come dal nulla, sollevandosi dietro ad un mucchio di scatole di legno per la frutta accatastate; era possibile che il ragazzetto africano stesse dormendo in quel momento, visto l’orario ed il poco lavoro di quella caldissima giornata di primavera.
Spalancò gli occhi vivaci, tutt’insieme all’improvviso, ed aprendo la bocca in maniera un po’ esagerata, le disse quasi tremando: “Certo mademoiselle!”.
Hélène realizzò in quell’istante, di non volerlo, di non desiderare di sottoporsi a quell’immane vergogna; ma poi subito comprese, che tantomeno avrebbe voluto provare a risolvere la faccenda da sola; le faceva uno schifo tremendo, infilarsi una mano dentro al sedere.
Allora guardò Samir con quegli occhietti neri piccoli e inespressivi; gli disse con innocenza e candore, senza alcuna malizia: “… io... volevo chiederti una cortesia …”.
In quel momento la donna con il foulard in testa li fissava, ed attendeva solamente che, da un istante all’altro, la ragazzotta belga indicasse quanti e quali meloni desiderasse comperare.
Ma Hélène era sempre in piedi, imbarazzatissima, davanti al ragazzetto africano che la osservava dalla testa ai piedi. Preso poi un infinito coraggio, ella gli disse: “… li ho visti… di fuori…”, e fece cenno di voler essere seguita davanti all’ingresso del negozio lungo la strada. Samir le fu alle spalle, e subito prese a fissarle il didietro, gonfio più che mai, impacchettato tutto stretto sotto l’elegante gonna beige, che Hélène aveva indossato per l’occasione.
La ragazzotta belga si arrestò dinanzi ai meloni gialli esposti leggermente di lato, prendendo tempo fino quasi a rasentare un comportamento suscettibile di sospetto; la signora anziana che lavorava nel negozio si spostò infatti lentamente alla sua sinistra, provando a scorgerli dall’interno, ma riuscendo unicamente a vedere le spalle del giovane garzone, ed il suo braccio che gesticolava.
Hélène lo guardò nuovamente negli occhi, e provando a trattenere a stento le lacrime, gli disse in francese: “… ho un tappo di gomma infilato dentro il sedere da ieri mattina …”.
Allora Samir improvvisamente sgranò quegli occhi: non se lo sarebbe davvero mai aspettato, non gli era mai successo prima d’allora in vita sua, e nemmeno aveva compiuto diciott’anni, che una femmina si rivolgesse a lui con quei toni e parlando di quegli argomenti; come solamente un giovane africano sa fare, attivò le proprie energie ed i propri ormoni in modo esplosivo, e le sorrise. In quell’istante, già il pisello gli si era mosso sotto alle mutande, come una lunga anguilla intrappolata che ne provava rapida ad uscire.
Hélène aggiunse subito, per nulla meravigliata di quella sua reazione: “…aiutami ti prego…”, e quindi gli prese una mano, tremando come una foglia per la vergogna; quegli le rispose senza perdere un solo momento, ridendo: “…Dove?!?”; allorché Hélène, che nel frattempo stava letteralmente impazzendo per il dolore, fino al punto da non avvertire più scrupoli, osò dire: “Non avete un bagno qui?”.
Samir indicò sempre ridendo, l’interno della bottega, lasciando intendere come l’anziana donna che vi stava lavorando in quel frangente, non li avrebbe certamente lasciati entrare da soli nel bagno che si trovava lì sul retro. Allora la ragazzotta belga, non nascondendo una certa impazienza oltre alla volontà di porre fine a quell’incredibile strazio, gli disse tremando: “…dietro l’angolo … c’è un vicolo, ti prego aiutami …”.
Il ragazzo africano allora si guardò attorno, e non ci pensò un solo istante; con uno scatto si mosse prima ancora che Hélène vi s’incamminasse, al punto che dovette poi attenderla, per comprendere dove quella avesse in mente di nascondersi; la donna col foulard a quel punto si affacciò senza vederli, ma in quel momento, senza alcun sospetto, pensò che la ragazza belga avesse pagato direttamente al suo garzone, tutto quanto il dovuto: e magari anche una bella mancetta, senza bisogno di alcuna pesatura.
Era l’una e mezza passata, e all’ombra di un vicolo deserto, Hélène lentamente prese a sollevarsi l’elegante gonna beige, rivelando così le sue sottili e delicate calze autoreggenti; Samir allora le si avvicinò e l’afferrò per la vita, intendendo probabilmente farla rigirare. Ma Hélène lo respinse sussurrando: “Ma cosa fai? …sei matto ?!?”. Dopodiché si rassettò la gonna, arretrando di mezzo metro, e guardandolo negli occhi scuri e vivaci; poi gli disse: “… ho un tappo di gomma infilato nel sedere … riesci a togliermelo senza farti vedere? …ti darò cinque euro dopo, ma ti prego aiutami …”.
Allora Samir deridendola in modo davvero penoso, le rispose: “… te lo tolgo io mademoiselle… ma lei mi promette che la prossima volta posso rivederla?”.
Solamente quel dolore insopportabile poteva costringere Hélène a promettere un qualcosa, che per nessunissima ragione al mondo lei gli avrebbe concesso; osservò i due lati del vicolo, un uomo anziano stava avanzando col bastone nella mano ed un cane al guinzaglio; s’arrestò su due piedi, e fece cenno a Samir di tacere e di non fare nulla.
Una volta che quell’uomo fu passato, ripeté nuovamente la stessa sensuale mossetta di prima, e con ambedue le mani iniziò a tirarsi su la gonna, lasciandola sollevata unicamente all’altezza dell’inguine. Samir allora le si fece improvvisamente vicino, aveva il braccio che gli tremava; Hélène si volse, e senza alzare ulteriormente la gonna, provò a fatica a spostarsi le mutandine di lato, liberando la fenditura verticale che era ferma stretta in mezzo ai glutei. Quello invece di cercare di aiutarla a liberarsi, le impose subitaneamente tutto il palmo della mano destra, completamente aperto e caldo, sulla pelle delle natiche in parte scoperte; e come era inevitabile che accadesse, s’accorse subito che queste erano dure come una scorza d’arancia, e rovinate come una vecchia mela.
Tenendole la mano ferma sul didietro, quasi a volerlo proteggere dalla luce del sole, le disse balbettando: “madame… ma… ma l’hanno picchiata? perché …”. Hélène allora comprese di avere toccato veramente il fondo, e spostandosi con la mano sinistra le mutandine in modo più deciso, afferrò con la destra quella presa calda ed insistente; trascinandosela poi nel mezzo, fino a sentire le dita del ragazzetto africano che sfioravano scomposte, la piccola base di gomma del famigerato tappino.
In pochi secondi fu liberata, e non riuscì a trattenere un filo d’aria che le fuoriuscì dal didietro, senza per fortuna venire notata da lui. Lo ringraziò con un bacio sulla guancia, dimenticando i cinque euro che poco prima ella gli aveva promesso. Quegli si mise in tasca l’orrendo oggetto di gomma, pensando di conservarlo per annusarlo qualche volta quando ne avrebbe avuto il desiderio.
Samir dovette giustificarsi con l’anziana donna dalle fattezze di contadina, quando fece il suo rientro al negozio; ma non vi riuscì affatto, dal momento che subito fu punito da lei con uno sganassone, per avere perso il suo tempo appresso a quella gonnella senza guadagnare nemmeno un soldo.
Hélène invece si mosse verso la successiva fermata dell’autobus, finalmente liberata e stappata nel didietro, ma ridotta definitivamente come una miseria, annientata e spazzata via del tutto. Non avrebbe potuto in quel momento fare null’altro, che risalire la china, ripartendo da zero e dimenticando tutto il male e tutti gli errori che aveva fatto.
Trentunesimo episodio
Una serie ripetuta di tonfi, sordi e penosi, era tutto quello che gli ospiti della festa ricordavano; solamente in pochi si erano spinti fin dentro al salone, ad osservare ciò che stava accadendo in quegli istanti.
“Tuo padre ti ha fatto davvero … un culo così” le disse all’indomani Jeanne, senza davvero alcuna sensibilità.
Aveva comperato una bellissima gonna svolazzante di raso nero, sotto la quale indossò un paio di succinte mutandine bianche; faceva molto caldo e l’abbigliamento per la cerimonia doveva fare in modo che non soffrisse particolarmente il sudore durante il corso della giornata.
Trentaduesimo episodio
Il salotto è leggermente immerso nella penombra, mentre fuori divampano i primi caldi dell'estate. Per essere solamente un pomeriggio di giugno, la calura è già alquanto appiccicosa, ma grazie al cielo ogni tanto un rivolo di vento fresco attraversa la sottile fenditura della finestra aperta.
E adesso puoi rilassarti, signor Mariano; risalire al dispaccio è stato davvero faticoso oggi, e alla fine c'è stato anche questo fastidioso straordinario da sbrigare in casa.
Il salotto rettangolare ha un leggero ma persistente odore di muffa, per via dell'allagamento da guasto presente sul soffitto; e il mobilio anni Cinquanta lo rende anche un po' triste e dimesso.
Resisti alla tentazione di aprirti una lattina, al massimo puoi toglierti la camicia e restare in canottiera se vuoi; e soprattutto puoi sederti di nuovo: la vecchia sedia in legno non sarà comodissima, ma almeno non è calda come il divano in pelle accampato dinanzi al televisore.
Adesso puoi rilassarti, vecchio omone con i baffi alla Dalì; e perché no? anche aprirti un po' la cintura sul davanti. E visto che ci sei, anche sbottonarti i pantaloni eleganti di flanella.
Fallo per bene, per oggi te lo sei meritato, e non temere se a venire giù sono anche i tuoi boxer da pugile: il legno della sedia ti terrà fresco mentre accomodi il tuo largo fondoschiena tanto grezzo e inelegante, e anche un po' sudato; e quel pene così lungo e molle da tempo inoperoso, ti penzolerà tutto quanto appiccicoso in mezzo alle gambe.
Ora che ti sei un po' rilassato, guarda la parete bianca di fronte a te, a lato del mobiletto con il servizio di piatti in bella mostra: Hélène è lì, ce l'hai messa tu, di spalle con le mani aperte appiccicate al muro. È da venti minuti che piange ininterrottamente, singhiozzando e asciugandosi le lacrime tutta voltata dall’altro lato.
Eppure, stavolta la ragazzina l'ha combinata davvero grossa, e tu hai perso del tutto la tua pazienza; e adesso se ne sta in lacrime dinanzi al muro, con la sua canottierina gialla tutta stretta attillata sul davanti, il pantaloncino estivo e lo slippino sottile avvolti intorno alle ginocchia, ed il sederone tutto gonfio per le botte che le hai dato.
Hai deciso che la misura era colma, e gliele hai suonate per davvero. Quando parlare non serve più a niente, Hélène ascolta e comprende solamente il tonfo degli sculaccioni; e oggi pomeriggio gliele hai date davvero per bene, al punto che pensi che questa volta imparerà davvero a rigare dritto.
Il suo pianto incessante però inizia ad infastidirti, ma cosa puoi farle ancora, dopo averla ridotta in quel modo? Certamente lo rifaresti di nuovo senza alcuna remora.
Adesso però è tempo di rilassarsi: e la mano un po’ stanca scivola verso il pene penzolante, schiudendolo per un solo istante, fino ad emanare il suo odore alacre in mezzo all’aria completamente afosa della stanza.
Ti accorgi che è vivo, e che il sangue ha ricominciato a pulsare; fissalo per bene allora, il sederone tutto rigonfio di Hélène: sembra quasi un volto triste, ad osservarlo con attenzione; due profonde gote arrossate, ed una riga nel mezzo, lunga e silenziosa.
Lo muove un po’ lentamente, quasi volesse farlo respirare, dopo l’afflizione del castigo, mentre la schiena rimane leggermente reclinata su un lato, e le mani schiuse contro il muro.
Apri nuovamente con la mano, ed in quell’istante il tubo molle prende forma, acquisendo nerbo e sostanza. Diviene come un tronco diviso in due, e allora puoi afferrarlo nella sua metà inferiore.
È lì che il laccio della mano dà il meglio di sé: lo immagini come il nastro stretto intorno ad una salsiccia, oppure a un pacchetto chiuso bello annodato. Ti accorgi che la barriera è calata, e che il piacere ha inizio.
Il pianto della ragazzina è inesorabile, e continua sempre eguale. Vorresti ordinarle di smettere, ma poi comprendi che è a causa dei tuoi sculaccioni, che ella piange; non le dai alcuna attenzione, tanto lei non imparerà mai se non in questa maniera.
Lo riprendi meglio, è gonfio e turgido al punto giusto: apri e chiudi alla base, e oramai lo puoi ammirare, eretto come una colonna di marmo rosa. Reclini leggermente in basso la schiena, scivolando coi glutei sul davanti. Quanto sangue corre nelle vene, fino a dentro il sacchetto molle che penzola in basso, giù dalla sedia.
Il limite è superato, mentre la ragazzina continua a piangere; gli occhi tornano con insistenza a frugarla sul didietro, gonfio e deforme, con due enormi chiazze rosse; è probabile che le resteranno per diversi giorni, diventeranno prima viola e poi nere: due grossi lividi neri che l’accompagneranno fino alla prova costume, che la ragazzina non farà.
Le minuscole mutandine bianche restano sospese a metà delle sue ginocchia, né su e né giù: avvolte nell’unico punto in cui Hélène dovrà abituarsi ad indossarle d’ora in avanti. Il sederone occupa l’aria libera in mezzo al salotto di fronte ai tuoi occhi: l’hai veramente ridotta malissimo questa volta.
Ed il bastone è oramai gonfio all’inverosimile; più gonfio di quanto sia ragionevole immaginare quando è a riposo. Sembra che l’aria sotto la pellaccia dura e sudata lo riempia come il copertone di un’automobile. Non serve nemmeno più che tu lo muova, basta che tu lo trattenga saldo alla base, per sentire il sangue correre dal basso verso l’alto, in su e in giù, rassodandolo, rinforzandolo, come un pilastro di cemento armato.
È il momento di evitare grossi danni; ti levi di scatto dalla sedia, con la cinta che sbatacchia sul pavimento; solamente in quell’istante, Hélène volge i suoi occhi neri e mesti verso il basso, verso la fibbia pesante caduta in terra: per un istante teme per sé stessa, una nuova dose di percosse. Ma la tua mano destra ha già fatto per intero il suo dovere su di lei.
Lei non ha il coraggio di guardarti il pene, che è una mazza dritta e possente, mentre muovi rapido brancolando verso la cassettiera vicino al divano. Lì trovi una scatola, e dentro di essa tante bustine di plastica, che apri nervosamente.
È questione di istanti, ma tanto basta per allentare la presa del sangue attorno al suo budello; ti risiedi e devi ricominciare daccapo; ma stavolta la partita è facile, il liquido è già in circolo, e la ragazzina ti guarda proprio lì in mezzo: ha gli occhi inumiditi dal pianto ed è impaurita, impressionata dalla tua prepotenza.
Lo riprendi dal basso, agitandolo come l’asta vuota priva della bandiera. E proprio come un’asta si piega in su, e poi da un lato, mentre la stretta alla base lo dilata indefinitamente in alto, come i palloncini allungati dello stadio.
Ed è di nuovo trionfalmente eretto, ancora più dritto e monumentale che mai; il preservativo si srotola col suo odore di lattice inumidito, sporcandolo e disturbandolo, fino poco oltre la metà.
Guardi il popò di Hélène, l’ombra è scesa su di lei, ma le gote tristi e gonfie continuano a bruciare come il sole d’agosto. È di nuovo con lo sguardo riverso contro la parete, le mani schiuse, la schiena inarcata, e le caviglie leggermente divaricate. Questa volta le hai fatto davvero un culo così.
E allora stringi solo un po’ ancora, una rapida volta ancora verso l’alto, e giù alla base di nuovo, con il nerbo che finalmente si rivolge verso di te, ed è finita: tutto scorre rapidissimo come un fiume in piena, ed è un’onda di piacere interminabile, lunga come mai l’avevi provata prima, come l’applauso alla fine di un concerto grandioso. Guardi il preservativo, che è gonfio il doppio del suo contenuto, e poi volgi una volta ancora lo sguardo verso la parete, verso la ragazzina punita.
Solamente adesso, lei ti permetterà di affondare le mani nelle sue povere natiche completamente arroventate.
Hélène Pérez Houllier
Hélène ha oggi 31 anni; abita a Bruxelles nel quartiere Merode assieme ad un'amica, ed è felicemente fidanzata con un ragazzo africano di nome Samir; non si tratta del ragazzetto del negozio di frutta e verdura conosciuto a Roma, quello che ogni tanto le portava le buste con la spesa, anche se il nome è esattamente lo stesso. Non ha intenzione di sposarsi, né di avere figli per il momento. Continua di tanto in quanto a desiderare qualcosa di estremamente doloroso e proibito. E se ne vergogna molto.
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