Dewdrops 2
di
Anonimo
genere
dominazione
“Quell’uomo le faceva delle cose sordide… e le piacevano da morire. Sempre stata troia Isabel, ma mai in quel modo. Una troia di classe diciamo, di quelle che non lesinano tanto a dartela, se gli piaci ma che non si era mai particolarmente lasciata andare. Il sesso le era venuto a noia, una abitudine a cui non sapeva rinunciare ma che ormai l’annoiava terribilmente. Tutti quei rituali studiati, quegli uomini che avevano studiato moderni manuali su come far godere una donna, l’arte dei preliminari, dieci regole per farla impazzire a letto. Stronzate. Quell’uomo invece era imprevedibile, la destabilizzava. Non aveva regole, non aveva limiti, non aveva schifo di niente e non c’era cosa che lo fermasse dal prenderla dove, come e quando ne aveva voglia. Cazzo, le aveva pisciato in bocca, l’aveva scopata li, come una cagna, sul pavimento del cesso, tra il piscio , la polvere e le ragnatele degli angoli. Un ragno sonnecchiava , poteva vederlo mentre lui la montava.
Le era piaciuto, le stava piacendo. Si era sentita davvero una donna, si era sentita davvero scopata. E aveva goduto come una cagna, come mai nella sua vita. Un orgasmo ululato al sole invece che alla luna. Urlato senza ritegno a un’alba di mezzogiorno che era sorta o risorta come una puttana fenice. Era fradicia, non si era mai bagnata così. Gli umori le colavano tra le gambe in fili vischiosi. Era indecente, spudorata. L’urina dell’uomo era calda , bollente in bocca e sul petto e aveva un sapore forte. Una notte di piscio si era bevuta. Una notte di piscio fatto di vino e pollo al curry. E lui aveva infilato la faccia sotto la sua fica mentre pure lei pisciava. Seduta sul cesso ancora assonnata. Non sapeva neanche di essere sveglia quando l'aveva visto entrare in bagno e allargarle le gambe.
“Continua a pisciare” le aveva detto.
Senza ritegno se n’era riempito le mani e la bocca. E l’aveva leccata come fanno gli animali, senza movimenti studiati. Non c’erano tecniche erotiche nei suoi gesti, solo un’istintività animalesca fuori da ogni schema. Ora stava li , sdraiata sul pavimento, con la faccia schiacciata sulle piastrelle bagnate. Lui la teneva giù e se la chiavava. E lei si lasciava chiavare. Il collo stretto dalle sue mani, la guancia sul pavimento freddo, il sole alto nel cielo.
Lui aveva cominciato a volerla in modo morboso. Ad amarla in modo morboso.
Amava il suo odore. Amava stupirsi di quanto fosse porca, sporca, puttana. E ogni volta voleva spingerla ad incarnare le sue fantasie. Quelle dei sogni ad occhi aperti. Quelle delle chiacchiere che si fanno con gli amici mezzi sbronzi. Quelle che si immaginano quando si è incazzati.
Il giorno che incominciò la loro discesa nel paradiso “diverso” di Margherita (quella del Maestro, di Bulgakov) era un pomeriggio afoso. Lui era già a casa. Aveva passato tutta la mattina con il viso nelle sue mutande, tra le pieghe delle sue gonne di carta velina. Aveva scopato i suoi abiti stesi sul letto.
Isabel era rientrata con le borse della spesa. Una camicia scollata lasciava brillare la sua pelle coperta di quel sudore che era droga. Entrata e lasciate le borse, con fare del tutto naturale, Isabel si stava spogliando. Per lui. Lo vedeva. Lo guardava. Forse si era tolta le mutandine prima di entrare, perché sotto le gonne nulla nascondeva i suoi peli neri.
Isabel amava il sesso. Lui lo sapeva e vedere quel segno rosso sulle sue reni non trovava spiegazione –ai suoi occhi- se non quella del sesso consumato. Lo aveva visto, penso Isabel, ma non si copriva. Carezzò quella lingua purpurea con le dita. Voleva sfidarlo?
Riccardo la prese per i capelli. “Troia” disse senza gridare, guardandola come se la riconoscesse, come se volesse annullarla. Isabel sorrise. Le piaceva sapere che era geloso del suo corpo. Dalla sua fica esalava il profumo della sua eccitazione. Lo conoscevano entrambi oramai. Tirandola per i capelli le fece male. La girò di schiena contro di sé. Le strinse il seno come si spreme un’arancia piena. Le faceva male. Isabel stava godendo della sua voglia. Con la cintura di cotone della gonna leggera, Riccardo le legava le mani dietro la schiena. Per Isabel era nuovo. Nuovo il suo impeto. Nuovo il gioco. Nuovo quel sentirsi presa. Come una prigioniera. Come una schiava.
“Ti piace mostrare i tuoi segni, Puta?” lo disse prendendo una cintura di cuoio “domani mostrerai questi”. Il primo colpo arrivo come un chicco di grandine al sole. La aveva colpita forte. Sulle natiche. E i colpi continuavano. Sulla schiena. Sulle gambe. Una mano tra le gambe lasciava scoprire che era bagnata. Riccardo la prese così. China sul tavolo, con le gambe larghe e i segni della cintura che le decoravano il bellissimo corpo. La prese così. Con foga, ma non con rabbia. Le tirava i capelli. Aveva voluto il culo. La sfondava, come se volesse imprimere la sua pelle su quella di lei. Poi, improvviso si staccò da lei, girandola e dandole uno schiaffo doloroso. Isabel cadde in ginocchio mentre il suo cazzo ruggiva la libidine bianca e viscosa sulle sue gote, sui capelli. Nella bocca.
Isabel piangeva. Anche Riccardo piangeva. La aiutò ad alzarsi. La slegò. Le mise la gonna larga e la camicetta, lasciandola nuda sotto le vesti, così com’era entrata. Massaggiò la sua stessa sborra sul viso di Isabel.
“Vai a comperare le sigarette”. Isabel lo guardava interrogativa, senza fiatare. “Non lavarti. Voglio che puzzi di me” era stata la risposta di lui.
Camminava per la strada sentendosi addosso i segni della cinghia. Bruciavano come lingue di fuoco. Bruciavano come le lacrime di lui , che gocciolavano come cera bollente sul suo collo. Non era stato dolce né tantomeno delicato. Era stato primordiale, animale. Ma non cattivo. Camminava come se tutti potessero sentire che puzzava di sesso e di sudore , sentendosi addosso l’odore di lui. Ma come cazzo stava, pensava tra se e se. Non si era mai lasciata usare in quel modo. Ma chi cazzo era quell’uomo che si permetteva di agire così nei suoi confronti. E perché mai lei amava così tanto stuzzicarlo, sfidarlo. Diciamoci la verità, se le andava a cercare. Eppure, anche se gli permetteva di farle, certe cose, sentiva crescere in sé un certo potere. Sentiva che aveva lei il controllo, la reazione che Riccardo aveva avuto al suo rientro dalla spesa ne era la dimostrazione. Era geloso di lei, e questo lo rendeva schiavo. Era un cane che si mordeva la coda. Lui non poteva più fare a meno di lei. Lei non poteva più fare a meno di volerne sempre di più, di quell’uomo. Avrebbe dovuto sentirsi umiliata, maltrattata e invece si sentiva appagata, si sentiva bene, si sentiva se stessa, esaltata e serena. Si sentiva ingorda, e sapeva o sperava che lui, di lei , non si sarebbe mai saziato.
- Due pacchetti di Fortuna – disse al tabaccaio. Mise i pacchetti nella borsa capiente di paglia e uscì. Invece di prendere la strada di casa, dove lui l’aspettava, s’incammino’ verso il centro. Passò così ore e ore a girovagare per le strade , persa nei suoi pensieri, come in trance. Quando decise di rientrare, erano ormai passate diverse ore e il sole era calato all’orizzonte. L’odore caldo e afoso della sera le si stava appiccicando addosso, mescolandosi all’odore dello sperma. I suoi umori si erano seccati tra le gambe. Immaginava che lui si sarebbe infuriato per il suo ritardo. Forse ne aveva paura, forse invece lo sperava. Riccardo, dopo che lei fu uscita, era rimasto fermo, immobile a guardare il tavolo. Quel tavolo dove Isabel si era lasciata violentare. Si era piegato sulle ginocchia. A terra le gocce del loro amplesso. Alcune gocce del suo sangue. Le aveva rotto il culo. Isabel si era fatta rompere il culo. Quel segno non lo avrebbero visto, né sentito, ma lui sapeva che c’era. Isabel voleva quello sperma, il suo, sul viso. Isabel voleva il suo odore. Il cazzo di Riccardo era sporco di sangue. Non si lavò. Oramai le carte si erano mischiate. Non c’era padrone, non c’era servitore. Isabel lo aveva reso schiavo, come era schiava lei. Entrambi prigionieri l’uno dell’altra. Con lui aveva scoperto la femmina che agli altri non era concesso di conoscere. Una Femmina. Una donna con le calze di seta, con la fica pelosa. Una donna che non si lasciava più scopare, perché il sesso non le bastava. Senza rientrare lei si fermò a comperare dei fiori, degli incensi e delle candele. Comperò un piccolo scrigno di cedro profumato. Andò da un parrucchiere: si fece tagliare i capelli, se li fece dare, non voleva che andassero buttati, e li mise nello scrigno. A casa Riccardo riordinò; lavò dal pavimento i segni della loro battaglia, si mise a cucinare: care rossa, al sugo, piccante. Isabel avrebbe portato il vino. Lo sapeva. Non rientrava e le sigarette le aveva già prese, di sicuro. Quando tornò, la casa profumava di ambra e di olio di lino. Riccardo aveva dipinto. Ad una parete era appeso un quadro dove Isabel si mostrava con i capelli corti, su un letto arruffato, con le gambe aperte. Era rosso e giallo. Come il sole e come il sangue. Isabel indossava un cappello a falde larghe – un acquisto del suo pomeriggio – a nascondere la corta zazzera. Lui la aspettava fumando di fronte alla finestra. Isabel temeva che si sarebbe arrabbiato per il suo ritardo. Ma…la tavola apparecchiata a terra, il quadro, la casa in ordine. Le si avvicinò senza parlare. Le tolse il cappello guardando quello che era il suo disegno che si trasformava in qualcosa di vero. Isabel abbassò la testa. Tra le mani teneva il piccolo scrigno di cedro profumato. Glielo porse. Riccardo la guardò con le lacrime agli occhi. Sapeva cosa conteneva. Aprì lo scrigno e toccò il suo contenuto con le mani. Prese Isabel accompagnandola al centro della sala. Pose lo scrigno sotto al quadro e la spogliò. La “tavola” consisteva di un legno grezzo, su cui era poggiato un piatto di carne rossa, al sugo. Piccante. la fece sedere su un cuscino. Non c’erano posate. Né piatti. Riccardo immerse le mani nel grande piatto da portate e portò alla bocca un pezzo di carne unta. Lo morse. Lo porse alla bocca di Isabel. Il sugo le cadeva sul seno e sul mento. Accennò a pulirsi, quasi istintivamente, ma lui la fermò. Tolse la mano e la ripulì leccandola. La spinse indietro , facendole perdere l’equilibrio. Le lasciò una manata di sugo sul petto , che prontamente leccò e ripulì. Isabel si ritrovò così sdraiata a pancia all’aria, il grande vassoio tra le gambe divaricate. Riccardo si mise a 4 zampe e le andò vicino, immerse la mano nella carne e nel sugo, ne prese una manciata e la mise sul suo ventre morbido, come a volerlo riempire, farcire. Poi iniziò a mangiare da li, dalla pancia di Isabel usando la sua pelle come piatto. Mordeva la carne. Alle volte era quella di manzo piccante. Altre volte invece affondava i denti in quella dolce e tenere della femmina . Leccava sugo e sudore, la lingua in fiamme dalla passione e dal peperoncino. Lei aveva gettato indietro la testa, sussultava ad ogni morso, inarcava il bacino a offrirsi. Unto e sugo sulla pancia , nell’ombelico e tutt’intorno ad esso. I segni dei morsi di Riccardo iniziavano a comparire tra le macchie di pomodoro. Lenti rivoli oleosi e arancio scuro iniziarono a colarle tra le gambe , il peperoncino lasciava scie brucianti dove la pelle era più sensibile, tra i peli della fica, nelle pieghe dell’inguine. Lui leccava, ne prendeva ancora e si serviva di nuovo di lei e di spezzatino. Poi le versò il vino , un Pignacolusa rosso e ubriacante, direttamente in bocca… ne tirava grandi sorsi direttamente dal collo della bottiglia e lo lasciava scivolare fuori dalla bocca direttamente in quella di lei. Le labbra aperte e gonfie di morsi e di baci ricevevano tutto quello che lui vi infilava dentro. Non vi era distinzione di sapori , era tutto carne e sangue, cazzo e vino, manzo e saliva. Quella notte fecero l’amore in un modo diverso: Riccardo si nutriva di Isabel. Isabel era nutrita da Riccardo. Cambiò il loro modo di pranzare e cenare: non v’erano più posate alla loro tavola, Lui intingeva le mani nel couscous, nella carne unta, spezzava il pane, raccoglieva il miele e lo portava alla bocca di lei, poi alla sua –“Leccami le dita” le diceva. Arrivò a mettere il miele sui piedi, tra le dita dei piedi e “Succhiami”, diceva. E Isabel succhiava. Isabel leccava. Isabel mordeva. Isabel apriva la bocca e aspettava come un pulcino, che le si versasse cibo, acqua, sputo, sborra. Ogni cosa venisse da lui per lei era nutrimento.
Le era piaciuto, le stava piacendo. Si era sentita davvero una donna, si era sentita davvero scopata. E aveva goduto come una cagna, come mai nella sua vita. Un orgasmo ululato al sole invece che alla luna. Urlato senza ritegno a un’alba di mezzogiorno che era sorta o risorta come una puttana fenice. Era fradicia, non si era mai bagnata così. Gli umori le colavano tra le gambe in fili vischiosi. Era indecente, spudorata. L’urina dell’uomo era calda , bollente in bocca e sul petto e aveva un sapore forte. Una notte di piscio si era bevuta. Una notte di piscio fatto di vino e pollo al curry. E lui aveva infilato la faccia sotto la sua fica mentre pure lei pisciava. Seduta sul cesso ancora assonnata. Non sapeva neanche di essere sveglia quando l'aveva visto entrare in bagno e allargarle le gambe.
“Continua a pisciare” le aveva detto.
Senza ritegno se n’era riempito le mani e la bocca. E l’aveva leccata come fanno gli animali, senza movimenti studiati. Non c’erano tecniche erotiche nei suoi gesti, solo un’istintività animalesca fuori da ogni schema. Ora stava li , sdraiata sul pavimento, con la faccia schiacciata sulle piastrelle bagnate. Lui la teneva giù e se la chiavava. E lei si lasciava chiavare. Il collo stretto dalle sue mani, la guancia sul pavimento freddo, il sole alto nel cielo.
Lui aveva cominciato a volerla in modo morboso. Ad amarla in modo morboso.
Amava il suo odore. Amava stupirsi di quanto fosse porca, sporca, puttana. E ogni volta voleva spingerla ad incarnare le sue fantasie. Quelle dei sogni ad occhi aperti. Quelle delle chiacchiere che si fanno con gli amici mezzi sbronzi. Quelle che si immaginano quando si è incazzati.
Il giorno che incominciò la loro discesa nel paradiso “diverso” di Margherita (quella del Maestro, di Bulgakov) era un pomeriggio afoso. Lui era già a casa. Aveva passato tutta la mattina con il viso nelle sue mutande, tra le pieghe delle sue gonne di carta velina. Aveva scopato i suoi abiti stesi sul letto.
Isabel era rientrata con le borse della spesa. Una camicia scollata lasciava brillare la sua pelle coperta di quel sudore che era droga. Entrata e lasciate le borse, con fare del tutto naturale, Isabel si stava spogliando. Per lui. Lo vedeva. Lo guardava. Forse si era tolta le mutandine prima di entrare, perché sotto le gonne nulla nascondeva i suoi peli neri.
Isabel amava il sesso. Lui lo sapeva e vedere quel segno rosso sulle sue reni non trovava spiegazione –ai suoi occhi- se non quella del sesso consumato. Lo aveva visto, penso Isabel, ma non si copriva. Carezzò quella lingua purpurea con le dita. Voleva sfidarlo?
Riccardo la prese per i capelli. “Troia” disse senza gridare, guardandola come se la riconoscesse, come se volesse annullarla. Isabel sorrise. Le piaceva sapere che era geloso del suo corpo. Dalla sua fica esalava il profumo della sua eccitazione. Lo conoscevano entrambi oramai. Tirandola per i capelli le fece male. La girò di schiena contro di sé. Le strinse il seno come si spreme un’arancia piena. Le faceva male. Isabel stava godendo della sua voglia. Con la cintura di cotone della gonna leggera, Riccardo le legava le mani dietro la schiena. Per Isabel era nuovo. Nuovo il suo impeto. Nuovo il gioco. Nuovo quel sentirsi presa. Come una prigioniera. Come una schiava.
“Ti piace mostrare i tuoi segni, Puta?” lo disse prendendo una cintura di cuoio “domani mostrerai questi”. Il primo colpo arrivo come un chicco di grandine al sole. La aveva colpita forte. Sulle natiche. E i colpi continuavano. Sulla schiena. Sulle gambe. Una mano tra le gambe lasciava scoprire che era bagnata. Riccardo la prese così. China sul tavolo, con le gambe larghe e i segni della cintura che le decoravano il bellissimo corpo. La prese così. Con foga, ma non con rabbia. Le tirava i capelli. Aveva voluto il culo. La sfondava, come se volesse imprimere la sua pelle su quella di lei. Poi, improvviso si staccò da lei, girandola e dandole uno schiaffo doloroso. Isabel cadde in ginocchio mentre il suo cazzo ruggiva la libidine bianca e viscosa sulle sue gote, sui capelli. Nella bocca.
Isabel piangeva. Anche Riccardo piangeva. La aiutò ad alzarsi. La slegò. Le mise la gonna larga e la camicetta, lasciandola nuda sotto le vesti, così com’era entrata. Massaggiò la sua stessa sborra sul viso di Isabel.
“Vai a comperare le sigarette”. Isabel lo guardava interrogativa, senza fiatare. “Non lavarti. Voglio che puzzi di me” era stata la risposta di lui.
Camminava per la strada sentendosi addosso i segni della cinghia. Bruciavano come lingue di fuoco. Bruciavano come le lacrime di lui , che gocciolavano come cera bollente sul suo collo. Non era stato dolce né tantomeno delicato. Era stato primordiale, animale. Ma non cattivo. Camminava come se tutti potessero sentire che puzzava di sesso e di sudore , sentendosi addosso l’odore di lui. Ma come cazzo stava, pensava tra se e se. Non si era mai lasciata usare in quel modo. Ma chi cazzo era quell’uomo che si permetteva di agire così nei suoi confronti. E perché mai lei amava così tanto stuzzicarlo, sfidarlo. Diciamoci la verità, se le andava a cercare. Eppure, anche se gli permetteva di farle, certe cose, sentiva crescere in sé un certo potere. Sentiva che aveva lei il controllo, la reazione che Riccardo aveva avuto al suo rientro dalla spesa ne era la dimostrazione. Era geloso di lei, e questo lo rendeva schiavo. Era un cane che si mordeva la coda. Lui non poteva più fare a meno di lei. Lei non poteva più fare a meno di volerne sempre di più, di quell’uomo. Avrebbe dovuto sentirsi umiliata, maltrattata e invece si sentiva appagata, si sentiva bene, si sentiva se stessa, esaltata e serena. Si sentiva ingorda, e sapeva o sperava che lui, di lei , non si sarebbe mai saziato.
- Due pacchetti di Fortuna – disse al tabaccaio. Mise i pacchetti nella borsa capiente di paglia e uscì. Invece di prendere la strada di casa, dove lui l’aspettava, s’incammino’ verso il centro. Passò così ore e ore a girovagare per le strade , persa nei suoi pensieri, come in trance. Quando decise di rientrare, erano ormai passate diverse ore e il sole era calato all’orizzonte. L’odore caldo e afoso della sera le si stava appiccicando addosso, mescolandosi all’odore dello sperma. I suoi umori si erano seccati tra le gambe. Immaginava che lui si sarebbe infuriato per il suo ritardo. Forse ne aveva paura, forse invece lo sperava. Riccardo, dopo che lei fu uscita, era rimasto fermo, immobile a guardare il tavolo. Quel tavolo dove Isabel si era lasciata violentare. Si era piegato sulle ginocchia. A terra le gocce del loro amplesso. Alcune gocce del suo sangue. Le aveva rotto il culo. Isabel si era fatta rompere il culo. Quel segno non lo avrebbero visto, né sentito, ma lui sapeva che c’era. Isabel voleva quello sperma, il suo, sul viso. Isabel voleva il suo odore. Il cazzo di Riccardo era sporco di sangue. Non si lavò. Oramai le carte si erano mischiate. Non c’era padrone, non c’era servitore. Isabel lo aveva reso schiavo, come era schiava lei. Entrambi prigionieri l’uno dell’altra. Con lui aveva scoperto la femmina che agli altri non era concesso di conoscere. Una Femmina. Una donna con le calze di seta, con la fica pelosa. Una donna che non si lasciava più scopare, perché il sesso non le bastava. Senza rientrare lei si fermò a comperare dei fiori, degli incensi e delle candele. Comperò un piccolo scrigno di cedro profumato. Andò da un parrucchiere: si fece tagliare i capelli, se li fece dare, non voleva che andassero buttati, e li mise nello scrigno. A casa Riccardo riordinò; lavò dal pavimento i segni della loro battaglia, si mise a cucinare: care rossa, al sugo, piccante. Isabel avrebbe portato il vino. Lo sapeva. Non rientrava e le sigarette le aveva già prese, di sicuro. Quando tornò, la casa profumava di ambra e di olio di lino. Riccardo aveva dipinto. Ad una parete era appeso un quadro dove Isabel si mostrava con i capelli corti, su un letto arruffato, con le gambe aperte. Era rosso e giallo. Come il sole e come il sangue. Isabel indossava un cappello a falde larghe – un acquisto del suo pomeriggio – a nascondere la corta zazzera. Lui la aspettava fumando di fronte alla finestra. Isabel temeva che si sarebbe arrabbiato per il suo ritardo. Ma…la tavola apparecchiata a terra, il quadro, la casa in ordine. Le si avvicinò senza parlare. Le tolse il cappello guardando quello che era il suo disegno che si trasformava in qualcosa di vero. Isabel abbassò la testa. Tra le mani teneva il piccolo scrigno di cedro profumato. Glielo porse. Riccardo la guardò con le lacrime agli occhi. Sapeva cosa conteneva. Aprì lo scrigno e toccò il suo contenuto con le mani. Prese Isabel accompagnandola al centro della sala. Pose lo scrigno sotto al quadro e la spogliò. La “tavola” consisteva di un legno grezzo, su cui era poggiato un piatto di carne rossa, al sugo. Piccante. la fece sedere su un cuscino. Non c’erano posate. Né piatti. Riccardo immerse le mani nel grande piatto da portate e portò alla bocca un pezzo di carne unta. Lo morse. Lo porse alla bocca di Isabel. Il sugo le cadeva sul seno e sul mento. Accennò a pulirsi, quasi istintivamente, ma lui la fermò. Tolse la mano e la ripulì leccandola. La spinse indietro , facendole perdere l’equilibrio. Le lasciò una manata di sugo sul petto , che prontamente leccò e ripulì. Isabel si ritrovò così sdraiata a pancia all’aria, il grande vassoio tra le gambe divaricate. Riccardo si mise a 4 zampe e le andò vicino, immerse la mano nella carne e nel sugo, ne prese una manciata e la mise sul suo ventre morbido, come a volerlo riempire, farcire. Poi iniziò a mangiare da li, dalla pancia di Isabel usando la sua pelle come piatto. Mordeva la carne. Alle volte era quella di manzo piccante. Altre volte invece affondava i denti in quella dolce e tenere della femmina . Leccava sugo e sudore, la lingua in fiamme dalla passione e dal peperoncino. Lei aveva gettato indietro la testa, sussultava ad ogni morso, inarcava il bacino a offrirsi. Unto e sugo sulla pancia , nell’ombelico e tutt’intorno ad esso. I segni dei morsi di Riccardo iniziavano a comparire tra le macchie di pomodoro. Lenti rivoli oleosi e arancio scuro iniziarono a colarle tra le gambe , il peperoncino lasciava scie brucianti dove la pelle era più sensibile, tra i peli della fica, nelle pieghe dell’inguine. Lui leccava, ne prendeva ancora e si serviva di nuovo di lei e di spezzatino. Poi le versò il vino , un Pignacolusa rosso e ubriacante, direttamente in bocca… ne tirava grandi sorsi direttamente dal collo della bottiglia e lo lasciava scivolare fuori dalla bocca direttamente in quella di lei. Le labbra aperte e gonfie di morsi e di baci ricevevano tutto quello che lui vi infilava dentro. Non vi era distinzione di sapori , era tutto carne e sangue, cazzo e vino, manzo e saliva. Quella notte fecero l’amore in un modo diverso: Riccardo si nutriva di Isabel. Isabel era nutrita da Riccardo. Cambiò il loro modo di pranzare e cenare: non v’erano più posate alla loro tavola, Lui intingeva le mani nel couscous, nella carne unta, spezzava il pane, raccoglieva il miele e lo portava alla bocca di lei, poi alla sua –“Leccami le dita” le diceva. Arrivò a mettere il miele sui piedi, tra le dita dei piedi e “Succhiami”, diceva. E Isabel succhiava. Isabel leccava. Isabel mordeva. Isabel apriva la bocca e aspettava come un pulcino, che le si versasse cibo, acqua, sputo, sborra. Ogni cosa venisse da lui per lei era nutrimento.
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