La Baronesso Zelda - capitolo I

di
genere
dominazione

La puledra entrò nell’affollata piazza del mercato scalpitando, era nervosa, sudata e soprattutto impaurita. I primi che la videro rimasero senza parole, poi un brusio si alzò dalla folla, i più anziani disapprovavano, ma i più giovani si accalcavano, per vedere meglio, intorno alla cavallina che era sempre più impaurita e che ormai avanzava tremante, al passo. La cavallina era una giovane donna di circa venticinque anni, esile nel corpo, ma con gambe robuste e polpacci muscolosi. Trainava il calesse della sua padrona, una nobildonna, un po’ più giovane della sua schiava, che vedendola incerta e smarrita le affibbiò due belle frustate sulla schiena seminuda e la costrinse a proseguire verso il lato della piazza dove sul muro del palazzo delle guardie c’erano gli anelli per legare i cavalli. Un carretto seguiva il calesse della nobildonna, ma questo non aveva suscitato particolari interesse, era infatti trainato da due forzuti giovanotti ed a bordo di esso si trovava la serva della nobildonna. Agli schiavi di sesso maschile, utilizzati come cavalli, gli abitanti del villaggio erano abituati, gli schiavi più forti venivano impiegati così da quando quella comunità era arrivata nella valle, e non era una prerogativa dei nobili, anche i più ricchi artigiani del villaggio li utilizzavano a quel modo, sia per lavoro che per diletto, ma una donna utilizzata come puledra era la prima volta che si vedeva. Visto che la plebaglia, composta di artigiani, sfaccendati, schiave e schiavi non si faceva da parte la giovane nobildonna diresse qualche frustata anche su di loro e si aprì la strada verso un posto libero. Ai ganci della parete del palazzo delle guardie erano già legati alcuni puledri con i rispettivi carretti o calessi.

Era giorno di mercato e la giornata splendida e soleggiata aveva spinto molte nobildonne a scendere in paese dai loro palazzi sistemati in collina per fare compere. La piazza del villaggio era affollata e così pure i locali che sorgevano intorno ad essa, trattorie e cantine erano piene. Sulla piazza oltre al comando delle guardie c’era anche il tribunale e quello era giorno di udienza, il tribunale era anch’esso un luogo che attirava molta gente.
Le donne della valle, a qualunque ceto sociale appartenessero, indossavano lunghe vesti che arrivavano alle caviglie, le differenze si manifestavano nella ricchezza dei tessuti e del taglio. Le nobili indossavano vesti riccamente colorate e ricamate, in genere, almeno nella bella stagione, tenevano il capo scoperto, mentre le mogli degli artigiani indossavano vesti ordinarie e spesso portavano una cuffia in testa. Un’altra differenza stava nella biancheria intima, le nobili, soprattutto se giovani, indossavano reggiseni e mutande di seta o del cotone migliore e più fine, si trattava spesso di tessuti ricamati, infine portavano calze di seta; le donne del villaggio indossavano biancheria di cotone e calze di cotone o lana, dipendeva dalla stagione.
Anche i vestiti dei nobili erano raffinati e colorati, in quella stagione indossavano pantaloni di morbido panno e camicie ampie e colorate sopra le quali generalmente portavano una giubba o una casacca; gli abitanti del villaggio vestivano nonostante il caldo pantaloni di fustagno o velluto e giubbe dello stesso tessuto o di lana. Le schiave e gli schiavi vestivano secondo i gusti ed i mezzi dei padroni e secondo il loro ruolo. Quelli che lavoravano in casa dei padroni avevano maggiori possibilità, in genere indossavano i vestiti smessi dai padroni, i contadini vestiti di tela grezza. Le cameriere, se erano giovani e belle e servivano presso case ricche, indossavano vestiti simili a quelle delle padrone, spesso nuovi e raffinati. A parte le cameriere gli altri schiavi indossavano biancheria dozzinale o non ne portavano affatto. Il tratto che li distingueva dai cittadini e dai nobili era un collarino di cuoio che portavano ben visibile al collo ed un piccolo marchio a fuoco che veniva loro imposto, quando erano ancora giovani, sul fianco destro e che era la prova finale del loro stato.

Scesa dal calesse la nobildonna Zelda de Ruz si rivolse al piantone che come tutti gli altri era rimasto sorpreso e sconcertato. – Stia attento che non molestino la mia cavallina. –
- Certo Baronessa – rispose arcigno la guardia. Il piantone non poté impedire però che una folla si raccogliesse lì intorno per dare un’occhiata alla puledra e riuscì a malapena promettendo le pene più severe ad impedire che qualcuno si avvicinasse a toccarla. Era una bella cavallina e nella sua tenuta attirava l’attenzione degli uomini e faceva scandalo tra le donne. Il viso anche se sfigurato dal morso e dai finimenti che lo incorniciavano era carino, il capo era ricoperto da una civettuola calottina di cuoio nero che alla sommità era bucata per consentire alla lunga treccia di capelli di fuoriuscire, con il risultato che quando correva i capelli si agitavano nel vento. Sulle spalle portava una mantiglia che la copriva fino a sotto il piccolo seno che si intravedeva a malapena racchiuso com’era in un reggiseno di pelle. La mantiglia copriva in parte il robusto sottopancia in cuoio che scendeva con due grosse bretelle dalle spalle e si chiudeva come un’armatura sotto il seno per poi allargarsi sulla pancia davanti e sulla schiena di dietro, quindi stringersi e terminare sopra i fianchi. Più in giù un ampio gonnellino copriva le intimità della puledra, anch’esse protette da morbida pelle. Il gonnellino svasato per consentirle di correre arrivava a metà coscia e queste erano lunghe e robuste come i polpacci. Calzava degli scarponcini di cuoio e pelle con le punte ed i tacchi rafforzati da pezzi di ferro. Questi ultimi costituivano, con i finimenti ed i pesanti calzettoni di lana, gli unici punti in comune con quanto indossavano i puledri. I cavalli, almeno d’estate, portavano delle brache allacciate sul davanti corte ed attillate fino al ginocchio e una giubba corta e larga di lana che arrivava fino all’ombelico. Anche i cavalli sotto la giubba portavano un sottopancia da cui partivano le fibbie che si collegavano al carro o al calesse e dove in alto venivano fissati i polsi. Tutto sommato anche l’abbigliamento maschile era abbastanza indecente, ma a quello i pudichi abitanti della valle si erano abituati giustificandolo con l’indubbia funzionalità.
La puledrina era legata alle stanghe con dei tiranti collegati, come per i puledri, al sottopancia, e analogamente ai puledri, i suoi polsi erano legati in alto, tra le scapole, al sottopancia. La puledrina guardava il muro cercando di recuperare le forze, le gambe le tremavano per la fatica e per la paura, il viso era rosso per la vergogna. Da entrambi i lati c’erano dei puledri, lei timida ed intimorita non osava guardarli e soprattutto sapeva che non poteva parlare. Loro sapevano bene che un cavallo non può parlare. La puledra era imbracata come i suoi simili di sesso maschile, gli altri finimenti erano quelli tradizionali: briglia, cavezza, morso e redini. Piano piano la folla dei curiosi si disperse anche se qualcuno veniva sempre a dare una sbirciatina.
La puledrina si chiamava Perla e quello per lei non era stato un giorno felice, i suoi guai erano iniziati un mese prima quando la sua padrona aveva deciso che invece di uno stallone voleva essere portata in giro da una puledra, quel giorno aveva iniziato ad allenarla, Perla aveva preso tante frustate, e poi si era rassegnata ad accontentarla.

Anche Ardea era infelice e agitata mentre girava per il mercato alla ricerca delle provviste per la sua padrona. La ragione di tutto ciò, lo sapeva bene, era in quello che l’aspettava l’indomani. All’alba sarebbero venuti a prenderla e l’avrebbero condotta nella fattoria, dove avrebbe trascorso i successivi quindici giorni. In quel periodo sarebbe stata montata per due volte al giorno dai giovani stalloni della fattoria. Aveva ventun anni e la legge diceva che le schiave di quell’età si dovevano sottoporre a quel rito. Il rituale poi si sarebbe ripetuto altre due volte e ogni volta dopo tre anni. Quell’usanza era nata con lo scopo di regolare le nascite degli schiavi e di selezionarne la qualità. Per le schiave, rimanere incinta, era possibile solo in quel luogo e ad opera degli schiavi adibiti allo scopo, in altri modi non era permesso, anzi era un tabù. Per una schiava rimanere incinta di un padrone o di uno schiavo che non fosse uno stallone della fattoria voleva dire essere punita severamente, la punizione consisteva di una pubblica fustigazione in piazza, per questo motivo tutte le schiave stavano attente a che ciò non si verificasse. Non rimanere incinta era tutto sommato semplice, bastava stare attente e bere, come era stato insegnato a tutte le schiave, un infuso di erba amara che si trovava dappertutto nella valle e che tutte le schiave, ma anche le altre donne se volevano, sapevano preparare. Ardea era pronta per quel momento, fin dalla più tenera età le erano state spiegate le leggi e le regole scritte e non scritte che governavano il mondo della valle nella quale viveva e per lei e tutti gli altri abitanti di quella valle l’universo conosciuto era tutto lì. In quel mondo era quasi tutto preordinato e pianificato, ma c’erano due o tre momenti nella vita di uno schiavo o di una schiava che erano incerti, uno di questi sarebbe arrivato dopo la prima gravidanza, in quel momento spesso i padroni rivendevano le loro schiave e generalmente la loro situazione mutava in peggio, era questo che in quelle calde giornate estive agitava il sonno della giovane schiava. Si domandava cosa ne sarebbe stato di lei?
In quel luogo senza tempo fino a quel momento lei tutto sommato aveva vissuto bene, aveva un posto al caldo dove dormire, cibo e vestiti in quantità, i padroni l’avevano trattata bene e non se ne lamentava, sapeva che c’era di molto peggio, la mattina quando andava al mercato parlava con le altre schiave e veniva a conoscenza di tutto quello che accadeva nella valle. Si considerava fortunata, ma fino a quando sarebbe durato?

Secoli prima il Principe era stato ferocemente perseguitato da altri nobili che non ne approvavano i suoi comportamenti e le sue scelte politiche. Le sue terre furono messe a ferro ed a fuoco, il suo castello fu circondato e posto sotto assedio, nel giro di qualche settimana sarebbe stato espugnato. Conscio di questa eventualità il Principe tentò una sortita e pagando un duro prezzo riuscì a scappare portando con sé gran parte della comunità che aveva trovato rifugio nel castello. Lo seguirono i nobili fedeli con le loro famiglie, la sua corte fatta di un buon numero di burocrati, soldati, artigiani. Schiave e schiavi furono costretti a seguirlo. Gli schiavi erano una delle ragioni principali per le quali era entrato in conflitto con gli altri nobili del paese, il Principe era fermamente contrario alla loro liberazione, mentre nel resto del paese ciò era già avvenuto. Per settimane fu inseguito dagli altri nobili e le schiere dei suoi seguaci furono decimate, ma in un migliaio riuscirono a varcare il valico di una grande catena montuosa e poi nessuno più li inseguì. Tra le montagne il freddo ed il gelo continuarono a mietere vittime in gran quantità, morirono con gli uomini quasi tutte le bestie, si salvarono solo i piccoli animali da cortile, qualche capra e qualche pecora, pochi maiali. Ma cavalli, buoi e vacche furono decimati. Continuarono a vagare per settimane e settimane tra le montagne e quando ormai erano oltre il limite delle forze trovarono quella grande valle che da quel momento diventò il regno del Principe e che lui tramandò ai suoi figli.
La valle che sorgeva nel mezzo di grandi montagne era gelida, sarebbe stato impossibile viverci se il clima non fosse stato mitigato dalla presenza di un piccolo lago e soprattutto dall’esistenza di alcune sorgenti di acqua calda di origine vulcanica. Ciò che convinse il Principe a fermarsi nella valle era essenzialmente il fatto che era inaccessibile, pochi uomini all’imbocco della stessa potevano difenderla all’infinito da un esercito e soprattutto era sconosciuta, selvaggia e disabitata. Quello era il luogo ideale per ricominciare. Il Principe divenne così il Principe della Valle e libero da costrizioni costruì quella nuova società secondo i suoi gusti ed i suoi maniacali principi che si tramandarono nei secoli con piccoli aggiustamenti.
Nel momento in cui si svolge questa storia la società della Valle si era grandemente sviluppata, ma era come all’inizio rigidamente suddivisa in caste. In cima c’erano i nobili, erano una dozzina di famiglie, quelle che erano sopravvissute alla fuga, che si erano divisi tra loro tutta la terra della valle. Poi c’erano i burocrati con le loro famiglie che svolgevano l’importante ruolo di amministrare e far osservare le regole, in queste attività venivano impiegate una cinquantina di persone, alcuni lavoravano e vivevano a corte, altri nel villaggio. Seguivano i soldati, quelli in servizio permanente erano un centinaio ed avevano essenzialmente funzioni di polizia e di controllo del passo, nessuno poteva entrare o uscire dalla valle; a questi uomini si aggiungevano quando era necessario i guardiani di cui ogni nobile disponeva, ne avevano almeno una decina a testa. Poi i commercianti e gli artigiani, fabbri, sarti, conciatori, ed altri ancora, con i loro aiutanti erano in tutto alcune centinaia di persone e con le loro famiglie erano quasi un migliaio, vivevano essenzialmente nel villaggio che sorgeva al centro della valle sulla riva del lago. Infine gli schiavi che tra donne e uomini erano diventati più di duemila, più della metà della popolazione della valle, la maggior parte di loro lavorava nei campi e nelle piccole miniere, il resto, soprattutto le donne svolgevano servizi domestici presso i nobili e presso le famiglie dei burocrati e degli artigiani. Anche presso le guarnigioni dei soldati lavoravano diverse schiave e parecchi schiavi. La valle era lunga trenta miglia e all’inizio, subito dopo il passo che avevano trovato, era quasi altrettanto larga, poi mentre risaliva verso le pendici dei monti che la circondavano si restringeva. Il Principe scelse per sé la metà in alto della valle e divise tra i suoi nobili i rimanenti terreni. Ogni nobile costruì sulla propria terra e generalmente alla pendice dei monti, la propria casa, all’inizio si trattò poco più che di un rifugio, poi nel tempo sorsero belle case di pietra circondate da grandi parchi e più lontano furono sistemati gli alloggi comuni delle schiave, separati da quelli degli schiavi, si trattava degli schiavi che facevano i contadini o lavoravano nelle miniere, perché quelli che avevano funzione di domestici vivevano nelle case dei padroni. Vicino agli alloggiamenti degli schiavi, ma nettamente separato sorgeva il borgo feudale, poche case, dove vivevano i guardiani degli schiavi con le loro famiglie, gli amministratori del feudo e qualche artigiano. Su un lato della valle, verso la metà, in riva al lago trovò posto il villaggio dove vivevano essenzialmente gli artigiani ed i burocrati meno importanti. Anche loro partendo da miseri tuguri si erano costruiti nel tempo delle belle e linde casette di pietra e di legno, con annessa l’officina e generalmente un piccolo giardino con l’orto.

Ardea era la schiava domestica di una famiglia di artigiani. Il padrone l’aveva acquistata all’età di diciotto anni, all’età giusta quindi, prima non era possibile, dal collegio in cui schiave e schiavi venivano allevati fino a quell’età. Il collegio ospitava un centinaio di giovani schiavi di tutte le età. Gli schiavi crescevano lì, fin da bambini, appena svezzati erano affidati al collegio diventando proprietà della comunità e due volte all’anno, in primavera ed in autunno, quelli che avevano raggiunto l’età di diciotto anni venivano messi in vendita. Non era così prima che quella comunità arrivasse nella valle, ma la scarsità degli schiavi sopravvissuti alla terribile odissea della fuga secoli prima aveva introdotto questa usanza. La prima scelta toccava al Principe, poi venivano i nobili e quindi si apriva l’asta a cui partecipavano le altre caste e i responsabili degli organismi amministrativi della valle che acquistano gli schiavi per le loro esigenze. Ardea era abbastanza carina, ma non tanto da interessare il Principe o i nobili, era una ragazza paffutella e graziosa, con capelli ricci e castani, se non era tanto bella da interessare un nobile non era neanche tanto brutta da essere destinata a lavori manuali. Quando i nobili terminarono i loro acquisti e lasciarono il campo lei era rimasta comunque una delle prede più ambite. L’artigiano spinto dalla moglie che voleva sostituire la vecchia ed ormai stanca schiava che avevano fu ben lieto d’accontentarla e spese una fortuna per ottenerla. I soldi andavano al collegio che si occupava di mantenere ed educare gli schiavi. L’educazione delle schiave e degli schiavi era particolarmente importante, si insegnava loro l’obbedienza e l’umiltà, a lavorare ed a servire, nell’ultimo anno di collegio alle schiave veniva anche spiegato che i loro padroni si aspettavano da loro che fossero ubbidienti anche in privato. Le schiave dovevano arrivare vergini ai loro primi padroni e anche in questo caso c’erano punizioni severissime se ciò non accadeva.
La vendita si svolgeva nel cortile del collegio. All’alba c’era già una gran confusione, ma quando arrivarono i nobili tutti si zittirono e cominciò la sfilata delle schiave e degli schiavi. Per questo scopo c’era una vera e propria passerella. Il prefetto del collegio chiamava la schiava o lo schiavo, generalmente erano una quindicina, diceva come si chiamava, solo il nome, e mentre lo schiavo sfilava seminudo sotto gli occhi dei presenti ne elencava le qualità e fissava il prezzo. Per i nobili era un prezzo fisso. Il Principe quella mattina non scelse niente, un nobile di una quarantina d’anni, per accontentare l’affascinante e giovane moglie che aveva la metà dei suoi anni, scelse un’avvenente schiava bionda, ma prima volle vederla meglio e ordinò alla schiava di sollevare la gonna e di scoprirsi il seno. Timorosamente, ma allo stesso tempo felice di poter andare a servire in una nobile casa, la bionda e procace serva si scoprì lasciando vedere le sue grazie. Era bella e formosa, forse anche un po’ abbondante, aveva la pelle bianca, lattiginosa e lucida. Il viso era tondo e dolce, spruzzato di lentiggini, il seno ampio e cremoso. Non c’erano angoli nel suo corpo, tutto era smussato in un insieme di dolci curve. Aveva i fianchi larghi e soffici, il culo alto sembrava fatto di burro, e le cosce erano lunghe e formose. Era una bellezza soffice e morbida, una delizia per i suoi padroni che da quel momento avrebbero potuto accarezzarla e tastarla.
La bionda si chiamava Rona ed era una cara amica di Ardea. Altri scelsero dei contadini per i loro campi e una nobildonna scelse un ragazzo muscoloso e prestante. – Mi serve un puledro, quello che ho non ce la fa più, lo manderò in miniera. – Il marito acconsentì. Un altro nobile scelse un ragazzo esile, bello e delicato, Ardea si chiese per quale scopo, ma vide che molti dei presenti ridacchiavano e maliziosamente intuì l’uso che di quello schiavo si poteva fare. Infine i nobili se ne andarono e così cominciò l’asta vera e propria e il prezzo iniziale non fu più fisso. Il capo delle guardie scelse una mora per la guarnigione del passo e quella scoppiò a piangere mentre il pubblico si sganasciava dalle risate. Infine il prefetto della fattoria prese un ragazzo per quell’ufficio, il giovane esultò felice. Erano rimasti in cinque, due ragazzi e tre ragazze quando fu la volta di Ardea.

La ragazzetta si fece avanti emozionata sulla pedana. Sapeva che la sua vita dipendeva da colui o da colei che l’acquistava. Indossava una mantellina che teneva stretta a sé, ma quando si avvicinò al banditore questi la prese per un braccio ed allargò la mantella per meglio mostrarla al pubblico. Ardea arrossì e fissò gli occhi sulla pedana mentre il banditore parlava, aveva detto una cifra ed ora stava decantando le virtù della schiava. – Come potete vedere è bella in carne, appetitosa e remissiva. Ottima per sbrigare le faccende di casa e per qualcos’altro. – Prese fiato e gridò: - su chi offre di più. – Intanto che parlava continuava a mostrarla al pubblico. Un giovanotto disse: - faccela vedere meglio, anche di dietro. – Il banditore mentre iniziavano a fioccare le prime cifre fece girare Ardea che docilmente si voltò e sollevò la mantellina mostrando le cosce e le natiche. Era stata istruita a tutto ciò, ma era meno brillante della sua amica Rona e sebbene eseguisse senza discutere tutti gli ordini del banditore continuava ad arrossire ed a tenere gli occhi bassi. – Come vedete è una ragazza pudica, ma come vi ho già detto obbediente e docile. Su chi offre di più. -
Fu a quel punto che l’artigiano fece la sua proposta e sparò abbastanza in alto come per dire: è il mio ultimo prezzo. Purtroppo per lui il giovane, un commerciante, che prima aveva chiesto di vedere meglio offrì di più e l’artigiano stizzito si rivolse alla moglie per chiedere consiglio. Questa ormai aveva deciso che Ardea era la serva ideale per la sua casa, pensava a lei che ne aveva bisogno per le incombenze domestiche, pensava al marito che non sopportava più e che con quella giovinetta si sarebbe potuto distrarre e pensava pure al giovane figlio che tra qualche anno avrebbe dovuto soddisfare i suoi bollenti e giovanili spiriti. L’artigiano fece quindi una nuova e generosa offerta ed ottenne la giovinetta che di lì a qualche istante li seguì impaurita sulla strada di casa.

Un’altra importante fiera di schiavi si svolgeva in estate nella piazza del paese durante la festa della valle che durava una settimana. Naturalmente i padroni potevano vendere gli schiavi, se raggiungevano un accordo, l’uno all’altro in qualsiasi momento, ma generalmente gli schiavi di maggior talento venivano portati alla fiera dove era possibile spuntare un prezzo maggiore. Questo era il momento che preoccupava maggiormente Ardea. Il padrone era morto da qualche anno e la signora ormai non poteva più permettersi una schiava giovane e carina, doveva ripiegare su una più vecchia, non l’aveva venduta prima per il figlio Tord, voleva che avesse un giocattolo in quell’età in cui si diventa grandi. In quella comunità tutto sommato abbastanza bigotta il sesso tra pari era ammesso solo dopo il matrimonio, e si svolgeva tutto in modo molto casto e pudico, ma le pratiche sessuali degli uomini liberi con le schiave erano, come sempre era stato, ammesse. Si trattava di puro divertimento e per i giovani di un nobile esercizio che consentiva loro di fare pratica, ed il figlio, dopo la morte del padre, si era esercitato moltissimo. Molte schiave venivano comprate quasi esclusivamente per questo, e le mogli non ne erano gelose, lasciavano volentieri che i loro uomini si sfogassero con le schiave, purché lo facessero senza ostentazione e tra le mura domestiche, mentre l’adulterio con una pari costituiva una grave violazione della legge e della morale. Veniva ammesso che un uomo si accompagnasse con una schiava non di sua proprietà, naturalmente con il permesso del suo legittimo padrone, altrimenti l’atto era equiparato ad un furto. Non era buona educazione che invece le donne libere si accoppiassero con gli schiavi, ma in questo caso la legge non interferiva, le donne rispondevano eventualmente di questo ai mariti o ai padri. Tord si apprestava a lasciare la casa materna ed aveva espresso il desiderio di avere una nuova schiava tutta per sé. – Prenditi Ardea – le aveva detto la madre. – E’ una buona schiava, anche a letto. Almeno così diceva tuo padre. - Ma Tord le aveva risposto di no. – Sarà pregna ed inutilizzabile per un anno. E poi ho voglia di una vergine da educare come desidero io, quella schiava è superba. Io la manderei a fare la contadina. Tienitela tu. –
La madre non se la prese più di tanto, non valeva la pena di litigare con il figlio per una schiava. - Sai bene che dopo la morte di tuo padre e con te che vai via non posso mantenermela. La porterò alla fiera e vedrai che la venderò bene. – Ardea aveva ascoltato apparentemente impassibile questi discorsi che si svolgevano in sua presenza, ma aveva la morte in cuore. Tord era uno zotico ed a letto non valeva granché, era totalmente privo di fantasia, ma non l’aveva trattata male, si limitava a soddisfare i suoi bisogni e poi la lasciava andare, con il padre era andata un po’ meglio, ma il livello era quello, la signora era una bigotta e per sua fortuna non l’aveva mai toccata, si mormorava con grande circospezione che ad alcune schiave toccava soddisfare anche le padrone, ma lei era convinta che fosse una pratica poco piacevole. A Ardea quella situazione andava bene, non si divertiva, ma poteva capitarle di peggio, qualcuno o qualcuna, come aveva sentito che maltrattava le proprie schiave, oppure poteva finire a fare la contadina e dover dormire con un sacco di compagne e compagni sporchi e pieni di pulci in un alloggio comune. Chi sa poi chi le sarebbe capitato da soddisfare, nel migliore dei casi un giovane istupidito dalla fatica e sporco, oppure qualche vecchio zotico, gli schiavi non avevano una vera e propria famiglia, ma in quella vita in comunità, spesso si formavano delle coppie fisse. I guardiani in genere non si abbassavano a farsi le contadine, per quello scopo avevano le loro schiave, naturalmente più belle. Ardea poteva finire tra queste, ma era una vita davvero poco gradevole, le schiave venivano passate di mano in mano fino allo sfinimento. Ardea aveva quindi ragione di preoccuparsi, il suo futuro era rischioso e quella mattina in cui una giovane puledra era comparsa per la prima volta nella piazza del paese lei rimase sconvolta.
Non sentì neanche una sua vecchia compagna di collegio che la chiamava, era Rona, la bella bionda che anni prima era stata venduta ad un nobile lo stesso giorno che lei diventava schiava dell’artigiano. Rona la chiamò ancora una volta e lei finalmente si girò. Le due amiche si sorrisero e si abbracciarono. Rona non aveva molto tempo per chiacchierare, era con la sua padrona la nobildonna Zelda de Ruz, ma volle sapere come stava. Ardea le confidò le sue apprensioni sull’indomani e Rona rispose: - meno male che ci sei pure tu, ci sarò anch’io, almeno ho un’amica con cui condividere questa triste esperienza. – Quella notizia rasserenò l’animo di Ardea, ma in quel momento comparve la nobildonna che colpì con il frustino Rona sul viso e le inveì contro: - ecco dov’eri stupida, a spettegolare. Voi schiave non sapete fare altro. Scommetto che ti lamentavi di come ti tratto. -

- No Signora, non è vero, stavo dicendo alla mia amica che lei mi tratta davvero bene. –
- E’ proprio così Padrona, la sua schiava mi diceva che per lei è un grande privilegio servirla e che non poteva desiderare padrona migliore. –
La nobildonna aveva ventitré anni ed era bella e terribile. Alta un po’ più di Rona aveva i capelli biondi e lunghi raccolti a coda di cavallo. Era snella e forte, ed aveva un caratteraccio. – Come ti chiami? –
- Ardea, Padrona e sono ai vostri ordini. –
- Sei bene educata Ardea. Chi è il tuo padrone? -
- E’ morto Padrona, ora servo sua moglie, la signora Koner. -
- Come mai conosci la mia serva? –
- Eravamo in collegio insieme, abbiamo la stessa età. – Poi pudicamente ed abbassando la voce aggiunse: - domani dovremo andare insieme alla fattoria, stavamo parlando di questo. –
Zelda sorrise. – Le serve dei nobili dovrebbero essere esentate da questa legge, ma mi piacerebbe assistere alla monta. Per voi è la prima volta. So che quasi tutte le schiave ci vanno timorose, ma poi godono come cagne in calore. In fondo siete delle sgualdrine. -
- Certo Padrona – rispose Rona, mentre Ardea non trovò nulla da dire. Poteva essere pericoloso offendere una nobildonna. Mentre parlavano erano ritornate verso il calesse, Zelda si rivolse ad Ardea, ma fece in modo che Rona sentisse.
– Rona sa già quali sono i miei ordini. Una schiava per bene gode solo per il piacere dei suoi padroni e solo quando questi glielo permettono, alla monta si va per fini pratici e non per divertirsi. La sovrintendente è una mia amica e mi riferirà tutto. Se osa godere rimpiangerà di essere nata, potrei farle fare la puledra. –
Rona non disse niente, ma diventò bianca come un cencio.
Poi la padrona montò sul calesse e con lievi ed amorevoli frustate indirizzò la spaventata puledrina sulla sicura via di casa.



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koss99@hotmail.it
scritto il
2018-03-29
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