Il campo dei fichi…e delle fiche
di
Mg Mitragliatrice
genere
voyeur
Sin dalla più tenera età mi mostravo curiosa. Adoravo chiedermi il perché delle cose, osservare e conoscere tutto ciò che mi circondava; spesso, se occorreva, anche spiare. Dal buco della serratura del bagno guardavo di nascosto mamma che si alzava la gonna, si abbassava le mutandine pronta per pisciare. Era pelosa laggiù tra le cosce. Mi piaceva guardare il suo modo di pulirsi: si alzava leggermente divaricando le gambe e lasciava sgocciolare la fica per qualche istante per poi asciugarsi con la carta igienica. Una volta, mentre faceva il bidè, probabilmente s’è infilata due dita nella passera insaponata. L’ho capito dall’eccitazione che vedevo nei suoi occhi e dai movimenti tremolanti delle sue cosce.
Mio padre, invece, aveva un enorme affare tra le gambe che, spesso, dimenava fino a quando una sostanza liquida e cremosa fuoriusciva impetuosamente. Quel gesto gli procurava sicuramente godimento, si notava dalle smorfie della faccia che da contratta passava ad essere rasserenata e appagata.
Ero ancora piccina ma riuscivo a percepire e ad apprezzare quel senso di proibito legato al mondo del sesso, intuendo che quello spiare mi dava un latente senso di libidine perché mi bagnavo inavvertitamente le mutande, lasciando un odore selvatico di umori di una giovane fanciulla del sud.
Vivevo in una casa in piena campagna. Era in realtà un ex frantoio che mio padre aveva ristrutturato e reso abitabile. Adoravo vivere lì tra quelle pareti di mattoni in vista e mobili antichi ricoperti di pizzi e merletti.
I miei avevano una piccola azienda agricola e producevano ogni genere di delizia e leccornia assieme ad operai e contadini. Si vendeva di tutto: dall’olio al vino, dai formaggi alle marmellate di frutta.
Ed io, quando non andavo a scuola, scorazzavo tra i vasti campi respirando aria di terra e merda di bestie al pascolo. Odori intrisi nelle narici e difficili da dimenticare.
Erano da poco iniziate le vacanze estive e quella mattina di metà Giugno mi recavo da sola nei campi per raccogliere frutti di stagione.
Ancora ricordo lo stridente canto delle cicale e quel sole particolarmente caldo per quel mese.
Ricordo pure che avevo passato la notte a sfregarmi il clitoride che diventava durissimo non appena lo stuzzicavo. Una piccola luce accesa sullo specchio di fronte, mi permetteva di osservare l’immagine riflessa delle mie cosce spalancate. Guardarmi in quel modo mi fece così eccitare che ebbi l’impulso di infilarmi il manico della spazzola dentro la fica colma di liquidi densi e liquorosi. Era bello scoparsi e spiarsi allo specchio mentre quell’arnese ficcato dentro scivolava su e giù, su e giù per poi passare al buco del culo. Prima in fica e poi in culo. Senza sosta finche venni tre volte.
Correvo in quei vasti campi per raggiungere gli altri che stavano raccogliendo i fichi per fare le conserve di marmellata.
Avevo l’aria di un’innocente puttanella. Indossavo una salopette di jeans con la gonnellina pieghettata. Senza indumenti intimi, così, come natura vuole. Una lunga treccia nera che arrivava all’altezza del mio sedere ed una magliettina bianca da cui s’ intravedevano i capezzoli di tette grosse come meloni.
Quella mattina era ancora presto e non c’erano tutti. Cominciai a chiamare: “Mamma, mammaaaaaaaaa!”. E non rispondeva. Sentivo, però, dei gemiti e rantoli affannosi. La vidi sdraiata sotto un albero di fichi neri. E mi nascosi per vedere cosa stava facendo.
Smisi di chiamarla e me ne stavo nascosta, curiosa e fremente di vedere che stava accadendo. Indossava una lunga e ampia gonna, degli stivaletti e aveva le grosse mammelle al vento. Attaccato ad un capezzolo c’era lo stalliere che le spremeva quei grossi seni come fosse una vacca. E poi li ciucciava con golosità.
Erano a terra come due animali. Lui sopra di lei. All’improvviso le alzò la gonna e si mise con tutta la testa tra le gambe. Le affondò la lingua senza riguardo in fica mentre continuava a torturarle i capezzoli. Lei ansimava: “Siii, continua amore, continua…vengo, vengo”. Lui: “Vieni, troia che non sei altro, ti ordino di venire nella mia bocca”. Così lei le schizzò in bocca un flutto di liquido come fosse pipì. Lui non era grosso ma forzuto. I suoi gesti ne denunciavano la virilità e la forza. Con un movimento repentino prese mia madre e la appoggiò su un albero, chinata a novanta gradi. Lei divaricò le gambe e con le mani spalancò il culo, come se volesse qualcosa dentro.
Allora lui colse un fico bello maturo, lo sbucciò, ne mangiò una metà mentre l’altra la spalmò nel sedere aperto e voglioso di mamma fino a raggiungere la fica. Sfregò quel frutto ripetute volte e lei godeva come una giumenta in calore. Le porse quel poco di fico che era rimasto in bocca e le poggiò una mano sulla schiena con il chiaro intento di farla rimanere in quella posizione a pecorina, su un albero con il fico nella fica.
Le sussurrò ad alta voce, mentre con una mano le tirava leggermente i capelli: “Mangia, puttana, e sputa nella mia bocca un po’ di fico”. Così con un gioco di lingue si saziarono a vicenda.
Poi, l’uomo così affascinante quanto deciso, si abbassò e le leccò tutto quel frutto dolciastro sparso su per la figa che, probabilmente, conferiva al fico un sapore più forte.
La pulì per bene, si aprì la patta dei pantaloni sporchi di fango e con un colpo di cazzo duro e vigoroso le fece venire un orgasmo intensissimo, visto l’urlo che emise.
E la scopò per molto. Un susseguirsi di orgasmi di lei lo caricavano e lo incitavano a continuare. “Godi, puttana, godi amore mio” – gli diceva. E lei, come un’insaziabile porca, pensava al Piacere e a essere scopata per bene.
Non resisteva più, così si tolse dalla fica per entrare in quel buchino odoroso di merda e fico. Glielo mise dentro senza troppi riguardi e la inculò. La faceva sentire una vera puttana, la sua puttana. All’idea di essere così oscena e goduriosa, non esitò un istante a urlare dal piacere anale che quel cazzo le procurava, fino a quando lui gli spruzzò la sborra dentro, facendo colare quel liquido denso lungo le gambe.
Mamma si abbassò e cominciò a pulirgli la verga che a stento riusciva ad ammosciarsi.
Io avevo la fica grondante e i capezzoli turgidi e durissimi. Mentre mia madre spompinava lo stalliere, io mi sditalinavo per bene. Avevo un dito sul clitoride e due in fica. Mi scopavo con violenza, avevo fame di cazzo. Avevo sete di sperma.
Ero in piedi, dietro un albero a masturbarmi come una cagnetta in calore quando sento una voce: “Tesoro, vuoi anche tu un fico?”.
Mio padre, invece, aveva un enorme affare tra le gambe che, spesso, dimenava fino a quando una sostanza liquida e cremosa fuoriusciva impetuosamente. Quel gesto gli procurava sicuramente godimento, si notava dalle smorfie della faccia che da contratta passava ad essere rasserenata e appagata.
Ero ancora piccina ma riuscivo a percepire e ad apprezzare quel senso di proibito legato al mondo del sesso, intuendo che quello spiare mi dava un latente senso di libidine perché mi bagnavo inavvertitamente le mutande, lasciando un odore selvatico di umori di una giovane fanciulla del sud.
Vivevo in una casa in piena campagna. Era in realtà un ex frantoio che mio padre aveva ristrutturato e reso abitabile. Adoravo vivere lì tra quelle pareti di mattoni in vista e mobili antichi ricoperti di pizzi e merletti.
I miei avevano una piccola azienda agricola e producevano ogni genere di delizia e leccornia assieme ad operai e contadini. Si vendeva di tutto: dall’olio al vino, dai formaggi alle marmellate di frutta.
Ed io, quando non andavo a scuola, scorazzavo tra i vasti campi respirando aria di terra e merda di bestie al pascolo. Odori intrisi nelle narici e difficili da dimenticare.
Erano da poco iniziate le vacanze estive e quella mattina di metà Giugno mi recavo da sola nei campi per raccogliere frutti di stagione.
Ancora ricordo lo stridente canto delle cicale e quel sole particolarmente caldo per quel mese.
Ricordo pure che avevo passato la notte a sfregarmi il clitoride che diventava durissimo non appena lo stuzzicavo. Una piccola luce accesa sullo specchio di fronte, mi permetteva di osservare l’immagine riflessa delle mie cosce spalancate. Guardarmi in quel modo mi fece così eccitare che ebbi l’impulso di infilarmi il manico della spazzola dentro la fica colma di liquidi densi e liquorosi. Era bello scoparsi e spiarsi allo specchio mentre quell’arnese ficcato dentro scivolava su e giù, su e giù per poi passare al buco del culo. Prima in fica e poi in culo. Senza sosta finche venni tre volte.
Correvo in quei vasti campi per raggiungere gli altri che stavano raccogliendo i fichi per fare le conserve di marmellata.
Avevo l’aria di un’innocente puttanella. Indossavo una salopette di jeans con la gonnellina pieghettata. Senza indumenti intimi, così, come natura vuole. Una lunga treccia nera che arrivava all’altezza del mio sedere ed una magliettina bianca da cui s’ intravedevano i capezzoli di tette grosse come meloni.
Quella mattina era ancora presto e non c’erano tutti. Cominciai a chiamare: “Mamma, mammaaaaaaaaa!”. E non rispondeva. Sentivo, però, dei gemiti e rantoli affannosi. La vidi sdraiata sotto un albero di fichi neri. E mi nascosi per vedere cosa stava facendo.
Smisi di chiamarla e me ne stavo nascosta, curiosa e fremente di vedere che stava accadendo. Indossava una lunga e ampia gonna, degli stivaletti e aveva le grosse mammelle al vento. Attaccato ad un capezzolo c’era lo stalliere che le spremeva quei grossi seni come fosse una vacca. E poi li ciucciava con golosità.
Erano a terra come due animali. Lui sopra di lei. All’improvviso le alzò la gonna e si mise con tutta la testa tra le gambe. Le affondò la lingua senza riguardo in fica mentre continuava a torturarle i capezzoli. Lei ansimava: “Siii, continua amore, continua…vengo, vengo”. Lui: “Vieni, troia che non sei altro, ti ordino di venire nella mia bocca”. Così lei le schizzò in bocca un flutto di liquido come fosse pipì. Lui non era grosso ma forzuto. I suoi gesti ne denunciavano la virilità e la forza. Con un movimento repentino prese mia madre e la appoggiò su un albero, chinata a novanta gradi. Lei divaricò le gambe e con le mani spalancò il culo, come se volesse qualcosa dentro.
Allora lui colse un fico bello maturo, lo sbucciò, ne mangiò una metà mentre l’altra la spalmò nel sedere aperto e voglioso di mamma fino a raggiungere la fica. Sfregò quel frutto ripetute volte e lei godeva come una giumenta in calore. Le porse quel poco di fico che era rimasto in bocca e le poggiò una mano sulla schiena con il chiaro intento di farla rimanere in quella posizione a pecorina, su un albero con il fico nella fica.
Le sussurrò ad alta voce, mentre con una mano le tirava leggermente i capelli: “Mangia, puttana, e sputa nella mia bocca un po’ di fico”. Così con un gioco di lingue si saziarono a vicenda.
Poi, l’uomo così affascinante quanto deciso, si abbassò e le leccò tutto quel frutto dolciastro sparso su per la figa che, probabilmente, conferiva al fico un sapore più forte.
La pulì per bene, si aprì la patta dei pantaloni sporchi di fango e con un colpo di cazzo duro e vigoroso le fece venire un orgasmo intensissimo, visto l’urlo che emise.
E la scopò per molto. Un susseguirsi di orgasmi di lei lo caricavano e lo incitavano a continuare. “Godi, puttana, godi amore mio” – gli diceva. E lei, come un’insaziabile porca, pensava al Piacere e a essere scopata per bene.
Non resisteva più, così si tolse dalla fica per entrare in quel buchino odoroso di merda e fico. Glielo mise dentro senza troppi riguardi e la inculò. La faceva sentire una vera puttana, la sua puttana. All’idea di essere così oscena e goduriosa, non esitò un istante a urlare dal piacere anale che quel cazzo le procurava, fino a quando lui gli spruzzò la sborra dentro, facendo colare quel liquido denso lungo le gambe.
Mamma si abbassò e cominciò a pulirgli la verga che a stento riusciva ad ammosciarsi.
Io avevo la fica grondante e i capezzoli turgidi e durissimi. Mentre mia madre spompinava lo stalliere, io mi sditalinavo per bene. Avevo un dito sul clitoride e due in fica. Mi scopavo con violenza, avevo fame di cazzo. Avevo sete di sperma.
Ero in piedi, dietro un albero a masturbarmi come una cagnetta in calore quando sento una voce: “Tesoro, vuoi anche tu un fico?”.
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