A come Afrore
di
KittyGirl
genere
prime esperienze
Premessa: per errore di salvataggio nel profilo risulta autore difforme ma sono sempre Mari_KittyGirl. Trovate gli altri racconti qui: (https://www.eroticiracconti.it/autori/Mari_KittyGirl)
Odore, profumo. Non pensavo ad altro. Nella mia testa non c'era nessun segnale di razionalità quando lo sentii per la prima volta. Ancora acerba, poco più che ragazzina e con un'incontenibile esuberanza che nascondevo dietro un fare compassato e contenuto. Costretto e rigido, come lo erano i dettami del collegio dove da quattro anni mi trovavo iscritta.
C'era chi giurava che fossi l'immagine speculare di mia madre, ex attrice caduta in depressione dopo quel cortometraggio finito male (ma che in realtà la cocaina aveva allontanato dal grande schermo), e tutt'ora con lei condividevo la passione per l'arte. Anche se non al punto da volerla aiutare nel curare la galleria dove da buona filantropa finanziava e lucrava il giro degli artisti locali.
Non era raro vederla accompagna a giovani ragazzi di bell'aspetto, che ingaggiati per un evento puntuale o periodi più prolungati irradiavano attorno a lei l'immagine di eclettica vanità che la contraddistingueva. Non so quanti fossero modelli, escort, o fittizziamente eterosessuali per convenienza: prima di Tomàs non avevo mai notato veramente nessuno nè provato fastidio, o gelosia, nei confronti di mia madre vicino ad un uomo di almeno dieci anni in meno.
Tomàs aveva origini francesi, carattere ispido da caparbio irlandese, e modi di fare freddi più di un russo cresciuto nella steppa. Eppure alle donne piaceva, ed io che a quella consapevolezza mi avvicinavo, non ero immune dai suoi occhi grigi e profilo incasellato tra sbarazzino e intimidatorio.
La prassi era sempre la stessa: frequentavano la nostra casa per qualche giorno prima l'evento, apprendevano modi ed etichetta qualora l'agenzia non avesse fornito loro adeguata educazione, e venivano pagati anche per dei piccoli extra. Raramente penso che mia madre si sia fermata a scopare con qualcuno di loro, il giro di amanti di cui segretamente poteva vantare bastavano ad assopire e appagare il suo libido, ma c'erano faccende domestiche. Accompagnare me al collegio o le lezioni di pianoforte era la meno tediosa vista la quantità di disguidi idraulici ed elettrici che è in grado di creare un attico parigino mal ristrutturato.
Un pò stuzzicavo Tomàs, assunto da poco, e inconsapevolmente quel gioco perverso aveva assunto la connotazione di una sfida. Ventinove anni, voce spezzata dal vizio di un fumo che provava a consumare di nascosto nel bagno, e un fisico che mi sembrava compatto, asciutto. Definito più di quello che i miei pochi conoscenti coetanei potevano vantare. Ero solita raccogliere i capelli biondi in una lunga treccia, austera, rivelando il collo debitamente sbottonato in un sommario disordine che la rettrice del collegio non avrebbe gradito dato che comportava un nodo allentato alla cravatta. Anche le calze parigine grigie le appallottolavo fino alle caviglie così da mostrare, una volta rientrata in casa, le gambe nude.
Ero certa che il mio comportamento lo infastidisse, o che a modo suo cercasse garbatamente di evitarmi senza risultare scortese o perdere l'impiego a fatica conquistato per una delle maggiori filantrope dell'arte contemporanea parigina: mia madre.
L'ennesima serata segnata dal contrattempo lavorativo aveva segnato la noia e l'attesa, scandendo le ore di una cena che Tomàs suo malgrado aveva dovuto ordinare e mettere nel piatto anche a me, subendo con poco piacere il ruolo di "balia" e cercando manovre evasive per potersi sottrarre alle ore successive.
Io all'opposto avevo le idee chiare: volevo conoscere. Volevo essere guardata da quegli occhi grigi che a tratti sembravano pozze scure e vitree. Forse anche solo desiderata da qualcuno che non fosse un ragazzino impacciato che dopo due baci si bagnava i pantaloni e correva balbettante a scusarsi.
Declinai la cena, con sorpresa di Tomàs che pronto ad imbeccarmi ottenne solo una lapidaria risposta assieme ad un broncio irriverente . L'evergreen di ogni ragazzina, e che avevo imparato usare come carta vincente non solo quando volevo evitare le tediose ore di educazione fisica.
Incartato dalle sue stesse obiezioni mi indicò il lato notte della stanza pronto al congedo e professando un sommario dispiacere circostanziale. Ammetto che provavo tenerezza per i suoi modi un pò spigolosi, poco attenti alla dolcezza femminile: doveva essere uno di quelli che nemmeno sapeva baciare per davvero ma si limitava a mordere, cercare spazio, agonizzare e affannarsi tra saliva e respiro altrui come fosse una guerra quella del sesso in cui l'importante era prevaricare.
E poi che ne sapevo io di quelle sensazioni? Lette in romanzi rosa rubati a mia madre, sentite raccontate da amiche che erano più aride del terreno desertificato, e con le pulsioni di una donna che si preparava a voler conoscere il proprio corpo.
Mi sbilanciai verso la camera da letto cercandone il volto e domandando a lui a che ora sarebbe tornato l'indomani. La vicinanza era lampante e provavo ad accentuarla evitando di spostarmi realmente verso la mia stanza restando con i palmi piantonati sul mobiletto che dava sul soggiorno e per lo più la schiena rivolta a lui. L'inclinazione vorrei dire che non fosse studiata ad arte ma la malizia arriva dopo pochi anni e diventa arma quando si ha coscienza del proprio corpo e l'effetto che provoca.
sbrigativo, perentorio, pronto ad avvicinarsi per quel buffetto che doveva solo sbilanciarci e spingermi malamente -o con fare di scherzo- verso la zona notte.
Invece mi impuntai e mostrando più forza di quanto il gesto poco convinto di lui potesse tradire rimasi con lo sguardo assottigliato sul soggiorno a cozzare il fianco contro quello di Tòmas. La gonna della divisa plissettata si piegava al movimento blando del bacino risalendo di poco e poi tornava mollemente contro il fianco. Nel voltare il capo avevo lasciato ricadere la treccia bionda su un lato e puntavo gli occhi azzurri a cercare i suoi grigi.
la sfrontatezza non mi mancava. E quel nomignolo per sfregio glielo avevo già affibbiato altre volte. Magari anche per gelosia. Non tardò ad arrivare la risposta del suo polso richiuso contro al mio quanto il corpo serrato pronto a premersi in un viscerale e iniziale bisogno di prevaricazione. Prepotenza: maschile. Cazzo se non la conoscevo. La voce si alzava e con essa una forma fisica di imposizione che non mi dispiaceva essendo cresciuta con solo mia madre accanto e religiose ad educarmi.
Ansimai e incassai il gesto di lui, cercandone con la coda dell'occhio il volto affinchè comprendesse quanto non mi stava ferendo ma solo aizzando. Non si sentisse scoraggiato.
insolenza allo stato puro che non permetteva all'uomo di terminare la frase e a cui Tomàs risposte premendo la sezione pelvica contro i miei glutei. Sicuramente voleva solo stringermi contro il mobile e creare una forma di costrizione fisica e dolore, ma l'effetto fu ben diverso dato che il moto ascendente aveva ormai creato una certa aderenza tra i miei glutei e quella che indovinavo essere la sua erezione.
Ansimavo, sapevo che si tratteneva a fatica dal farlo anche lui. Stringeva il mio polso, lo staccava dal mobile e incauto spostava chiedendo implicitamente a me quella ribellione o concessione che potesse salvarlo dal baratro. O condannarlo.
Io accompagnai l'arto fino al mio collo e poi aspettando la sua resa cercai le dita per avvicinarle alla giuntura dello stesso così che potesse serrarsi e chiudere ogni via di afflusso sanguigno e respiratorio. Intanto i piccoli movimenti di bacino provavo a farli sentire, sul suo sesso sempre più ricettivo e gonfio.
Sapete? Ne avevo visto giusto un paio ed erano sgradevoli. Forse perchè uno eretto a metà e l'altro poco proporzionato. Ma questo sapevo che doveva essere spesso, nodoso, così duro da potersi imporre nella carne e scivolare dentro a questa dettando nuovi spazi. Mettendo a dura prova quei muscolitti vaginali che nelle mie sessioni di masturbazione con poca soddisfazione avevo sollecitato.
Volevo un cazzo. O almeno vedere e capire come era rapportarcimi da vicino.
la tenerezza di nuovo affiorava, perchè Tomàs con almeno dodici anni più di me si sentiva vittima e aumentando la stretta sul collo smetteva di sfregare la patta gonfia dei pantaloni deciso ad alleviare quella morsa liberando il proprio membro. Non provava a portarlo contro di me e la cosa mi sembrò assurda o buffa. Si masturbava stringendomi il collo e serrandosi al mio corpo che esigeva ben altre attenzioni dell'asfissia erotica (per altro abbozzata solo per gioco). Quindi provai ad aumentare i movimenti del bacino cercando quell'aderenza di glutei che l'altro faceva mancare e ansando, con una dose non indifferente di recitazione, sfiatai un secondo me corrosivo .
SAPORE!
E me ne ricordai praticamente una frazione di secondo dopo che avevo sbagliato l'aggettivo. Quello di cui ogni donna parlava, amica o persona che potesse vantare la benchè minima esperienza. Il sapore un pò amarognolo e salato. Quella cascata di liquido viscoso e denso che bianco non era nemmeno lattigginoso da essere squisito e prelibato ma "ai maschi piaceva se lo tenevi in bocca, mostravi e poi inghiottivi". Tutta teoria, capiamoci. Volevo diventasse pratica per avere di più da raccontare, capire. E... e vado a sbagliare il termine.
E non ho nemmeno il pudore di correggermi sperando che lui capisca, o intuisca. I dodici anni in più dovrebbero dargli una certa esperienza che non sia solo quella serie di contrazioni alla gola. Stringe, a tratti il fiato manca e subentra una voragine che mi fa barcollare e perdere l'equilibrio. E' paura. Il cuore batte a mille ....
forse gli ho fatto capire che mi piace non respire e mi ammazza. Eppure non ho tempo di dirgli l'opposto che riprende a serrare le sue falangi sulla mia gola. Stringe, allenta. Io boccheggio.
Entra in circolo euforia, paura. Di nuovo calore e costrizione contro un mobile che non credo di aver mai odiato tanto, nemmeno quando mi costò contro al mignolo lo spigolo. Mi ero messa in un guaio più grande di me e non lo capivo.
Da sfregamento il calore diventò intrusione, lungo il solco delle grandi labbra fino al clitoride. Caldo, ampio. Non potevo capire come fosse diventato grande ma speravo che ad ogni affondo non avrebbe cercato il mio di sesso: poteva ... squarciarmi? Si, l'idea delle dimensioni viene meno in quei contesti ma la paura era reale.
Oramai era carne contro carne, non di rado il clitoride era toccato dal suo glande e nell'aria oltre che un rumore umido e volgare si diffondeva quel suono rotto dei nostri respiri. Il suo dall'eccitazione, il mio da qualcosa che doveva essere confuso e braccato.
Sapete che fanno gli animali quando sono prede: sperano di morire in fretta e senza soffrire. Io mi domandavo se quello stupro mi avrebbe fatta piangere dilaniandomi in un dolore senza consolazione o ci avrei trovato quel vago retrogusto piacevole che infondo faceva ogni donna -e amica- raccontare il tutto diversamente.
Gemevo per compiacere ma non provavo ancora piacere. Poi la bocca di Tomàs arrivò sul collo e le sue strette giugurali diminuirono. Sentii la sensazione del morso e di nuovo altri affondi sempre vicini al mio sesso e mai completi.
Poi non so se Freud abbia dato un nome al tutto, so che era fissato con le cose anali e quindi non deve aver badato troppo alle esigenze femminili quanto più alla sodomia... però iniziò a diventare prurito quel calore. E poi fastidio, e ancora dopo torpore. Leggero, lieve, sottopelle. Animava le terminazioni capillari e sobillava un fuoco liquido pronto ad esplodere.
La mano di Tomàs che aveva abbandonato la gola scese verso il clitoride, iniziando a sollecitarlo mentre il membro orai saturo di desiderio cozzava con più frequenza verso l'imboccatura del mio sesso che altrove. In due occasioni cercò intrusione col glande, parzialmente ostruito solo dalla presenza dell'intimo, umido e incollato alla pelle. Al terzo tentativo sentii nitidamente la parte inziale del suo sesso possedermi e l'ansato di piacere fu cristallino e chiaro, ben diverso dal verso gutturale di lui.
Gli bastava poco, tra gli umori colanti di entrambi, dove schizzare il proprio piacere in fiotti irregolari e stringermi da dietro un'ultima volta. Combattuto, come un animale ferito. Sputando più saliva che fiato sulla mia spalla quando cercava di voltarmi e sostenermi perchè anche se non vittima dell'orgasmo come lui fin troppo confusa e frastornata.
Il suo sguardo era pesante, scuro, non sembrava nemmeno grigio. La carezza e l'abbraccio irrisori, perchè mi accompagnò solo a sedere su quel mobiletto che mi aveva sostenuta e poi avvicinò il membro ancora sporco di un liquido biancastro.
Muschiato, pregante. Ancora le venatura ne definivano l'asta e sul glande violaceo e scuro era impressa l'eccitazione provata. Frenulo e uretra mostravano i segni più copiosi dello sperma rimasto e avvicinandolo alla mia bocca e guancia mi invitava ad assaggiarlo. Era quello che avevo chiesto alla fine, anche se per errore.
Portai la lingua a raccogliere quelle gocce biancastre, poi con titubanza afferrai l'asta e ripresi caricandomi dell'effetto erotico che sembrava legare ora Tomàs al mio volere.
Parti invertite? Un pò mi ci illudevo.
Altri colpi di serpentina che scavava sul profilo del glande per ripulirlo meglio, scendendo verso la base dell'asta e i testicoli nonostante gli inviti dell'uomo fossero sempre riguardo quella strana richiesta di "guardarlo negli occhi mentre lo facevo".
Non avevo goduto, non sapevo nemmeno se quel sapore mi piaceva per davvero ma ora sapevo che odore aveva il sesso.
E beh, mi piaceva.
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Se interessati, per qualche chiacchiera sull'argomento eros e dintorni consiglio:
https://disqus.com/home/channel/ilbardellerotismo/
Odore, profumo. Non pensavo ad altro. Nella mia testa non c'era nessun segnale di razionalità quando lo sentii per la prima volta. Ancora acerba, poco più che ragazzina e con un'incontenibile esuberanza che nascondevo dietro un fare compassato e contenuto. Costretto e rigido, come lo erano i dettami del collegio dove da quattro anni mi trovavo iscritta.
C'era chi giurava che fossi l'immagine speculare di mia madre, ex attrice caduta in depressione dopo quel cortometraggio finito male (ma che in realtà la cocaina aveva allontanato dal grande schermo), e tutt'ora con lei condividevo la passione per l'arte. Anche se non al punto da volerla aiutare nel curare la galleria dove da buona filantropa finanziava e lucrava il giro degli artisti locali.
Non era raro vederla accompagna a giovani ragazzi di bell'aspetto, che ingaggiati per un evento puntuale o periodi più prolungati irradiavano attorno a lei l'immagine di eclettica vanità che la contraddistingueva. Non so quanti fossero modelli, escort, o fittizziamente eterosessuali per convenienza: prima di Tomàs non avevo mai notato veramente nessuno nè provato fastidio, o gelosia, nei confronti di mia madre vicino ad un uomo di almeno dieci anni in meno.
Tomàs aveva origini francesi, carattere ispido da caparbio irlandese, e modi di fare freddi più di un russo cresciuto nella steppa. Eppure alle donne piaceva, ed io che a quella consapevolezza mi avvicinavo, non ero immune dai suoi occhi grigi e profilo incasellato tra sbarazzino e intimidatorio.
La prassi era sempre la stessa: frequentavano la nostra casa per qualche giorno prima l'evento, apprendevano modi ed etichetta qualora l'agenzia non avesse fornito loro adeguata educazione, e venivano pagati anche per dei piccoli extra. Raramente penso che mia madre si sia fermata a scopare con qualcuno di loro, il giro di amanti di cui segretamente poteva vantare bastavano ad assopire e appagare il suo libido, ma c'erano faccende domestiche. Accompagnare me al collegio o le lezioni di pianoforte era la meno tediosa vista la quantità di disguidi idraulici ed elettrici che è in grado di creare un attico parigino mal ristrutturato.
Un pò stuzzicavo Tomàs, assunto da poco, e inconsapevolmente quel gioco perverso aveva assunto la connotazione di una sfida. Ventinove anni, voce spezzata dal vizio di un fumo che provava a consumare di nascosto nel bagno, e un fisico che mi sembrava compatto, asciutto. Definito più di quello che i miei pochi conoscenti coetanei potevano vantare. Ero solita raccogliere i capelli biondi in una lunga treccia, austera, rivelando il collo debitamente sbottonato in un sommario disordine che la rettrice del collegio non avrebbe gradito dato che comportava un nodo allentato alla cravatta. Anche le calze parigine grigie le appallottolavo fino alle caviglie così da mostrare, una volta rientrata in casa, le gambe nude.
Ero certa che il mio comportamento lo infastidisse, o che a modo suo cercasse garbatamente di evitarmi senza risultare scortese o perdere l'impiego a fatica conquistato per una delle maggiori filantrope dell'arte contemporanea parigina: mia madre.
L'ennesima serata segnata dal contrattempo lavorativo aveva segnato la noia e l'attesa, scandendo le ore di una cena che Tomàs suo malgrado aveva dovuto ordinare e mettere nel piatto anche a me, subendo con poco piacere il ruolo di "balia" e cercando manovre evasive per potersi sottrarre alle ore successive.
Io all'opposto avevo le idee chiare: volevo conoscere. Volevo essere guardata da quegli occhi grigi che a tratti sembravano pozze scure e vitree. Forse anche solo desiderata da qualcuno che non fosse un ragazzino impacciato che dopo due baci si bagnava i pantaloni e correva balbettante a scusarsi.
Declinai la cena, con sorpresa di Tomàs che pronto ad imbeccarmi ottenne solo una lapidaria risposta assieme ad un broncio irriverente . L'evergreen di ogni ragazzina, e che avevo imparato usare come carta vincente non solo quando volevo evitare le tediose ore di educazione fisica.
Incartato dalle sue stesse obiezioni mi indicò il lato notte della stanza pronto al congedo e professando un sommario dispiacere circostanziale. Ammetto che provavo tenerezza per i suoi modi un pò spigolosi, poco attenti alla dolcezza femminile: doveva essere uno di quelli che nemmeno sapeva baciare per davvero ma si limitava a mordere, cercare spazio, agonizzare e affannarsi tra saliva e respiro altrui come fosse una guerra quella del sesso in cui l'importante era prevaricare.
E poi che ne sapevo io di quelle sensazioni? Lette in romanzi rosa rubati a mia madre, sentite raccontate da amiche che erano più aride del terreno desertificato, e con le pulsioni di una donna che si preparava a voler conoscere il proprio corpo.
Mi sbilanciai verso la camera da letto cercandone il volto e domandando a lui a che ora sarebbe tornato l'indomani. La vicinanza era lampante e provavo ad accentuarla evitando di spostarmi realmente verso la mia stanza restando con i palmi piantonati sul mobiletto che dava sul soggiorno e per lo più la schiena rivolta a lui. L'inclinazione vorrei dire che non fosse studiata ad arte ma la malizia arriva dopo pochi anni e diventa arma quando si ha coscienza del proprio corpo e l'effetto che provoca.
sbrigativo, perentorio, pronto ad avvicinarsi per quel buffetto che doveva solo sbilanciarci e spingermi malamente -o con fare di scherzo- verso la zona notte.
Invece mi impuntai e mostrando più forza di quanto il gesto poco convinto di lui potesse tradire rimasi con lo sguardo assottigliato sul soggiorno a cozzare il fianco contro quello di Tòmas. La gonna della divisa plissettata si piegava al movimento blando del bacino risalendo di poco e poi tornava mollemente contro il fianco. Nel voltare il capo avevo lasciato ricadere la treccia bionda su un lato e puntavo gli occhi azzurri a cercare i suoi grigi.
la sfrontatezza non mi mancava. E quel nomignolo per sfregio glielo avevo già affibbiato altre volte. Magari anche per gelosia. Non tardò ad arrivare la risposta del suo polso richiuso contro al mio quanto il corpo serrato pronto a premersi in un viscerale e iniziale bisogno di prevaricazione. Prepotenza: maschile. Cazzo se non la conoscevo. La voce si alzava e con essa una forma fisica di imposizione che non mi dispiaceva essendo cresciuta con solo mia madre accanto e religiose ad educarmi.
Ansimai e incassai il gesto di lui, cercandone con la coda dell'occhio il volto affinchè comprendesse quanto non mi stava ferendo ma solo aizzando. Non si sentisse scoraggiato.
insolenza allo stato puro che non permetteva all'uomo di terminare la frase e a cui Tomàs risposte premendo la sezione pelvica contro i miei glutei. Sicuramente voleva solo stringermi contro il mobile e creare una forma di costrizione fisica e dolore, ma l'effetto fu ben diverso dato che il moto ascendente aveva ormai creato una certa aderenza tra i miei glutei e quella che indovinavo essere la sua erezione.
Ansimavo, sapevo che si tratteneva a fatica dal farlo anche lui. Stringeva il mio polso, lo staccava dal mobile e incauto spostava chiedendo implicitamente a me quella ribellione o concessione che potesse salvarlo dal baratro. O condannarlo.
Io accompagnai l'arto fino al mio collo e poi aspettando la sua resa cercai le dita per avvicinarle alla giuntura dello stesso così che potesse serrarsi e chiudere ogni via di afflusso sanguigno e respiratorio. Intanto i piccoli movimenti di bacino provavo a farli sentire, sul suo sesso sempre più ricettivo e gonfio.
Sapete? Ne avevo visto giusto un paio ed erano sgradevoli. Forse perchè uno eretto a metà e l'altro poco proporzionato. Ma questo sapevo che doveva essere spesso, nodoso, così duro da potersi imporre nella carne e scivolare dentro a questa dettando nuovi spazi. Mettendo a dura prova quei muscolitti vaginali che nelle mie sessioni di masturbazione con poca soddisfazione avevo sollecitato.
Volevo un cazzo. O almeno vedere e capire come era rapportarcimi da vicino.
la tenerezza di nuovo affiorava, perchè Tomàs con almeno dodici anni più di me si sentiva vittima e aumentando la stretta sul collo smetteva di sfregare la patta gonfia dei pantaloni deciso ad alleviare quella morsa liberando il proprio membro. Non provava a portarlo contro di me e la cosa mi sembrò assurda o buffa. Si masturbava stringendomi il collo e serrandosi al mio corpo che esigeva ben altre attenzioni dell'asfissia erotica (per altro abbozzata solo per gioco). Quindi provai ad aumentare i movimenti del bacino cercando quell'aderenza di glutei che l'altro faceva mancare e ansando, con una dose non indifferente di recitazione, sfiatai un secondo me corrosivo .
SAPORE!
E me ne ricordai praticamente una frazione di secondo dopo che avevo sbagliato l'aggettivo. Quello di cui ogni donna parlava, amica o persona che potesse vantare la benchè minima esperienza. Il sapore un pò amarognolo e salato. Quella cascata di liquido viscoso e denso che bianco non era nemmeno lattigginoso da essere squisito e prelibato ma "ai maschi piaceva se lo tenevi in bocca, mostravi e poi inghiottivi". Tutta teoria, capiamoci. Volevo diventasse pratica per avere di più da raccontare, capire. E... e vado a sbagliare il termine.
E non ho nemmeno il pudore di correggermi sperando che lui capisca, o intuisca. I dodici anni in più dovrebbero dargli una certa esperienza che non sia solo quella serie di contrazioni alla gola. Stringe, a tratti il fiato manca e subentra una voragine che mi fa barcollare e perdere l'equilibrio. E' paura. Il cuore batte a mille ....
forse gli ho fatto capire che mi piace non respire e mi ammazza. Eppure non ho tempo di dirgli l'opposto che riprende a serrare le sue falangi sulla mia gola. Stringe, allenta. Io boccheggio.
Entra in circolo euforia, paura. Di nuovo calore e costrizione contro un mobile che non credo di aver mai odiato tanto, nemmeno quando mi costò contro al mignolo lo spigolo. Mi ero messa in un guaio più grande di me e non lo capivo.
Da sfregamento il calore diventò intrusione, lungo il solco delle grandi labbra fino al clitoride. Caldo, ampio. Non potevo capire come fosse diventato grande ma speravo che ad ogni affondo non avrebbe cercato il mio di sesso: poteva ... squarciarmi? Si, l'idea delle dimensioni viene meno in quei contesti ma la paura era reale.
Oramai era carne contro carne, non di rado il clitoride era toccato dal suo glande e nell'aria oltre che un rumore umido e volgare si diffondeva quel suono rotto dei nostri respiri. Il suo dall'eccitazione, il mio da qualcosa che doveva essere confuso e braccato.
Sapete che fanno gli animali quando sono prede: sperano di morire in fretta e senza soffrire. Io mi domandavo se quello stupro mi avrebbe fatta piangere dilaniandomi in un dolore senza consolazione o ci avrei trovato quel vago retrogusto piacevole che infondo faceva ogni donna -e amica- raccontare il tutto diversamente.
Gemevo per compiacere ma non provavo ancora piacere. Poi la bocca di Tomàs arrivò sul collo e le sue strette giugurali diminuirono. Sentii la sensazione del morso e di nuovo altri affondi sempre vicini al mio sesso e mai completi.
Poi non so se Freud abbia dato un nome al tutto, so che era fissato con le cose anali e quindi non deve aver badato troppo alle esigenze femminili quanto più alla sodomia... però iniziò a diventare prurito quel calore. E poi fastidio, e ancora dopo torpore. Leggero, lieve, sottopelle. Animava le terminazioni capillari e sobillava un fuoco liquido pronto ad esplodere.
La mano di Tomàs che aveva abbandonato la gola scese verso il clitoride, iniziando a sollecitarlo mentre il membro orai saturo di desiderio cozzava con più frequenza verso l'imboccatura del mio sesso che altrove. In due occasioni cercò intrusione col glande, parzialmente ostruito solo dalla presenza dell'intimo, umido e incollato alla pelle. Al terzo tentativo sentii nitidamente la parte inziale del suo sesso possedermi e l'ansato di piacere fu cristallino e chiaro, ben diverso dal verso gutturale di lui.
Gli bastava poco, tra gli umori colanti di entrambi, dove schizzare il proprio piacere in fiotti irregolari e stringermi da dietro un'ultima volta. Combattuto, come un animale ferito. Sputando più saliva che fiato sulla mia spalla quando cercava di voltarmi e sostenermi perchè anche se non vittima dell'orgasmo come lui fin troppo confusa e frastornata.
Il suo sguardo era pesante, scuro, non sembrava nemmeno grigio. La carezza e l'abbraccio irrisori, perchè mi accompagnò solo a sedere su quel mobiletto che mi aveva sostenuta e poi avvicinò il membro ancora sporco di un liquido biancastro.
Muschiato, pregante. Ancora le venatura ne definivano l'asta e sul glande violaceo e scuro era impressa l'eccitazione provata. Frenulo e uretra mostravano i segni più copiosi dello sperma rimasto e avvicinandolo alla mia bocca e guancia mi invitava ad assaggiarlo. Era quello che avevo chiesto alla fine, anche se per errore.
Portai la lingua a raccogliere quelle gocce biancastre, poi con titubanza afferrai l'asta e ripresi caricandomi dell'effetto erotico che sembrava legare ora Tomàs al mio volere.
Parti invertite? Un pò mi ci illudevo.
Altri colpi di serpentina che scavava sul profilo del glande per ripulirlo meglio, scendendo verso la base dell'asta e i testicoli nonostante gli inviti dell'uomo fossero sempre riguardo quella strana richiesta di "guardarlo negli occhi mentre lo facevo".
Non avevo goduto, non sapevo nemmeno se quel sapore mi piaceva per davvero ma ora sapevo che odore aveva il sesso.
E beh, mi piaceva.
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Se interessati, per qualche chiacchiera sull'argomento eros e dintorni consiglio:
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