Il feticismo di D per gli oggetti
di
SickInYourMind
genere
pulp
D è seduto al tavolo della cucina e sta tagliando la stoffa per il vestito della sua saliera. Si tratta di un contenitore cilindrico in vetro con intagli verticali dalla base al tappo, bombato, in acciaio. L'oggetto è lì sul piano, è appena stato accuratamente misurato. D ama gli oggetti.
Ieri ha disegnato il modello dell'abito, ha scelto una stoffa rosa a fiorellini per il contenitore e pizzo bianco per gli orli. D sta tagliando la stoffa, come del resto ha fatto centinaia di volte negli ultimi cinque anni. Lo fa in modo meccanico, forse sta pensando a tutt'altro. Ha un'espressione malinconica, uno sguardo vago, perso. Come sempre del resto, tranne quando ride, senza un vero motivo.
Ha già cenato e lavato i piatti. Asciugato e riposto le posate nel cassetto, come faceva sempre sua madre.
D ha iniziato a vestire gli oggetti dopo la morte di sua madre. Ma li ha sempre amati, in un modo bizzarro e incomprensibile persino a se stesso. Alcuni più di altri, ma ultimamente tutti. Del resto sua madre aveva una cura morbosa per gli oggetti della casa. A pensarci bene anche del mondo esterno. Una volta gli ha fatto notare come avesse ridotto un bigliettino col numeretto, arrotolato più volte attorno al dito, per circa un'ora. L'espressione di pena per quel povero bigliettino e il conseguente senso di colpa di D per il dolore della madre.
D non sa perchè veste gli oggetti. Se lo è chiesto numerose volte ma non è mai riuscito a trovare una risposta. Improvvisamente gli è parso che fossero nudi, che fossero vivi e reclamassero un abito, una personalità, uno stile... si, personalità e stile.
D non crede di avere una personalità, a volte gli sembra di non averne una. Si può non averne una? Quando ride si sente in viaggio tra pianeti, tra menti, un tratto di strada in cui sente di essere privo di reale pensiero, di storia. Difficile spiegare certe condizioni che durano pochi minuti.
Così gran parte degli oggetti di casa ora hanno un vestito, anche le posate... non stiamo scherzando, D ha vestito anche le posate, si è divertito a vestire le forchette. Per praticità usa sempre la stessa, che poi spoglia, lava, stira e riveste. D trascorre tutta la sua giornata in questa mansione, che oramai ha preso il sopravvento su tutta la sua vita. Questa è la sua vita.
Ogni tanto D pensa al suicidio.
E' un pensiero che lo sfiora, come un'ancora di salvezza, quando pensa a tutti gli oggetti che dovrà ancora vestire, ai modelli che dovrà disegnare, alle stoffe da tagliare, cucire, lavare, stirare. Spogliare, rivestire. D non ha più neanche il tempo di lavarsi. Non riesce più a trovarlo... mangia qualcosa al volo, va a letto stanco morto, è felice quando va a letto perchè può staccare con il mondo degli oggetti e tornare alla sua mente, alla sua persona. Quale persona? Non ricorda nemmeno più... non ricorda più e non gli interessa neanche più. Che poi, in realtà quando è immerso in certi abiti, tra certi oggetti, talvolta è anche felice... o almeno così gli sembra. Ma forse è solo illusione. Non lo sa. Forse è distrazione. La quantità ha preso il sopravvento sulla distrazione. Si, forse D ha iniziato per distrarsi. E poi ha cominciato a pensare di essere un feticista. Di stoffe, oggetti. Ogni tanto guarda il mobile del salotto, è pieno di soprammobili vestiti. Dei soprammobili c'è rimasta solo la sagoma, il volume, il resto è colori a casaccio, merletti, bottoni, gancetti... è stucchevole, lui stesso trova sia stucchevole quando è esausto. Oramai sempre più spesso. Nessuno entra da tempo in quella casa, come spiegare...? Come spiegare che un pacchetto di fazzoletti necessita di un vestito di stoffa nella sua breve vita di 3-4 giorni?
Gli unici oggetti rimasti nudi sono quelli nell'armadio della madre. D entra di rado in quella stanza, sta molto male quando lo fa. Era estremamente legato a sua madre, a volte si masturbava sul suo letto quando era ancora viva. Non lo ha più fatto, dopo. Però di rado entra in quella stanza e si inginocchia sul pavimento sprofondando la testa nel letto. Desidera essere frustato così. Non sa da chi, da entità astratte. Da nessuno che conosca e del resto non farebbe entrare nessuno in quella stanza. Perchè no, non si può. D è pieno di regole implicite. Poi si vergogna, torna nella sua stanza, piange.
Ha 32 anni, potrebbe ancora farsi una vita, ma quale? Quale vita? D non sente di averne una o meglio, sente di essere fisso come il sole e osserva la terra girargli attorno, tutti i giorni, senza mai fermarsi. La terra che per D è diventata inafferrabile. E' come il perno di un giradischi. Il disco è sempre lo stesso, oramai consumato. Non ricorda neanche più le parole di quel disco.
Inizia a modellare la stoffa attorno al contenitore di vetro, cuce i primi punti e valuta dove applicare i bottoni. Si sente strano, tutto sembra pesargli enormemente, l'idea che la gente ha di lui, l'idea terrificante che lui ha della gente. Tutto sembra pesargli e schiacciarlo in una maniera mostruosa. D si alza, prende un piatto, vorrebbe metterci qualcosa, ha ancora fame... poi no, non più. In realtà non vuole più niente, non vorrebbe più esistere. Vorrebbe scomparire, vorrebbe morire. Allora va nella sua stanza, sa di poter porre fine alla sua esistenza in qualsiasi momento, deve solo decidere. D ha deciso. Conservava da tempo una pistola. La pistola di un suo caro amico svizzero, un ex poliziotto. Va a prenderla e la porta in cucina, si siede nuovamente al tavolo. Guarda la saliera, il vestito appena iniziato. E' terrorizzato. Terrorizzato all'idea di rimanere. Molto più che spararsi. La pistola è ancora carica, lo sa. Non sa neanche dove guardare ma lo sa. Gli viene da ridere... tra poco potrà porre fine al terrore. Non dovrà più uscire, non dovrà più sentire niente e nessuno. Non dovrà più subire. Si punta la pistola in bocca, lo ha visto fare in tanti film... del resto fare un pompino non gli è mai dispiaciuto. La succhia, la lecca, poi basta, finiamola qui, spara.
La testa di D crolla nel piatto vuoto, il sangue e il cervello schizzano ovunque sulle pareti e sui mobili, sugli oggetti vestiti e nudi. D è morto sul colpo. Ha la testa spappolata. Fine del disco.
Ieri ha disegnato il modello dell'abito, ha scelto una stoffa rosa a fiorellini per il contenitore e pizzo bianco per gli orli. D sta tagliando la stoffa, come del resto ha fatto centinaia di volte negli ultimi cinque anni. Lo fa in modo meccanico, forse sta pensando a tutt'altro. Ha un'espressione malinconica, uno sguardo vago, perso. Come sempre del resto, tranne quando ride, senza un vero motivo.
Ha già cenato e lavato i piatti. Asciugato e riposto le posate nel cassetto, come faceva sempre sua madre.
D ha iniziato a vestire gli oggetti dopo la morte di sua madre. Ma li ha sempre amati, in un modo bizzarro e incomprensibile persino a se stesso. Alcuni più di altri, ma ultimamente tutti. Del resto sua madre aveva una cura morbosa per gli oggetti della casa. A pensarci bene anche del mondo esterno. Una volta gli ha fatto notare come avesse ridotto un bigliettino col numeretto, arrotolato più volte attorno al dito, per circa un'ora. L'espressione di pena per quel povero bigliettino e il conseguente senso di colpa di D per il dolore della madre.
D non sa perchè veste gli oggetti. Se lo è chiesto numerose volte ma non è mai riuscito a trovare una risposta. Improvvisamente gli è parso che fossero nudi, che fossero vivi e reclamassero un abito, una personalità, uno stile... si, personalità e stile.
D non crede di avere una personalità, a volte gli sembra di non averne una. Si può non averne una? Quando ride si sente in viaggio tra pianeti, tra menti, un tratto di strada in cui sente di essere privo di reale pensiero, di storia. Difficile spiegare certe condizioni che durano pochi minuti.
Così gran parte degli oggetti di casa ora hanno un vestito, anche le posate... non stiamo scherzando, D ha vestito anche le posate, si è divertito a vestire le forchette. Per praticità usa sempre la stessa, che poi spoglia, lava, stira e riveste. D trascorre tutta la sua giornata in questa mansione, che oramai ha preso il sopravvento su tutta la sua vita. Questa è la sua vita.
Ogni tanto D pensa al suicidio.
E' un pensiero che lo sfiora, come un'ancora di salvezza, quando pensa a tutti gli oggetti che dovrà ancora vestire, ai modelli che dovrà disegnare, alle stoffe da tagliare, cucire, lavare, stirare. Spogliare, rivestire. D non ha più neanche il tempo di lavarsi. Non riesce più a trovarlo... mangia qualcosa al volo, va a letto stanco morto, è felice quando va a letto perchè può staccare con il mondo degli oggetti e tornare alla sua mente, alla sua persona. Quale persona? Non ricorda nemmeno più... non ricorda più e non gli interessa neanche più. Che poi, in realtà quando è immerso in certi abiti, tra certi oggetti, talvolta è anche felice... o almeno così gli sembra. Ma forse è solo illusione. Non lo sa. Forse è distrazione. La quantità ha preso il sopravvento sulla distrazione. Si, forse D ha iniziato per distrarsi. E poi ha cominciato a pensare di essere un feticista. Di stoffe, oggetti. Ogni tanto guarda il mobile del salotto, è pieno di soprammobili vestiti. Dei soprammobili c'è rimasta solo la sagoma, il volume, il resto è colori a casaccio, merletti, bottoni, gancetti... è stucchevole, lui stesso trova sia stucchevole quando è esausto. Oramai sempre più spesso. Nessuno entra da tempo in quella casa, come spiegare...? Come spiegare che un pacchetto di fazzoletti necessita di un vestito di stoffa nella sua breve vita di 3-4 giorni?
Gli unici oggetti rimasti nudi sono quelli nell'armadio della madre. D entra di rado in quella stanza, sta molto male quando lo fa. Era estremamente legato a sua madre, a volte si masturbava sul suo letto quando era ancora viva. Non lo ha più fatto, dopo. Però di rado entra in quella stanza e si inginocchia sul pavimento sprofondando la testa nel letto. Desidera essere frustato così. Non sa da chi, da entità astratte. Da nessuno che conosca e del resto non farebbe entrare nessuno in quella stanza. Perchè no, non si può. D è pieno di regole implicite. Poi si vergogna, torna nella sua stanza, piange.
Ha 32 anni, potrebbe ancora farsi una vita, ma quale? Quale vita? D non sente di averne una o meglio, sente di essere fisso come il sole e osserva la terra girargli attorno, tutti i giorni, senza mai fermarsi. La terra che per D è diventata inafferrabile. E' come il perno di un giradischi. Il disco è sempre lo stesso, oramai consumato. Non ricorda neanche più le parole di quel disco.
Inizia a modellare la stoffa attorno al contenitore di vetro, cuce i primi punti e valuta dove applicare i bottoni. Si sente strano, tutto sembra pesargli enormemente, l'idea che la gente ha di lui, l'idea terrificante che lui ha della gente. Tutto sembra pesargli e schiacciarlo in una maniera mostruosa. D si alza, prende un piatto, vorrebbe metterci qualcosa, ha ancora fame... poi no, non più. In realtà non vuole più niente, non vorrebbe più esistere. Vorrebbe scomparire, vorrebbe morire. Allora va nella sua stanza, sa di poter porre fine alla sua esistenza in qualsiasi momento, deve solo decidere. D ha deciso. Conservava da tempo una pistola. La pistola di un suo caro amico svizzero, un ex poliziotto. Va a prenderla e la porta in cucina, si siede nuovamente al tavolo. Guarda la saliera, il vestito appena iniziato. E' terrorizzato. Terrorizzato all'idea di rimanere. Molto più che spararsi. La pistola è ancora carica, lo sa. Non sa neanche dove guardare ma lo sa. Gli viene da ridere... tra poco potrà porre fine al terrore. Non dovrà più uscire, non dovrà più sentire niente e nessuno. Non dovrà più subire. Si punta la pistola in bocca, lo ha visto fare in tanti film... del resto fare un pompino non gli è mai dispiaciuto. La succhia, la lecca, poi basta, finiamola qui, spara.
La testa di D crolla nel piatto vuoto, il sangue e il cervello schizzano ovunque sulle pareti e sui mobili, sugli oggetti vestiti e nudi. D è morto sul colpo. Ha la testa spappolata. Fine del disco.
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