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IN TRENO
Marisa, appoggiata con i gomiti sul tavolinetto divisorio, abbandonò la lettura del libro e si volse verso il finestrino guardando il paesaggio scorrere veloce. Erano saliti a Roma Termini alle 18,45 e sarebbero arrivati a Venezia alle 22,35 dove avrebbero passato il week-end a casa della madre.
Un diversivo, rispetto al tran-tran dei week-end degli ultimi mesi fatti di riordino della casa e una raffica di partite di calcio alla televisione, una delle due passioni di suo marito: sperava proprio che il ritorno nella città dove era nata potesse avere un effetto benefico sul suo umore.
Al di là del tavolinetto, il marito era immerso nella sua seconda passione: la lettura dell’amato “Sole 24 ore” e lo studio sistematico delle quotazioni di Borsa.
Marisa continuava a fissare il paesaggio che però nella luce crepuscolare uniforme di quell’uggiosa giornata le risultava essere angosciosamente simile al suo stato d’animo: triste, grigio e monotono.
Ancora una volta si chiese per quale ragione non riuscisse a scrollarsi di dosso quella sensazione di angoscia, a volte persino fisicamente dolorosa, che ormai sempre più spesso l’attagliava e diventava padrona dei suoi pensieri e delle sue giornate.
A 47 anni era ancora quella che si definisce “una donna piacente (magari con due o tre chili di troppo, soprattutto nella parte bassa); era molto stimata nel suo ruolo di dirigente di un Ufficio Postale; avevano qualche coppia di amici con i quali andavano a teatro (soprattutto all’opera, la sua passione) o passavano piacevoli serate al ristorante; i loro due figli maschi, ormai economicamente indipendenti, erano andati a vivere per conto loro ma li vedeva spesso giacché condividevano la passione del padre per il calcio. E allora…..
Allora, sapeva esattamente da dove veniva quell’angoscia anche se si rifiutava ostinatamente di ammetterlo: la sessualità era uscita dalla sua vita e non vi sarebbe più tornata.
Quella rinnovata consapevolezza le produsse una fitta dolorosa al basso ventre. Non ricordava più quando era stata l’ultima volta che aveva fatto all’amore con suo marito (mesi, anni?): non che fosse mai stata una cosa memorabile, ma comunque quel rapporto le dava la sensazione che ci fosse ancora un legame tra loro, che facessero ancora parte ognuno della vita dell’altro. Ma tutto questo era andato progressivamente sbiadendo nel corso degli anni e ormai aveva lasciato un vuoto incolmabile e doloroso.
Eppure, in occasione delle quotidiane docce, guardandosi allo specchio non poteva non riconoscere quanto il suo corpo fosse ancora desiderabile con il seno generoso e ancora sodo, con il ventre con un minimo di pancetta, con le cosce e il sedere (con i famosi due o tre chili di troppo) torniti e ben delineati quasi privi di smagliature, ma soprattutto con il pube prominente ricoperto di una peluria fitta e riccioluta che le arrivava fino all’ano e di cui era sempre stata particolarmente orgogliosa.
Quel corpo lei lo amava, da sempre lo accudiva e lo accarezzava, anche quando i rapporti con il marito avevano una soddisfacente regolarità; quando cominciarono a venire meno fino ad annullarsi del tutto, era ricorsa alla masturbazione, prima con le dita sfregandole sul clitoride e immergendole nella vagina, poi sfregando parossisticamente la fica sull’angolo del tavolo in cucina, infine introducendo nella vagina ogni sorta di ortaggi: col tempo anche l’ano era entrato a far parte del suo universo erotico fino ad acquisire una posizione di rilevanza. Però queste pratiche la lasciavano fisicamente stremata ma psicologicamente insoddisfatta: quello che le mancava era il rapporto con un partner, la possibilità di offrire il suo corpo ad un'altra persona che fosse in grado di goderne, il contatto con la carne viva e palpitante. Eppure non aveva mai avuto un’amante, malgrado fosse perfettamente cosciente delle occhiate insistite dei colleghi o dei clienti che si focalizzavano sul seno e sul sedere quando si aggirava nell’Ufficio Postale.
Il rumore dei freni e il conseguente rallentamento del treno, riscossero Marisa dai suoi pensieri.
Stavano entrando nella stazione di Firenze.
Marisa riprese in mano il libro accoccolandosi in fondo al sedile appoggiando le spalle al finestrino e riprese la poco stimolante lettura.
Improvvisamente si aprì la porta scorrevole dello scompartimento ed entrò un uomo che depositò un borsone sulla mensola portabagagli.
“Buonasera” disse con voce roca e stridula insieme lo sconosciuto.
“Buonasera” rispose Marisa, sollevando gli occhi dal libro. Il marito non si degnò di rispondere immerso com’era nel suo mondo di quotazioni di Borsa.
Lo sconosciuto si sedette in fondo al sedile dal lato del marito poggiando la ventiquattrore accanto a sé, e anche lui aprì un quotidiano. Marisa lo osservò. Vestito confezionato “Fumo di Londra” un po’ stazzonato, calzini corti a righe multicolori ormai senza più elastico ammucchiati sopra alla caviglia, incredibili scarpe a punta verde vescica, cravatta fondo fucsia con stampate carte da poker. Sotto la camicia (il cui colletto doveva aver visto tempi migliori), un ventre prominente teneva tirati allo spasimo i bottoni sotto i quali si intravvedeva la canottiera. Un viso largo, vagamente porcino era incorniciato da una capigliatura folta e disordinata dove ormai affioravano vaste zone di grigio.
Marisa provò un senso di disgusto: eppure quell’insieme aveva qualcosa di così animalesco da risultare, sia pure negativamente, in qualche modo affascinante.
Marisa continuò a fissarlo mentre leggeva il giornale: ma a un certo punto, irresistibilmente ma con sua grande vergogna, il suo sguardo fu attratto dalla voluminosa protuberanza che svettava tra le gambe dello sconosciuto. Non le era mai successo di guardare con insistenza le parti intime, sia pure nascoste, di un uomo e di provare ad immaginare come fosse quello che i pantaloni nascondevano. Ne fu sconvolta, anche perché avvertiva che la cosa la eccitava: sentiva infatti che le cosce, inavvertitamente, avevano cominciato a strusciare l’una con l’altra.
Improvvisamente lo sconosciuto alzò lo sguardo dal giornale: per un attimo i loro occhi si incrociarono, ma Marisa li riabbassò immediatamente sul libro. Non poté impedire che un intenso rossore si diffondesse sulle sue guance: lo sconosciuto aveva intuito dove stava guardando?
Pur continuando a leggere il giornale, come a volerle dare una risposta all’angosciosa domanda, la mano dello sconosciuto si abbassò sui pantaloni e cominciò ad scorrere su e giù lungo l’asta.
Marisa provò a riprendere la lettura: ma era come se la sua mente si rifiutasse di assegnare un significato alle parole che scorrevano sotto i suoi occhi, concentrata su immagini diverse che stavano facendo riaffiorare la sua frustrata lussuria.
Esasperata, decise di porre termine a quella finzione e rialzò lo sguardo: come rispondendo a un richiamo anche lo sguardo dello sconosciuto salì oltre il giornale e puntò su quello di Marisa.
In quello sguardo Marisa lesse lussuria, strafottenza, cinismo, che si materializzarono in una smorfia che voleva essere una sorta di incoraggiante sorriso.
Il suo sguardo invece, inequivocabilmente, si appuntò sul movimento della mano che, a quel punto, divenne più consapevole mimando quasi una masturbazione: la mano saliva e scendeva lungo l’asta, stringeva il membro perché lei potesse apprezzarne la lunghezza e la grossezza. Questi movimenti avevano un effetto quasi ipnotico su Marisa incapace di distogliere lo sguardo mentre sentiva crescere l’eccitazione in maniera esponenziale.
Le cosce della donna ormai vivevano di vita propria strusciando in modo parossistico mentre con una mano aggrappata all’orlo della gonna cercava disperatamente di non farla sollevare: intanto la vagina cominciava a secernere goccioline di liquido.
Lo sconosciuto sistemò la ventiquattrore al suo fianco e con la mano destra sostenne il giornale in modo da impedire la visione al marito di Marisa: non che fosse necessario, dal momento che non aveva alzato gli occhi dal giornale. L’altra mano cominciò a sbottonare la patta.
Le labbra di Marisa cominciarono a tremare; tirò fuori la lingua passandosela sulle labbra, sfiorò il seno sentendo i capezzoli allungati e irrigiditi: il ventre le comunicava fitte ma anche ondate di calore, il respiro era diventato accelerato e affannoso.
Quando lo sconosciuto estrasse dalla patta il cazzo e i testicoli, Marisa chiuse un attimo le palpebre: sentiva che cominciava a non avere più il controllo di se stessa e delle sue reazioni. Poi riaprì gli occhi e fissò sconvolta quel cazzo gonfio, circondato da una fitta rete di vene pulsanti e sormontato da una cappella lucida e violacea: le pupille le si dilatarono, la bocca si aprì per lo sgomento, quasi ad emettere un urlo liberatorio che, fortunatamente, le rimase in gola. I loro occhi ormai non si abbandonavano più e gli sguardi che lanciavano, carichi di incontrollata libidine, non facevano che accrescere in modo spasmodico le reciproche eccitazioni.
Quelle fantasie, quel desiderio sessuale così a lungo coccolato e così ferocemente frustrato chiedeva uno sfogo e stava portando la mente di Marisa al di là di qualsiasi freno inibitore: pur oppressa dalla vergogna, non poteva non avvertire la vagina ormai completamente fradicia e i suoi umori che, trapassate le mutande, bagnavano il tessuto della gonna e il sedile.
Si tolse lentamente i mocassini e, appoggiandosi al finestrino, distese le gambe sul sedile.
Attraverso il vetro, la temperatura esterna, molto più fredda di quella del suo corpo accaldato, le produsse un brivido incontrollato che dalla schiena folgorò ogni recesso del suo corpo facendola tremare.
Intanto, lo sconosciuto si stava apertamente masturbando alternando un ritmo di su e giù a più blandi movimenti rotatori della mano.
Marisa, irretita da quella masturbazione, diventata ormai il fulcro della sua vita psichica, sollevò un ginocchio dal sedile in modo che, aprendosi la gonna plissettata, lo sguardo dello sconosciuto fosse libero di spaziare sotto di essa¸ di risalire lungo la gamba e le cosce leggermente scostate, fino alle mutande che, fradice, erano diventate trasparenti lasciando intuire la peluria al di sotto.
Lo sconosciuto parve apprezzare la visione e il ritmo della masturbazione accelerò improvvisamente.
Marisa fece scorrere una mano sul seno cominciando a grattare e a pizzicare i capezzoli, stringendoli e strizzandoli tra pollice e indice: ormai respirava affannosamente con la bocca semi spalancata. L’altra mano scese al di sotto della gonna, stringendo le cosce, lasciando un’impronta rosata sul loro biancore; poi, improvvisamente, si inserì sotto l’elastico delle mutande scostandole e offrendo allo sconosciuto la visione della sua figa madida di umori, con l’imene pulsante che apriva e chiudeva le labbra della vulva e in cima il clitoride dilatato e paonazzo: poi si immerse tre dita nella vagina.
In virtù della tensione accumulata, bastarono pochi affondi perché Marisa, inarcando la schiena e lanciando un muto urlo a bocca spalancata, eiaculasse con un piccolo spruzzo: poi, stremata, si accasciò sul sedile, continuando a tremare con tutto il corpo.
Con perfetto sincronismo, un’abbondante fuoriuscita di sperma cominciò a colare dal meato lungo l’asta, sulla mano, fino a raggiungere i testicoli dello sconosciuto che emise persino un rantolo che sembrava più il grugnito di un porco, ma che si affrettò a mascherare con ripetuti colpi di tosse.
“Trenitalia informa i signori viaggiatori che il servizio di ristorazione è aperto e si svolge nel vagone ristorante”
Come fosse suonata la sveglia in una caserma, cominciò un disordinato via vai lungo il corridoio della carrozza. Persino il marito di Marisa rialzò la testa e lo sguardo che da due ore teneva pervicacemente incollato al “Sole 24 ore” e alle tabelle titoli e obbligazioni: si guardò intorno con occhi stralunati, come se si svegliasse da un lungo letargo, diede uno sguardo alla moglie, ancora distesa sul sedile ad occhi chiusi, ripiegò il giornale:
“Forse dovremmo andare a mangiare un boccone. Arriviamo troppo tardi a Venezia per sperare di trovare aperto qualche cosa di decente, e io non ho voglia di mangiare kebab!” disse ridendo della spiritosaggine.
“Andiamo?”
“Vai tu. Io non vengo. Quel pezzo di pizza che ho mangiato allo snack prima di partire mi si è messo sullo stomaco. Non ho proprio voglia di mangiare. E poi lo sai che al ristorante rischiamo di passarci due ore con tutta la gente che c’è”.
“E’ vero. Hai ragione. Vuol dire che mi accontenterò di un tramezzino e una birra al bar. Spero di sbrigarmela in una ventina di minuti!”.
Poi, come se si accorgesse per la prima volta dello sconosciuto:
“Lei non mangia?”
“Si, ma credo che andrò al ristorante, tanto non ho altro da fare”
“A più tardi, allora” concluse il marito di Marisa, uscendo con il fedele giornale sotto braccio.
Appena fu uscito, lo sconosciuto bloccò la porta dello compartimento, tirò la tenda e rapidamente si portò di fronte a Marisa. Messosi a cavalcioni sulle sue gambe, prontamente prese a sbottonarsi la patta e calarsi i calzoni.
Marisa, appoggiata ancora con le spalle alla parete non aveva via di fuga: sgranò gli occhi e si portò le mani sulla bocca in un muto gesto di sgomento e di preghiera.
Si ritrovò con il cazzo dello sconosciuto a meno di un palmo dal suo viso, con l’asta, i testicoli e l’enorme cappella ancora umidi per la recente sborrata: alcune gocce di sperma erano ancora visibili tra la peluria del pube; un penetrante odore di formaggio fermentato e di urina le investì le narici facendole sussultare lo stomaco. Eppure, con suo enorme sconcerto, avvertì una potente eccitazione farsi strada dentro di lei, sentì i capezzoli che si indurivano e la fica ricominciare a colare.
Lo sconosciuto, con impazienza, spinse il cazzo, già duro, contro le mani della donna, cercando di forzarne l’ostinata resistenza, riuscendoci infine: a quel punto nulla più si frapponeva con l’oggetto del suo desiderio e il cazzo fu spinto nella bocca di Marisa, semiaperta per l’affannosa respirazione.
Marisa emise un gemito sentendosi invadere e percuotere il palato dall’enorme cappella che, trionfante per l’effrazione perpetrata, si adagiò mollemente sulla sua lingua spandendo nella bocca della donna un sapore acido e amaro che, anziché rivoltarle lo stomaco, come un potente afrodisiaco, accentuò la sua libidine: la bocca accolse il grande cazzo golosamente, la lingua lo avvolse come una calda coperta, le labbra si chiusero sull’asta.
Per qualche momento restarono immobili ciascuno gustando le proprie sensazioni; lo sconosciuto, col bacino spinto in avanti, il calore di quel piccolo recesso e l’umidità della saliva: la donna, la potenza e il sapore di quel cazzo così tanto agognato quando succhiava i suoi ortaggi o i suoi dildo.
Poi Marisa, appoggiate entrambe le mani alla radice del cazzo, prese a farlo scorrere sulla lingua succhiando avidamente la cappella, tormentandone con la punta il frenulo e il meato.
Percepiva sulla lingua il pulsare del corpo spugnoso uretrale e delle vene che si stavano gonfiando enormemente per l’afflusso sanguigno, andava su e giù lungo l’asta rilasciando un’abbondante salivazione che facilitava lo scorrimento, ruotava la testa emettendo di continuo gemiti e mugolii di piacere: ma soprattutto era il succhiare e aspirare la cappella che la stava mandando fuori di testa, trasmettendole sensazioni ed emozioni travolgenti che si trasmettevano a tutto il corpo e che aumentavano vertiginosamente il senso di calore e la sudorazione delle ascelle, in mezzo ai seni e alle cosce dove si mischiava agli umori e alle secrezioni della vagina ormai in libera uscita.
Anche lo sconosciuto rantolava e grugniva con le mani che stringevano la testa di Marisa accompagnandone il movimento di va e vieni. Togliendole il cazzo dalle mani, le spinse la testa verso il basso, contro i testicoli gonfi come palle da tennis. Marisa prese a leccarli in modo frenetico scuotendo la testa a destra e sinistra, riempiendoli di saliva, facendoli scorrere alternativamente nella bocca per succhiarli con avidità. L’eccitazione dello sconosciuto era ormai a livelli parossistici.
Con le mani spinse violentemente la testa di Marisa ancora più in basso e spingendo in avanti il bacino le schiacciò il viso sulle natiche. Per non soffocare Marisa apri la bocca e si trovò con la lingua a ridosso dello sfintere che prese a leccare con ingordigia: allargando con le mani le natiche dello sconosciuto, ormai preda di un parossismo erotico senza freni, facendosi strada tra i peli, spinse ripetutamente la punta della lingua nell’orifizio cercando di andare sempre più a fondo, inebriandosi delle sensazioni che le procurava quella sorta di possesso e di dominio testimoniati dal respiro ansimante e dai rantoli rauchi che l’uomo emetteva di continuo.
In un barlume di pseudo lucidità avvertì l’enorme spudoratezza di quel gesto osceno: stava leccando il culo a uno sconosciuto, ma questa presa di coscienza anziché farla ritrarre le procurò una ebbrezza folgorante.
Improvvisamente l’uomo le lasciò andare la testa, le prese entrambe le mani e, come in una sorta di crocifissione, le inchiodò alla parete dello scompartimento, mentre con una spinta potente del bacino le infilava nuovamente il cazzo in gola e mandava anche la testa della donna a schiacciarsi sul pannello.
Con gli occhi sbarrati, Marisa non riusciva più a contenere l’enorme cazzo: cominciò a tremare, aprì la bocca in modo spasmodico e lo sconosciuto prese a usarla forsennatamente come una vagina; fiumi di saliva le colavano sul mento, lungo il collo, andando a bagnare la camicetta e il golfino.
I gorgoglii e l’osceno risucchio del cazzo che le violentava la bocca le procuravano una sorta di vertigine. Sentiva i testicoli sbattere sul mento mentre la cappella sembrava volerle sfondare la gola; le labbra e le guance, per l’innaturale tensione, le facevano male, rantolava riuscendo a respirare solo col naso, sentiva le lacrime scorrerle sul viso.
Per fortuna quella specie di supplizio ebbe breve durata, perché con un’ultima devastante spinta e un rantolo animalesco lo sconosciuto eiaculò inondando la sua bocca di uno sperma denso e vischioso; Marisa, che ormai tremava in modo incontrollato, rovesciò gli occhi, fu sul punto di svenire e per non soffocare ingoiò tutto lo sperma che poté mentre altro le colava ai lati della bocca mischiandosi alle lacrime: un mare di umori misti a urina inondavano le sue cosce e il sedile, mentre l’orifizio dell’ano si contraeva e dilatava in maniera convulsa.
Prostrati, come a volersi riprendere dalla veemenza dell’orgasmo, non si mossero per qualche tempo, cercando di riacquistare un minimo di lucidità,: poi lo sconosciuto si rialzò e, con ostentazione e noncuranza, rimise il pene nei pantaloni, allacciando la patta.
Marisa, ancora piena di tremori e percossa dai brividi, rimase accasciata sul sedile senza forze, svuotata dalla violenza dell’orgasmo.
“Ormai tuo marito starà per tornare. Ti aspetto alla toilette” disse lo sconosciuto.
“Non verrò!” rispose con veemenza Marisa “ Non ha avuto quello che voleva?”
“Oh si! Io si! Ma sei tu che non hai avuto quello che volevi! Un cazzo dentro di te, che sicuramente sogni da chissà quanto, che ti scopi per bene e ridia uno spiraglio di luce alla tua vita spenta. Per questo penso che verrai!” e così dicendo lo sconosciuto uscì incamminandosi lungo il corridoio.
Marisa, il viso in fiamme, fu come folgorata dalla rozzezza delle parole dello sconosciuto, da cui trasparivano evidenti il sarcasmo e il dileggio, parole che la colpivano e la laceravano nel profondo al punto da farle provare una sorta di ripugnanza verso sé stessa: ma allo steso tempo avvertiva come, non per questo, fossero meno vere, come fotografassero con impietosa esattezza il suo stato emotivo.
Si riscosse. Non poteva farsi trovare in quelle condizioni dal marito ormai prossimo al rientro.
Si tolse le mutande, ridotte un misero e zuppo straccetto e le infilò nella borsa: con i kleenex cercò di togliere dal golfino alcuni schizzi di sperma e provò, con modesti risultati, ad asciugare il sedile.
Si era appena rimessa a sedere col libro in mano che il marito fu di ritorno
“C’era un mare di gente anche al bar! I tramezzini erano totalmente insapori: almeno mi sono fatto più di una birra! Ma tu leggi sempre?” disse il marito.
“Non vedo che altro ci sia da fare!” rispose Marisa senza nemmeno alzare gli occhi dal libro.
Non ce la faceva proprio a guardarlo, ma ancora una volta non riusciva a concentrarsi sulla pagina. Come spezzoni di pellicola, le tornavano nella mente le sequenze di immagini di quanto era accaduto nell’ultima ora: immagini mute, come senza parole era stato il rapporto con lo sconosciuto, ma non per questo meno vivide e stupefacenti, anche se Marisa, nel fondo della coscienza, sperava ardentemente fossero frutto della sua morbosa immaginazione. Ma, a dire il vero, un sonoro c’era a renderle plausibili e realistiche, un sonoro che le martellava i timpani: ed erano i singulti, i gemiti, i rantoli e i grugniti che si erano scambiati nel vortice della lussuria.
E che quelle immagini facessero ormai parte della sua più recondita intimità stava a testimoniarlo la rinnovata attività della sua vagina che aveva ripreso a secernere succhi e fluidi: era come se i suoi genitali vivessero di vita propria e reagissero indipendentemente dalla sua volontà. Persino i capezzoli si stavano indurendo sollecitati dalla mano di Marisa che inconsciamente si era portata su di loro protetta dal libro. Quindi la mano, nascosta dal tavolinetto, si portò sotto il fondo schiena: lì le dita si chiusero a pugno e, attraverso la gonna, presero a spingere sotto la vagina che prese a strusciarsi avanti e indietro su quell’improvvisato fallo. Con gli occhi chiusi, il respiro che cominciava a farsi affannoso, Marisa avvertiva montare l’eccitazione ma allo stesso tempo capiva che non sarebbe riuscita a contenerla. E prese la sua decisione.
“Vado alla toilette” disse a un assonnato consorte.
Giunse barcollando in fondo allo scompartimento ma non vide nessuno. Con un sospiro, dapprima la pervase un senso di sollievo all’idea che la decisione presa non avrebbe avuto seguito; ma subito presero il sopravvento l’angoscia e la frustrazione di non poter soddisfare la sua esacerbata eccitazione. Mentre viveva questi sentimenti contrastanti si accorse che la spia “occupato” era spenta. Colta da un’improvvisa ispirazione, abbassò la maniglia e la porta della toilette si aprì.
Lo sconosciuto era all’interno con il pene in mano come stesse urinando.
Immediatamente la prese per un braccio e la tirò dentro, chiudendo la porta e, stavolta, facendo scattare il segnale di occupato.
Marisa si sentì spingere frontalmente e schiacciare contro la parete: lo sconosciuto le sollevò una gamba che appoggiò sul piccolo lavabo e la penetrò brutalmente facendole emettere un grido soffocato!
Tutto si era svolto così rapidamente che Marisa non avrebbe avuto modo nemmeno di pensare una possibile reazione anche se avesse voluto: ma era venuta lì per quello, era venuta per dare sfogo all’eccitazione che da un paio d’ore si era impossessata di lei, era venuta per dare soddisfazione alla lussuria che si era impadronita del suo corpo e della sua mente e che la brutalità violenta dello sconosciuto, lungi dal vanificarla, accresceva in maniera esponenziale.
Fortuna che gli abbondanti liquidi consentivano alla sua vagina dilatata di sopportare la lacerante penetrazione e la furia sfrenata dello sconosciuto che affondava il cazzo fino alla radice mandandolo a sbattere contro la cervice.
Marisa avrebbe voluto gridare ma non poteva, per cui mordeva a sangue il pugno che aveva messo sulla bocca nel tentativo di soffocare i gemiti di piacere, i rantoli, i singulti, le urla che prepotentemente la sua gola avrebbe voluto emettere: l’altra mano grattava con le unghie la parete fino a spezzarsi.
Sentiva i grugniti bestiali dello sconosciuto che con una mano artigliava la natica della gamba sollevata e con l’altro braccio la teneva alla vita, avvinghiata al pube; il delirio erotico dell’uomo si rifletteva nel forsennato va e vieni del pene la cui cappella sembrava volerle sfondare il collo dell’utero; sentiva i suoi testicoli sbatterle sulle natiche, sentiva l’osceno risucchio della vagina e i gli umori che colavano lungo le cosce: tutto questo la stava portando verso un’insania dissennata e verso un orgasmo fulminante.
Vedeva il suo volto riflesso dallo specchio, le guance chiazzate di rosso, la bocca trivialmente spalancata e contorta, gli occhi lacrimosi ridotti a fessure, sferzato dai capelli che si incollavano per il sudore, ridotto a una maschera grottesca e laida, un volto che non riconosceva: il volto di un’altra donna che non aveva mai conosciuto.
Quello che aveva vissuto in quel pomeriggio e che ancora stava provando, gli orgasmi ripetuti, nulla avevano a che vedere con il piacere che era solita procurarsi con i suoi simulacri fallici e che ora le apparivano in tutta la loro sbiadita sembianza a confronto della veemente intensità del godimento montante.
Anche se in modo sommesso le risultava sempre più difficile trattenersi: gemiti gutturali prolungati si mischiavano a un respiro ansimante, un balbettio sconnesso fatto di monosillabi e frasi frammentate testimoniavano il suo stato di eccitamento libidinoso e come la sua mente fosse ormai obnubilata da una fregola incontenibile.
Al contrario, il suo corpo reagiva in modo sorprendentemente consapevole e lucido alle sollecitazioni della travolgente penetrazione dello sconosciuto: soprattutto la sua vagina, non domata dalla rabbiosa violenza dei colpi, peraltro abbondantemente ammortizzata dai liquidi che secerneva ormai in maniera torrenziale, sempre più si avviluppava al pene, come il serpente all’albero del peccato, quasi a non voler perdere un atomo della potenza marmorea di quella verga, calzandola come un guanto per favorirne lo sfregamento e agevolarne l’ascesa verso l’orgasmo.
Quando finalmente arrivò, Marisa, rantolando e gemendo con la bava alla bocca, non poté più trattenersi dall’urlare il suo piacere sconfinato. Fu come se tutta la sua linfa vitale si svuotasse insieme ai suoi umori: le gambe presero a tremare, divennero molli: lo sconosciuto si sfilò dalla sua vagina e un getto di sperma caldo e vischioso si riversò sulle sue natiche, procurandole brividi di voluttà: non più sorretta dal braccio dell’uomo, Marisa si abbatté in ginocchio sul pavimento. Getti di calda urina le colarono lungo le cosce spandendosi tutt’intorno.
Stettero per un po’ trafelati e sfibrati: poi lo sconosciuto sollevò la donna sorreggendola, tanto il suo corpo era pervaso da spasmi incontrollati ancora in balia di una libidine inappagata. Il pene dell’uomo, malgrado l’abbondante eiaculazione manteneva una sorprendente rigidità.
Aderendo alle spalle di Marisa, appollaiato come un avvoltoio sulla preda, l’uomo avvicinò la testa al suo orecchio sussurrando:
“Per la miseria se avevi voglia di cazzo! Non ho mai incontrato una troia libidinosa come te! Una vera vestale di Eros! Conosco quelle come te. Vi atteggiate a signore, superiori alla laidezza del mondo e del sesso, ma la verità è che tutte le donne la sognano: più vi comportate da signore, più anelate a essere sbattute brutalmente, più aspirate a sentirvi troie almeno una volta nella vita. Non è così? Dillo. Dillo!”
Marisa, ancora una volta smarrita e turbata dalla spietatezza delle parole dello sconosciuto, rispose con un filo di voce:
”Si! Siiii!”
L’uomo la infilzò di nuovo fottendola con violenza strappandole singulti e gemiti di piacere.
“Ecco, vedi: ti piace il controllo e il dominio del maschio, ti piace essere posseduta nel corpo ma ancor più nell’anima, sei una vera schiava del sesso; lo vedo da come una tua mano sfrega il clitoride e l’altra strizza i capezzoli, lo vedo da come le tu reni spingono verso il mio cazzo sempre più a fondo, lo sento da come la tua fica mi succhia il cazzo meglio di una bocca. Ripeto. Sei una magnifica insaziabile troia!............. C’è altro che posso fare per te?”
Spudoratamente, senza più alcun freno inibitorio:
“Siiii!......Maledetto porco!......Siiii!......Ti…..prego…..Inculami…..Sfondami il culo…………”
Lo sconosciuto si sfilò da lei, la fece mettere in ginocchio sulla tavoletta del water e le sollevò la gonna mettendo a nudo un sedere dovizioso e candido appena più scuro intorno a un orifizio già pulsante circondato da una abbondante peluria.
La donna con le mani allargò le natiche e l’uomo appoggiò la cappella su uno sfintere che si contraeva e dilatava spasmodicamente: poi, con un potente colpo di reni, ce l’affondò.
A Marisa si mozzò il fiato nella bocca smisuratamente dilatata, dalle pupille strabuzzate calde lacrime, di dolore e piacere a un tempo, presero a scorrerle copiose sulle guance mentre le unghie si conficcavano nella tenera carne delle natiche allargate.
Sadicamente, dopo averle artigliato i fianchi, lo sconosciuto prese a estrarre e reintrodurre la verga, ogni volta facendola sussultare e strappandole un urlo: quando poi prese a penetrarla in maniera via via più incalzante, Marisa si sentì come una bambola di pezza in balìa delle onde di ripetuti orgasmi la cui sconquassante virulenza non aveva mai neppure minimamente sospettato o sognato ma che stavano invadendo ogni fibra del suo corpo. Abbarbicata al water, fuori di senno, digrignava i denti, rantoli rauchi da animale agonizzante fuoriuscivano dalla bocca, la bava le colava lungo il mento sulla tavoletta del water, la vagina non aveva smesso un attimo di secernere succhi e umori che colavano abbondanti lungo le cosce: il sudore le aveva inzuppato completamente i vestiti, mentre un tremore persistente le scuoteva tutto il corpo.
Lo sconosciuto, sdraiato sulla sua schiena, ferocemente continuava a stantuffarle lo sfintere: quando arrivò l’acme del parossismo, mordendogli la nuca e stringendogli le mani intorno alla gola, eruttò il suo sperma bollente nel culo della donna, talmente abbondante da riempirle completamente il retto.
Marisa emise un urlo da gazzella ferita a morte ed ebbe l’orgasmo più scioccante della sua vita, che quasi la portò alle soglie dell’incoscienza: squassata e inebetita, sentì lo sperma dell’uomo che fuoriusciva dall’orifizio e le colava lungo le cosce.
Poi avvertì un tepore spandersi sul sedere, piacevole quasi benefico dopo la ferocia degli assalti subiti da quella parte del corpo. Lì per lì non capì: ma quando avvertì il tepore scenderle lungo le cosce e gocciare sulla tavoletta, realizzò!
Lo sconosciuto le stava pisciando sul culo!
Quell’ultima scarica di oscena dissolutezza finì per dissolvere le residue risorse della sua mente ottenebrata.
Cadde dal water e si afflosciò priva di sensi sul pavimento, nel piscio.
“Trenitalia informa i signori viaggiatori che stiamo per entrare nella stazione di Venezia S.Lucia.
Trenitalia si augura che il viaggio sia stato di vostro gradimento”.
FINE
Marisa, appoggiata con i gomiti sul tavolinetto divisorio, abbandonò la lettura del libro e si volse verso il finestrino guardando il paesaggio scorrere veloce. Erano saliti a Roma Termini alle 18,45 e sarebbero arrivati a Venezia alle 22,35 dove avrebbero passato il week-end a casa della madre.
Un diversivo, rispetto al tran-tran dei week-end degli ultimi mesi fatti di riordino della casa e una raffica di partite di calcio alla televisione, una delle due passioni di suo marito: sperava proprio che il ritorno nella città dove era nata potesse avere un effetto benefico sul suo umore.
Al di là del tavolinetto, il marito era immerso nella sua seconda passione: la lettura dell’amato “Sole 24 ore” e lo studio sistematico delle quotazioni di Borsa.
Marisa continuava a fissare il paesaggio che però nella luce crepuscolare uniforme di quell’uggiosa giornata le risultava essere angosciosamente simile al suo stato d’animo: triste, grigio e monotono.
Ancora una volta si chiese per quale ragione non riuscisse a scrollarsi di dosso quella sensazione di angoscia, a volte persino fisicamente dolorosa, che ormai sempre più spesso l’attagliava e diventava padrona dei suoi pensieri e delle sue giornate.
A 47 anni era ancora quella che si definisce “una donna piacente (magari con due o tre chili di troppo, soprattutto nella parte bassa); era molto stimata nel suo ruolo di dirigente di un Ufficio Postale; avevano qualche coppia di amici con i quali andavano a teatro (soprattutto all’opera, la sua passione) o passavano piacevoli serate al ristorante; i loro due figli maschi, ormai economicamente indipendenti, erano andati a vivere per conto loro ma li vedeva spesso giacché condividevano la passione del padre per il calcio. E allora…..
Allora, sapeva esattamente da dove veniva quell’angoscia anche se si rifiutava ostinatamente di ammetterlo: la sessualità era uscita dalla sua vita e non vi sarebbe più tornata.
Quella rinnovata consapevolezza le produsse una fitta dolorosa al basso ventre. Non ricordava più quando era stata l’ultima volta che aveva fatto all’amore con suo marito (mesi, anni?): non che fosse mai stata una cosa memorabile, ma comunque quel rapporto le dava la sensazione che ci fosse ancora un legame tra loro, che facessero ancora parte ognuno della vita dell’altro. Ma tutto questo era andato progressivamente sbiadendo nel corso degli anni e ormai aveva lasciato un vuoto incolmabile e doloroso.
Eppure, in occasione delle quotidiane docce, guardandosi allo specchio non poteva non riconoscere quanto il suo corpo fosse ancora desiderabile con il seno generoso e ancora sodo, con il ventre con un minimo di pancetta, con le cosce e il sedere (con i famosi due o tre chili di troppo) torniti e ben delineati quasi privi di smagliature, ma soprattutto con il pube prominente ricoperto di una peluria fitta e riccioluta che le arrivava fino all’ano e di cui era sempre stata particolarmente orgogliosa.
Quel corpo lei lo amava, da sempre lo accudiva e lo accarezzava, anche quando i rapporti con il marito avevano una soddisfacente regolarità; quando cominciarono a venire meno fino ad annullarsi del tutto, era ricorsa alla masturbazione, prima con le dita sfregandole sul clitoride e immergendole nella vagina, poi sfregando parossisticamente la fica sull’angolo del tavolo in cucina, infine introducendo nella vagina ogni sorta di ortaggi: col tempo anche l’ano era entrato a far parte del suo universo erotico fino ad acquisire una posizione di rilevanza. Però queste pratiche la lasciavano fisicamente stremata ma psicologicamente insoddisfatta: quello che le mancava era il rapporto con un partner, la possibilità di offrire il suo corpo ad un'altra persona che fosse in grado di goderne, il contatto con la carne viva e palpitante. Eppure non aveva mai avuto un’amante, malgrado fosse perfettamente cosciente delle occhiate insistite dei colleghi o dei clienti che si focalizzavano sul seno e sul sedere quando si aggirava nell’Ufficio Postale.
Il rumore dei freni e il conseguente rallentamento del treno, riscossero Marisa dai suoi pensieri.
Stavano entrando nella stazione di Firenze.
Marisa riprese in mano il libro accoccolandosi in fondo al sedile appoggiando le spalle al finestrino e riprese la poco stimolante lettura.
Improvvisamente si aprì la porta scorrevole dello scompartimento ed entrò un uomo che depositò un borsone sulla mensola portabagagli.
“Buonasera” disse con voce roca e stridula insieme lo sconosciuto.
“Buonasera” rispose Marisa, sollevando gli occhi dal libro. Il marito non si degnò di rispondere immerso com’era nel suo mondo di quotazioni di Borsa.
Lo sconosciuto si sedette in fondo al sedile dal lato del marito poggiando la ventiquattrore accanto a sé, e anche lui aprì un quotidiano. Marisa lo osservò. Vestito confezionato “Fumo di Londra” un po’ stazzonato, calzini corti a righe multicolori ormai senza più elastico ammucchiati sopra alla caviglia, incredibili scarpe a punta verde vescica, cravatta fondo fucsia con stampate carte da poker. Sotto la camicia (il cui colletto doveva aver visto tempi migliori), un ventre prominente teneva tirati allo spasimo i bottoni sotto i quali si intravvedeva la canottiera. Un viso largo, vagamente porcino era incorniciato da una capigliatura folta e disordinata dove ormai affioravano vaste zone di grigio.
Marisa provò un senso di disgusto: eppure quell’insieme aveva qualcosa di così animalesco da risultare, sia pure negativamente, in qualche modo affascinante.
Marisa continuò a fissarlo mentre leggeva il giornale: ma a un certo punto, irresistibilmente ma con sua grande vergogna, il suo sguardo fu attratto dalla voluminosa protuberanza che svettava tra le gambe dello sconosciuto. Non le era mai successo di guardare con insistenza le parti intime, sia pure nascoste, di un uomo e di provare ad immaginare come fosse quello che i pantaloni nascondevano. Ne fu sconvolta, anche perché avvertiva che la cosa la eccitava: sentiva infatti che le cosce, inavvertitamente, avevano cominciato a strusciare l’una con l’altra.
Improvvisamente lo sconosciuto alzò lo sguardo dal giornale: per un attimo i loro occhi si incrociarono, ma Marisa li riabbassò immediatamente sul libro. Non poté impedire che un intenso rossore si diffondesse sulle sue guance: lo sconosciuto aveva intuito dove stava guardando?
Pur continuando a leggere il giornale, come a volerle dare una risposta all’angosciosa domanda, la mano dello sconosciuto si abbassò sui pantaloni e cominciò ad scorrere su e giù lungo l’asta.
Marisa provò a riprendere la lettura: ma era come se la sua mente si rifiutasse di assegnare un significato alle parole che scorrevano sotto i suoi occhi, concentrata su immagini diverse che stavano facendo riaffiorare la sua frustrata lussuria.
Esasperata, decise di porre termine a quella finzione e rialzò lo sguardo: come rispondendo a un richiamo anche lo sguardo dello sconosciuto salì oltre il giornale e puntò su quello di Marisa.
In quello sguardo Marisa lesse lussuria, strafottenza, cinismo, che si materializzarono in una smorfia che voleva essere una sorta di incoraggiante sorriso.
Il suo sguardo invece, inequivocabilmente, si appuntò sul movimento della mano che, a quel punto, divenne più consapevole mimando quasi una masturbazione: la mano saliva e scendeva lungo l’asta, stringeva il membro perché lei potesse apprezzarne la lunghezza e la grossezza. Questi movimenti avevano un effetto quasi ipnotico su Marisa incapace di distogliere lo sguardo mentre sentiva crescere l’eccitazione in maniera esponenziale.
Le cosce della donna ormai vivevano di vita propria strusciando in modo parossistico mentre con una mano aggrappata all’orlo della gonna cercava disperatamente di non farla sollevare: intanto la vagina cominciava a secernere goccioline di liquido.
Lo sconosciuto sistemò la ventiquattrore al suo fianco e con la mano destra sostenne il giornale in modo da impedire la visione al marito di Marisa: non che fosse necessario, dal momento che non aveva alzato gli occhi dal giornale. L’altra mano cominciò a sbottonare la patta.
Le labbra di Marisa cominciarono a tremare; tirò fuori la lingua passandosela sulle labbra, sfiorò il seno sentendo i capezzoli allungati e irrigiditi: il ventre le comunicava fitte ma anche ondate di calore, il respiro era diventato accelerato e affannoso.
Quando lo sconosciuto estrasse dalla patta il cazzo e i testicoli, Marisa chiuse un attimo le palpebre: sentiva che cominciava a non avere più il controllo di se stessa e delle sue reazioni. Poi riaprì gli occhi e fissò sconvolta quel cazzo gonfio, circondato da una fitta rete di vene pulsanti e sormontato da una cappella lucida e violacea: le pupille le si dilatarono, la bocca si aprì per lo sgomento, quasi ad emettere un urlo liberatorio che, fortunatamente, le rimase in gola. I loro occhi ormai non si abbandonavano più e gli sguardi che lanciavano, carichi di incontrollata libidine, non facevano che accrescere in modo spasmodico le reciproche eccitazioni.
Quelle fantasie, quel desiderio sessuale così a lungo coccolato e così ferocemente frustrato chiedeva uno sfogo e stava portando la mente di Marisa al di là di qualsiasi freno inibitore: pur oppressa dalla vergogna, non poteva non avvertire la vagina ormai completamente fradicia e i suoi umori che, trapassate le mutande, bagnavano il tessuto della gonna e il sedile.
Si tolse lentamente i mocassini e, appoggiandosi al finestrino, distese le gambe sul sedile.
Attraverso il vetro, la temperatura esterna, molto più fredda di quella del suo corpo accaldato, le produsse un brivido incontrollato che dalla schiena folgorò ogni recesso del suo corpo facendola tremare.
Intanto, lo sconosciuto si stava apertamente masturbando alternando un ritmo di su e giù a più blandi movimenti rotatori della mano.
Marisa, irretita da quella masturbazione, diventata ormai il fulcro della sua vita psichica, sollevò un ginocchio dal sedile in modo che, aprendosi la gonna plissettata, lo sguardo dello sconosciuto fosse libero di spaziare sotto di essa¸ di risalire lungo la gamba e le cosce leggermente scostate, fino alle mutande che, fradice, erano diventate trasparenti lasciando intuire la peluria al di sotto.
Lo sconosciuto parve apprezzare la visione e il ritmo della masturbazione accelerò improvvisamente.
Marisa fece scorrere una mano sul seno cominciando a grattare e a pizzicare i capezzoli, stringendoli e strizzandoli tra pollice e indice: ormai respirava affannosamente con la bocca semi spalancata. L’altra mano scese al di sotto della gonna, stringendo le cosce, lasciando un’impronta rosata sul loro biancore; poi, improvvisamente, si inserì sotto l’elastico delle mutande scostandole e offrendo allo sconosciuto la visione della sua figa madida di umori, con l’imene pulsante che apriva e chiudeva le labbra della vulva e in cima il clitoride dilatato e paonazzo: poi si immerse tre dita nella vagina.
In virtù della tensione accumulata, bastarono pochi affondi perché Marisa, inarcando la schiena e lanciando un muto urlo a bocca spalancata, eiaculasse con un piccolo spruzzo: poi, stremata, si accasciò sul sedile, continuando a tremare con tutto il corpo.
Con perfetto sincronismo, un’abbondante fuoriuscita di sperma cominciò a colare dal meato lungo l’asta, sulla mano, fino a raggiungere i testicoli dello sconosciuto che emise persino un rantolo che sembrava più il grugnito di un porco, ma che si affrettò a mascherare con ripetuti colpi di tosse.
“Trenitalia informa i signori viaggiatori che il servizio di ristorazione è aperto e si svolge nel vagone ristorante”
Come fosse suonata la sveglia in una caserma, cominciò un disordinato via vai lungo il corridoio della carrozza. Persino il marito di Marisa rialzò la testa e lo sguardo che da due ore teneva pervicacemente incollato al “Sole 24 ore” e alle tabelle titoli e obbligazioni: si guardò intorno con occhi stralunati, come se si svegliasse da un lungo letargo, diede uno sguardo alla moglie, ancora distesa sul sedile ad occhi chiusi, ripiegò il giornale:
“Forse dovremmo andare a mangiare un boccone. Arriviamo troppo tardi a Venezia per sperare di trovare aperto qualche cosa di decente, e io non ho voglia di mangiare kebab!” disse ridendo della spiritosaggine.
“Andiamo?”
“Vai tu. Io non vengo. Quel pezzo di pizza che ho mangiato allo snack prima di partire mi si è messo sullo stomaco. Non ho proprio voglia di mangiare. E poi lo sai che al ristorante rischiamo di passarci due ore con tutta la gente che c’è”.
“E’ vero. Hai ragione. Vuol dire che mi accontenterò di un tramezzino e una birra al bar. Spero di sbrigarmela in una ventina di minuti!”.
Poi, come se si accorgesse per la prima volta dello sconosciuto:
“Lei non mangia?”
“Si, ma credo che andrò al ristorante, tanto non ho altro da fare”
“A più tardi, allora” concluse il marito di Marisa, uscendo con il fedele giornale sotto braccio.
Appena fu uscito, lo sconosciuto bloccò la porta dello compartimento, tirò la tenda e rapidamente si portò di fronte a Marisa. Messosi a cavalcioni sulle sue gambe, prontamente prese a sbottonarsi la patta e calarsi i calzoni.
Marisa, appoggiata ancora con le spalle alla parete non aveva via di fuga: sgranò gli occhi e si portò le mani sulla bocca in un muto gesto di sgomento e di preghiera.
Si ritrovò con il cazzo dello sconosciuto a meno di un palmo dal suo viso, con l’asta, i testicoli e l’enorme cappella ancora umidi per la recente sborrata: alcune gocce di sperma erano ancora visibili tra la peluria del pube; un penetrante odore di formaggio fermentato e di urina le investì le narici facendole sussultare lo stomaco. Eppure, con suo enorme sconcerto, avvertì una potente eccitazione farsi strada dentro di lei, sentì i capezzoli che si indurivano e la fica ricominciare a colare.
Lo sconosciuto, con impazienza, spinse il cazzo, già duro, contro le mani della donna, cercando di forzarne l’ostinata resistenza, riuscendoci infine: a quel punto nulla più si frapponeva con l’oggetto del suo desiderio e il cazzo fu spinto nella bocca di Marisa, semiaperta per l’affannosa respirazione.
Marisa emise un gemito sentendosi invadere e percuotere il palato dall’enorme cappella che, trionfante per l’effrazione perpetrata, si adagiò mollemente sulla sua lingua spandendo nella bocca della donna un sapore acido e amaro che, anziché rivoltarle lo stomaco, come un potente afrodisiaco, accentuò la sua libidine: la bocca accolse il grande cazzo golosamente, la lingua lo avvolse come una calda coperta, le labbra si chiusero sull’asta.
Per qualche momento restarono immobili ciascuno gustando le proprie sensazioni; lo sconosciuto, col bacino spinto in avanti, il calore di quel piccolo recesso e l’umidità della saliva: la donna, la potenza e il sapore di quel cazzo così tanto agognato quando succhiava i suoi ortaggi o i suoi dildo.
Poi Marisa, appoggiate entrambe le mani alla radice del cazzo, prese a farlo scorrere sulla lingua succhiando avidamente la cappella, tormentandone con la punta il frenulo e il meato.
Percepiva sulla lingua il pulsare del corpo spugnoso uretrale e delle vene che si stavano gonfiando enormemente per l’afflusso sanguigno, andava su e giù lungo l’asta rilasciando un’abbondante salivazione che facilitava lo scorrimento, ruotava la testa emettendo di continuo gemiti e mugolii di piacere: ma soprattutto era il succhiare e aspirare la cappella che la stava mandando fuori di testa, trasmettendole sensazioni ed emozioni travolgenti che si trasmettevano a tutto il corpo e che aumentavano vertiginosamente il senso di calore e la sudorazione delle ascelle, in mezzo ai seni e alle cosce dove si mischiava agli umori e alle secrezioni della vagina ormai in libera uscita.
Anche lo sconosciuto rantolava e grugniva con le mani che stringevano la testa di Marisa accompagnandone il movimento di va e vieni. Togliendole il cazzo dalle mani, le spinse la testa verso il basso, contro i testicoli gonfi come palle da tennis. Marisa prese a leccarli in modo frenetico scuotendo la testa a destra e sinistra, riempiendoli di saliva, facendoli scorrere alternativamente nella bocca per succhiarli con avidità. L’eccitazione dello sconosciuto era ormai a livelli parossistici.
Con le mani spinse violentemente la testa di Marisa ancora più in basso e spingendo in avanti il bacino le schiacciò il viso sulle natiche. Per non soffocare Marisa apri la bocca e si trovò con la lingua a ridosso dello sfintere che prese a leccare con ingordigia: allargando con le mani le natiche dello sconosciuto, ormai preda di un parossismo erotico senza freni, facendosi strada tra i peli, spinse ripetutamente la punta della lingua nell’orifizio cercando di andare sempre più a fondo, inebriandosi delle sensazioni che le procurava quella sorta di possesso e di dominio testimoniati dal respiro ansimante e dai rantoli rauchi che l’uomo emetteva di continuo.
In un barlume di pseudo lucidità avvertì l’enorme spudoratezza di quel gesto osceno: stava leccando il culo a uno sconosciuto, ma questa presa di coscienza anziché farla ritrarre le procurò una ebbrezza folgorante.
Improvvisamente l’uomo le lasciò andare la testa, le prese entrambe le mani e, come in una sorta di crocifissione, le inchiodò alla parete dello scompartimento, mentre con una spinta potente del bacino le infilava nuovamente il cazzo in gola e mandava anche la testa della donna a schiacciarsi sul pannello.
Con gli occhi sbarrati, Marisa non riusciva più a contenere l’enorme cazzo: cominciò a tremare, aprì la bocca in modo spasmodico e lo sconosciuto prese a usarla forsennatamente come una vagina; fiumi di saliva le colavano sul mento, lungo il collo, andando a bagnare la camicetta e il golfino.
I gorgoglii e l’osceno risucchio del cazzo che le violentava la bocca le procuravano una sorta di vertigine. Sentiva i testicoli sbattere sul mento mentre la cappella sembrava volerle sfondare la gola; le labbra e le guance, per l’innaturale tensione, le facevano male, rantolava riuscendo a respirare solo col naso, sentiva le lacrime scorrerle sul viso.
Per fortuna quella specie di supplizio ebbe breve durata, perché con un’ultima devastante spinta e un rantolo animalesco lo sconosciuto eiaculò inondando la sua bocca di uno sperma denso e vischioso; Marisa, che ormai tremava in modo incontrollato, rovesciò gli occhi, fu sul punto di svenire e per non soffocare ingoiò tutto lo sperma che poté mentre altro le colava ai lati della bocca mischiandosi alle lacrime: un mare di umori misti a urina inondavano le sue cosce e il sedile, mentre l’orifizio dell’ano si contraeva e dilatava in maniera convulsa.
Prostrati, come a volersi riprendere dalla veemenza dell’orgasmo, non si mossero per qualche tempo, cercando di riacquistare un minimo di lucidità,: poi lo sconosciuto si rialzò e, con ostentazione e noncuranza, rimise il pene nei pantaloni, allacciando la patta.
Marisa, ancora piena di tremori e percossa dai brividi, rimase accasciata sul sedile senza forze, svuotata dalla violenza dell’orgasmo.
“Ormai tuo marito starà per tornare. Ti aspetto alla toilette” disse lo sconosciuto.
“Non verrò!” rispose con veemenza Marisa “ Non ha avuto quello che voleva?”
“Oh si! Io si! Ma sei tu che non hai avuto quello che volevi! Un cazzo dentro di te, che sicuramente sogni da chissà quanto, che ti scopi per bene e ridia uno spiraglio di luce alla tua vita spenta. Per questo penso che verrai!” e così dicendo lo sconosciuto uscì incamminandosi lungo il corridoio.
Marisa, il viso in fiamme, fu come folgorata dalla rozzezza delle parole dello sconosciuto, da cui trasparivano evidenti il sarcasmo e il dileggio, parole che la colpivano e la laceravano nel profondo al punto da farle provare una sorta di ripugnanza verso sé stessa: ma allo steso tempo avvertiva come, non per questo, fossero meno vere, come fotografassero con impietosa esattezza il suo stato emotivo.
Si riscosse. Non poteva farsi trovare in quelle condizioni dal marito ormai prossimo al rientro.
Si tolse le mutande, ridotte un misero e zuppo straccetto e le infilò nella borsa: con i kleenex cercò di togliere dal golfino alcuni schizzi di sperma e provò, con modesti risultati, ad asciugare il sedile.
Si era appena rimessa a sedere col libro in mano che il marito fu di ritorno
“C’era un mare di gente anche al bar! I tramezzini erano totalmente insapori: almeno mi sono fatto più di una birra! Ma tu leggi sempre?” disse il marito.
“Non vedo che altro ci sia da fare!” rispose Marisa senza nemmeno alzare gli occhi dal libro.
Non ce la faceva proprio a guardarlo, ma ancora una volta non riusciva a concentrarsi sulla pagina. Come spezzoni di pellicola, le tornavano nella mente le sequenze di immagini di quanto era accaduto nell’ultima ora: immagini mute, come senza parole era stato il rapporto con lo sconosciuto, ma non per questo meno vivide e stupefacenti, anche se Marisa, nel fondo della coscienza, sperava ardentemente fossero frutto della sua morbosa immaginazione. Ma, a dire il vero, un sonoro c’era a renderle plausibili e realistiche, un sonoro che le martellava i timpani: ed erano i singulti, i gemiti, i rantoli e i grugniti che si erano scambiati nel vortice della lussuria.
E che quelle immagini facessero ormai parte della sua più recondita intimità stava a testimoniarlo la rinnovata attività della sua vagina che aveva ripreso a secernere succhi e fluidi: era come se i suoi genitali vivessero di vita propria e reagissero indipendentemente dalla sua volontà. Persino i capezzoli si stavano indurendo sollecitati dalla mano di Marisa che inconsciamente si era portata su di loro protetta dal libro. Quindi la mano, nascosta dal tavolinetto, si portò sotto il fondo schiena: lì le dita si chiusero a pugno e, attraverso la gonna, presero a spingere sotto la vagina che prese a strusciarsi avanti e indietro su quell’improvvisato fallo. Con gli occhi chiusi, il respiro che cominciava a farsi affannoso, Marisa avvertiva montare l’eccitazione ma allo stesso tempo capiva che non sarebbe riuscita a contenerla. E prese la sua decisione.
“Vado alla toilette” disse a un assonnato consorte.
Giunse barcollando in fondo allo scompartimento ma non vide nessuno. Con un sospiro, dapprima la pervase un senso di sollievo all’idea che la decisione presa non avrebbe avuto seguito; ma subito presero il sopravvento l’angoscia e la frustrazione di non poter soddisfare la sua esacerbata eccitazione. Mentre viveva questi sentimenti contrastanti si accorse che la spia “occupato” era spenta. Colta da un’improvvisa ispirazione, abbassò la maniglia e la porta della toilette si aprì.
Lo sconosciuto era all’interno con il pene in mano come stesse urinando.
Immediatamente la prese per un braccio e la tirò dentro, chiudendo la porta e, stavolta, facendo scattare il segnale di occupato.
Marisa si sentì spingere frontalmente e schiacciare contro la parete: lo sconosciuto le sollevò una gamba che appoggiò sul piccolo lavabo e la penetrò brutalmente facendole emettere un grido soffocato!
Tutto si era svolto così rapidamente che Marisa non avrebbe avuto modo nemmeno di pensare una possibile reazione anche se avesse voluto: ma era venuta lì per quello, era venuta per dare sfogo all’eccitazione che da un paio d’ore si era impossessata di lei, era venuta per dare soddisfazione alla lussuria che si era impadronita del suo corpo e della sua mente e che la brutalità violenta dello sconosciuto, lungi dal vanificarla, accresceva in maniera esponenziale.
Fortuna che gli abbondanti liquidi consentivano alla sua vagina dilatata di sopportare la lacerante penetrazione e la furia sfrenata dello sconosciuto che affondava il cazzo fino alla radice mandandolo a sbattere contro la cervice.
Marisa avrebbe voluto gridare ma non poteva, per cui mordeva a sangue il pugno che aveva messo sulla bocca nel tentativo di soffocare i gemiti di piacere, i rantoli, i singulti, le urla che prepotentemente la sua gola avrebbe voluto emettere: l’altra mano grattava con le unghie la parete fino a spezzarsi.
Sentiva i grugniti bestiali dello sconosciuto che con una mano artigliava la natica della gamba sollevata e con l’altro braccio la teneva alla vita, avvinghiata al pube; il delirio erotico dell’uomo si rifletteva nel forsennato va e vieni del pene la cui cappella sembrava volerle sfondare il collo dell’utero; sentiva i suoi testicoli sbatterle sulle natiche, sentiva l’osceno risucchio della vagina e i gli umori che colavano lungo le cosce: tutto questo la stava portando verso un’insania dissennata e verso un orgasmo fulminante.
Vedeva il suo volto riflesso dallo specchio, le guance chiazzate di rosso, la bocca trivialmente spalancata e contorta, gli occhi lacrimosi ridotti a fessure, sferzato dai capelli che si incollavano per il sudore, ridotto a una maschera grottesca e laida, un volto che non riconosceva: il volto di un’altra donna che non aveva mai conosciuto.
Quello che aveva vissuto in quel pomeriggio e che ancora stava provando, gli orgasmi ripetuti, nulla avevano a che vedere con il piacere che era solita procurarsi con i suoi simulacri fallici e che ora le apparivano in tutta la loro sbiadita sembianza a confronto della veemente intensità del godimento montante.
Anche se in modo sommesso le risultava sempre più difficile trattenersi: gemiti gutturali prolungati si mischiavano a un respiro ansimante, un balbettio sconnesso fatto di monosillabi e frasi frammentate testimoniavano il suo stato di eccitamento libidinoso e come la sua mente fosse ormai obnubilata da una fregola incontenibile.
Al contrario, il suo corpo reagiva in modo sorprendentemente consapevole e lucido alle sollecitazioni della travolgente penetrazione dello sconosciuto: soprattutto la sua vagina, non domata dalla rabbiosa violenza dei colpi, peraltro abbondantemente ammortizzata dai liquidi che secerneva ormai in maniera torrenziale, sempre più si avviluppava al pene, come il serpente all’albero del peccato, quasi a non voler perdere un atomo della potenza marmorea di quella verga, calzandola come un guanto per favorirne lo sfregamento e agevolarne l’ascesa verso l’orgasmo.
Quando finalmente arrivò, Marisa, rantolando e gemendo con la bava alla bocca, non poté più trattenersi dall’urlare il suo piacere sconfinato. Fu come se tutta la sua linfa vitale si svuotasse insieme ai suoi umori: le gambe presero a tremare, divennero molli: lo sconosciuto si sfilò dalla sua vagina e un getto di sperma caldo e vischioso si riversò sulle sue natiche, procurandole brividi di voluttà: non più sorretta dal braccio dell’uomo, Marisa si abbatté in ginocchio sul pavimento. Getti di calda urina le colarono lungo le cosce spandendosi tutt’intorno.
Stettero per un po’ trafelati e sfibrati: poi lo sconosciuto sollevò la donna sorreggendola, tanto il suo corpo era pervaso da spasmi incontrollati ancora in balia di una libidine inappagata. Il pene dell’uomo, malgrado l’abbondante eiaculazione manteneva una sorprendente rigidità.
Aderendo alle spalle di Marisa, appollaiato come un avvoltoio sulla preda, l’uomo avvicinò la testa al suo orecchio sussurrando:
“Per la miseria se avevi voglia di cazzo! Non ho mai incontrato una troia libidinosa come te! Una vera vestale di Eros! Conosco quelle come te. Vi atteggiate a signore, superiori alla laidezza del mondo e del sesso, ma la verità è che tutte le donne la sognano: più vi comportate da signore, più anelate a essere sbattute brutalmente, più aspirate a sentirvi troie almeno una volta nella vita. Non è così? Dillo. Dillo!”
Marisa, ancora una volta smarrita e turbata dalla spietatezza delle parole dello sconosciuto, rispose con un filo di voce:
”Si! Siiii!”
L’uomo la infilzò di nuovo fottendola con violenza strappandole singulti e gemiti di piacere.
“Ecco, vedi: ti piace il controllo e il dominio del maschio, ti piace essere posseduta nel corpo ma ancor più nell’anima, sei una vera schiava del sesso; lo vedo da come una tua mano sfrega il clitoride e l’altra strizza i capezzoli, lo vedo da come le tu reni spingono verso il mio cazzo sempre più a fondo, lo sento da come la tua fica mi succhia il cazzo meglio di una bocca. Ripeto. Sei una magnifica insaziabile troia!............. C’è altro che posso fare per te?”
Spudoratamente, senza più alcun freno inibitorio:
“Siiii!......Maledetto porco!......Siiii!......Ti…..prego…..Inculami…..Sfondami il culo…………”
Lo sconosciuto si sfilò da lei, la fece mettere in ginocchio sulla tavoletta del water e le sollevò la gonna mettendo a nudo un sedere dovizioso e candido appena più scuro intorno a un orifizio già pulsante circondato da una abbondante peluria.
La donna con le mani allargò le natiche e l’uomo appoggiò la cappella su uno sfintere che si contraeva e dilatava spasmodicamente: poi, con un potente colpo di reni, ce l’affondò.
A Marisa si mozzò il fiato nella bocca smisuratamente dilatata, dalle pupille strabuzzate calde lacrime, di dolore e piacere a un tempo, presero a scorrerle copiose sulle guance mentre le unghie si conficcavano nella tenera carne delle natiche allargate.
Sadicamente, dopo averle artigliato i fianchi, lo sconosciuto prese a estrarre e reintrodurre la verga, ogni volta facendola sussultare e strappandole un urlo: quando poi prese a penetrarla in maniera via via più incalzante, Marisa si sentì come una bambola di pezza in balìa delle onde di ripetuti orgasmi la cui sconquassante virulenza non aveva mai neppure minimamente sospettato o sognato ma che stavano invadendo ogni fibra del suo corpo. Abbarbicata al water, fuori di senno, digrignava i denti, rantoli rauchi da animale agonizzante fuoriuscivano dalla bocca, la bava le colava lungo il mento sulla tavoletta del water, la vagina non aveva smesso un attimo di secernere succhi e umori che colavano abbondanti lungo le cosce: il sudore le aveva inzuppato completamente i vestiti, mentre un tremore persistente le scuoteva tutto il corpo.
Lo sconosciuto, sdraiato sulla sua schiena, ferocemente continuava a stantuffarle lo sfintere: quando arrivò l’acme del parossismo, mordendogli la nuca e stringendogli le mani intorno alla gola, eruttò il suo sperma bollente nel culo della donna, talmente abbondante da riempirle completamente il retto.
Marisa emise un urlo da gazzella ferita a morte ed ebbe l’orgasmo più scioccante della sua vita, che quasi la portò alle soglie dell’incoscienza: squassata e inebetita, sentì lo sperma dell’uomo che fuoriusciva dall’orifizio e le colava lungo le cosce.
Poi avvertì un tepore spandersi sul sedere, piacevole quasi benefico dopo la ferocia degli assalti subiti da quella parte del corpo. Lì per lì non capì: ma quando avvertì il tepore scenderle lungo le cosce e gocciare sulla tavoletta, realizzò!
Lo sconosciuto le stava pisciando sul culo!
Quell’ultima scarica di oscena dissolutezza finì per dissolvere le residue risorse della sua mente ottenebrata.
Cadde dal water e si afflosciò priva di sensi sul pavimento, nel piscio.
“Trenitalia informa i signori viaggiatori che stiamo per entrare nella stazione di Venezia S.Lucia.
Trenitalia si augura che il viaggio sia stato di vostro gradimento”.
FINE
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Commenti dei lettori al racconto erotico