Fabiola l'architetto - (1) Voglie socchiuse

di
genere
etero

La porta era socchiusa. Avevo appuntamento allo “Studio Dalprà” per le 20.30 ed al mio arrivo trovai l'ingresso spalancato. Era tardi e nello studio sembrava non esserci nessuno. La porta socchiusa era quella di Fabiola, un'amica di Anna, la mia ragazza.Fabiola è un architetto ed ero andato nel suo studio per parlare della ristrutturazione del casale in Toscana che una mia zia mi ha lasciato in eredità. Si era laureata da poco, ma aveva trovato già impiego in quello che era uno dei più rinomati studi di Roma. L'appuntamento era fuori dall'orario d'ufficio: lei infatti mi stava facendo un favore. Non avevo mai visto Fabiola, né mai sentito la sua voce.La porta era socchiusa e sentivo una voce provenire dall'interno. Era la voce di una donna che parlava al telefono. Non si trattava di una discussione normale: lei infatti non parlava soltanto, ma ogni tanto emetteva gemiti sottili che definire equivoci è dire poco. Sbirciai attraverso l'uscio socchiuso e scorsi una donna al telefono, intenta a toccarsi i capelli, annodando e snodando ricci con un indice assolutamente nervoso.“Vorrei tanto che tu fossi qui...”, diceva con voce suadente. “Indosso quella gonna al ginocchio gessata che tanto ti piace, con una giacca grigia...”. Lo diceva e rideva in maniera beffarda. “...sotto poi non ho nulla: solo la giacca ed un perizoma. Qua fa caaaaaldoooo...mmmhhmm, si dimmi ....dimmi cosa mi faresti....”. Seguirono secondi di silenzio, in cui la scorsi intenta a mordersi le labbra, mentre continuava a torturare furiosamente una ciocca di capelli. “Sei proprio un porcelliiiinooo allora...”, disse sorridendo. “Sto sfregando le gambe: si, si, siiii...ho le palline ...stasera toccherà a te toglierle...il vulcano non vede l'ora di esplodere”. Ancora silenzio.Stavolta però fui io ad interromperlo. Bussai alla porta. “E' permesso...”, dissi io come se fossi appena arrivato. Fui accolto da un “avanti” piuttosto imbarazzato, rimasto in qualche modo in gola alla povera donna e venuto fuori monco e balbettante”. Quando mi vide, mi fece accomodare con un gesto con cui mi indicò la sedia davanti a lei. “Ti devo lasciare. A stasera, ciao...”, disse chiudendo il telefono.Ci presentammo.La sua mediterraneità colpì i miei occhi. Aveva la pelle molto scura, che ben si sposava con la sua nera chioma. I suoi occhi scuri erano profondi e vispi, senza però essere impertinenti. Ero lì per motivi di lavoro e lei, seppur imbarazzata dalla telefonata, assunse subito uno sguardo serioso. I capelli erano lisci, anche se qualche ciocca portava ancora con sé i segni della fresca tortura. Le labbra erano carnose e rimandavano una sensazione di morbida durezza, come quei frutti duri al vedersi, ma goduriosi a mordersi. Sembrava accalorata, probabilmente perché la temperatura fuori era veramente torrida, nonostante ormai la sera si stesse facendo.Cominciai a spiegarle il motivo della mia presenza lì e delle caratteristiche dell'appartamento. La guardavo negli occhi e facevo uno sforzo enorme a non pensare alle parole udite poco prima. Presi dalla borsa la piantina e l'aprii sul suo tavolo. Ci alzammo e cominciammo a visionarla insieme. Nel farlo venne spontaneo ad entrambi chinarci. E se il mio chinarmi a lei passò sicuramente inosservato, il suo rivelò ai miei occhi il generoso decoltè che poco prima avevo appreso essere libero da costrizioni di biancheria intima.Fu difficile, praticamente impossibile, non posare lì il mio sguardo. Eravamo a pochi centimetri l'uno dall'altra, con lei intenta a spiegarmi le possibili soluzioni applicabili al casale ed io intento a chiedermi come facesse a dissimulare così bene la presenza delle palline tra le sue gambe.Spostò la piantina e le nostre mani si sfiorarono. Fu un evento che provocò in me eccitazione, ma in lei nulla, anzi meno che nulla. Era terribilmente ed esageratamente professionale, assai lontana dall'immagine che quelle parole udite sull'uscio avevano disegnato nella mia mente.Riavvolse la piantina, riportandomi alla realtà. Non avevo infatti ben seguito le parole degli ultimi minuti. Mi ero infatti perso in torbide fantasie. Avevo immaginato il fortunato che in serata le avrebbe estratto le palline bagnate. Immaginavo che avrebbe goduto del suo sapore più intimo, delle sue voglie prepotenti. E contemporaneamente pensavo a quali percorsi stesse seguendo la sua mente in quel momento, con me, uno sconosciuto con una piantina di una casa davanti a lei. Mi chiedevo che fine potessero aver fatto quelle voglie che poco prima mi avevano accolto nel silenzio.E mentre mi chiedevo tutto questo la piantina entrò nel tubo e lei mi salutava chiedendomi le chiavi della casa. “Vado a darci un'occhiata. Noi ci rivediamo la settimana prossima, ok?”.Ci salutammo così e mentre uscivo la domanda diventò più prepotente: che fine avevano fatto quelle voglie in quei 10 minuti...
scritto il
2011-01-18
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