Un Giorno nel Buio: Le Confessioni di uno Schiavo Sadomaso - Parte IV
di
Raf I
genere
sadomaso
Un giorno, mentre lavoravo duramente nella cava, una delle guardie mi accusò di non aver spaccato abbastanza pietre. Non importava quanto avessi faticato o quanto fossi esausto, il giudizio delle guardie era insindacabile. La guardia in questione, un uomo robusto e spietato, decise di punirmi in modo esemplare.
La Punizione Esemplare
Mi trascinò in uno spiazzo polveroso, lontano dalla vista degli altri schiavi. Con brutale efficienza, mi legò gli arti divaricati a due pali, rendendomi completamente vulnerabile. Poi, senza dire una parola, iniziò a frustare la mia schiena con una forza brutale. Ogni colpo era un'esplosione di dolore che si irradiava in tutto il mio corpo. Contai ben 100 sferzate, ogni una di esse lasciando un segno rosso e sanguinante sulla mia pelle. Il dolore era insopportabile, ma non osai urlare o ribellarmi.
Quando la punizione sembrava finita, la guardia mi liberò dai pali solo per condurmi a un’altra tortura. Mi costrinse a sdraiarmi su una croce di legno, legandomi con stretti lacci di cuoio. La tensione dei lacci tagliava la mia carne e ogni movimento causava ulteriore dolore. Mi issarono in posizione verticale e lì rimasi per l'intera giornata, ogni minuto un'agonia senza fine.
La Notte nella Gabbia
Finalmente, al tramonto, mi tirarono giù dalla croce. Il mio corpo era un cumulo di dolore, i muscoli tesi e la pelle bruciata dalle frustate. Invece di riportarmi subito alla cava, la guardia mi rinchiuse in una piccola gabbia di ferro, dove a malapena riuscivo a muovermi. Le catene alle caviglie, sempre presenti, tintinnavano ad ogni minimo spostamento. Nonostante la tortura, ci fu una cosa positiva: finalmente ricevetti del cibo e acqua fresca. Dopo giorni di fame e sete, quelle semplici provviste erano un sollievo inaspettato.
Passai la notte al freddo, le sbarre della gabbia che premevano contro la mia pelle nuda, i dolori delle frustate e dei lacci che non mi davano tregua. Il freddo penetrava nelle ossa, rendendo ogni momento un incubo. Tuttavia, il cibo e l'acqua mi diedero un briciolo di forza per affrontare il giorno seguente.
Il Ritorno alla Cava
La mattina dopo, venni liberato dalla gabbia. Il corpo era rigido e dolorante, ma non c'era tempo per riposare. Le guardie mi costrinsero a riprendere immediatamente la mia solita routine alla cava. Ogni colpo di martello contro le pietre era una tortura per i muscoli stanchi, ma non avevo altra scelta. Dovevo continuare a lavorare, obbedire e sopportare.
La Realizzazione
Ogni giorno alla cava era una prova di resistenza fisica e mentale. Ero ridotto a una macchina, priva di volontà e dignità, schiavo delle circostanze e della brutalità delle guardie. Ma nonostante tutto, una piccola parte di me continuava a sperare in una via di fuga, in una libertà che sembrava sempre più lontana.
Conclusione
Le settimane passavano, la routine diventava un ciclo infinito di lavoro, punizioni e breve riposo. Ogni giorno, mi ricordavo delle parole del padrone: "Accetta la tua condizione, perché non c'è via di fuga." E mentre spaccavo pietre, sentivo le catene che tintinnavano alle caviglie, simbolo della mia eterna prigionia. Ma in quel silenzio, tra il rumore delle pietre e i mormorii del vento, una piccola scintilla di speranza continuava a bruciare, alimentata dalla mia determinazione a sopravvivere e, forse un giorno, a ritrovare la mia libertà.
La Punizione Esemplare
Mi trascinò in uno spiazzo polveroso, lontano dalla vista degli altri schiavi. Con brutale efficienza, mi legò gli arti divaricati a due pali, rendendomi completamente vulnerabile. Poi, senza dire una parola, iniziò a frustare la mia schiena con una forza brutale. Ogni colpo era un'esplosione di dolore che si irradiava in tutto il mio corpo. Contai ben 100 sferzate, ogni una di esse lasciando un segno rosso e sanguinante sulla mia pelle. Il dolore era insopportabile, ma non osai urlare o ribellarmi.
Quando la punizione sembrava finita, la guardia mi liberò dai pali solo per condurmi a un’altra tortura. Mi costrinse a sdraiarmi su una croce di legno, legandomi con stretti lacci di cuoio. La tensione dei lacci tagliava la mia carne e ogni movimento causava ulteriore dolore. Mi issarono in posizione verticale e lì rimasi per l'intera giornata, ogni minuto un'agonia senza fine.
La Notte nella Gabbia
Finalmente, al tramonto, mi tirarono giù dalla croce. Il mio corpo era un cumulo di dolore, i muscoli tesi e la pelle bruciata dalle frustate. Invece di riportarmi subito alla cava, la guardia mi rinchiuse in una piccola gabbia di ferro, dove a malapena riuscivo a muovermi. Le catene alle caviglie, sempre presenti, tintinnavano ad ogni minimo spostamento. Nonostante la tortura, ci fu una cosa positiva: finalmente ricevetti del cibo e acqua fresca. Dopo giorni di fame e sete, quelle semplici provviste erano un sollievo inaspettato.
Passai la notte al freddo, le sbarre della gabbia che premevano contro la mia pelle nuda, i dolori delle frustate e dei lacci che non mi davano tregua. Il freddo penetrava nelle ossa, rendendo ogni momento un incubo. Tuttavia, il cibo e l'acqua mi diedero un briciolo di forza per affrontare il giorno seguente.
Il Ritorno alla Cava
La mattina dopo, venni liberato dalla gabbia. Il corpo era rigido e dolorante, ma non c'era tempo per riposare. Le guardie mi costrinsero a riprendere immediatamente la mia solita routine alla cava. Ogni colpo di martello contro le pietre era una tortura per i muscoli stanchi, ma non avevo altra scelta. Dovevo continuare a lavorare, obbedire e sopportare.
La Realizzazione
Ogni giorno alla cava era una prova di resistenza fisica e mentale. Ero ridotto a una macchina, priva di volontà e dignità, schiavo delle circostanze e della brutalità delle guardie. Ma nonostante tutto, una piccola parte di me continuava a sperare in una via di fuga, in una libertà che sembrava sempre più lontana.
Conclusione
Le settimane passavano, la routine diventava un ciclo infinito di lavoro, punizioni e breve riposo. Ogni giorno, mi ricordavo delle parole del padrone: "Accetta la tua condizione, perché non c'è via di fuga." E mentre spaccavo pietre, sentivo le catene che tintinnavano alle caviglie, simbolo della mia eterna prigionia. Ma in quel silenzio, tra il rumore delle pietre e i mormorii del vento, una piccola scintilla di speranza continuava a bruciare, alimentata dalla mia determinazione a sopravvivere e, forse un giorno, a ritrovare la mia libertà.
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