Due palmi sotto il sole
di
CLAUDIO TOSCANI
genere
sentimentali
CLAUDIO TOSCANI
DUE PALMI SOTTO IL SOLE
Romanzo
Una narrazione ariosa, avvincente, nella quale ecologia e sentimenti si fondono armoniosamente. Paesaggi memorabili.
Note dell’autore
La contesa per impedire la costruzione di un invaso artificiale e la descrizione degli ambienti ecologisti, sono scenari su cui inserisco la storia d’amore tra Silvia, dotata di forte personalità, e Mauro un pittore talentuoso ma fragile d’indole. Le figure di Livio, intellettuale ponderato e riflessivo, di Fabrizio, un tecnico che nasconde la sua sensibilità con burle e ironia e Stefano, ragazzo generoso e leale, esprimono gli animi degli ambientalisti militanti. Tra gli ecologisti c’è anche il Bizza, personaggio petulante in eterna polemica con tutti e Linda figura di donna che mai riesce avere una relazione duratura per l’ansia di ricercare l’uomo giusto.
Emergono le figure dei genitori di Mauro, il saggio Luciano e l’apprensiva Nadia, esempi di fedeltà e adattamento reciproco, la tenace Tiziana e Riccardo ex contestatore degli anni settanta divenuto imprenditore commerciante, coniugi che sfuggono di un soffio ai tranelli delle consuetudini familiari.
Il Roby, sindaco di Sanfabiano, è invece figura inconsueta d’amministratore che paga la sua indipendenza con l’ostracismo dei suoi stessi amministratori.
Nella storia, in cui acquistano rilevanza le dinamiche familiari, hanno spazio figure d’importanza minore che tratteggiano le singolarità del microcosmo umano: Pansecco, personaggio tipico di un’agricoltura di sopravvivenza, presente sulle colline appenniniche fino alla fine degli anni cinquanta, l’ingegnere rammaricato di non saper dipingere, che avverte la sua professione come una gabbia e l’Allegrini, intollerante solo all’apparenza del linguaggio ma di buon di cuore. Poi Tamara, amica d’infanzia di Mauro, che personifica la curiosità femminile, Erminia la fruttivendola, dotata di vitalità e coraggio, Walter lo smanceroso barista di Montelignano, Gina l’anziana maestra che vive di ricordi, Massimo e Giorgio, compagni di Mauro simboleggianti l’invidia. Rossana, l’ex fidanzata di Mauro, esprime invece sofferenza affettiva causata dalla sua indole astiosa. Infine Nando, il simpatico paziente che trasforma la corsia di un ospedale in borgo paesano, con la sua carica umana.
Il mio intento: essere riuscito a scrivere un’opera che affronti i temi ambientali non rinunciando a descrivere avventura, sentimenti, quotidiano divenire familiare, sessualità e tenerezza svincolate da ipocriti pudori. Nel delineare luoghi, avvenimenti e un microcosmo di personaggi, spero di essere riuscito a narrare una storia somigliante, a tratti a un acquerello, altre volte a un dipinto a olio con tinte forti, che faccia intendere quanto la vita sia guidata dal caso e come l’uomo possa solo tentare di gestire il decorso degli eventi.
La narrazione è ambientata nella primavera-estate del 2003 allo scopo di adattare i personaggi alle necessità della trama.
PRECISAZIONI
Storia narrata, sigle d’enti, associazioni, personaggi e località sono immaginari.
GIUDIZIO SULL’OPERA
La coraggiosa denuncia di Naldi, ecologista convinto e autore di questa fatica letteraria, la sua capacità di trattare argomenti tecnici in maniera comprensibile a tutti, ma con rigore scientifico, è avvincente. La vena poetica con la quale descrive la natura e l’umanità dei personaggi, tratteggiano un mondo di personalità e conquistano l’attenzione del lettore. La storia d’amore tra Silvia e Mauro, i due protagonisti, è fresca, immediata e venata di erotico romanticismo che si immedesima con la natura stessa dell’universo. La descrizione dei luoghi è talmente realistica da apparire visiva.
Prof. Bruno Capaccioni, geologo e docente in scienza dell’acqua presso l’università di Urbino.
RIASSUNTO DEL ROMANZO
Mauro Falaschi, giovane restauratore di mobili e pittore talentuoso, si reca presso un circolo ambientalista. Vuole informare l’associazione ecologista dell’esistenza di un progetto per la realizzazione di una diga, che sconvolgerebbe un ecosistema non ancora aggredito dalle attività umane. Conosce Silvia Colombo ed è colpo di fulmine per entrambi.
Mauro entra in un mondo fatto di dubbi e dedizioni. Silvia scopre la sua indole passionale, l’ansia della gelosia, la burrasca del piacere fisico. I due giovani vivono in famiglie economicamente e affettivamente solide, nessun ostacolo si frappone ai loro sentimenti e i genitori li aiutano quando rimangono vittime dell’invidia. La storia, un contrario di Giulietta e Romeo, si avvia a una serena conclusione ma quella natura che i due ragazzi amano…
La narrativa è espressione di democrazia perché obbliga l’autore a mettersi nella mente degli altri, uomini o donne che siano, ideando molteplici individualità.
Claudio Toscani
PROTAGONISTI
SILVIA COLOMBO
MAURO FALASCHI (soprannominato Raffa)
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PERSONAGGI COMPRIMARI
In ordine alfabetico
ARTURO (membro direttivo della FNEI)
FABRIZIO (membro direttivo della FNEI e portavoce degli ecologisti)
LIVIO (presidente della FNEI)
LINDA (membro direttivo FNEI)
LUCIANO (padre di Mauro)
MANUELA (Manu, sorella di Mauro)
NADIA (madre di Mauro)
RICCARDO (padre di Silvia)
STEFANO (membro direttivo FNEI)
TIZIANA (Madre di Silvia)
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PERSONAGGI DI RILEVANZA NARRATIVA
(in ordine alfabetico)
ALLEGRINI (un anziano insofferente ai rumori molesti)
ALVARO (un ragazzo simpatizzante degli ecologisti)
CARLO (socio di GREENPLANET)
ROSSANA (ex fidanzata di Mauro)
CIRO soprannominato Faina (abitante di Montelignano)
ERMINIA (anziana Fruttivendola)
DINO (socio AIDA)
FEDERICA (socia AIDA)
FRANCO (membro direttivo della FNEI)
GIORGIO (paesano di Mauro)
GINA (anziana maestra elementare di Montelignano)
LORENZO (fratello di Silvia)
LUIGI “Gigi” (socio Amici Del Lupo)
MARTINA (nonna di Silvia)
MASSIMO (paesano di Mauro)
MONICA (membro direttivo della FNEI)
NANDO (un paziente dell’ospedale)
OTTAVIO (infermiere dell’ospedale)
PATRIZIA (sorella di Silvia)
ROBERTO (soprannominato Roby, sindaco di Sanfabiano)
TAMARA (amica d’infanzia di Mauro)
VALERIA (Socia di Terra Nostra)
WALTER (gelataio di Montelignano)
Tutto è uno: ciò che faremo al fiume lo faremo agli umani, agli animali, al mare, alle piante. Ciò che provocheremo a uno lo subiremo tutti.
Pensiero pellerossa
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LIBRO PRIMO
CAPITOLO PRIMO
Valcorniola
Parcheggiata l’auto sul margine dello sterrato che conduceva a Pian degli Ulivi, Mauro soffermò lo sguardo verso la vallata sulla quale si distendeva Sanfabiano. Poi, bardato dei suoi attrezzi per la pittura, imboccò la mulattiera che s’inoltrava in Valcorniola.
La natura lo aveva dotato di talento per le arti figurative ed era stato un docente di Storia dell’Arte a spiegargli quanta differenza corresse tra visione e osservazione. “Chi guarda per vedere si limita a verificare dove siano le cose ma chi osserva coglie l’essenza del mondo.” Gli faceva esaminare le opere degli impressionisti perché cogliesse l’abilità con cui tramutavano grumi di colore nello scendere della sera quando il sole accarezzava terra e mare con l’ultimo brivido di luce.
La mattinata chiara, simile alle tante che avevano fatto somigliare la primavera del 2003 a una precoce estate, gli sciolse il passo. Ignaro che in quel luogo solitario gli sarebbe capitato un incontro tanto importante da orientare il corso della sua esistenza, si trastullò a ritmare l’incedere dei passi fischiettando la colonna sonora di un vecchio western di Sergio Leone.
Quel vallone lo conosceva fin da bambino perché i genitori lo portavano spesso durante la bella stagione. Giungevano fin dove la vecchia cinquecento riusciva a superare i solchi della carrareccia, poi proseguivano a piedi. Sui tratti coperti di foglie morte lo mettevano tra loro, lo sollevavano tenendolo per le mani, correvano per un tratto perché provasse la sensazione di volare, poi lo facevano atterrare sul soffice tappeto che frusciava sotto le sue scarpine.
Il trastullo gli era rimasto tanto impresso che gli piaceva ancora strusciare le suole sulle foglie imperlate di rugiada e smuoverle per annusare la fragranza sprigionata dall’humus della loro decomposizione.
Dopo la nascita di Manuela si erano privati di molte scampagnate e in Valcorniola non c’erano più tornati ma lui aveva continuato ad andarci con la bici da montagna assieme ai compagni di scuola. Si avventuravano su per il torrente, chiamato Rio Maestro perché raccoglieva i ruscelli del vallone, fino a raggiungere la radura che costeggiava un laghetto presso la casupola di Pansecco. Lì si dissetavano al fontanile che scaturiva da un costone roccioso.
Sebbene la viottola seguisse la sponda del torrente per lunghi tratti, Mauro udiva gorgogliare l’acqua senza scorgerla tanto era folta la vegetazione. Macchioni di cornioli, pioppi, sambuchi, aceri e ontani, molti dei quali avevano i fusti avvolti da viluppi d’edera e vitalba, erano cresciuti tanto compatti da far somigliare la boscaglia dell’argine a una foresta tropicale.
Più su la mulattiera si discostò dal rio per inoltrarsi sotto una volta di olmi così densa di fogliame da trattenere ancora la frescura notturna. L’odore muschiato dal sottobosco e la penombra gli infusero una sensazione di benessere. Aggredì un’erta con passo sciolto e raggiunse una piattaforma naturale d’arenaria sotto la quale il rio precipitava qualche metro più in basso. Sostò per far riposare le braccia e rammentò un meriggio dell’autunno passato quando, volendo dipingere dal basso la cateratta, era stato costretto a usare la roncola per aprirsi un passaggio tra i vegetali. Poiché la fratta meno folta l’aveva trovata una trentina di metri più a valle, si era dovuto togliere le scarpe, metterle tracolla legando tra loro i lacci e risalire il torrente portandosi dietro gli attrezzi. Aveva ancora dato di roncola per ripulire uno spazio sufficiente a sistemare il cavalletto ma la fatica era valsa l’intento.
Il fogliame giallo di un pioppo, l’ostro dei pampini di una vite inselvatichita, l’intenso blu delle ombre che contrastavano col candore della cateratta e i riflessi del cielo sulla pozza, avrebbero conferito diversità di toni al dipinto. Non gli rimaneva che fotografare lo scorcio fissando la luce a quell’ora, stendere un rapido abbozzo per definire i confini di lumi e ombre prima che lo spostamento del sole ne modificasse la posizione.
Rimase un poco sul lastrone a osservare il lavorio incessante della natura e ogni volta rimaneva incantato a scoprire l’impareggiabile ingegno col quale essa modellava il mondo. Notò una matassa di vitalbe che avvolgeva il tronco di un ontano. I viticci, che si protendevano fino ai primi rami, gli ricordarono il piccolo corniolo che aveva liberato, qualche anno addietro, dalla soffocante cappa di quei vegetali.
Incuriosito da uno strano rigonfiamento su una lunga siepe di quegli intricati vegetali, aveva allargato il groviglio e scoperto che a formare il bozzolo erano i rametti di un piccolo corniolo che premevano sulla volta della loro prigione. Lui aveva reciso i tralci di vitalba tutt’attorno all’alberello. Rammentò quanto avesse faticato per liberarlo da quei filamenti stopposi. Le fibre avevano opposto una tale resistenza alla roncola da essere stato costretto ad aiutarsi con mani e denti. Aveva dato un'altra sfoltita l'anno dopo e ancora quello successivo. Finalmente nell’estate del terzo anno il corniolo aveva fruttificato. I suoi rametti si erano caricati di drupe divenute vermiglie sul finire di luglio.
Che le corniole fossero frutti commestibili lo aveva saputo da un compagno di scuola che aveva il babbo boscaiolo. Occorreva però attendere che le drupe si colorassero di un rosso cupo e le polpe divenissero molli perché il loro sapore asprigno si addolcisse.
Concentrarsi sui ricordi gli accentuò le minuscole rughe che gli segnavano il volto ai lati degli occhi. Sotto il pelo dell’acqua scorse un granchio. S’immobilizzò per non farsi scorgere ma l’animaletto, procedendo con la sua andatura sbieca, si spostò tra i ciottoli sommersi e scomparve sotto l’acqua cascante.
Oasi di quiete
Oltre, la mulattiera si discostò dal torrente per addentrarsi in una pineta, infine la pendenza si addolcì e la mulattiera sboccò su un piccolo pianoro.
Mauro fece un’altra breve sosta, poi imboccò un ripido sentiero che s’insinuava tra lecci e pruni. Per chi non si fosse mai recato in quel luogo avrebbe immaginato che la pista dovesse esaurirsi nella macchia, invece sboccò su una radura assolata in cui crescevano tarassachi e margherite che picchiettavano un’erba di quel colore smeraldino che era possibile vedere solo nel mese di maggio.
Arbusti di biancospino e una rupe di scisto delimitavano lo spiazzo da tre lati: il quarto formava la sponda del Rio Maestro e si notava come l’alveo fosse stato allargato artificialmente per creare un laghetto. Un ponticello fornito di robuste spallette congiungeva gli argini nel punto in cui il rio tornava a restringersi per riprendere il suo corso. Evidentemente i forestali mantenevano efficiente il passaggio per scopi di presidio sulla campagna.
Passando presso a una casupola abbandonata, un acciottolato riprendeva sull’altra sponda per seguitare lungo il fianco della collina. Sulla facciata della catapecchia, quasi sotto la gronda del tetto, si aprivano due finestrelle senza infissi. A contrasto col muro soleggiato le modeste aperture apparivano così buie da sembrare neri francobolli appiccicati sul margine superiore di una busta. Il tetto non era crollato e il comignolo si manteneva eretto ma il colore rossastro dei coppi era scomparso sotto uno strato di muschi e licheni.
Oltre la bicocca misere strisce di terra, sostenute da muriccioli a secco, apparivano invase da rovi e farinacci. Erano stati i campi di un minuscolo podere rubati al fianco del poggio con chissà quanta fatica. Eppure il contadino Pansecco era riuscito a viverci parecchi anni su quell’argillosa pietraia, assieme ad un branco di figlioli partoriti uno in fila all’altro da una moglie che sembrava reggere l’anima con i denti ma che aveva più resistenza alla fatica di un bove chianino. La gente di Sanfabiano aveva soprannominato il poveraccio “Pansecco” perché talvolta scendeva in paese a rimediare pane raffermo. Per quel briciolo d’amor proprio che anche i più miserevoli individui possedevano, Pansecco ripeteva alla gente che lo avrebbe inzuppato nell’acqua e mescolato con la crusca per governarci le galline. Poiché tutti sapevano quanto grama fosse la sua esistenza e che la moglie usava invece il pane per farci la panzanella, non di rado gli capitava di tornare in Valcorniola con qualche paio di scarpe usate e abiti dismessi. Verso la metà degli anni cinquanta le autorità di Sanfabiano lo avevano aiutato a insediarsi in un podere al piano per consentire ai figli minori di frequentare la scuola. Il Rio Maestro era però menzionato col suo nome originario soltanto sulle carte geografiche perché la gente, per la consuetudine di attribuire spesso a un luogo il nome di qualcuno che in quei paraggi c’era vissuto, lo chiamava Rio Pansecco.
Il prolifico contadino aveva lasciato una fontanella a ricordo della sua permanenza. Sostenendolo con colonnine di mattoni, si era ingegnato a erigere un tettuccio sopra una sorgente che scaturiva dalla rupe. Poi aveva murato un tubicino metallico in una crepa della roccia per incanalarvi l’acqua. Sotto il cannello si era arrangiato a costruire una vasca che aveva fornito di un’altra cannetta di scarico più bassa dell’orlo per non farla traboccare. Sebbene fosse stato rabberciato da ignoti volenterosi e sulle parti sbrecciate crescessero ciuffi di selaginella, il fontanile zampillava ancora.
Il recesso poteva dare il senso dell’abbandono ma per un osservatore come Mauro rivelava angoli pittoreschi che occhi meno attenti non avrebbero colto. Così per trasmettere alla tela l’immagine di un’umile opera dell’ingegno umano che mai aveva visto adattarsi tanto armoniosamente col paesaggio circostante, decise di scegliere fonte e rupe come soggetto da dipingere. Il sole formava un ottimo effetto luminoso. Scattò una foto per fissare la posizione delle ombre, piazzò la tela sul cavalletto e tracciò un rapido schizzo.
Disponeva i colori sulla tavolozza quando gli parve di udire voci. Tese l’orecchio. Avvertì soltanto il gloglottare del torrente. Pensò che i rumori fossero giunti da distanza maggiore rispetto a quel che gli era parso perché il vallone fungeva da conduttore dei suoni e poteva ingannare. La sua mente fu assorbita dalla preparazione della pittura. Il movimento agile e sicuro della mano, che manovrava il pennello con destrezza, sembrava controllare lo scorrere del tempo. In quella mattinata che pareva uscita dal più ruffiano dei poster, lo pervadeva una sensazione di padronanza sul mondo. La lanugine di pioppo danzava sull’aria dando l’impressione che nevicasse sotto un cielo che somigliava a una volta di cristallo. Solo il ronzio degli insetti e il gorgoglio del rio rompevano il silenzio. Sembrava che il mondo avesse preso un giorno di vacanza per oziare.
L’incontro
Abbozzato il dipinto Mauro avvertì la necessità di rilassare la vista e nulla era più efficace che passeggiare senza indugiare a osservare i dettagli delle cose. Immerse i pennelli nel vasetto della trementina e si avviò verso la sponda. Sussultò per un improvviso fruscio. Un merlo era sbucato da un cespuglio. Dal suo becco giallo ciondolava un lombrico. L’uccello si fermò presso l’intruso come volesse esporre la sua abilità di predatore. Poi svolazzò sul tetto della casupola per terminare d’ingurgitare la preda.
Mauro pensò fosse stato Pansecco ad allargare il rio perché l’acqua stagnasse e potesse sguazzarci qualche pennuto animale domestico. Immaginò di vedere il contadino, fradicio e scarmigliato, discendere i meandri del torrente per cercare le sue oche trascinate a valle dalle piene autunnali.
L’acqua era di una trasparenza cristallina. Sul pelo della superficie, in una rientranza della riva, vide un nugolo d’idrometre. S’incantò a guardare quei curiosi insetti le cui zampette consentivano a essi di zigzagare con tanta rapidità da far sembrare il liquido, una superficie solida.
Proseguì lungo la sponda per tentare di sorprendere qualche trota. Scorse invece un tritone. Aveva visto quegli animaletti soltanto nei documentari televisivi e mai avrebbe immaginato che pure lì ci fossero. Si soffermò a osservarne gli arti che ciondolavano inerti rasentando i fondali e la coda a forma di spatola che gli serviva da propulsore. Si domandò se per quella creatura, che sembrava scaturire dal mondo di gnomi ed elfi, la natura avesse riservato un futuro di pesce o abile arrampicatore d’alberi.
Un’ombra di nostalgia per Rossana affiorò nel suo sguardo mentre osservava l’anfibio allontanarsi perché lei rimaneva aggrappata al suo animo come i frutti di lappola uncinavano il vello degli animali. Doveva decidersi di dare una pedata all’orgoglio e chiamarla. La mano andò al cellulare. No, la ricezione era problematica in quella conca e frasi con parole smozzicate non erano adatte per una riconciliazione. Gli avrebbe telefonato l’indomani, verso le undici e mezzo del mattino, quando la sapeva indaffarata ad aiutare sua madre nella preparazione del pranzo domenicale. Doveva essere talmente accorto da usare frasi che evitassero di fare riaffiorare i motivi del loro ultimo litigio. “Scusa per il disturbo Rossana. Ho ricevuto la lettera di un cliente affrancata con un bollo emesso recentemente. Forse manca alla tua collezione. Posso venire a fartelo vedere?” Sì forse quello era un buon pretesto per rivedersi. Tornò a fischiettare la colonna sonora del solito western e imitò il gesto di estrarre la pistola dal fodero immaginando che le finestrelle della casupola fossero un paio killer da sistemare. Imitava di soffiare nella canna della pistola, quando udì parlottare. Si voltò e trasalì. Tre sconosciuti sostavano presso il cavalletto. Si trattenne per capire quali intenzioni avessero. Notò che osservavano il suo abbozzo muovendo le braccia come volessero aiutarsi a commentarlo con i gesti. Non gli parve gente pericolosa. Con i pollici nelle tasche dei jeans si approssimò.
L’uomo che per primo gli porse la mano aveva capelli folti e screziati di bianco in un modo così insolito da far somigliare la sua capigliatura a un frammento di prato dopo una brinata. Di statura alta, un po’ corpulento, aveva spalle massicce e il suo sguardo denotava forte personalità.
«Buon giorno», disse l’uomo rivolgendogli un cordiale sorriso.
«Spero non abbiate dubitato di avere scoperto un tipo un po’ tocco», rispose Mauro mostrando d’aver apprezzato la battuta.
«Perché si è fatto sorprendere con la pistola fumante?» rispose l’uomo. «Dovrebbe vedere le smorfie che faccio davanti allo specchio del bagno quando moglie e figli non mi vedono», disse. Osservò l’abbozzo del dipinto e aggiunse:
«Chi se lo sarebbe immaginato che avremmo incontrato un artista su per questi poggi e che avesse tanta padronanza nello stendere i colori sulla tela. Abita da queste parti?»
«Sì a Sanfabiano.»
«Fa il pittore di mestiere?»
«Lavoro con mio padre. Abbiamo una bottega artigiana per il restauro di mobili antichi, perciò ho la possibilità di esporre le mie opere sulle pareti del laboratorio.» Mauro si sentiva lusingato ma avvertiva un senso d’irritazione per il modo autoritario col quale l’uomo si esprimeva, come fosse avvezzo al comando.
«Suppongo abbia fatto qualche mostra», domandò l’uomo.
Mauro replicò con un laconico cenno negativo del capo.
Accortosi del fastidio che provava il ragazzo, l’uomo s’impose un tono più cordiale. «Perdoni la mia indiscrezione.» Tolse un pacchetto di sigarette da un taschino della sahariana e fece il gesto di offrirgliene.
Mauro accennò un diniego e domandò: «Dipinge anche lei signore?»
L’uomo accese la sigaretta, emise uno sbuffo azzurrino dal naso e commentò, rammaricato: «Lavoro nel settore delle costruzioni perciò disegno anch’io ma le mie opere non sono propriamente artistiche. Ho sempre invidiato i pittori perché possiedono il dono di infondere l’anima anche in un mattone.» Poggiò la mano sotto il mento e assunse un atteggiamento riflessivo. «Vede, giovanotto, se si costruisce un palazzo, una galleria o un ponte, queste opere potranno destare meraviglia per la loro originalità, stupore per la grandiosità ma non parleranno all’animo della gente finché qualcuno non le dipingerà.»
«Ingegnere, mi scusi se glielo rammento ma siamo in ritardo», avvertì uno degli accompagnatori.
L’uomo indirizzò al collaboratore un’occhiata irritata, quindi si rivolse ancora Mauro. «Lei è una di quelle persone che possiedono la dote di chi non guarda ma osserva. Il dipinto appena abbozzato ha già in se qualcosa che suggerisce come un’aura misteriosa possa scaturire anche dagli oggetti inanimati. Soltanto un acuto osservatore può riuscire a dipingere così e le persone attente hanno una sensibilità fuori del comune. La invidio, sa? Esistono persone», commentò «capaci di adeguarsi alla maschera che s’impongono da trasformarsi nel personaggio che hanno deciso di rappresentare. Mi considero tra queste. In ogni caso non avrei la sua mano e se da questa non scaturisce magia creativa», seguitò sollevando la destra «hai voglia di essere sensibile.» Poi domandò se fosse disposto a vendergli l’opera.
«È un quadro appena abbozzato», rispose Mauro, stupito da quella proposta.
«A me piacciono le opere appena abbozzate», commentò l’ingegnere. «Ha presente la Pietà Rondanini di Michelangelo?»
«Certo ma questa non è un’opera di Michelangelo», precisò Mauro.
«Ciò non m’impedisce di confermarle quanto mi piaccia il dipinto così com’è» replicò l’ingegnere. «Le offro trecento euro.»
«Trecen…? Ingegnere lasci almeno che lo definisca meglio. Le lascio il numero del mio cellulare.»
«Per carità! O me la vende così o non se ne fa nulla», stabilì l’ingegnere assumendo un’espressione determinata. «Le faccio un assegno se per lei va bene, giovanotto. Intanto mi firmi l’opera.
«Faccia come crede», rispose Mauro visibilmente impacciato. Pensò che il viso gli fosse divenuto rosso come un’amarena, talmente se lo sentiva scottare. Fissò l’ingegnere mentre riempiva l’assegno, poi gli consegnò la tela firmata, raccomandandogli di non appoggiare la parte dipinta in uno spigolo che premesse sulla tela e di tenerla in un ambiente buio per almeno una decina di giorni in attesa che i colori si asciugassero.
L’ingegnere consegnò la tela a un suo collaboratore, poi si rivolse ancora a Mauro.
«Viene spesso a dipingere da queste parti?»
«Sì! Perché me lo chiede?»
«In futuro non potrà più farlo. Questo vallone sarà sommerso.»
«Dall’acqua?» chiese Mauro esprimendo stupore.
«Il torrente sarà sbarrato da una diga laggiù», gli rispose l’uomo indicando la parte bassa del vallone.
«Una diga! Perché?»
Notando l’espressione sbigottita del ragazzo, l’uomo gli spiegò quanto l’acqua fosse sempre più necessaria per le attività umane.
Mauro precipitò dal compiacimento nell’angoscia. Avvertì il cuore in tumulto e i palmi delle mani iniziarono a sudargli. Avrebbe voluto chiedere al suo interlocutore altre spiegazioni ma il timore che la voce gli tremasse lo fece rinunciare.
Accortosi dell’amarezza che aveva provocato nel giovane, l’uomo assunse un’espressione dispiaciuta. «Immagino la sua affezione per questo luogo ma i procedimenti per costruire la diga saranno lunghi perciò avrà tempo per dipingerlo ancora. In seguito potrà cimentarsi in soggetti lacustri.» Fissò il volto smarrito del giovane. «Mi perdoni se le ho guastato la giornata.» Usò un sassolino per spegnere la sigaretta, mise l’avanzo nel pacchetto, diede al ragazzo due tocchi di conforto sulla spalla e si congedò.
Mauro guardò il minuscolo laghetto, la casa di Pansecco, il gelso che cresceva accanto ad essa e la parete rocciosa con il fontanile. Pensò alla galleria di olmi, al buon odore delle foglie in decomposizione, alla fragranza di resina che emanava la pineta e al profumo delle acacie in fiore. Mai aveva avvertito i suoi sensi acuirsi come in quel momento. Quante particolarità del luogo erano sfuggite alla sua osservazione! Alcuni ciottoli, emergenti dalle rapide del rio, erano ricoperti di mucillagini così da apparire come teste umane semisommerse dalle quali affioravano le capigliature. Notò con quanta casuale armonia margherite e ranuncoli avessero trasformato quell’angolo di terra in un’aiuola più bella di quelle artificiose delle rotonde stradali. Presso il ponticello un rosolaccio rompeva il bocciolo e le ginestre che crescevano sulla collina prospiciente, esalavano l’olezzo della fioritura. Rivolse un ultimo sguardo al comignolo della casa di Pansecco ancora eretto a sfidare il tempo. Pulì la tavolozza, radunò gli attrezzi e s’incamminò verso casa. Il sole che si avviava al meriggio fece brillare sul suo viso una lacrima.
Sgomento
«Mauro», lo rimproverò Nadia che aveva messo un piatto sull’altro per rallentare il raffreddamento della pietanza «sei tornato troppo tardi. Ti toccherà mangiare gli spaghetti scotti e addensati.» Guardò il figlio con espressione preoccupata. «Ti senti bene? Sei pallido.»
«Mamma non preoccuparti. È tornata Manuela? E il babbo?»
«Tua sorella ha telefonato per avvertirci che rimane a studiare con le sue amiche. Tornerà sabato prossimo. Il babbo è andato in bottega a finire un lavoretto ma non cambiare discorso: che cosa ti senti?»
«Forse sono stato troppo al sole. Oggi picchiava come fosse luglio.»
«E non avevi niente in capo eh? Sei il solito testone! Hai dieci berretti e non ne metti uno.»
Mauro scoprì il piatto e guardò il grumo di spaghetti con un’espressione nauseata.
Nadia che quando vedeva il figlio sconsolato pensava avesse litigato per l’ennesima volta con la sua fidanzata, gli domandò se si fosse rivisto con Rossana.
«No mamma. Ho incontrato alcune persone a Ca’ Pansecco e uno di loro mi ha riferito che la Valcorniola sarà sommersa. Sbarreranno il Rio Maestro con una diga.»
Sapendo quanto il figlio amasse quel vallone e i bei ricordi che anche lei ne aveva, Nadia provò un senso di rammarico ma con lui cercò di non dare importanza al fatto. «Dicono tante cose che poi non fanno.»
«La diga sarà costruita mamma. L’uomo col quale ho parlato era un ingegnere venuto a fare un sopralluogo. Mi ha addirittura comprato il quadro che avevo appena abbozzato. Me l’ha pagato trecento euro.» Mauro fece vedere alla madre l’assegno ma rimase con lo sguardo fisso nel piatto.
Nadia non insisté. Si limitò a poggiargli una mano sulla tempia. Rassicurata dalla freschezza della pelle, entrò nel cucinotto e iniziò a lavare le stoviglie.
Gli spaghetti si erano talmente addensati che quando Mauro fece il gesto di arrotolarne un po’ sulla forchetta, rotearono in blocco sul piatto. Versò dell’olio ma la situazione non migliorò gran che. Masticò e inghiottì con fatica. Bevve un sorso di vino per cercare di attenuare la sensazione di blocco allo stomaco ma il secondo boccone non riuscì a mandarlo giù. Emise un sospiro e lasciò cadere la forchetta sul piatto. Il cuore gli martellava le tempie. «Mamma non mi va di mangiare.»
Nadia tornò frettolosa per proporgli la pietanza che aveva preparato per secondo. «C’è lo sformato di verdure col tacchino.»
«Ho quasi voglia di vomitare.»
«Ti faccio una limonata calda?»
Mauro le fece un cenno di no. La baciò sulla guancia sforzandosi di sorriderle. «Vado a coricarmi. Ho la testa indolenzita. Rimanere al buio mi gioverà.»
«Lo so io qual è il tuo problema: sforzi troppo la vista e finirai per rovinartela. É dall’anno scorso che prometti di andare dall’oculista.» Per prolungare il rimbrotto Nadia seguì il figlio mentre si avviava in camera sua. «Di questa faccenda ne parlerò col babbo. Non si scherza con la vista.»
Mauro scaricò la pena in un pianto sommesso. Ripensò all’ingegnere, alla sua imponenza che incuteva soggezione ma anche al sincero dispiacere che gli aveva letto in faccia per avergli comunicato la notizia. Tentò di giustificarlo pensando che la costruzione di una diga rappresentasse per lui un normale espletamento professionale perché se si fosse pentito, ogni qualvolta avesse fatto rivoltare una zolla, tanto valeva si rinchiudesse in convento. Rammentò persino con quanta cautela avesse spento la sigaretta sul sasso, poi riposto il mozzicone nel pacchetto per non disperderlo nell’ambiente sebbene sapesse che quel posto era destinato a essere sommerso. Quel gesto gli aveva trasmesso la sensazione che fosse un brav’uomo. Rimuginò fino a che il pianto gli attenuò la tensione e scivolò in un dormiveglia che si fece tormento.
Marciava sul sentiero che conduceva in Valcorniola e il sole sfavillava sull’arco del cielo di un azzurro vetroso. Gli uccelli gli svolazzavano attorno perché lui era il tutore della valle. All’improvviso era comparsa una moltitudine d’uomini che recideva gli alberi con strepitanti seghe a motore; un branco di ruspe sradicava ciocchi e spianava il terreno per preparare il letto del lago.
Dalla cabina di un’escavatrice era apparso il faccione dell’ingegnere. L’omone era uscito dalla ruspa e, librandosi sull’aria come a farsi beffe della gravitazione terrestre, lo aveva sovrastato, minaccioso, la voce risuonante nel vallone come il grido di un rapace notturno. “Lo hai terminato il quadro?” aveva sogghignato. Rientrato nella cabina della macchina, aveva manovrato i comandi per abbattere le colonnine della fontanella e schiantare il ponticello. Il tritone era emerso sull’acqua col ventre squarciato, la coda inerte e le zampette rivolte al cielo.
Da una spaccatura del terreno era uscita una serpe.
Lui aveva tentato di avvertire la bestia perché scappasse ma dalla sua bocca non erano usciti suoni.
Facendo piombare la benna della ruspa sul rettile, l’omone aveva gridato:
“Volevi salvare il serpentello? Ti ho accontentato raddoppiandolo.”
I moncherini della serpe avevano frustato l’aria come per non arrendersi alla morte.
“Siamo i padroni del mondo.” La risata del faccione era rimbombata nel vallone. “Ora tocca a te!”
Lui aveva tentato di scappare tra due fila d’escavatrici che protendevano i bracci per schiacciarlo.
Sollevò le braccia per proteggersi ma colpì la sponda del letto. Una fitta di dolore lo destò bruscamente. Provò a sollevarsi ma un capogiro lo costrinse a poggiare il capo sul cuscino. Tentò di rammentare il sogno ma la memoria sfumò i dettagli e gli rimase solo il significato dell’insieme: terrificante. La sveglia sul comodino segnava le quindici e dieci. Non aveva dormito molto come gli era parso.
Sul tavolo del soggiorno trovò una mezza pagina di quaderno scritta da sua madre.
“Sono andata da zia Paola. C’è la zuppa inglese in frigo ma è ghiacciata. Mangiala adagio. Ciao!”
Mauro non riusciva a togliersi dalla testa il pensiero della sorte che incombeva sulla Valcorniola. Decise di consultare l’elenco telefonico. Compose un numero senza molte speranze che il sabato pomeriggio qualcuno rispondesse, invece udì la voce di una giovane donna. La ragazza lo informò che la sede rimaneva aperta fino alle 19,30. Gli suggerì di salire direttamente, nel caso avesse deciso di recarcisi, perché il palazzo non era fornito di citofono e i campanelli del quadro esterno erano guasti. Poco dopo si dirigeva verso il capoluogo di provincia.
CAPITOLO SECONDO
L’Allegrini
Mauro aprì il vetusto portone di un palazzo del centro storico cittadino. L’androne era immerso nella semioscurità. Avvertì odore stagnante di cibi fritti. Tentoni cercò l’interruttore della luce senza riuscire a trovarlo. Decise di salire alla debole luce di un lucernario che dava sul tetto. Un gradino usurato gli fece perdere l’equilibrio. Evitò un capitombolo aggrappandosi alla balaustra. Gli giunse un concitato parlottio da una delle porte che si affacciavano sul primo ballatoio. Gli parvero bambini che vociassero in lingua straniera. Al secondo piano si accese la luce.
Uno spilungone allampanato, sull’ottantina, si fermò sul pianerottolo per frugarsi in tasca e contare gli spiccioli. Si era appena rimesso in tasca il denaro quando notò il ragazzo salire. Aggrottò gli occhi e assunse un’espressione preoccupata. «Giovanotto perché saliva al buio? Questi scalini sono una trappola.»
«Infatti è mancato poco che cadessi ma non sono riuscito a trovare l’interruttore della luce.»
«L’hanno messo tre metri distante dal portone. Che ci vuol fare», disse l’anziano con un’aria rassegnata «questo è un palazzo vecchio. In compenso l’affitto è modesto e per pensionato conta molto. Porto una pila tascabile per trovare l’interruttore, così non rischio di inciampare sulle lastre sconnesse dell’androne.
Mauro accennò un assenso. Rivolse all’uomo un saluto ma quando stava per imboccare la rampa successiva, l’anziano lo avvicinò e gli disse con un tono confidenziale:
«Glielo confido perché ho sentito che lei ha la parlata delle nostre parti e pure la faccia.» Gli strinse un braccio perché stesse ad ascoltarlo con attenzione. «Siamo invasi dagli extracomunitari. Al primo piano ci abitano una famiglia di filippini e un’altra di Peruviani. Di questo passo noi italiani diverremo minoranza. Lo sa giovanotto? C’è chi sostiene che già nel 2016 la gente straniera che si sarà stabilita nella nostra città potrebbe superare il venti per cento: ventimila su centomila. Si rende conto? Un gruppo di questa gente ha persino fatto una petizione per abolire il Palio del Pirata Barbaresco perché il fantoccio che sostiene il bersaglio da colpire ha la parvenza di uno di loro, vestito come ai tempi del medioevo. Roba da matti! Lei ci crede a una convivenza multietnica?»
«Me lo auguro», rispose Mauro.
«Io per nulla», confutò l’anziano. «Un popolo che non voglia essere schiacciato da altre culture, deve possedere temperamento nel difendere le proprie.» L’uomo fissò Mauro per intuire quanto condividesse il suo pensare, poi asserì con un tono di fatalità:
«Sono convinto che alla fine scoppierà un subbuglio che non potremo controllare perché noi europei siamo rammolliti di buonismo. Le culture, giovanotto, non si compenetrano come sostengono gli ingenui ma succede sempre che le une prevarichino le altre. È stato e sarà sempre così. La cultura cristiana, dopo essersi impossessata del potere politico romano, è divenuta tiranna e sanguinaria più di quella pagana che aveva rimpiazzato. Se non ti convertivi al cristianesimo, zacchete!» esclamò simulando il gesto del taglione. «Ed è stato uno “zacchete” durato fino a qualche secolo fa. Non vorrei che agli europei, tra cinquant’anni, fossero imposte un’altra cultura e un’altra religione ricominciando con gli “zacchete”.»
«Io credo», rispose Mauro «che sarà possibile evitarlo se impareremo a tollerarci e dialogare. Dobbiamo impegnarci per una convivenza pacifica. Questa è la strada da percorrere: l’unica.»
«Giovanotto», replicò l’uomo con un tono di biasimo «lei ha l’aria del ragazzo per bene però mi consenta di dirle, senza offesa, quanto sia ingenuo e gli ingenui sono persone pericolose come chi fa entrare gli emigranti non in grado di mantenersi e finiscono per moltiplicare la criminalità nostrana.»
«Senta signor?»
«Allegrini.»
«Signor Allegrini», tagliò corto Mauro» di fronte a una mamma che tende le braccia per togliere il suo bambino dalla bagnarola che li ha portati sulle nostre coste, spalanco le braccia e li accolgo senza domandarmi se il padre finirà in galera.»
«Io… lei ha frainteso. Non volevo sostenere che bisogna respingere le famiglie ma tra loro c’è molta gente scapola che delinque.»
«Lasci perdere scapoli e ammogliati, signor Allegrini, non sono qui per discutere con lei. Cerco l’associazione ambientalista.»
«É di sopra. Lei è un nuovo iscritto?»
«No devo chiedere alcune informazioni.»
«Allora è fortunato», rispose l’anziano con un tono meno polemico. «Qualcuno c’è sempre, il sabato pomeriggio, però arriva tardi, giusto un’oretta prima di cena. Oggi, però, ho già sentito rumore di passi. Sono convinto si tratti di Silvia. I suoi genitori sono proprietari dell’emporio CIEFFE. E lo sa giovanotto? Ogni volta che la vedo mi sento chiudere la bocca dello stomaco per l’amarezza d’essere invecchiato. É un bell’affermare che il cuore rimanga giovane se sono le ossa a fregarti.» L’uomo fece una rassegnata alzata di spalle e riferì che Silvia era pure una figliola educata e gentile. «A differenza degli altri, che salutano di fretta, lei si trattiene spesso a scambiare due chiacchiere se m’incontra per le scale e ha il passo più leggero di tutti i soci. Ormai li riconosco dal modo di camminare. Discutono fino a tarda ora quando si riuniscono e non le dico del trambusto che mi arriva in casa.» L’uomo guardò Mauro con un’espressione che voleva significare quanta pazienza occorresse per sopportarli e gli rivelò di tenere una pertica, a portata di mano, per batterla sul soffitto quando i rumori divenivano troppo molesti. «A volte mi fanno diventare più verde di loro», borbottò. «Da meravigliarsene perché ci sono persone che hanno studiato. C’è un professore che insegna filosofia nella scuola di mia nipote, un altro è architetto. Sono loro i capi ma non voglio trattenerla ancora altrimenti finisco per tediarla. Faccio un salto alla bocciofila e gioco un paio di partite per schiacciare il tempo e non avere sempre davanti agli occhi gli oggetti di casa. Mi rammentano troppo la mia povera moglie. Siamo stati sposati per quasi cinquant’anni. Non dico che tra noi sia filato sempre tutto liscio ma è stata una gran donna. I fiori freschi non mancheranno mai sulla sua tomba, fino a che le gambe mi consentiranno di portarceli. E poi dicono che l’amore non sia eterno! Amavo persino le rughe che le spuntavano sul viso a mano a mano che trascorrevano gli anni e mi sentii strappare l’anima quando chiuse gli occhi per l’ultima volta. La sera prima eravamo andati a letto ridendo nel commentare le scenette di un vecchio film di Totò che avevamo visto in un canale televisivo locale. A volte si dice il caso, il film era intitolato “47 morto che parla”. Invece la mia Ester si è addormentata e non ha parlato più. Mi consolo pensando quanto la sorte sia stata benigna con lei. Molte volte mi aveva espresso il desiderio di lasciare questa vita addormentandosi. Così è stato. La mia Ester, gran donna. Un po’ pignola ma di cuore generoso. Beh arrivederci giovane.»
«Buona serata signore», rispose Mauro notando quanto luccicassero gli occhi dell’anziano. «Le auguro di vincere.»
«La ringrazio e si rammenti: gli italiani si riducono di numero perché cani e gatti rimpiazzano sempre più i bambini nelle loro case. Ora si prepari a rimanere di stucco: capello bruno, seno formoso e cuore generoso. Silvia somiglia alla mia Ester quand’era giovane, alta e armoniosa.»
L’anziano si congedò dal ragazzo col cuore pesante. Di lì a poco si sarebbe concentrato a imprimere la forza giusta alla boccia per non rammentare che quando vivi tanto tempo con una persona, impari persino a riconoscere, anche tra mille, quel rumore che solo lei provoca per aprire un cassetto. Piccole cose misteriose che rimangono appiccicate nella mente come una conchiglia fossile nella pietra.
Stupore e imbarazzo
Al terzo piano, a lato di una porta che rivelava segni di vetustà anch’essa, Mauro vide affissa una targhetta sulla quale un ragno ballerino aveva fatto sosta. FNEI: Federazione Nazionale Ecologista Italiana. DELEGAZIONE PROVINCIALE. Premette il campanello e attese guardandosi attorno. Notò che l’intonaco del muro si sbriciolava in più punti ed era macchiato da chiazze di muffa. “Sarà che qui possano fare qualcosa.” Un ticchettio proveniente dall’alto attirò la sua attenzione. Fuori del lucernario, sporco di guano, intravide la sagoma di una tortora domestica. La bestiola cercava di staccare qualcosa dal vetro a colpi di becco. Continuò a osservare l’uccello finché una voce femminile lo fece sobbalzare.
«Benvenuto in piccionaia.» La ragazza, apparsa sulla soglia dell’uscio, indossava jeans neri e calzava scarpe sportive. Aveva la pelle del volto ambrata e la sua T-shirt, di un luminoso ciclamino, era tesa da un seno prosperoso. «Buonasera mi chiamo Silvia, Silvia Colombo. Tu?»
Mauro rimase colpito dalla statura della giovane, nondimeno sostenne il suo sguardo, reso pungente da occhi con iridi tanto scure che mal si distinguevano dalle pupille e che lo osservavano con un’espressione somigliante al sorriso. «Ma… Mauro Falaschi», rispose quasi balbettando. «Ho telefonato per il problema della diga, poco più di un’ora fa.» Sebbene avesse riconosciuto la voce, preferì soggiungere: «Credo mi abbia riposto lei.» Osservò l’armoniosità con la quale i capelli neri, leggermente mossi, le fluivano sul petto e le spalle e quanto l’ampio arco delle sopracciglia brune valorizzasse il volto di un ovale quasi perfetto.
Accortasi dell’imbarazzo che esprimeva l’ospite, la ragazza annuì con un breve cenno del capo e non indugiò a sollecitarlo perché si accomodasse, reclinando il capo con una mossa che le conferì un’aria quasi leziosa. Le sue labbra piene si schiusero in un sorriso e scoprirono denti candidi che spiccarono sulla pelle ambrata del volto.
Percorsero un corridoio pavimentato di mattoni consunti, sul quale doveva essere stato passato da poco lo straccio perché era lindo ed emanava odore d’essenze profumate. L’ambiente prendeva luce da una lampada a basso consumo energetico che ciondolava appesa al solo filo della corrente.
Entrarono in un ampio locale le cui pareti erano vivacizzate da poster raffiguranti paesaggi immacolati o catastrofi ambientali su cui spiccavano frasi ecologiste. Attigua a un’ampia finestra giganteggiava una massiccia scrivania; accanto ad essa tastiera e monitor di un computer occupavano un tavolo più basso. Una scaffalatura metallica adibita a libreria e una fila di seggiole addossate a una parete, diseguali per forma e materiale completava l’arredo.
«Non avrei aperto», ammise Silvia «se fossi venuto senza avvisare. Oggi sono sola e con tutto quel che succede è meglio essere prudenti.»
«La capisco signorina», convenne Mauro con un tono compito.
«Puoi darmi del tu», lo sollecitò lei per attenuare il disagio che gli leggeva nello sguardo. Poi gli chiese se "Falaski" fosse un cognome d’origine slava?»
«No si scrive con la ci e l’acca. È un cognome italianissimo. Suppongo che qualcuno dei miei ascendenti facesse il mestiere di rivestire i fiaschi col falasco, una pianta palustre utilizzata per impagliare.»
«Ragionamento più che giusto», commentò Silvia «I cognomi, un tempo, erano spesso attribuiti in base al mestiere che una persona praticava. Mauro prendi una seggiola e accomodati.» la ragazza si sedette dietro la scrivania, spostò un posacenere da una parte all’altra del ripiano con un gesto compulsivo, poi fece un commento sullo stato dei gradini per non far languire la conversazione. «Specialmente quelli della prima rampa sono malridotti. Voglio sperare che tu non sia caduto.»
«No ma c’è mancato poco», ammise Mauro mostrandole un timido sorriso.
«Lo immaginavo. Volevo avvertirti che ci stessi attento quando hai telefonato, poi ho pensato che non saresti venuto. Accade spesso che le persone telefonino per informarci che passeranno in sede per parlarci di un problema ambientale ma non lo facciano. Forse ci ripensano perché non vogliono esporsi per il timore di farsi inimicizie. Un giorno venne un tale a lamentarsi della sporcizia che un suo vicino di casa abbandonava nei dintorni delle loro abitazioni ma si negò quando gli chiedemmo di accompagnarci a fare un sopralluogo. Pretendeva ci andassimo noi. Evidentemente non voleva rischiare di essere notato in nostra compagnia e passare da spia. Scusami se mi sono prolungata a spiegarti come si comporti la gente. Tu sei l’eccezione che conferma la regola. E perdonami ancora per non averti avvisato degli scalini.»
«Anche un signore anziano, che abita al piano di sotto, mi ha avvisato di starci attento.»
«O’Ssignur hai incontrato l’Allegrini! É un tale chiacchierone che quando capita d’incontrarlo si spera che scatti l’interruttore a tempo, così si può sgattaiolare con la scusa di andare a riaccendere la luce. Non ti nascondo che mi soffermo a parlarci un po’, qualche volta. Credo di rimanergli simpatica.»
«Simpatica è dir poco», chiosò Mauro. «Mi ha detto che quando ti vede gli si chiude la bocca dello stomaco per il dispiacere di essere invecchiato. Poi mi ha confidato che le rammenti sua moglie Ester.»
«Lo so Mauro. Mi ha fatto vedere le sue foto da giovane. Era una bellissima donna.» Silvia sorrise amaramente e gli domandò se gli avesse raccontato dell’amore eterno che provava per lei. A un cenno affermativo di Mauro commentò: «Ora il suo sentimento si è trasformato in venerazione. Si reca al cimitero tutti i giorni e conversa con lei dei fatti quotidiani, del ragù che non gli riesce buono come lo faceva lei o cose del genere ma dimmi: «Te la sei dovuta sorbire la tiritera dell’invasione extracomunitaria?»
Mauro assentì sorridendo.
«Lo immaginavo non fa che parlarne. Per lui l’emigrazione è una piaga ma non passa settimana che non porti del cioccolato ai bambini stranieri che abitano ai piani inferiori. Il suo è un falso razzismo e credo che quell’argomento gli serva per attenuare la solitudine.»
«Capisco», disse Mauro. La semplicità con la quale si esprimeva la ragazza lo metteva suo agio. «L’Allegrini mi ha pure riferito che siete rumorosi e che la persona più silenziosa sei tu.»
«A dire il vero non ha torto. Di solito facciamo le riunioni dopo cena e non finiamo prima di mezzanotte. Capita che qualcuno trascini le sedie invece di sollevarle e lui reagisce battendo una pertica sul soffitto.»
Risero immaginandosi l’energica reazione del coinquilino, poi indugiarono a osservarsi senza battere ciglio.
Silvia avvertì una sensazione strana pervaderla come di languidezza. Ravviò i capelli con gesti quasi nervosi e gli domandò per superare l'istante:
«Allora, Mauro, veniamo al probl...»
La sedia dell’ospite scricchiolò e lui finì sull’impiantito, accompagnato da rumori di legno spezzato.
Silvia si precipitò a prestargli soccorso ma nel tempo che impiegò per aggirare la scrivania, Mauro si era rialzato. «Ti sei fatto male?» chiese, sostenendosi la fronte in un gesto mortificato.
«Non è niente», rispose lui arrossendo di vergogna.
«Più di una volta mi sono raccomandata che la rompessero ma tu dovevi scegliere proprio questa sedia?»
«Come caz… come potevo immaginare che si sarebbe sfasciata?» reagì lui con un guizzo d’orgoglio.
«Oddio scusami. Ci sono rimasta così male da non sapere che cosa dire.»
Indugiarono a scambiarsi sguardi imbarazzati mentre raccoglievano i rottami e li spostavano in un angolo. La dimensione comica dell’accaduto prese infine il sopravvento e proruppero in una risata.
Proprio per quel fatto Mauro riuscì a superare la sua indole emotiva. Divenne loquace e tirò fuori persino qualche battuta. Prese un’altra sedia e la sbatacchiò più per l’intento di dimostrarsi spiritoso che per saggiarne la resistenza.
«Ora puoi stare sufficientemente tranquillo. Le altre sono stabili», lo rassicurò Silvia.
Mauro la osservò incantato. I gesti della ragazza erano armoniosi, limpida la sua voce.
«Purtroppo le nostre risorse economiche non ci permettono di avere poltroncine da sala ma almeno abbiamo una sede», spiegò Silvia. «Un nostro socio, proprietario del palazzo, ci ha concesso questo locale in comodato, almeno finché non deciderà di restaurarlo o venderlo perciò non possiamo lamentarci se abbiamo qualche sedia sgangherata.»
«Però mi risulta che siete determinati», commentò Mauro. «Vi ho telefonato perché il Corriere della Provincia parla spesso delle vostre iniziative. Una volta vi ha definito “irriducibili combattenti ecologisti”.»
«Addirittura! In quale occasione?» domandò Silvia.
«Circa un anno e mezzo fa quando vi sdraiaste davanti le ruspe per difendere gli argini di un torrente.»
«Non ero ancora socia del circolo. Mi sono iscritta qualche mese dopo, però me l’hanno raccontata quella vicenda.»
«Siete riusciti a impedire i lavori?»
«Macché! I promotori del progetto hanno persino tacciato la nostra associazione di faziosità, integralismo estremista e incompetenza. A detta loro il rifacimento di quegli argini avrebbe salvaguardato l’ambiente dagli straripamenti e la vegetazione alloctona tagliata sarebbe stata sostituita con specie autoctone. Per ripiantare alberi autoctoni», seguitò Silvia «hanno abbattuto migliaia d’acacie che sono le piante più adatte a tenere salde le sponde dei corsi d’acqua. Ora quel tratto di torrente sembra un canale della Val Padana, i pesci non ci sono più e le sponde franano. Vuoi sapere qual è stata la fine che hanno fatto gli alberelli autoctoni che sono stati piantati? Nessuno ha pensato a innaffiarli e il sole dell’estate li ha disseccati.» Con tono sdegnato commentò:
«Hanno pure avuto il coraggio di chiamare quello sfacelo “risistemazione idraulica ecologica”. Purtroppo gli interessi che stanno dietro tanti lavori, ci consentono di fare ben poco», gli riferì Silvia a malincuore.
Quasi estraniato da quell’ultima frase, Mauro notò, più di quando era apparsa sull’ingresso, quanto fossero scure le sue iridi.
«Mauro mi ascolti?» disse lei vedendolo distratto.
«Scusami Silvia. Mi sono fatto prendere dall’abitudine di osservare e tu hai le iridi così scure che sembrano grani di liquirizia.
Un lieve rossore apparve sulle gote di Silvia. «Mauro, se volevi mettermi in imbarazzo, ci sei riuscito.»
«Non ne avevo l’intenzione» commentò lui. «L’osservazione è spontanea per chi dipinge.»
Le sopracciglia di Silvia s’inarcarono in un’espressione stupita. «Ciumbia, sei pittore di professione?»
«Metà.»
«Che intendi dire Mauro?»
«Ho frequentato l’Istituto d’arte e ora lavoro assieme a mio padre. Restauriamo mobilia antica ma dedico del tempo anche alla pittura e ho l’opportunità di vendere le mie tele esponendole in bottega.»
«Ti ritieni un bravo artista?»
«Dovrebbero essere gli altri a giudicare ma ne sono convinto. Almeno nel mio genere.»
«Accipicchia come lo hai detto con convinzione! A quale genere pittorico t’ispiri?»
«Mi dedico a un genere figurativo molto personale.»
«M’incuriosisci», rispose Silvia mordicchiando il cappuccio di una biro.
«In che senso?» rispose Mauro facendo lo gnorri.
«I tuoi quadri mi piacerebbe vederli.»
Inorgoglito lui divenne tanta disinvolto da avere l’ardire di spronarla con un pizzico di sorniona galanteria. «A questo punto mi spiacerebbe non venissi.»
«Mauro perché hai detto “a questo punto”?»
«Non si dice così quando si avverte piacere nello sperare che una persona dia seguito ai suoi propositi?»
Silvia annuì con un cenno, poi lo fissò con attenzione. Fece un sospiro e si mise a scarabocchiare un foglio di carta. «Accidenti al tempo. Non ne ho mai quanto ne vorrei.»
«Studi?» le chiese Mauro.
«Ho fatto ragioneria. Ora lavoro in famiglia. Un po’ contabile, un po’ commessa. I miei genitori sono i proprietari dell’emporio CIEFFE. Vendiamo di tutto, merceria, confezioni, biancheria intima, calzature, soprabiti, giacche a vento, corredi sportivi e altri articoli.»
«Sono già stato informato dall’Allegrini.»
«Cribbio quant’è chiacchierone. È soltanto un gradino sotto il Bizza.»
«Il Bizza?» domandò Mauro.
«É un nostro socio che mette bocca su tutto. Si chiama Arturo Bizzarri e credo non sia esagerato dire che conosca tutti i proverbi del mondo. Non perde occasione di infilarne qualcuno nelle conversazioni. È sarto di professione ma è talmente rispettoso dell’ambiente che sulla vetrina del suo negozio ha affisso un avviso in cui c’è scritto “in questa sartoria si confezionano abiti in fibra rigorosamente vegetale o da tosatura”. Poi ha aggiunto “le bestie sono gradite ospiti, gli umani non sempre”. Entri nell’atelier e nella parete frontale trovi un’altra scritta: “Se fai del male a cani e gatti non t’andran bene i fatti”. E sai come considera il paradiso?» seguitò Silvia scoprendosi più loquace del solito.
«Sentiamo», la sollecitò Mauro.
«Come la proiezione fantastica del desiderio di tornare nel ventre materno.»
«Una teoria degna di Freud.»
«E la festa che detesta maggiormente è il Natale», seguitò Silvia «perché sostiene che dietro una religiosità di facciata, la gente nasconda la sua vera natura materialista e voglia scoprire, dal valore dei regali, quali siano le persone alle quali attribuire maggiore considerazione.»
«Il tuo amico Bizzarri riesce a farseli i clienti?» le chiese Mauro.
«Altroché e ha pure due collaboratrici. Lavora con pignoleria e fa pagare il giusto. Suggeriamo ai nostri clienti di recarsi da lui se acquistano un capo di vestiario che richiede qualche ritocco. Spesso passa da noi a prendere gli scampoli di tessuto e confeziona cappottini per cani per donare i proventi ai volontari di un centro per la cura di volatili feriti. Nella sua stranezza ha un’ottima cultura. Sostiene che il vuoto dell’universo funzioni come un impianto di riciclaggio perfetto nel quale la materia riadopera se stessa, eternamente, senza ridursi di un solo atomo. Sostiene che lo stesso Einstein abbia asserito di non credere all’iniziale big-bang perché il tempo non esiste.
«Non è una considerazione sbagliata. A modo suo ha enunciato il principio della fisica secondo cui nulla si crea né distrugge.»
«E l’ha messo in chiave ecologica come fa con tutto. Perfino la bibbia, a parer suo, dovrebbe essere modificata perché sostiene che il Creatore, dopo avere originato gli animali, abbia voluto punirli per una disobbedienza commessa, privandoli della ragione e generando l’uomo affinché potesse derubarli dello spazio vitale, cacciarli e mangiarli.»
«Convieni che questo tuo amico abbia rappresentato un Creatore eccessivamente sadico?» commentò Mauro.
«Bah!», esclamò Silvia, poi proseguì: «Il Bizza è un materialista tanto convinto da sostenere che sia stato Copernico a cacciare la Terra dal centro dell’universo, poi Darwin abbia liquidato il creazionismo. Afferma sempre che non esiste un pianeta simile alla terra per quanto ne sappiamo e gli umani che ci vivono non comprendono quanto sia prezioso questo granello di roccia e acqua perché ben pochi di loro hanno avuto l’opportunità di lasciarla, accertarsi di quanta desolazione vi sia fuori di essa, poi farne ritorno. Sostiene che, se seguitiamo a cementificare, abbattere foreste e inquinare aria e mari, non saranno i mansueti a ereditare la Terra, come dice il vangelo ma topi e scarafaggi.»
«È tipo davvero eccentrico il tuo amico Bizzarri ma nemmeno si può dire che le sue idee non abbiano fondamento», convenne Mauro.
«Appunto», concordò Silvia, poi gli spiegò che il Bizza era la più strana combinazione di cultura, agnosticismo, pignoleria, logorrea e curiosità che conosca.»
«Insomma una sorta di scolopendra linguacciuta», rispose Mauro.
Silvia annuì sorridendo, poi gli chiese:
«Mauro mi perdoni l’ignoranza se ti dico che non so che cosa sia una scolopendra?»
«È un insetto velenoso provvisto di numerose zampe. Irrita la pelle se punge.»
«Non potevi trovare un paragone più azzeccato. La lingua del Bizza è irritante quanto il morso della scolopendra e sembra pure dotata di numerose zampe. Sono convinta che gli rimarrai simpatico perché adoperi bene i verbi, ma ti avverto: non usare espressioni come “incentrato” “da subito”, “al limite”, “quant’altro”, tantomeno le parole “inciucio e inizializzazione”. Considera questi termini tra i più cretini del linguaggio moderno.
E se ti capitasse di affrontare una conversazione politica con lui non usare inglesismi come fanno i politicanti per definire qualche riforma che toglie diritti alla gente perché quel gergo racchiude l’ipocrita intento di attenuarne l’impopolarità. Salutalo con un’energica stretta di mano perché sostiene che prese flosce nascondano individui melliflui.»
«D'accordo ci starò attento. Le ore di lavoro che fate non le contate. É questo che volevi dirmi prima di parlare del tuo amico Arturo?»
«Già! Oggi i miei mi hanno concesso un po’ di tempo perché venissi a pulire la sede. Erano mesi che non davamo lo straccio ai pavimenti. È un caso che mi abbia trovato.»
«Come fosse predestinato», chiosò Mauro.
«Quale senso dovrei dare alla tua espressione?» domandò Silvia rivolgendogli un’occhiata sorniona.
«Beh che se nessuno mi avesse risposto al telefono non sarei venuto a chiedere informazioni.» Mauro notò un risolino sulle labbra della ragazza come pensasse quanto frettolosamente avesse mascherato il significato vero della frase. «Chi lavora in proprio non ha orario eh Silvia?» le chiese per scantonare l’argomento.
«É così», rispose lei laconica. «Ora Mauro raccontami di stamattina.»
«É presto detto: mi sono recato a dipingere in Valcorniola ed ho incontrato tre tizi. Uno di loro, quello che hanno chiamato ingegnere, mi ha informato che in quel posto costruiranno una diga sbarrando il torrente della valle.»
«C’è già l’invaso di Montescuro nel comune di Sanfabiano, com’è possibile che vogliano farne un altro sul Rio Maestro?»
«Conosci quel luogo Silvia?»
«Non ci sono mai stata ma ho sentito i nostri soci parlare di quel torrente perché le sue acque sono così pulite che ci vivono granchi e gamberi d’acqua dolce.»
«Lo confermo. È un luogo bellissimo almeno per me. I miei genitori mi portavano spesso da quelle parti quand’ero piccolo.» Mauro assunse un’espressione amareggiata e chiese a Silvia se era possibile fare qualcosa per impedire che la Valcorniola fosse sommersa.
«Francamente non lo so Mauro», rispose lei picchiettando la biro sulla scrivania. «Suppongo non sia facile. Potresti parlarne con Livio Livi se avessi pazienza d’attendere. Viene sempre in sede dopo le sei e si trattiene fin verso l’ora di cena. Saprà sicuramente darti una risposta più esauriente. Livio è il presidente provinciale dell’associazione, insegna filosofia ed è nostro coordinatore. Vuoi che lo avverta perché anticipi la sua venuta? Ho il numero del suo cellulare.»
«Non disturbarlo. Posso attendere», rispose Mauro. Si augurò che il desiderio di seguitare a conversare con lei non trapelasse oltremisura dal suo sguardo.
«Intanto potremmo fumarci una sigaretta», propose Silvia togliendo un pacchetto dalla borsetta.
«Non fumo grazie.»
«Saggio comportamento. Io quattro o cinque il giorno le fumo purtroppo. Ti spiace se accendo?»
«Figurati.»
Lei, per rispetto all’ospite ma anche per ostentare disinvoltura, espirò il fumo dirigendolo verso il soffitto.
Silvia te lo posso fare un complimento?» azzardò Mauro.
«Per cosa? Non mi pare di esserti stata di grande aiuto.»
«Mi riferisco alla tua capacità di abbinare i colori. Il tono ciclamino della maglia che indossi fa sembrare i tuoi capelli più neri di quel che siano. Mi piacerebbe farti il ritratto.»
Silvia inspirò il fumo e lo espulse con un soffio nervoso. «Mauro è la seconda volta che mi fai sentire a disagio.» Posò la sigaretta sul posacenere e tolse un piccolo contenitore circolare da una tasca dei jeans. «A proposito di oggetti scuri, vuoi un po’ di liquirizia? É purissima in piccoli chicchi.» All’assenso Silvia fece roteare le parti della scatola fino a che formarono una minuscola apertura ovale. Pose il palmo sinistro sotto la mano dell’ospite e scosse la destra per far uscire i granuli.
Il tocco di quelle dita affusolate trasmise a Mauro un sottile fremito. «Me ne hai dati troppi, Silvia.» Fu costretto a stringere il pugno per non far cadere i granuli.
«Passane un po’ a me», disse lei.
Mauro aprì la mano ma i chicchi, rappresisi sulla pelle sudaticcia, non ne vollero sapere di staccarsi. Avvilito fissò il grumo contornato da una macchia nerastra molliccia. Dopo lo schianto sul pavimento si era compiaciuto per la spigliatezza con la quale aveva retto la conversazione ma quel fatto cancellava tutto. Le rivolse uno sguardo implorante comprensione. «Silvia oggi è stata una giornataccia per me e mi sudano i palmi quando sono teso.»
Mettendocela tutta per rimanere seria lei prese un fazzolettino di carta dalla borsetta e tolse il coagulo. Dal suo sguardo trapelò un lampo di malizia. «Ti senti agitato soltanto per i problemi della Valcorniola?»
«Che cosa intendi dire Silvia?»
«Niente, così.» Silvia Bagnò il lembo di un altro fazzolettino con la saliva e prese a pulirgli il palmo. «Spero ti giovi ma se vuoi lavarti meglio là, nel ripostiglio, c’è il bagno. Non è un gran che, però funziona.»
«Va bene così non preoccuparti», la ringraziò tenendo lo sguardo basso.
«Mauro non te la prendere. Non hai ragione di sentirti mortificato. Non ti sto giudicando. Poteva succedere a chiunque.»
«Allora dimmi: a quanti ragazzi credi sia capitato di cadere a causa di una sedia sgangherata ed essere rimasti con un grumo di liquirizia appiccicato alla mano, davanti ad una ragazza appena conosciuta?»
Lei si sforzò ancora di non ridere. «A nessuno ma…»
«Ma è più facile fare dieci “sei” consecutivi al superenalotto», la anticipò.
Quella battuta diede il pretesto a Silvia di sfogarsi a ridere senza il timore di offenderlo. Fece per riprendere la sigaretta ma notò che nel frattempo era stato il portacenere a fumargliela. «Meglio!» esclamò schiacciando il mozzicone.
Livio
Una voce robusta li distolse dalla conversazione. «Buona Sera.»
A differenza di quel che poteva fare immaginare il tono baritonale della voce, Livio era di corporatura esile; d’altezza media, aveva l’aspetto di un cinquantenne. I capelli brizzolati, folti, la barba di taglio corto e gli occhiali da vista che filtravano uno sguardo benigno, gli conferivano un’espressione da intellettuale riflessivo.
Per rispetto al nuovo arrivato Mauro si alzò per presentarsi.
Livio guardò i rottami della sedia e aggrottò la fronte. «Silvia non dirmi che s’è rotta sotto il sedere del nostro ospite.»
«Purtroppo sì», ammise lei allargando le braccia.
È colpa mia. Avrei dovuto romperla subito ma Stefano mi aveva assicurato che ci avrebbe pensato lui. Evidentemente se n’è dimenticato. Mauro sono rammaricato. Ti sei fatto male?»
«Me la sono cavata con un po’ d’imbarazzo», rispose lui stringendosi sulle spalle.
«É venuto a informarci che nel comune di Sanfabiano costruiranno un’altra diga», spiegò Silvia dando un taglio all’accaduto.
«Ho capito vogliono sbarrare il Rio Maestro in Valcorniola» rispose Livio. «Da chi lo hai saputo, Mauro?» gli chiese lisciandosi il mento.
«Da un ingegnere. Ero andato a dipingere e…»
Dopo avere ascoltato, Livio rimase assorto come per rimettere assieme i tasselli di una lunga vicenda. Spiegò che la costruzione della diga faceva parte di un progetto irriguo risalente agli anni sessanta del secolo scorso, programmato dall’Ente Interregionale per le Risorse Idriche che prevedeva la costruzione d’alcuni bacini artificiali. «L’invaso di Montescuro», spiegò «è stato realizzato ma non si era più sentito parlare degli altri fino alla stipulazione di un protocollo d’intesa interregionale sottoscritto qualche anno fa, purtroppo anche da un assessore appartenente a un movimento ecologista. Nel documento era riconfermata la necessità di costruire anche l’invaso sul Rio Maestro. Francamente», continuò Livio «non pensai fosse il caso di dare importanza al documento. Supposi si trattasse della solita sparata elettorale. Evidentemente mi sbagliavo.» Livio si lisciò la barba e domandò a Mauro se quel tecnico gli avesse accennato per quale ente facesse i sopralluoghi.
«No, ha soltanto aggiunto che avrei avuto tempo per dipingere altri scorci della valle», precisò Mauro.
Livio premette un dito sulla montatura degli occhiali come se il gesto lo aiutasse a concentrarsi. «Ci sarebbe stato d’aiutato sapere per conto di chi si trovasse lì quell’ingegnere.»
«Forse l’ente che ha menzionato?» suggerì Mauro.
«L’EIRI non esiste più. È stata sostituita con la SGRI, una società di gestione delle risorse idriche a capitale pubblico-privato. Silvia telefona a Fabrizio. Forse saprà informarci meglio.»
Il battibecco
«Fabrizio? Sono Silvia.»
«Ciao miss Mediterraneo.»
«Fabry non scherzare. Sono in sede. Ho pulito un po’.»
«Sei un tesoro. Saremmo del gatto se non ci fossi. Stefano è lì con te?»
«No! Ti passo Livio. Deve parlarti di una faccenda importante», rispose lei spiccia.
«Fabrizio ascolta: intendono realizzare la diga sul Rio Maestro. Hanno rispolverato quel vecchio progetto.»
«Da chi lo hai saputo?»
«Da un ragazzo di Sanfabiano. É venuto a informarci di avere incontrato un ingegnere in Valcorniola e gliene ha parlato.»
«Gli ha riferito per conto di quale ente si trovasse a fare il sopralluogo?»
«No ma potrebbe trattarsi dalla SGRI. Quel tecnico gli ha soltanto accennato della diga e siccome il ragazzo era andato lassù a dipingere, gli ha assicurato che di tempo gliene sarebbe rimasto per fare altri scorci del luogo.»
«Potremmo dedurne che il progetto non abbia ancora le autorizzazioni necessarie», suppose Fabrizio «per un’opera del genere serve un monte di pareri, compresa la valutazione d’impatto ambientale.»
«Che cosa suggerisci di fare?»
«É un bel casino Livio. La Valcorniola è quasi tutta proprietà demaniale perciò non ci saranno proteste perché gli espropri privati saranno esigui e c’è un’altra cosa che dovremo considerare: nel municipio di Sanfabiano sarà ben conosciuta la faccenda? Temo non lo sia.»
«Ne dubito anch’io Fabrizio.»
«Farò qualche telefonata per saperne di più ma lo sai come suona la banda. Chi ha il ramaiolo dalla parte del manico rimescola la minestra a modo suo. In ogni modo convoca il direttivo per la settimana prossima. Ne discuteremo. Sarei libero mercoledì sera.» Fabrizio attese la conferma, poi chiese a Livio di passargli di nuovo Silvia. «Miss Europa?»
«Riattacco subito Fabry se cominci a fare lo spiritoso.»
«Ho saputo che sei andata con Stefano a mangiare la pizza.»
Silvia premette la cornetta all’orecchio per tentare d’impedire che si capisse ciò che Fabrizio avrebbe seguitato e dirle ma non riuscì a impedire che le sue gote rosseggiassero. «Te l’ha detto il Bizza?» gli chiese sottovoce.
«Come hai fatto ad azzeccare?»
«Non c’è bisogno di possedere poteri paranormali per capirlo impiccione com’è.»
«Silvia lascia andare il Bizza, pensa piuttosto a Stefano, il tuo futuro. Siete una coppia magnifica. Ora ripassami Livio. M’è venuta un’idea. Livio quel ragazzo di Sanfabiano è ancora in sede?»
«Sì è qui con noi.»
«Dovresti chiedergli di farci avere immagini recenti della Valcorniola. Un pittore avrà sicuramente occhio per scovare belle vedute. Allegheremmo le foto al ricorso se decidessimo di farlo. Invita pure lui alla riunione.»
«D’accordo ciao.»
«Ascolta Mauro», disse Livio rivolgendosi all’ospite con un tono da amici di vecchia data», dovresti procurarci alcune foto recenti della Valcorniola e del Rio Maestro. Tu che meglio di noi conosci il posto, saprai sicuramente quali luoghi scegliere per riprendere scorci interessanti. Potremmo allegare le immagini al ricorso che…»
«Se ho ben compreso c’è poco da fare, foto o non foto», tagliò corto Mauro.
«Capisco la tua amarezza», convenne Livio. Poggiò una mano sulla spalla di Mauro e commentò: «Pure a me prende rabbia ma cerca di capire: noi al confronto di chi intende realizzare la diga, siamo una mosca che si accinge a contrastare la marcia di un elefante.»
Mauro posò quasi bruscamente un suo biglietto da visita sulla scrivania e replicò: «Abbiate la cortesia di informarmi se riusciste a saperne di più. Vi ringrazio per l’ospitalità.»
Sul volto di Silvia comparve un’ombra di rincrescimento. Si alzò in piedi e l’unica frase che le venne in mente fu: «Mauro te ne vai?»
Lui le rispose con uno “ciao” sommesso come per farle intendere quanto fosse dispiaciuto di non poter conversare ancora un po’ con lei quindi rivolse a Livio un laconico buonasera.
«Buonasera un corno! Ti stai tirando indietro», ribatté Livio con durezza.
«Mauro ci devi aiutare», si raccomandò Silvia con un tono accorato.
«Stando così le cose non vedo come potrei farlo. In ogni caso mi ha fatto piacere averti conosciuto. L’invito è sempre valido se volessi venire a vedere i miei dipinti», aggiunse rivolgendosi a Silvia. «Spero di rivederti.»
«Ti avevo avvertito che sarebbe stato un problema difficile», reagì lei. Il suo sguardo da amareggiato si era mutato in un’espressione biasimante.
Mauro assunse un’aria contrita come per chiederle scusa. Stava per imboccare il corridoio quando gli giunse stavolta, quasi accorata, la voce di Silvia. «Non è colpa nostra Mauro.»
«Neanche mia Silvia.»
«Invece sì!» tuonò Livio.
«Che diavolo sta dicendo lei?» ribatté Mauro.
«Che è colpa di tutti se si fanno le dighe. Vogliamo produrre e consumare sempre più. É colpa dell’industria, dell’agricoltura, di chi mette al mondo dieci figli, di chi è impiegato sedentario e fa la doccia tutti i giorni pure d’inverno.» Livio fece una pausa e puntò il dito contro il ragazzo. «Senti un po’ tu che pensi di non aver colpa se qualcuno vuol sommergere il tuo bel valloncello: quando ti lavi i denti, usi un bicchiere d’acqua per sciacquarteli o lasci scrosciare il rubinetto?»
Irritato Mauro raggiunse le scale e prese scenderle frettolosamente. All’ultima rampa il chiarore del lucernario era divenuto così fioco che a malapena riusciva a vedere le sagome dei gradini e fu quello che lo aveva ingannato salendo a fregarlo nuovamente. Avvertì il piede scivolare in avanti, il suo volto si contrasse e si preparò, denti stretti, al doloroso impatto con la pietra. Vide le scale illuminarsi, gli giunse la voce concitata di Silvia.
«Attento agli scalini Mauro!» Silvia non fece in tempo a finire la frase che udì un colpo sordo salire dalla tromba delle scale. “Mamma mia è cascato ancora.” Scese a rompicollo rischiando di fare la medesima fine. Per l’espressione avvilita che gli vide stampata in faccia non poté trattenersi dall’accarezzargli i capelli. «Mauro ti sei fatto male?»
«Penso di no», disse lui mentre cercava di alzarsi sostenendosi alla balaustra.
«Dammi la mano ti aiuto. Avresti dovuto accendere la luce.»
«Credo che sarei cascato lo stesso. «Oggi sono talmente scalognato che se qualcuno avesse gettato per terra l’unica buccia di banana nel raggio di cento chilometri, ci sarei scivolato.»
Rinfrancata dalla battuta Silvia si azzardò a chiedergli di tornare in sede. «Te la senti di risalire?»
«Sì ma che ci verrei a fare?» rispose Mauro massaggiandosi l’osso sacro.
«Mi spiacerebbe se tu e Livio vi lasciaste così. Per favore, Mauro, puoi farlo per me? Non importa se non vorrai procurarci le foto. In qualche modo rimedieremo.»
A quegli occhi di carbonella che lo fissavano con un’espressione supplice, lui non seppe negarsi. «La colpa sarebbe tua se si sfondasse il pavimento e ci ritrovassimo in casa dell’Allegrini.»
La risata di Silvia risuonò argentina su per la tromba delle scale. Appoggiati alla ringhiera e metti l’altra mano sulla mia spalla.»
«Non ce n’è bisogno Silvia, ce la faccio a salire da solo.»
«Appoggiati, cribbio!»
«Grazie», rispose Mauro quasi intimorito dal modo repentino con il quale lei aveva cambiato tono.
L’appuntamento
«Mauro non era mia intenzione farti la paternale e non sei obbligato ad aiutarci. Ti ringraziamo ugualmente per averci informato. Noi dobbiamo tentare qualcosa in ogni caso», disse Livio allungandole la destra.
«Scusatemi voi. Sono stato troppo impulsivo. Vi aiuterò per quel che posso.» Mauro stava per dire qualcos’altro ma rimase come se riflettesse.
«Volevi aggiungere qualcosa?» gli domandò Silvia.
«Che, insomma lavo i denti lasciando il rubinetto troppo aperto.»
Livio lo guardò con un’espressione che lasciava intendere quanto fosse abitudine comune fare scrosciare il rubinetto. Poi, per rendere consapevole Mauro dell’importanza che avesse l’uso moderato di acqua dolce, assunse un’aria riflessiva e gli volle fare l’esempio di quanta se ne sprecasse solo per l’igiene dentale. «Un italiano», spiegò «consuma ogni giorno sei litri di acqua per lavarsi i denti, quasi duemiladuecento litri ogni anno che moltiplicato per sessanta milioni assommano a centotrentadue miliardi equivalenti a centotrentadue milioni di metri cubi cioè il doppio della capienza media di un invaso come Montescuro e quattro volte la quantità di acqua che potrebbe contenere la diga sul Rio Maestro. Ora, Mauro, potrai renderti conto di quanta acqua risparmieremmo, solo in Italia, se tutti prendessimo l’abitudine di lavarci i denti con un bicchiere di acqua che basta e avanza.»
Mauro concordò con un cenno del capo.
«Mauro hai una buona macchina fotografica?» domandò Livio.
«Non è digitale ma è ottima. Domattina andrò a fare il servizio. C’è un fotografo nei paraggi? Dovrei comprare un rullino nuovo.»
«É qui vicino, prima del semaforo», lo informò Silvia.
«Mercoledì sera riuniamo il direttivo per discutere di questa faccenda. Ti va di venire Mauro?» gli propose Livio.
«Contateci. Cercherò di portare anche le foto.»
«Benissimo!» esclamò Livio. Poi chiese a Silvia: «mentre do un’occhiata se in cassa c’è rimasto qualche spicciolo per il rullino, telefona agli altri per avvertirli della riunione.»
Mauro fece a Livio un gesto di diniego e raggiunse la porta.
«Mauro posso accompagnarti?» si propose Silvia un istante prima che imboccasse il corridoio.
«Non stare a disturbarti troverò il negozio.»
«Intendevo in Valcorniola», precisò lei spostando alcuni oggetti sulla scrivania con movimenti nervosi.
Mauro provò un’emozione tanto improvvisa da cagionargli un tuffetto al cuore, tuttavia riuscì a non far trapelare l’emozione e assentire esprimendosi persino con distacco emotivo. «Mi farebbe piacere.»
«Allora, dopo, torna in sede, cinque minuti» gli chiese lei. «Ci metteremo d’accordo per domattina.»
«Attenta Silvia. Chi ti dice che Mauro non sia fidanzato?» chiosò Livio.
Lei aprì il cassetto della scrivania e fece finta di rovistare tra le scartoffie per celare l’imbarazzo. Fissò Mauro come per leggergli negli occhi la conferma o la smentita di quel che Livio aveva supposto maliziosamente.
Mauro avvertiva l’intensità con la quale Silvia lo fissava. Riuscì tuttavia a vincere la tentazione di ricambiare lo sguardo e darle una risposta. Compiaciuto d’essere stato abilmente enigmatico, imboccò il corridoio e ridiscese rapidamente le scale ma, distratto dall’esaltazione che avvertiva, giunto ai fatali gradini mancò poco che cascasse un’altra volta.
«Livio che t’è saltato in mente di arguire?» lo redarguì Silvia sentendosi le guance avvampare.
Gli occhi di Livio divennero fessure maliziose dietro le lenti degli occhiali. «Rivolgendomi a te» disse assumendo un’espressione complice «ho pungolato Mauro a darti una risposta ma ha preferito lasciarti sulle spine.»
«Sulle spine? Livio che cosa stai fantasticando?»
«Silvia quel ragazzo ti piace.» L’amico le poggiò la mano sotto il mento perché non distogliesse lo sguardo dal suo. «Avevi gli occhi che brillavano di luce propria quando Mauro ha confermato che domattina sarebbe andato a scattare le foto e tu gli hai proposto d’accompagnarlo.»
«Ascolta Livio: non nascondo che quel ragazzo mi sia rimasto simpatico e nemmeno che mi abbia fatto tenerezza perché oggi gliene sono capitate troppe ma è tutto qui.»
«Bah, a me è parso di leggere qualcosa d’altro nel tuo sguardo.»
«In che senso?» lo incalzò Silva.
«In quel senso», soggiunse Livio rivolgendole un’occhiata sorniona.
«Ascolta Livio», reagì Silvia assumendo l’aria di volere sgombrare il campo da conclusioni affrettate «non sono il tipo da colpi di fulmine, anzi sono convinta non esistano.»
Livio si lisciò la barba, rimase qualche istante assorto, poi indirizzò ancora un’occhiata alla giovane amica. Notò che si era assentata dalla materialità della stanza, come fosse sorpresa e incantata nell’avere scoperto qualcosa che pensava non appartenesse alla visione logica della sua esistenza. Scosse il capo sorridendo tra se, poi come volesse trarre dall’impaccio la giovane amica, si mise a cercare qualcosa in una pila d’incartamenti. «Silvia aiutami a trovare la copia dell’esposto contro l’inquinamento da trielina nel quartiere Michelangelo.» Le passò una mano davanti agli occhi. «Ehi Silvia, ci sei? Ah eccolo qui. Silvia ti ringrazio per il prezioso aiuto.»
«Che cosa hai detto? Ah sì l’esposto per l’inquinamento da… da che cosa?»
«Lascia andare, ho già fatto.»
«Livio ho sbagliato a proporre a quel ragazzo di accompagnarlo?»
“Ti sei accorta quanto le convinzioni possano vacillare, eh Silvia?” pensò Livio prima di suggerirle: «Per una donna non è certo un comportamento prudente recarsi in un luogo solitario assieme ad un uomo appena conosciuto e non metterei le mani sul fuoco per nessuno, però», terminò strizzandole l’occhio «credo possa fidarti. Mauro ha lo sguardo mite, parola di filosofo che ritiene quanto gli occhi siano lo specchio dell’anima per davvero.»
L’espressione rassicurante dell’amico spronò Silvia a confidarsi. «Cribbio, Livio, hai ragione. Quel ragazzo ha qualcosa che…» Frugò nella borsetta per cercare le sigarette. “Accidenti oggi è già la terza.”
Livio sollevò gli occhi dal documento per osservare i capelli corvini che a Silvia fluivano sulla schiena e il suo bel volto dalla pelle ambrata. Mormorò, con una vena d’amarezza: «Povero Stefano, dopo un anno di fatica, il caso gli ha giocato proprio un tiro mancino.»
«Che cosa hai detto Livio?»
«Riflettevo su un passaggio dell’esposto. Ora cerca di rintracciare Monica, Franco, il Bizza e Stefano.» Vedendola ancora distratta, Livio aggiunse:
«Lascia andare Silvia, faccio io.»
CAPITOLO TERZO
Intimità coniugale
Mauro fu destato dal rumore dell’avvolgibile che si sollevava. Impiegò qualche secondo per mettere a fuoco la mente. Vide sua madre che toglieva gli abiti del giorno precedente dalla poltroncina a piè del letto e li sostituiva con maglietta e jeans puliti.
«Mauro sbrigati ad alzarti o finirai per farla aspettare quella ragazza.»
La sera precedente era tornato stanco morto. Il tempo di bere una tazza di latte, spiegare frettolosamente dove si fosse recato, chi avesse conosciuto e si era ficcato a letto ma il pensiero che la ragazza dai capelli corvini lo avrebbe accompagnato in Valcorniola, gli aveva impedito di addormentarsi. Si era alzato per prendere un’aspirina. Il calmante gli aveva attenuato la tensione facendolo addormentare come un macigno.
Non appena vide il figlio apparire sulla porta del bagno, Luciano si rassegnò a spostarsi nel cucinotto e portarsi appresso l’occorrente per radersi. Agganciò lo specchietto d’emergenza al solito pomello dell’anta di una dispensa e mugugnò alla moglie che avrebbe dovuto mettere il pannolone come gli incontinenti se ci fosse stata anche Manuela.
«Esagerato, più invecchi più diventi brontolone.» Nadia prese una tazza dalla credenza della cucina, entrò nel cucinotto, accese il fornelletto del gas e mise il bricco del latte sulla fiamma. «Deciditi a chiamare un muratore invece di continuare a lamentarti. É una vita che discutiamo di fare il secondo bagno.»
Luciano interruppe di radersi e guardò la moglie di sbieco. «Hai detto che sto invecchiando?»
Stando attenta che il latte non traboccasse, lei gli rivolse un malizioso sguardo d’assenso.
«Ho i capelli che tirano al grigio ma di pancia sono ancora piatto come a vent’anni. Tu, invece, un po’ di chiletti li hai messi su e qualche zampa di struzzo attorno agli occhi comincia a farti compagnia.»
«Esagerato fammi vedere», reagì Nadia togliendo lo specchietto dal pomello con un gesto brusco.
«Miseriaccia stamattina non c’è verso di radersi», borbottò Luciano.
Lo specchio rimandò alla moglie l’inesorabile scorrere degli anni. «Qualche piccola ruga c’è ma quando sono truccata…» Subito dopo fece la voce piagnucolosa. «Lucy è vero che sto invecchiando?»
«Sei fresca come una primula appena sbocciata», le disse il marito appiccicandole un bioccolo di schiuma sul naso.
«Ipocrita!» Accortasi che il latte stava per schiumare, Nadia spense il gas, poggiò la guancia sulla schiena del marito e gli carezzò il petto glabro. Gli era sempre piaciuto che non fosse villoso. «Dio come passa il tempo, Lucy. Mi pare ieri che ero incinta di Mauro.»
«Non pensarci. Manuela telefona stasera?»
«Mi ha mandato un messaggino per dirmi che lo farà alle nove.» Nadia si scostò dal marito per versare il latte sulla tazza. Ci aggiunse un po’ di caffè da una napoletana. «Lo preparo anche per te il caffellatte Lucy?»
«Preferisco fare colazione con la spalla di maiale che abbiamo avviato ieri.»
«Di mattina? Ti farà venire sete. Prendi un po’ di caffellatte.»
«Mamma io vado.» Mauro era apparso in mezzo all’ingresso del cucinotto.
«Non fai colazione?»
«La faccio al bar.»
«Prendi almeno un bicchiere di latte. È già caldo.»
«Brucia?»
«I nostri fornelli hanno proprietà prodigiose: quando uno ha fretta intiepidiscono soltanto», ridacchiò Luciano.
«Allora ciao», li salutò Mauro. «Penso d’essere a casa verso mezzogiorno e mezzo.»
«Prendi il pullover di lana, quello leggero», si raccomandò la madre.
«Mamma fuori pare luglio.» Un istante dopo Mauro faceva crocchiare la ghiaia del vialetto che portava alla rimessa.
Intimità coniugali
Seduta al tavolo di cucina, Nadia osservò un punto imprecisato della credenza. Avvicinò la tazza alle labbra e ci soffiò dentro per affrettare il raffreddamento del caffellatte. Percepì la quiete della domenica mattina senza traffico. Il leggero rumore raschiante della lametta, che scorreva sul viso del marito, conferiva al silenzio della casa uno spessore di quotidiana familiarità; suoni attutiti e odori di vita domestica. Le giunse una battuta.
«Stamattina tuo figlio ha fatto il bagno nel dopobarba?»
«Capirai con quella ragazza che lo accompagna in Valcorniola!» esclamò lei, poi soggiunse: «Lucy ti pare normale che una donna accetti di accompagnare un uomo, in un posto solitario come quello, dopo averlo appena conosciuto? Non sarà un tipetto troppo smaliziato?»
«Mauro ci ha riferito che è figlia dei proprietari CIEFFE.»
«Saperlo non mi tranquillizza», commentò Nadia. «Drogati e squinternati appartengono a tutti i ceti sociali.»
«Temi che approfitti di lui?»
«Di questi tempi non ci sarebbe da meravigliarsene.»
«Credo che tuo figlio non opporrebbe resistenza.»
«Luciano non prenderla alla leggera questa faccenda.»
«E tu non essere troppo ansiosa. Come ha detto che si chiama la ragazza?»
«Silvia.» Per non seguitare a fare l’apprensiva, lei gli chiese: «Luciano, non capisco perché vogliano fare una diga sul Rio Pansecco. É un posto così bello. Tutti quegli alberi. Hanno già fatto un lago a Montescuro, che bisogno c’era di farne un altro?»
«Tra vent’anni l’acqua varrà oro. Non sarà più considerata una risorsa di necessità sociale ma un prodotto da mercificare come gli altri. Vedrai quanto rincarerà la bolletta già i prossimi anni.»
«Mia sorella», rispose Nadia «ha fatto installare il miscelatore d’aria ai rubinetti. Mi ha assicurato che risparmia molta acqua in quel modo. Dovremmo metterlo anche noi.»
«Impariamo a regolarne l’uso e non avremo bisogno di quegli aggeggi», commentò Luciano.
«Lucy, dove andremo a finire? Ogni tanto penso al futuro dei nostri figlioli.»
Stringendosi sulle spalle, lui cercò di non dare tinte troppo fosche al futuro. «Il mondo seguiterà a barcamenarsi.»
Col pensiero ai tempi in cui poteva comprare un gelato con cento lire, Nadia poggiò i gomiti sul tavolo. «Lucy, rammenti quante scampagnate facevamo su per il Rio Pansecco quando Mauro era bambino?»
«E quante volte m’è toccato prenderlo a cavalluccio durante il ritorno.» Luciano s’immaginò di sentire il figlio tirargli i capelli. «É rimasto così affezionato a quel luogo che ha seguitato a frequentarlo andandoci con la mountain Bike assieme ai suoi compagni di scuola ma avvisava soltanto me. Temeva che tu glielo proibissi.»
Nadia entrò nel cucinotto sorseggiando il caffellatte. «Pensavi non me ne fossi accorta?» Vide il marito indaffarato a maneggiare le forbici per togliere un pelo che gli cresceva sull’orecchio ma lo specchio gli falsava la posizione. «Faccio io. Lucy, come la immagini quella ragazza?»
«Spero sia carina e simpatica», commentò Luciano.
«Sono convinta abbia i capelli biondi naturali e non sia troppo alta», ipotizzò Nadia. «A Mauro piacciono quei tipi di donna. Ieri sera quando gli domandavo che tipo fosse e lui scantonava, ho capito quanto gli sia piaciuta. Al posto degli occhi sembrava avesse cerchietti come quelli del tiro a segno.»
A Luciano l’espressione di sua moglie parve tanto azzeccata da scoppiare in una fragorosa risata.
«Spero non si ficchi in un’altra bega», si augurò Nadia.
«Può darsi che tutto finisca con una scampagnata. E poi sei sicura che Mauro abbia rotto definitivamente con Rossana?»
«Sarebbe meglio per entrambi», commentò Nadia. «Non hanno caratteri compatibili. Lei è impulsiva, dispettosa e lui permaloso.»
«L’ultima che lei gli ha combinato è stata grossa. Mauro non ha tutti i torti a rimanergli adirato», soggiunse Luciano.
«Per me si è trattato soltanto di una rivalsa.»
«Sbagliata», rimarcò Luciano. «Mauro non era andato per i fatti suoi ma si trovava a lavorare con me. Rossana avrebbe dovuto riflettere su questo e capire di essersi fidanzata con un ragazzo che dimostrava di avere la testa sulle spalle.»
«Certo», rispose Nadia «ma un po’ dovremmo sforzarci di capire anche lei. Aveva sacrificato molto del suo tempo libero per cucire quei costumi. In ogni caso sono convinta che tra lei e quel ragazzo di Ponte al Pino non sia accaduto nulla di quel che si possa immaginare. L’anello di fidanzamento che Mauro le ha regalato non se l’è tolto. Abbassa gli occhi e tiene la mano sinistra in vista perché possa vederlo se mi capita d’incontrarla.»
Luciano annuì. «Un po’ mi spiace», ammise. «Rossana, in fondo, è una brava ragazza, onesta soprattutto e mi ero abituato a vederla per casa. Sai Nadia? Suo padre non mi saluta più.»
«Anche sua madre», rispose Nadia. «Per non averne l’obbligo cambia corsia se mi capita d’incontrarla al supermercato.»
«É inevitabile che i rapporti tra le famiglie si guastino quando accadono certi fatti ma il tempo attenuerà i risentimenti, vedrai.»
«Lucy tra due mesi saranno ventinove anni che stiamo assieme, due di fidanzamento e ventisette di matrimonio», gli rammentò Nadia per divagare da un argomento che gli aveva lasciato non poco amaro in bocca.
«Miseriaccia come passa il tempo. Mi sembra ieri che ti forai la bicicletta.»
La moglie gli tolse un rimasuglio di sapone dal lobo di un orecchio e gli chiese: «Lucy ti sono venuta a noia?»
«Non ti reggo più.»
«Bugiardo. Ancora mi tieni abbracciata dietro sennò non ti addormenti.» Nadia sentì il marito sfiorargli la parte sinistra del collo col dorso delle dita. Il modo di accarezzarle quel punto le aveva sempre fatto accapponare la pelle. Dal suo sguardo, sgombro di preoccupazioni, si accorse che Luciano si assentava piacevolmente dal presente. «A cosa stai pensando Lucy?»
«Al nostro primo appuntamento. Avevo un’agitazione addosso. Altro che quella di Mauro stamattina. Ti presentasti con una maxigonna che ti faceva un figurino tutto curve.»
«La misi apposta per rifarmi di quando passavo davanti alla tua bottega. Strabuzzavi gli occhi per guardarmi le gambe mentre pedalavo. Ero così imbarazzata che sarei scesa per darti una scarpa sul capo. E quel tuo saluto striminzito? Dio che rabbia mi facevi!»
«Il giorno dopo mi fissavi imbronciata se non mi trovavi davanti l’uscio e vuoi che ti sveli una cosa? Mi assentavo apposta per capire come avresti reagito.»
Che cosa?»
«Dai che mi mandavi i segnali.»
Nadia gli accarezzò la nuca e le venne di rammentare l’espediente che Luciano aveva escogitato per attaccare bottone. «Dovevi proprio forarmi la bicicletta?»
«Non sapevo come fare a dirti una parola in più di “ciao”. Sono stato sul punto di farlo parecchie volte ma non riuscivo a spiccicare parola quando passavi. Mica potevo dirti: signorina oggi è stata una bella giornata ma domani le suggerirei di prendere l’ombrello perché il colonnello Bernacca ha previsto pioggia. Sapessi quante volte ho preparato il discorso. Poi la mente mi diventava un foglio bianco quando ti vedevo.»
«Mancò poco che rinunciassi a venire con te e accettassi, invece, l’appuntamento con Filippo quando mi proponesti di andare a mangiare il cocomero.»
«Quell’impiegato delle poste con la faccia da allocco?»
«Aveva un impiego sicuro.»
«Perché non lo facesti?»
«Mi piacevi tu ma due fette di cocomero», ripeté Nadia. «Potevi offrirmi la pizza, propormi di andare al cinema.»
«Ero così agitato che… figurati se mi veniva di pensare alla forma.»
«Almeno potevi aggiustarmi meglio la camera d’aria. Dopo qualche giorno dovetti portarla dal meccanico, quello che chiamavano come quel bravo ciclista che correva allora.»
«Da Eddy Mercks?»
«Proprio lui. Arrossii quando mi chiese chi fosse il genio che aveva appiccicato la toppa alla foratura. Dovetti dirgli che era stato il mio ragazzo, al che lui mi rispose che non erano fatti che lo riguardassero ma se il mio fidanzato fosse stato capace di turare qualche altro buco com’era capace d’aggiustare le forature sarei stata fresca.»
«Eddy era una sagoma», sogghignò Luciano. «Un personaggio come lui non tornerà più a Sanfabiano. Era schietto come l’oro e con la battuta sempre pronta. Bastava sostenere che Fausto Coppi fosse stato un corridore più forte di Mercks, se volevi attizzarlo alla discussione. “Tu di ciclismo non ne capisci un cazzo.” Ti avrebbe risposto a brutto muso. Poi si sarebbe liberato degli attrezzi infervorandosi nella discussione per ore se uno avesse avuto tempo di star lì a stuzzicarlo. Una sera, al bar di Bracalone, sostenne quanto fossero matti da legare coloro che si fustigavano a sangue per cacciare la tentazione di commettere atti impuri e rimanere casti agli occhi del Creatore perché se ci aveva fatto con quegli organi, era logico che li dovessimo adoperare non solo per fare pipì. Poi disse, facendo sganasciare tutti, che non aveva mai smesso di masturbarsi perché aveva sposato una donna buona come la focaccia fatta con l’olio d’oliva dei nostri poggi ma che non era mai stata capace di fargli una s… come si deve.»
«Luciano non essere volgare.»
«Mica mi sentono. E lo sai, Nadia, come si sfogava?»
«Lucy non m’importa di saperlo, smettila!» lo redarguì lei dandole uno schiaffetto.»
«Guardando le immagini delle modelle che indossavano biancheria intima nelle pagine del Postal Market», persisté Luciano. «Sosteneva che fossero più arrapanti rispetto alle donnine raffigurate nei giornaletti osé di allora. Poi per consolarsi delle insoddisfazioni sessuali familiari, si buttò sul cibo e aumentò di quaranta chili in cinque anni.»
Nadia sentì il marito sfiorarle il collo con la punta delle dita.
«Nadia, eri una fichettina.»
«Ora no eh? Ho partorito due figlioli», gli mormorò lei guardandolo imbronciata.
Luciano le mordicchiò il lobo dell'orecchio palpandole i seni. Roteò gli indici attorno alla prominenza dei capezzoli.
«Lucy che stai facendo?»
«Provoco la mia vecchiona.» Le fece scorrere le dita sulla spina dorsale. Avvertì sua moglie lasciarsi andare alle carezze.
«Ti si è già mosso», bisbigliò lei percependogli l’erezione del pene sul ventre.»
«É ancora in forma come quando andavamo a fare l’amore in Valcorniola. Ricordi il giorno delle formiche rosse?»
«Mamma mia che bruciore!» esclamò Nadia «Invasero il plaid senza che ce ne accorgessimo. Te la cavasti con poco ma io avevo le chiappe in fiamme.»
Luciano avvertì che la voce le stava diventando roca.
«E la volta che ci sorprese il temporale, Lucy? Ci riparammo in casa di Pansecco e mi parve di sentire strane voci.»
«Erano la pioggia che picchiettava sul tetto.»
«No, Lucy, erano proprio voci. Avvertii chiaramente dire: “Quinto vai a dare la biada alla vacca”. Pensai fosse stato il fantasma di Pansecco che chiedeva a un figliolo di sbrigare la faccenda.»
Luciano fece un risolino e le rispose che avrebbe dovuto suggerirgli, se fosse stata veramente convinta di avere udito quella voce, di informare qualche esponente del Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni Paranormali perché indagasse sulla faccenda.
«Quanto sei spiritoso!» esclamò la moglie facendogli linguaccia. «Rimasi tanto impressionata che volli appoggiarmi al davanzale della finestra di cucina e guardare fuori mentre facevamo l’amore.»
«E si ruppe il preservativo per la posizione scomoda in cui mi ero messo. Mi accorsi che c’era qualcosa che non andava, ma te la sentivo così caldina che non l’avrei tolto per tutto l’oro del mondo. In quella casupola ora svolazzano i nostri gemiti, altro che la voce fantasma di Pansecco.»
«Porcello miscredente, lo immaginavo che ci avresti fatto una battuta.» Nadia gli prese il viso tra le mani e lo fissò amorevole. «Ed io passai dieci giorni con la fifa d’essere rimasta incinta.»
«Dai che ti fa piacere se rammentiamo certi momenti Lo sento. Stai diventando morbidona.»
«Ora la tua vecchiona ha le zampe di struzzo attorno agli occhi, pèrò.»
«Sciocca, sei ancora bella.»
«Non è vero. La verità l’hai detta poco fa.»
Luciano accarezzò sua moglie sulle rughe, agli angoli di quegli occhi che conservavano il colore saturo delle castagne. La baciò con tenera lentezza. La bocca di Nadia gli passò il sapore del caffellatte. Vide una lacrima rigarle il viso. «Perché piangi?»
«Sono contenta della mia famiglia», disse Nadia socchiudendo gli occhi. Sentì il marito slacciarle la camicetta e sfilargliela dalla gonna. Gli porse le braccia perché gliela sbottonasse ai polsi. Fremette nel sentirsi slacciare il reggiseno e sostenere le mammelle ancora floride. Percepì sui capezzoli il tiepido tocco delle sue labbra. «Lucy, torniamo a letto.»
«No, facciamolo qui», le sussurrò lui baciandola sul collo. «Non capita spesso di rimanere in casa senza quei due rompipalle dei tuoi figlioli tra i piedi.»
«Ora fammi restare un po’ così, però.» Nadia rimase immobile, abbracciata al marito a compiacersi delle ultime parole che le aveva sussurrato. “Quei due rompipalle dei tuoi figlioli”. Si sentiva padrona del mondo quando le diceva “i tuoi figlioli”.
Ritorno indesiderato
«Mamma?»
Proveniente dall’ingresso, la voce di Mauro fece l’effetto a Nadia e Luciano di una secchiata d’acqua fredda.
Ficcato il reggiseno nella lavatrice, Nadia rimise la camicetta infilandosela frettolosamente nella gonna. «Mauro, sono nel cucinotto col babbo. Stiamo ancora facendo colazione. Perché sei tornato?»
«Ho dimenticato una cosa.»
“Porcaccia miseriaccia”, imprecò Luciano mentalmente “era dall’estate scorsa che non ci sentivamo così presi”. Sollevò gli occhi al soffitto e fece una smorfia di disappunto. «Nadia, tuo figlio è un gran rompiscatole», borbottò.
«Babbo, che cosa hai detto?»
«Ho chiesto alla mamma di passarmi il miele. Che cosa ti sei dimenticato?»
«La macchina fotografica.»
“Non si dimentica mai di nulla e stamattina s’è scordato la macchina fotografica!” «Allora sbrigati», lo sollecitò il padre.
Poco dopo udirono il figlio salutarli senza affacciarsi nel cucinotto.
Mauro rammentati di fare colazione», si raccomandò la madre. «I soldi li hai presi?»
«Sì, mamma.»
Luciano attese di udire la porta d’ingresso chiudersi con un colpo deciso, poi commentò: «Mauro sarà anche preoccupato per la Valcorniola ma sono convinto che quella Silvia gli abbia fatto prendere un’imbarcata!»
«Lo temo anch’io. Quel mascalzone nemmeno un bacetto è venuto a darmi.» Nadia accarezzò il marito e cercò conforto nel suo sguardo. «Quella Silvia me lo leva dal nido. Lo sento.»
«Mauro compie ventisei anni a ottobre. Non vorrai che rimanga a bighellonare per casa fino a trentacinque.»
Nadia annuì stringendosi il marito al petto. «Lucy andrà a finire che rimarremo soli. Mi fa un po’ paura.»
«Se credi che ci avviamo a esaurire l’impegno col mondo pensa alla prospettiva di tirare su qualche nipote e avere ancora pannolini da mettere e mocci da pulire.»
I fori della tapparella sminuzzavano il sole e riversavano nel cucinotto una gradinata di chicchi dorati.
«Lucy, lascia stare la colazione con la spalla. Ti preparo un bicchiere di latte caldo, poi stacchiamo i telefoni.»
L’attesa
Meglio non poteva capitare a Mauro. Distributore e bar avevano il turno di servizio. Salutò Adriano, indaffarato a misurare la pressione delle ruote di una station-wagon. Nel bar stagnava l’aroma del caffè mescolato all’odore di vaniglia che emanavano i pasticcini.
Tamara, la sorella d’Adriano, una ragazzona dallo sguardo gioviale, rossa naturale, formosa al punto da fare immaginare l’opulenza di un girasole, lo accolse con un gran sorriso.
Mauro si accomodò su un tavolo presso la vetrata d’ingresso e ordinò un panino. Ci ripensò, poi disse a Tamara di attendere. Aveva considerato che sarebbe stato scortese offrire a Silvia la colazione e riferirle che lui l’avesse già fatta. Rifletté sulle indicazioni che le aveva dato. “Ti aspetto sul piazzale del distributore di benzina, quello alla destra, subito dopo il cartello indicante Sanfabiano”. Lei si era premurata di assicurargli che sarebbe giunta alle nove e un quarto al massimo. Sul tavolo era posato il Corriere della Provincia. Lesse distrattamente i titoli facendo tremolare i piedi. Osservò i veicoli che transitavano sulla nazionale. Livio non aveva ancora lasciato la sede quando si erano accomiatati, cosicché un po’ per discrezione, un po’ per il disagio di domandarglielo, si era trattenuto dal chiederle il modello dell’auto con la quale sarebbe giunta e di che colore fosse. Nemmeno si azzardava a chiamarla al cellulare, sebbene lei glielo avesse fatto memorizzare sul suo, perché se era in viaggio e non si fosse fermata per rispondere avrebbe potuto distrarla dalla guida, perciò scrutava nell’abitacolo d’ogni veicolo che transitava. L’attesa lo rodeva al punto di minimizzare il pericolo, si frugò in tasca per prendere il telefonino. «Accidenti l’ho lasciato sul comodino.»
Tamara stava per domandargli che cosa lo agitasse, quando dovette rivolgere servigio a una coppia di mezza età.
Per distrarsi Mauro cercò di seguire Adriano che aveva approfittato di un momento di stasi alle pompe per innaffiare un’aiuola. Il suo orologio segnava le nove e venti. Sperò che Silvia non ci avesse ripensato o che i genitori l’avessero avvertita dei pericoli che avrebbe corso se si fosse recata in un bosco con un uomo appena conosciuto. Pure quell’evenienza era da mettere in conto. Tamburellò un tacco sul pavimento. Cercò di leggere l’editoriale del giornale dal titolo “MAZZETTE SENZA FINE” ma non c’era verso che si concentrasse. “Se le fosse accaduto qualcosa per strada? Che vado a pensare!”
Erano le nove e trentacinque quando iniziò ad avvertire la smania di uscire però non sembrandogli dignitoso mettersi a gironzolare sul piazzale, come un’anima in pena, si sforzò di rimanere seduto ma resistette ancora per poco. Uscì accodandosi a un cliente.
«Mauro la colazione?»
«Tra un po’ Tamara.» Mauro si soffermò a osservare Adriano che aggiungeva olio al motore di un’auto. Raggiunse un lungo roseto che separava la statale dal piazzale del distributore. Indugiò a guardare i fiori occhieggiando al tempo stesso il traffico. Seguì un cane che, sul marciapiede opposto, procedeva dritto come se il suo unico interesse fosse raggiungere un luogo prefissato. L’ansia di telefonarle lo vinse. Cercò il cellulare. Le tasche erano vuote. “Porca puttana, ho scordato pure quello, imbecille che non sono altro.” Si sarebbe preso a pugni in testa. Mancava poco alle dieci quando decise di tornare nel bar.
Tamara serviva una giovane coppia accompagnata dal figlioletto agitato come una peste. Spezzato in due un panino col prosciutto, la mamma cercava di convincerlo a mangiare ma il bambino voleva un ovetto di cioccolato con la sorpresina dentro e un sacchetto di patatine. Per ottenerli si mise a strillare con tanta lena che il muco gli colò sul mento. Poco dopo, precedendo i genitori, usciva dal locale stringendo l’uovo e le patatine tra le manine. Lanciò una fiera occhiata a Mauro come per dirgli: “Hai visto come si fa? Impara!”
«Gli avrei dato tanti di quegli sculaccioni», reagì Tamara smaniosa «da fargli il sedere rosso come una bertuccia, fosse stato mio figlio.» Cambiò tono e, quasi mormorandoglielo, chiese a Mauro se attendesse qualcuno.
«Lo aspettavo. Ormai credo mi convenga ordinare la colazione.»
Tamara non insisté e lo informò che sarebbe stata costruita una diga sul Rio Pansecco ma gli ambientalisti si opponevano. «C’è scritto sul Corriere della Provincia nella cronaca di Sanfabiano.»
Lui si limitò ad annuire, poi insisté a scrutare fuori del bar.
Presso le pompe dei carburanti sostava un furgone. Un ragazzo, che indossava pantaloni e giubbotto di tessuto jeans, col capo racchiuso in un casco rosso fiammante, giungeva alla guida una di quelle motorette somiglianti a mantidi religiose. Un uomo si accingeva a lavare la sua auto con le spazzole rotanti. Decise di sfogliare il giornale per cercare l’articolo.
UN ALTRO LAGO ARTIFICIALE A SANFABIANO
Ambientalisti sul piede di guerra
Un progetto dimenticato? Nient’affatto! La diga sul torrente Rio Maestro, in Valcorniola, nel comune di Sanfabiano, sarà realizzata. Questo è l’allarme lanciato dal presidente del circolo provinciale della FNEI, prof. Livio Livi e dal vice presidente architetto Fabrizio Ridolfi. I due noti ambientalisti sostengono che la costruzione della diga provocherebbe lo stravolgimento della Valcorniola, un ambiente risparmiato dalle attività umane, nel quale sopravvive un patrimonio biologico d’inestimabile valore, ormai scomparso in altri luoghi. Livi e Ridolfi annunciano che la FNEI invierà un ricorso, avverso la costruzione dell’invaso, alle autorità competenti.
L’architetto Ridolfi lancia inoltre pesanti accuse nei confronti di chi, amministratore regionale ambientalista, ha sottoscritto un protocollo d’intesa interregionale in cui è riconfermata la volontà di realizzare la diga. “Stavolta, termina laconico Ridolfi”, potremmo assistere all’ennesimo scempio ambientale col beneplacito di uno pseudo ecologista che ha pensato solo in ragione di calcoli politici e non alla tutela del territorio…”
Si compiacque della sollecitudine con la quale la FNEI aveva comunicato la notizia alla stampa. Se non altro dimostrava di essere un’associazione attiva.
“Il comitato direttivo del circolo provinciale della FNEI”, continuava l’articolo si riunirà mercoledì prossimo per discutere nel merito del probl…”
«Ciao Mauro.»
Lui si sentì balzare il cuore in gola. Col casco sottobraccio e il giubbetto chiuso fino al collo, Silvia gli era accanto. Ricambiò il saluto quasi farfugliando, poi si alzò prontamente per aiutarla a trovare un luogo sul quale posare il casco.
«Mauro puoi metterlo su una sedia», gli suggerì Tamara notando quanto fosse impacciato.
«Perdonami per il ritardo Mauro», si scusò Silvia con un’aria sconsolata. «Non speravo più che mi aspettassi. Cacchio quando la scalogna ci mette lo zampino, non combina un contrattempo ma te ne rifila un sacco. La mia macchina non voleva saperne di mettersi in moto, non ho potuto prendere quella dei miei perché mio padre ne aveva bisogno. Per di più abbiamo il furgone della ditta dal meccanico pertanto ho chiesto a mio fratello di prestarmi la motoretta. Geloso com’è della sua roba, appena sono riuscita a convincerlo.»
Mauro annuì ostentando padronanza ma avvertiva la bocca arida per l’emozione. «Ti va di prendere qualcosa Silvia?»
«Buon’idea. C’è un odorino così invitante qui dentro. Sai Mauro? Ho cercato di avvisarti che sarei giunta in ritardo ma avevi il cellulare spento. Ho provato anche al tuo telefono fisso ma dava occupato in continuazione.»
«Forse si trattava di un parente o un cliente, però mi sembra strano. Di regola chiamano dopo le undici nei giorni festivi.»
«Ti ho mandato pure un messaggino per avvisarti che sarei arrivata in ritardo sperando che lo leggessi prima possibile.» Trasse finalmente un sospiro soddisfatto. Gli sorrise. «Beh eccomi qui. «Mauro posso usare il tuo cellulare? Per la fretta di partire il mio non l’ho messo sotto carica.»
«Silvia, mi spiace, l’ho dimenticato a casa.»
«Cribbio ho promesso a mia madre d’avvertirla appena fossi arrivata. Ho guidato la motoretta di mio fratello poche volte. L’ho lasciata preoccupata.»
«Signorina usi il mio», le disse Tamara. «Può andare di là nella stanzetta attigua. Troverà un po’ di disordine perché la usiamo come magazzino ma potrà telefonare senza essere disturbata.»
«Intanto ti ordino la colazione Silvia?» le chiese Mauro. «Preferisci un panino al prosciutto?»
Lei sbirciò nelle vetrinette e ordinò due porzioni di crostata con le mele e acqua minerale naturale non di frigorifero. Poi si allontanò sinuosa e leggera.
«Mauro?»
Lui era tanto preso a fissare la porta dietro la quale Silvia era scomparsa da non afferrare che Tamara lo stava chiamando.
«Mauro!»
«Scusami Tamara.»
«Mi è giunta notizia della tua rottura con Rossana.»
«In verità non c’è niente di definitivo.»
«Te l’ho chiesto perché non vi si vede assieme da mesi. Rossana è sempre in compagnia delle sue amiche con un muso lungo così. La ragazza che è di là è la tua nuova fidanzata?»
«Tamara ti ripeto che non ho rotto definitivamente con Rossana.»
«Frequenti la stangona da molto tempo?»
Sul volto di Mauro si accese un’espressione contrariata e le mosse un rimprovero, rispondendole: «Tamara non mi è piaciuto il termine che hai usato.»
«Quale termine?» gli chiese lei inarcando le sopracciglia.
«Stangona!» esclamò lui. «Comunica una sensazione di volgarità. Si chiama Silvia.»
«Mamma mia come sei suscettibile stamattina! La mia era una battuta. In ogni modo non si può dire che sia bassa quella Silvia ti pare?»
«Si chiama Silvia non “quella Silvia”», reagì nuovamente Mauro.
«Uffa, Mauro, quanto sei irritabile stamattina», reagì lei «e ferma quei piedi altrimenti contagi di nevrosi anche me! «Allora puoi soddisfare la mia curiosità di sapere quando tu l’abbia conosciuta quella spilun… quella Silvia senza timore che mi veda rovesciare il tavolo?»
«Ieri pomeriggio.»
«Dove?»
«Mi sono recato nella sede dell’associazione ambientalista di cui parla il Corriere. Volevo sapere se fosse stato possibile fare qualcosa per impedire la costruzione di quel cazzo di diga. È lì che l’ho conosciuta.»
«Già ti tolgono l’ispirazione se sommergono la Valcorniola.» Tamara assunse un’aria intrigante e, come per dirgliela di sotterfugio, sollevò la mano a nascondersi la bocca. «Molti cacciatori appenderebbero il fucile al chiodo per un’ambientalista come quella.» Armeggiò intorno alla macchina del caffè e soggiunse in tono confidenziale: «Era troppo dispiaciuta per il ritardo e che occhi dolci ti faceva!»
«Tamara non esagerare, ti sarà parso», rispose Mauro ma con un’espressione che sembrava avergli lasciato un punto interrogativo stampato in faccia.
«A me non sfugge niente, nemmeno che tu sia divenuto pallido come un lenzuolo appena l’hai vista.» Tamara moriva dalla curiosità di conoscere il motivo dell’appuntamento. Figuriamoci poi di una faccenda che riguardasse Mauro. Alle elementari frequentavano la stessa classe; poiché non abitavano distanti, spesso svolgevano i compiti assieme e qualche volta avevano pure giocato al dottore. «L’hai invitata a vedere i tuoi quadri?»
«Dobbiamo fare un servizio fotografico in Valcorniola per conto della sua associazione.»
Sempre più intrigata Tamara si approssimò a Mauro e posò il vassoio delle colazioni sul suo tavolo. «Siete in comitiva?» gli domandò con un’espressione sempre più intrigata.
«Mamma mia, Tamara, stamattina mi mitragli di domande», replicò Mauro.
«Mauro dimmelo! Non vorrai fare lo stronzo di lasciarmi incuriosita.»
«Siamo soli. Contenta?»
Tamara occhieggiò verso la porta del retrobottega per accertarsi che la ragazza non fosse di ritorno. Poi gli disse sottovoce: «Se una donna accetta di passeggiare nel bosco, con un uomo appena conosciuto, può significare solo due cose: o è un tipo leggerino oppure ne è interessata assai.» Quell’assai Tamara l’aveva rimarcato come se avesse voluto calarlo sul tavolo come un asso di briscola. Fece per tornare dietro il banco ma lui la trattenne.
«Ti faccio il ritratto se hai ragione per la seconda ipotesi.»
«Mauro ti prendo sul serio eh?»
«Contaci. So che ti sposerai tra qualche mese. Fammi avere una tua foto ingrandita. Il ritratto sarà il regalo di nozze per la mia fidanzatina delle elementari.»
Arrossendo lei si mosse per discostarsi ma la frase che gli giunse le infiammò ancor di più le gote.
«Tamara non ti vergognerai. Si giocava al dottore con l’innocenza dei bambini.»
«Mica tanto!» esclamò lei. Poi commentò quasi tra sé: «Povera Rossana quando verrà a saperlo le prenderà un colpo.»
«Che cosa hai detto Tamara», le domandò Mauro.
«Niente confabulavo tra me e me.»
La conversazione fu interrotta da una frotta di turisti giapponesi che sciamarono nel bar.
CAPITOLO QUARTO
Emozioni
Nel tratto che separava la stazione di servizio dall’imbocco della Valcorniola, Mauro le aveva fatto da battistrada e lei, sulla motoretta di un bel verde metallizzato, col viso nascosto dietro la visiera del casco, pareva scaturita da un film della serie Guerre Stellari.
Dallo spiazzo antistante la mulattiera, Silvia osservò, attonita, il paesaggio circostante.
Più in basso la piana di campi coltivati, spezzata da fila di pioppi cipressini, si distendeva fino alle opposte colline che la distanza velava di foschia azzurrina. Strisce d’argento, a tratti celate dagli alberi, rivelavano il corso del fiume di pianura e, come fosse straripata dal suo centro storico, la nuova Sanfabiano giungeva fino a lambirne una sponda.
«Ciumbia Mauro!» esclamò Silvia osservando, attonita, il paesaggio sottostante «da qui si vede un panorama bellissimo. Dove porta questa strada?»
«In un luogo chiamato Pian degli Ulivi. C’è un vecchio mulino in disuso che funzionava con l’acqua del Rio Maestro.»
Lei osservò la rigogliosa vegetazione che ricopriva i poggi. Notò che la massa del verde era divisa da una sinuosa cintura biancastra digradante al piano. «Immagino che quelle siano acacie», disse indicandogli la tortuosa fascia.
«Sono proprio acacie», confermò Mauro. «Seguono le anse del torrente e siamo nel periodo della fioritura.
«Hai mai mangiato le infiorescenze d’acacia fritte, passate sulla pastella d’uovo e farina?»
«Silvia non prendermi in giro», rispose Mauro sebbene sapesse della loro commestibilità.
«Perché dovrei? Sono buone davvero.»
«Questa poi!»
«Non sono una brava botanica?» rispose lei dandogli un buffetto sul naso. Poi puntò il braccio verso le alture e gli chiese, indicandogli una strozzatura tra esse: «È là che intenderebbero costruire la diga?»
«Suppongo di sì. È il punto più stretto e basso del vallone. Più su i poggi si allargano e formano una conca.»
«Il Rio Maestro non si scorge da qui.»
«In pochi punti» le spiegò Mauro «è possibile avvicinarsi all’alveo tanto da vederne l’acqua scorrere. La vegetazione è intricata sulle sue sponde perché nessuno, ormai, si prende la briga di ripulirle.»
«Sei bravissimo a descrivere le cose», disse Silvia ricomponendo una ciocca di capelli che a Mauro era calata sulla fronte. Un po’ nascosta dal sopracciglio destro notò una piccola cicatrice che il sole non riusciva ad abbronzare. «Come te la sei procurata questa?»
«Da bambino cadendo dalla bicicletta.»
«Sembra una stellina.» Silvia fece scorrere sopra di essa il polpastrello dell’indice come surrogato di una carezza. «Sai Mauro? Credo di capire il motivo per cui descrivi benissimo ciò che vedi: non guardi ma osservi.»
Se non con un battito di ciglia a lui non sovvennero risposte. Pensò, invece, quanto le vicende della vita fossero imprevedibili. Il mattino precedente aveva risalito il vallone ignorando l’esistenza di quella ragazzona dagli occhi neri che sembravano seguitare a sorridere anche quando le sue labbra cessavano di farlo. La osservò come per capire il perché di tanta armonia che tracciava i tratti del suo volto. La bocca, il mento, gli zigomi e la fronte erano come li avrebbe dipinti se avesse voluto esaltare la bellezza di un volto armonioso. Inspirò profondo per contenere le emozioni e disse indicandole la stradicciola: «Vogliamo avviarci Silvia? Il sentiero presenta qualche asperità e dovremmo giungere fino alla casa di Pansecco per scattare qualche foto a una fontanella.»
«Pansecco?» chiese lei.
«Era un contadino poveraccio che abitava lassù con moglie e un branco di figli. Lo conoscevano tutti a Sanfabiano, tanto che seguitiamo a chiamare il Rio Maestro “Rio Pansecco”. È stato lui a costruire il fontanile. Stavo appunto dipingendolo quando ho incontrato l’ingegnere.»
«Non vorrei mi fregassero la motoretta. Mio fratello mi ucciderebbe. Ho anche la borsetta con i documenti nel bauletto.»
«Ritroverai tutto non temere. Possiamo mettere la borsetta nella bauliera della macchina se può tranquillizzarti.»
Poco dopo, spronandolo a iniziare la marcia con un leggero tocco sul braccio, Silvia lo sollecitò: «Cia, Mauro, ndem alla casa di Pansecco.»
«Cia ndem! Che vuol dire?»
«Dai andiamo. É dialetto lombardo. Mio padre ha origini milanesi. Mi piace usare le sue espressioni. Le trovo simpatiche.»
«E ciumbia?»
«É un’esclamazione che significa, accidenti, porca miseria, caz…»
Risero per quel taglio censurante.
«Nessuno immaginerebbe che nelle tue vene scorra sangue celtico. Hai un aspetto così mediterraneo.»
Colta nella vanità femminile, Silvia non poté trattenere una mossa leziosa. «Ho preso da mia madre e sua nonna era di origine lucana. Da mio padre ho ereditato l’altezza. Rallentò l’andatura e gli rivolse una domanda maliziosa. «Alle more preferisci le bionde?»
«Silvia non intendevo dire questo...»
Averlo messo in imbarazzo a lei procurò un piacere sottilissimo. Accelerò il passo perché fosse obbligato a trotterellare per raggiungerla.
«Che strano stamattina mi sembri più alta di ieri.»
«E tu mi sei ancora più simpatico.»
Poggiando una mano sul cuore, Mauro finse che le gambe gli facessero Giacomo ma accentuò solo un po’ quel che avvertiva veramente. Sotto la volta di olmi si atteggiò da cicerone naturalista facendole notare quanto le felci fossero ancora umide di rugiada e come il muschio avvolgesse i tronchi degli alberi.
Dallo sbocco della galleria fotografarono la luce abbagliante che si riversava sulla macchia.
«Mauro scattami una foto accanto a quel rovo», gli chiese Silvia soffermandosi presso una pianta di rosa canina.
Lui s’inginocchiò per riprenderla dal basso e centrare una finestra di cielo azzurro, quindi gliene scattò un’altra mentre odorava i petali di un fiore.
«Posso chiederti l’età Silvia?»
«Compirò vent’anni il tre d’agosto. Tu?»
«Ventisei, il quattordici d’ottobre.»
«Leone e bilancia, c’è intesa tra le persone di questi due segni», commentò lei con aria distaccata.
«Ha un significato che ci riguardi ciò che hai detto», le domandò Mauro.
Poiché Silvia preferì rivolgergli una breve occhiata, anziché rispondergli, lui insisté a chiederle se veramente credesse agli oroscopi.
«Semplice curiosità femminile però chissà se…»
«Intendevi dire se ci sia qualcosa di vero?» la incalzò Mauro.
«Sono soltanto sciocchezze.»
Un bombo li costrinse ad agitare le braccia per allontanarlo. L’episodio dell’insetto li distrasse dall’argomento astrologico cosicché proseguirono la marcia seguitando a fare commenti sulla campagna.
L’attenzione di Silvia fu attratta da un oggetto simile a una noce ma più liscio e sferico. «Mauro c’è una pallina grande come quelle del ping, pong attaccata a quell’alberello.»
«È una galla. Si forma quando le piante sono punte da alcuni insetti. È un modo che esse adottano per isolarsi da sostanze sgradite.»
«La prendo come portafortuna.»
Mauro si allontanò qualche passo per fotografare alcuni aceri e quando si voltò per tornarle accanto se la ritrovò tanto vicina da sfiorarlo.
«Ai miei ho riferito che sarei venuta a fare un’escursione con una comitiva di soci della FNEI Sanfabianese», disse Silvia. «Avrebbero fatto il diavolo a quattro per dissuadermi dal venire se avessi detto loro che ci sarei venuta in compagnia di una sola persona, per di più di un uomo conosciuto solo ieri. E non avrebbero avuto torto ti pare?»
«Capisco», le rispose Mauro laconico.
«Sarei rimasta col patema addosso se non fossi riuscita a confidartelo e voglio confessarti un’altra cosa: mi ero quasi pentita di averti proposto d’accompagnarti. Poi ho chiesto consiglio a Livio. Mi ha risposto che non metterebbe le mani sul fuoco per nessuno però ha notato mitezza nel tuo sguardo.»
«Ringrazialo ma spero abbia giudicato il mio sguardo soltanto bonario non da pesce lesso.»
Silvia gli sorrise, poi accennò una carezza per fargli intendere quanto si fidasse. Gli sistemò con cura la cintola della macchina fotografica sulla spalla e ripresero il cammino. «Mauro posso tenerti per mano?»
Con un movimento che cercò di far sembrare casuale, lui poggiò il palmo sui pantaloni per tentare di asciugarlo. «Se ti fa piacere.»
«Non te lo avrei chiesto altrimenti.» La mano di Mauro, rimasta un po' umidiccia, procurò a Silvia una sensazione di compiaciuta prevalenza.
Sostarono sulla piattaforma d’arenaria per scattare alcune foto alla cascatella. Più su Mauro le chiese quanto Livio gli fosse parso un tipo tosto.
«Lo è veramente. Non sopporta l’ipocrisia e i compromessi. Sostiene che la politica stipendiata faccia diventare cinica anche la persona più appassionata e che ci sia un solo modo per rimanere ambientalista militante: avere il coraggio di farsi nemiche molte persone perché devi pestarli a parecchie i piedi.»
«É sposato?» chiese Mauro.
«E ha due figli. Il maggiore ha preso Ingegneria Ambientale. Sai Mauro? Capita che Livio ti scaraventi la verità in faccia senza tanta diplomazia, come ha fatto ieri con te però la sua intenzione non è di mortificare ma un modo per rammentare anche se stesso che così va il mondo.»
«Lo conosci da molto?»
«Da un anno. Una domenica pomeriggio, mentre passeggiavo in centro con una mia dipendente, mi soffermai presso un tavolo approntato da alcuni ambientalisti che vendevano biglietti di una lotteria. Era una di quelle iniziative per raggranellare qualche soldo. Assieme a un paio di altri soci c’erano Livio e Fabrizio Ridolfi, la persona alla quale Livio ha telefonato ieri pomeriggio. Fabrizio è un architetto che conoscevo già perché ha restaurato la casa dei miei poveri nonni materni a Montelignano. Ci passiamo spesso le domeniche lassù.»
«Da quanto tempo sono morti i tuoi nonni?»
«Due anni a pochi mesi l’uno dall’altra. Abbiamo passato un periodo difficile. Sai Mauro? Non c’è niente che ti faccia provare nostalgia per l’infanzia come la morte di un nonno. Ricorderò sempre la scopa di saggina che mia nonna Almira adoperava per spazzare sebbene fossero già in commercio quelle di plastica. Era come se per lei fosse sacrilego spazzare casa con quelle. Il battuto che preparava per fare il ragù sembrava emanasse l’odore della domenica, poi era seguito dall’aroma del sugo che si diffondeva in tutta la casa mentre bolliva per ore perché divenisse buono. Quando infine era pronto, me lo spalmava un po’ su una piccola fetta di pane perché non mi togliesse l’appetito per il pranzo ma solo per farmi assaggiare quanto saporito e mi stuzzicasse l’appetito. In seguito sono divenuta vegetariana ma, come si usa dire, questa è un’altra storia.» Silvia trasse un sospiro e gli indirizzò un sorriso mesto come se rievocasse quei momenti con tristezza. «Scusami Mauro se ti ho tediato con certi ricordi.»
«Perché mai?» rispose lui «anzi mi fa piacere ascoltare della tua infanzia.»
«Insomma», riprese a raccontargli Silvia «acquistai alcuni biglietti e siccome Fabrizio immaginava amassi la natura perché sapeva delle mie abitudini alimentari vegetariane, m’invitò a un’assemblea della loro associazione. Ti confesso che partecipai più per la curiosità di sapere come si svolgessero le riunioni degli ambientalisti che per un interesse vero e proprio. Compresi l’importanza del loro impegno e m’iscrissi. Ora mi sono fatta degli amici e ieri ti ho conosciuto.» Silvia fece seguire alle parole una stretta di mano più energica. «A proposito di Fabrizio volevo aggiungere che non solo è un professionista bravissimo ma anche un mattacchione sempre in vena di combinare scherzi. È capace di andare al cinema e mettersi a sbadigliare rumorosamente per contagiare gli altri, poi sbellicarsi dentro mentre ascolta lo sbadiglio propagarsi. Talvolta, con la complicità di un amico, si mette a puntare un braccio verso il cielo come per indicare qualcosa di strano che vola, poi entrambi si sganasciano nel vedere quanta gente si fermi per guardare in alto.
«Uno zuzzurellone?» commentò Mauro.
«Altroché!» esclamò Silvia. «A volte non riesco a sopportarlo talmente esagera nell’ironia, poi ti stupisce per la sua capacità di passare da comportamenti burleschi a riflessioni profonde. Mercoledì prossimo potrai conoscere anche lui.»
La conversazione era divenuta così cordiale che Mauro pensò fosse giunto il momento di chiederle se avesse il ragazzo. Rinunciò per timore di indurre Silvia a fare altrettanto e nella situazione complicata in cui era la sua vita sentimentale che cosa poteva risponderle? L’incertezza lo rodeva.
«Mauro, posso chiederti se hai la ragazza?»
Colto di sorpresa, lui pensò che negarlo in modo evasivo fosse la maniera più adatta per sentirsi meno ipocrita. «No», rispose senza riuscire a celare un tono incerto.
«Che “no” titubante. Sembra un “ni” che nasconda un nome di donna», rispose Silvia corrugando le sopracciglia.
«Si chiama Rossana», ammise Mauro con un tono dimesso, come per non dare particolare importanza alla rivelazione.
Silvia avvertì, tuttavia, un disinganno così pungente da temere di non riuscire a controllare il rammarico. Sul suo volto apparve un’impercettibile contrazione del sorriso. «È di Sanfabiano?» domandò sforzandosi di dare alla sua voce un tono disinteressato.
Lui si sottrasse allo sguardo di Silvia percorrendo con gli occhi la vegetazione che costeggiava la mulattiera.
Lei attese una risposta scrutandogli ogni più lieve moto del volto. Ci lesse imbarazzo ed esitazione. Fu colta da un tale senso di delusione che ebbe la percezione di passare dal rossore al pallore, malgrado ciò insisté a chiedergli: «Siete fidanzati da molto tempo?» Per sollecitarlo a rispondere gli diede una spintarella di spalla.
«Quasi tre anni…»
Silvia agitò con la mano i rametti di alcuni arbusti sperando che i gesti la aiutassero a distaccarsi emotivamente dalla domanda. «Una storia importante, allora?» chiese con un sorriso tirato.
«Sì ma non andiamo d’accordo», rispose Mauro seguitando a non guardarla. «Rossana ha un carattere astioso. Trova sempre il pretesto per litigare. Ci siamo lasciati e ripresi più volte negli ultimi tempi e in questo momento non stiamo insieme.»
Silvia rimase taciturna, come volesse soppesare ogni parola che lui aveva detto per valutare quanta sincerità o finzione velassero ognuna. Decise poi che fare una pausa fosse il modo migliore per lasciarlo alle prese con la sua coscienza. Il palmo umido che stringeva le faceva capire quanto lui si sentisse a disagio. Cercò di incontrare i suoi occhi con insistenza. Tentò quindi d’incoraggiarlo a parlare stringendogli le dita con maggior vigore. Infine fu costretta a domandargli, sforzandosi di farlo senza che trapelassero dal suo volto moti emozionali. «Non sei tenuto a raccontarmi la tua vita privata, tanto più che io sono una quasi sconosciuta per te, però pretenderei troppo se ti chiedessi di parlarmene solo un po’?»
«No…»
«Questo è un altro “no” incerto. Esiti perché provi rimorso per aver accettato che ti accompagnassi senza che lei lo sapesse? Sii sincero Mauro.»
«Può darsi…»
«Ancora con i dubbi e le frasi interrotte?»
«Le tue domande m’imbarazzano Silvia. Cerca di capire il mio stato d’animo. È la prima volta che esco con una ragazza che non sia Rossana dopo che ci siamo fidanzati. Mi ero proposto di chiamarla stamattina ma non l’ho fatto. L’incontro con l’ingegnere ha cambiato i miei propositi.»
«Perché ti ha spinto a venire da noi intendi?»
«Anche.»
«Allora c’è qualcos’altro: perché mi hai conosciuto e ti ho chiesto di accompagnarti?»
Mauro annuì col solo cenno del capo. Poi abbassò lo sguardo, come volesse osservare i ciottoli che emergevano dalla terra battuta del sentiero.
«Avresti dovuto avvisarmi ieri che avevi la ragazza», sbottò Silvia lasciandogli la mano. «Non te lo avrei proposto. Non sono il tipo che ruba i fidanzati. E torna a guardarmi in faccia, cribbio!» gli intimò senza battere ciglio.
«Non avevo motivo per riferirtelo», reagì Mauro sollevando lo sguardo con decisione. Ora sentiva le parole salirgli alle labbra con l’eloquenza della fermezza. «È per fare un servizio fotografico, non una passeggiata romantica, se ci troviamo in questo luogo.» Aggrottò la fronte e aggiunse: «Sappi che nemmeno io sono il tipo che cerca occasioni per tenere un piede in due staffe.»
«Mauro, non pensavo questo», rispose Silvia risentita. Sembrò riflettere un istante. «Ebbene sì, lo ammetto. La tua incertezza me l’ha fatto temere ma non ha importanza quel che possa aver pensato. Meglio che me ne vada. Ti aspetto giù, presso la macchina. Ti chiedo soltanto il favore di sbrigarti a fare le foto.» Prese ad allontanarsi a passo spedito ma la sua ostinatezza la fece desistere dopo avere percorso una decina di passi. Rimase immobile, come per indugiare a raccapezzare le idee, poi tornò da Mauro a lunghe falcate. «Invece rimango, cribbio!» Si pose le mani sui fianchi e disse, risoluta: «Mauro, posso chiederti una cosa, per favore? Un’altra soltanto: da quanto dura il vostro ultimo intervallo litigioso?»
Lui ebbe timore di cadere nella trappola di un’ambiguità difficile da liberarsene se a Silvia non avesse dimostrato franchezza. Provò tuttavia un senso di slealtà nei confronti di Rossana, riferire una vicenda che la riguardasse, infine rispose: «Dalla fine di febbraio. Non eravamo mai stati adirati così a lungo.»
«Suppongo abbiate litigato per un motivo più grave del solito.» Silvia cercò di scaricare la tensione raccogliendo un sassolino e tirandolo sul tronco di un albero.
Mauro, il volto teso, tentennava a rispondere.
«Allora?» lo sollecitò Silvia.
«Silvia perché insisti?» reagì lui passandosi le mani tra i capelli.
«Non insisto però mi farebbe piacere se ti confidas… ebbene sì, insisto», lo incalzò lei.
«Siamo entrambi nervosi», disse Mauro sforzandosi di assumere un tono moderato. «Dovremmo conversare con calma, invece stiamo trasformando il nostro colloquio in un interrogatorio che rovina quel che siamo venuti a fare perché ci lasciamo sfuggire scorci interessanti da fotografare.»
«Dimmi ciò che ti ho chiesto se vuoi che ci calmiamo, così non ci sfuggirà nulla!» replicò Silvia. Accorgendosi quanto si stesse infervorando, s’impose di moderare il tono. «Ascolta, Mauro: mi rendo conto quanto possa metterti a disagio raccontarmi vicende della tua vita privata ma devo saperlo perché ho fatto di tutto per venire. Ho persino raccontato una frottola ai miei, dispiacendomene. Non sono bugiarda di natura. Ti basta questa risposta per convincerti?»
Lui annuì capitolando a quella donna che sembrava possedere un’indole più caparbia dei ciuchi che s’impuntavano. «A metà Febbraio», incominciò a rivelarle «mio padre ricevette una telefonata dallo zio di una nostra cliente alla quale avevamo restaurato alcuni mobili. Siccome la nipote lo aveva informato di essere rimasta soddisfatta del nostro lavoro e lui sarebbe venuto a Sanfabiano, ospite di lei per alcuni giorni, propose a mio padre il restauro di alcune sedie da sala retrò se gli avessimo promesso di terminare il lavoro per quando sarebbe ripartito. Purtroppo le sedie erano più malconce di quanto ci fossimo aspettati e nemmeno potevamo immaginare che il nostro dipendente si sarebbe buscato l’influenza. Così dovemmo lavorare anche dopo cena per far fronte agli impegni. Era il periodo di carnevale e in una discoteca di Sanfabiano c’era il ballo in costume. Rossana aveva cucito due abiti: per sé da damigella del settecento veneziano e per me da cicisbeo. Aveva sacrificato molte sere per confezionarli e sperava di vincere il premio messo in palio per la più bella coppia di maschere, perciò ci teneva molto che la accompagnassi ma come avrei potuto lasciare nei guai mio padre? Cercai di spiegarglielo ma lei se la prese così tanto da andarci sola. La sera successiva mi recai a casa sua per riconciliarmi. Sua madre mi riferì che era uscita ma avevo notato la sua auto posteggiata presso il portone e conosco bene le abitudini di Rossana. Lei prende l’auto anche se deve andare all’edicola distante cento metri dal portone di casa sua. La chiamai più volte nei giorni successivi, gli lasciai messaggini sul cellulare ma senza avere risposte. Così decisi di attendere che fosse lei a farsi viva ma non fu così. Qualche settimana dopo andai in discoteca e la vidi assieme al ragazzo col quale aveva fatto coppia la sera del veglione, nel senso che li avevano visti fare coppia assieme. Certe cose si risanno in una cittadina come Sanfabiano. Mi arrabbiai molto e decisi di non chiamarla più. Verso metà aprile fu lei a mandarmi un messaggino per chiedermi di rivederci ma non le risposi.»
«Vuoi tenerla sulle spine per darle una lezione?»
«Proprio così. Ero a lavorare non a fare i cavoli miei e anche se sono convinto che tra lei e quel ragazzo non sia accaduto nulla, il suo comportamento non mi è piaciuto.»
«Lo credo bene», commentò Silvia con un tono basso ma che celava un compiacimento interiore. Poi soggiunse: «Ti costa tenerla distante?»
«Abbiamo passato anche periodi bellissimi.»
«Lo immagino. Hai intenzione di rimetterti con lei?» Silvia attese la risposta scrutando Mauro con la coda dell’occhio.
«L’avevo. Ora non so.»
Lei avvertì, nel suo animo, qualcosa che si lisciava come se qualcuno ci passasse un ferro da stiro. Tornò a stringergli la mano, poi allentò la presa per consentire alle dita di indugiare in una carezza appena accennata. Finse di osservare la fratta per non fargli notare quanto fosse pago il suo sorrisetto. Tornò a chiedergli: «Chissà quante volte avrete fatto passeggiate in questo posto.»
«Non andavamo in campagna se non per limitarci a guardarla dai finestrini dell’auto. Rossana aveva il terrore d’essere punta dagli insetti.»
Sul volto di Silvia riapparve un ricciolo di sorriso. Gli leggeva nello sguardo il desiderio di domandarglielo a sua volta. Decise di anticiparlo perché intuiva quanta difficoltà avesse a farlo. «Non sono fidanzata, Mauro.»
«Non eri obbligata a dirmelo.»
«Mi siedo su quella pietra e non mi muovo più se ti azzardi a negarmi che pensavi di domandarmelo.»
«Lo ammetto ma qualcosa m’impediva di pronunciarmi.»
«Qualcosa o qualcuno, anzi qualcuna di nome Rossana?»
«Silvia, per favore, smettila di farmi sentire in imbarazzo.»
«Hai ragione, Mauro, scusami. In ogni modo non ho avuto storie importanti. Un ragazzo mi piaceva in quarta ragioneria. Ci siamo frequentati un paio di mesi e credo ci saremmo fidanzati se la sua famiglia non si fosse trasferita in meridione per motivi di lavoro del padre.» Silvia balzò su una sporgenza rocciosa e gli tese la mano perché salisse.
Mettendosi a spalla a spalla, Mauro confrontò la differenza delle loro altezze. «Sbaglio in eccesso o in difetto se azzardo a dire che sei alta un metro e ottanta?»
«In eccesso: un metro e settantanove a piedi nudi, tu?»
«Un metro e sessantanov… settantadue, con le scarpe.» Il sorriso che increspò le labbra di Silvia, indusse Mauro a commentare: «È una fortuna essere soli altrimenti non faresti bella figura ad avermi come accompagnatore.»
«Il commento altrui non m’importerebbe.»
«Perché hai sorriso allora?»
«È stata una reazione spontanea.» Silvia lo vide fare spallucce e voltarsi verso la macchia. «Mauro non te la sarai presa. Non ho sorriso con malizia.»
«Com’è finita con quel ragazzo?» domandò lui cercando di eludere la contesa.
«Ho poco da aggiungere. Siamo rimasti in contatto qualche mese, poi la lontananza ha posto fine ai nostri propositi. In ogni modo non siamo andati più in là dei baci quando ci frequentavamo.» Silvia notò quanto fosse scettica l’occhiata che Mauro le indirizzava. «È la verità. In seguito non ho avuto molte opportunità per fare conoscenze. I miei mi hanno concesso un mese di vacanza dopo la maturità, poi ho iniziato a lavorare in negozio. Conosco tantissima gente. Non potrebbe essere altrimenti con il lavoro che svolgo in negozio ma da quando ho lasciato la scuola, le amicizie vere le ho fatte soltanto al circolo della FNEI.» Di domenica, se non piove, faccio un po’ di podismo. Nel pomeriggio mi reco spesso a fare l’animatrice volontaria in un istituto per bambini down. Il lunedì mattina, quando teniamo chiuso l’emporio, lavo e stiro la mia roba di tutta la settimana. Tutto qui, ah mi piace rivedere i film di Mario Monicelli quando ho un paio d’ore libere. È un grande quel regista.»
«Io di Sergio Leone.»
«Ti piacciono i western?»
«Non particolarmente ma quelli di Leone hanno un fascino singolare e le colonne sonore di Morricone sono bellissime.» Mauro fece una pausa, come volesse trovare argomenti per ravvivare la conversazione. «Ti piace andare in discoteca?»
«Qualche volta ci sono andata ai tempi della scuola, per compiacere le mie compagne di classe ma non sono divenuta un’assidua frequentatrice. Alla musica fracassona preferisco la tranquillità di un buon libro e poi, il sabato sera, dopo una settimana di lavoro, gli occhi mi si chiudono da soli. Nemmeno trovo il tempo di divertirmi a usare il mio portatile. Saranno un paio di mesi che non navigo in internet, però ci pensa mio fratello Lorenzo a lustrargli i tasti. È lui che pensa a farmi gli aggiornamenti dell’antivirus e robe varie.» In compenso adopero molto il computer della ditta per l’amministrazione.»
«Pure a me capita la stessa cosa», convenne Mauro. «Uso il PC per visitare siti riguardanti l’arte, di solito. Suppongo che la vostra attività non lasci molto tempo libero solo a te ma a tutta la famiglia. Non avete qualcuno che vi aiuti in casa?»
«Abbiamo una collaboratrice domestica che bada anche a mia nonna fino a che non torniamo dal negozio. Lei soffre d’artrosi che le rende difficoltosa la deambulazione. In compenso ha la mente lucidissima. Vorrebbe che la governante stesse sempre a conversare. Lei però ha da sbrigare altre faccende e non può darle sempre ascolto, perciò quando torniamo e la circondiamo d’attenzioni, vedi che le brillano gli occhi. Vogliamo ripagarla della tribolazione che ha dovuto sopportare. Ha trascorso la sua gioventù in un orfanotrofio e le è morto il marito per un infortunio sul lavoro quando mio padre era ancora un ragazzino. Che vita ha fatto povera donna.»
Mauro assentì grave, poi come volesse riportare distensione alla conversazione, le chiese come si chiamassero i suoi genitori.
«Tiziana e Riccardo. I tuoi?»
«Nadia e Luciano. Ho anche una sorella. Si chiama Manuela. Frequenta il secondo anno di Biologia.»
«Ciumbia, Mauro, avrai una ricercatrice in casa», rispose Silvia. Poi aggiunse: «Anch’io ho una sorella. Si chiama Patrizia, ha due anni più di me e pure lei lavora in negozio. Ho anche un fratello, Lorenzo. Frequenta il liceo scientifico e quest’anno ha gli esami di maturità. Spesso capita di comportarci come cani e gatti ed è sempre mia madre che fa da paciera. Mio padre è come fosse contento quando bisticciamo. Sono convinta che si senta andare in orbita per la gioia di vederci vivaci. A te capita di leticare con tua sorella?»
«Soprattutto se si mette a fare la sorniona per prendermi in giro. Ammetto di essere un po’ permaloso.»
«Mauro mi perdoni se ti dico che lo sto scoprendo?»
La conversazione sulle loro famiglie ebbe il merito di distrarli dai loro trascorsi sentimentali, cosicché fecero più attenzione agli scorci da fotografare. Poi Silvia fu attratta dal richiamo di un animale.
«Mauro, che canto buffo. É un uccello?»
«È un cuculo. Lo senti spesso, in questa stagione, il suo richiamo. É un animale stranissimo che si riproduce in modo complicato. La femmina depone un uovo a terra, poi lo trasporta nel nido di un uccello momentaneamente assente e lo sostituisce a un uovo dell’ospite che getta fuori del nido. Una volta nato il giovane cuculo si sbarazza dei suoi compagni di nidiata facendoli precipitare al suolo.»
«Cacchio come sono crudeli e sfaticati i cuculi. Mi auguro che ogni tanto portino il loro uovo nel nido di un’aquila. Ci penserebbero gli aquilotti a dare il ben servito all’intruso.»
«Il cuculo si estinguerebbe se non si riproducesse in questo modo. Il suo comportamento è nell’ordine naturale delle cose.»
«Lo so», commentò Silvia. «La mia era soltanto una battuta, però lasciamelo dire: la natura è fantastica ma le leggi della sopravvivenza sono spietate. Mauro preferirei tornare a conversare dei nostri spinosi discorsi di prima.»
«Per me va bene. La parte più difficile l’ho superata.»
«Io, invece, non ti ho detto tutto», ammise Silvia. «Una persona che mi rivolge le sue attenzioni, c’è. È socio della FNEI. Si chiama Stefano. Ha un anno meno di te. Lavora in una ditta d’impianti solari. Mi corteggia da quando frequento il circolo ma non riesco a corrisponderlo, così mantengo un comportamento distaccato con lui.»
«Spiegati meglio.»
«Non l’ho mai baciato, nemmeno sulle guance come faccio a volte con gli altri quando ci salutiamo: uomini o donne che siano, intendo.» Subito dopo l’attenzione di Silvia fu attratta da grappoli di fiori gialli che pendevano da un alberello. «Mauro guarda là, c’è un maggiociondolo.»
Caricando la voce di un tono sorpreso, lui le domandò: «Un maggio cosa?»
«Un maggiociondolo», ripeté lei ridendo con l’entusiasmo di una ragazzina. «É chiamato anche avorniello e, come l’acacia, appartiene alla famiglia delle leguminacee. Produce baccelli che contengono citisina, un alcaloide velenoso che in dosi appropriate è usato in medicina per curare alcune malattie. I suoi fiori penduli sono chiamati “fiori di maggio”.
Mauro s’immobilizzò e le rivolse uno sguardo teatralmente stupito. «Sei ragioniera o dottoressa in fitologia?»
«L’ho riconosciuto perché ho visto le sue foto nelle schede dei vegetali che abbiamo in sede. M’è rimasto impresso perché ha un nome strano. In verità non conosco molte specie di piante. Ho fatto la saputella approfittando di un po’ di fortuna. Mi faresti scuola in parecchie cose.»
«Silvia non seguitare con i complimenti, altrimenti…»
«Altrimenti cosa?»
«Beh, che… è meglio che termini qui.»
«Eh, no! Ora lo finisci il discorso.»
«Potresti rimanermi troppo simpatica.»
«Mi giudicheresti eccessivamente curiosa se ti chiedessi di spiegarmi il significato che hai inteso dare alla parola, “troppo”?»
«Che la simpatia potrebbe tramutarsi in qualcosa d’altro ed io sto passando un momento fragilissimo, non approfittarne.»
“Sì, invece.”
«Ora avvicinati al maggiociondolo. Voglio immortalarti sotto.» Mauro la vide dirigersi verso l’alberello col passo felpato di una gatta, e quando lei si mosse per tornargli accanto, non gliela la fece a sviare lo sguardo da quei seni floridi che dondolavano sodi e imprimevano il rilievo dei capezzoli sulla maglietta.
Con viso adombrato da un benevolo rimprovero, Silvia gli diede una spintarella per fargli riprendere il cammino.
Sul tratto in cui la stradicciola s’inoltrava nella pineta, lui riuscì ad evitare che cadesse sdrucciolando sugli aghi. Infine la mulattiera sfociò sul pianoro.
«Siamo quasi arrivati», disse Mauro indicandole un punto oltre la radura. «Là c’è un sentiero che scende a Ca’ Pansecco.»
Lei annuì. Il suo sguardo fu catturato da due forme alate che volteggiavano in cielo. «Guarda lassù Mauro! Ci sono due falchi.»
«Non si tratta di falchi», specificò lui.
«Ne hanno tutta l’aria però», rispose Silvia.
«Sono una coppia poiane. Fanno la ruota per avvistare qualche preda. È probabile che abbiano una nidiata da sfamare.» Ora fu Mauro a tenderle la mano perché lo seguisse.
Due palmi sotto il sole
Silvia rimase tanto colpita dall’armonia che sprigionava il luogo della fontanella da non decidere dove soffermare lo sguardo. Si chinò per accarezzare le corolle delle margherite e dei tarassachi. Le giungeva, a folate, dal versante della collina prospiciente, il profumo penetrante dei fiori di ginestra.
Mauro scattò foto tutt’attorno, poi si sederono sulla sponda del laghetto. Le loro figure danzarono sulle ondulazioni dell’acqua.
«Questo specchio d’acqua sembra un occhio di cielo adagiato sulla Terra», commentò Silvia. Gli indicò il punto più alto della collina opposta sul quale, sopra la vegetazione, sporgeva lo spuntone di una costruzione diroccata. «Che cosa c’è lassù, Mauro?»
«Quel che rimane di un torrione longobardo. Quel poggio è chiamato Castelsecco. Un tempo s’incrociavano due antiche strade romane in quel posto. Sono state trovate tracce di un caravanserraglio con abbeveratoi risalenti al secondo secolo dopo Cristo. Evidentemente c’era una sorgente d’acqua, ora scomparsa. Una leggenda narra che nel medioevo le streghe si riunissero sotto il torrione, a ogni plenilunio, per compiere riti magici.»
«È affascinante», commentò Silvia «conoscere come certi luoghi facciano nascere leggende popolari. L’incrocio tra due strade, secondo la mitologia nordica, sarebbe proprio il luogo prescelto dalle streghe per i loro sabba.»
Si sorrisero stringendosi entrambi sulle spalle. Udirono i latrati di un cane, attutiti dalla lontananza.
«Sai, Silvia? Questo luogo ha una sonorità eccezionale. Ti ritorna l’eco moltiplicato, se pronunci un nome ad alta voce.»
«Provo a pronunciare il tuo?» disse Silvia incuriosita.
«Accosta le mani ai lati della bocca. Potenzieranno la tua voce», le suggerì Mauro.
«Maurooo!» gridò Silvia.
“Aurooo, urooo, ooo…”
«Bestiale! Mauro pronuncia il mio.»
«Silviaaa!»
“Ilviaaa, lviaaa, iaaaa…”
«Fortissimo!»
Due libellule giunsero dalla sponda opposta. Un lungo stelo dondolò sotto il peso del loro accoppiamento. Osservarono gli insetti scambiandosi sorrisi maliziosi.
«Vederle così suscitano tenerezza perché figurano la rigenerazione della vita ma sono anche le più micidiali predatrici che esitano nel mondo degli insetti», spiegò Mauro.
«Riflettere su quanto sia spietata e meravigliosa la natura, affascina e sconvolge», commentò Silvia.
In mezzo alla gora comparve un puntino scuro che si lasciava dietro una minuscola scia.
«Mauro, guarda là. Che cos’è?»
«Un serpentello. Tiene la testolina fuori dell’acqua per vigilare. Si chiama natrice; emetterebbe un odore talmente fetido da fare scappare chiunque lo molestasse.»
«Quanti animaletti vivono in questo posto?» chiese Silvia.
«Moltissimi», rispose Mauro. «Ieri ho persino scorto un tritone. Era lì, proprio davanti a noi. Purtroppo avevo lasciato la macchina fotografica accanto al cavalletto.»
«Te la porti sempre dietro?»
«Sempre. Le ombre cambiano con lo spostarsi del sole perciò quelle dello scorcio che intendo dipingere devo fermarle con una foto. Sul luogo faccio solo un abbozzo e termino il quadro nel mio studio con l’aiuto di una fotocopia ingrandita, a colori.»
«Ingegnoso. Così freghi il sole.»
«Hai usato l’espressione giusta.»
«Sei riuscito a fotografare altri animali?»
«Li ho anche ripresi con la videocamera: salamandre, caprioli, granchi, rane, daini e tanti altri, comprese molte farfalle. L’anno scorso mi stavo riposando sulla piattaforma di pietra sopra la cateratta, quando avvertii un fruscio. Con la coda dell’occhio notai un ciuffo d’erba agitarsi. Scorsi un ramarro. Era stupendo. La sua livrea lo mimetizzava quasi perfettamente. Mangiucchiava la polpa di un torso di mela che avevo gettato e ogni tanto sollevava la testa per controllare i miei movimenti.»
Dagli occhi di Mauro, che tradivano trasporto narrativo, Silvia capì quanto lo appassionasse raccontare. «Così hai scoperto che predatori come i ramarri si cibano anche di frutta?»
«Suppongo lo facciano per procurarsi i liquidi. Ho visto anche lucertole mangiare lamponi.»
«Accipicchia, da non crederci.»
Un’altra volta, mentre cercavo uno scorcio che mi piacesse», seguitò lui «notai lassù, in quei campi abbandonati, molti arbusti biancheggiare di una strana fioritura. Incuriosito mi avvicinai e con mia sorpresa scoprii che non erano fiori ma chiocciole bianche. Stavano attaccate in ogni diramazione delle pianticelle e ce n’erano migliaia. Non mi era mai capitato di vedere un fenomeno tanto singolare.»
«Perché si sarà verificato?» chiese Silvia.
«Nessuno viene a spargere diserbanti quassù. Suppongo che quell’esplosione di vita fosse dipesa da questo e da una stagione propizia alla loro proliferazione.»
Si scambiarono sguardi tanto intensi che entrambi abbassarono gli occhi, impacciati.»
«Mauro, sono contenta di essere venuta.»
«Anche se ti ho rivelato di avere la fidanzata?»
Silvia annuì ma con un movimento titubante del capo. Rivolse lo sguardo alla proda del laghetto per superare l’istante. Tornò a fissarlo con occhi languidi, che tradivano ansia per ciò che avrebbe voluto rivelargli. «Mauro?»
«Che cosa hai da dirmi Silvia?»
«Niente…»
Lui respirò lento e profondo. La fragranza che aleggiava intorno alla ragazza sembrava penetrargli fin dentro l’animo. Era un odore dolce e rotondo, forse il tocco di una goccia di profumo ma, forse, più semplicemente il suo profumo. Osservò quelle labbra piene, appena schiuse, che facevano intravedere denti nivei e preludevano a una bocca di donna, tiepida e umida d’arcani umori. Provò l’impulso di baciarla ma si trattenne. Le cinse le spalle facendole pendere la mano sul petto; sentì le dita sfiorarle il seno. Era certo che se le avesse mosse per accarezzarglielo, Silvia glielo avrebbe concesso ma non farlo lo trovava riguardoso per lei e dignitoso per se stesso. Le posò la guancia sui capelli e la strinse a sé con leggerezza.
Osservarono la gora che rimandava, oscillante di sinuosi movimenti, il riflesso della casupola di Pansecco e del vecchio gelso che cresceva accanto a essa.
«Una volta vidi… era metà luglio e faceva così caldo che le cicale frinivano da far diventare sordi… ah lo sai, Silvia, che rimane difficile individuare dove sia una cicala sebbene si senta cantare vicinissima?»
«Perché?» chiese lei.
«Sta aggrappata agli alberi mimetizzandosi con il colore della corteccia e quando ti avvicini per scoprire dove sia, cessa di frinire e il concerto delle altre ti confonde. Le cicale sono animaletti timidi, senza difesa contro i predatori. Il solo il modo con cui possono cercare di sfuggire agli aggressori è di mimetizzarsi e disorientare. Una leggenda narra che una di esse si sia posata, per giorni, sulle dita di San Francesco.»
«Quell’uomo aveva intuito l’unicità dell’universo, pur nella sua stranezza mistica», affermò Silvia. «Allora, Mauro, raccontami», lo spronò.
«Francesco, scoperta una cicala sul ramo di un fico, riuscì ad avvicinarsi tanto da accarezzarne le ali. Da quel giorno, quando passava vicino all’albero, la cicala volava sul dorso delle sue dita. I confratelli di Francesco sbalordivano nell’osservare fino a quale punto, un animaletto diffidente come la cicala, si fidasse di un umano e quanto legame si andasse creando tra le due creature. Dopo otto giorni Francesco disse loro: «Diamo libertà a sorella cicala che tanta consolazione ci ha portato o troppo compiacimento trarremmo da essa, egoisticamente.» La cicala volò via e non tornò più.»
«Per spiegare il senso di questo racconto non basterebbe un trattato filosofico di mille pagine», commentò Silvia.
«È una metafora a significato di quanto sia sbagliato che gli umani si considerino superiori, compiacendosi della loro padronanza sul mondo e con quanta umiltà dovrebbero, invece, rispettare ciò che li circonda.»
«Accipicchia, Mauro, che senso della sintesi. Hai ridotto un libro di mille pagine a poche parole.»
«Questo nuovo complimento è un altro colpo basso, Silvia.» Mauro notò quanto fosse compiaciuta dall’espressione dei suoi occhi. «Quand’ero bambino», seguitò «i miei genitori mi portavano spesso a fare scampagnate in questo posto e, siccome avevo l’età dei perché, chiesi loro che cosa fossero quegli animali che stridevano in modo tanto buffo. Mia madre mi rispose che erano insetti creati da Dio perché ricordassero ai contadini, con il loro canto, che il tempo di mietere e battere il grano era giunto: mietete e battete che tempo l’avete, mietete e battete che tempo l’avete! Grigrigrì, grigrigrì, grigrigrì, grigrigrì. Grigrigrì, grigrigrì, grigrigrì, grigrigrì. L’assonanza ritmica c’è.»
«E’ vero», convenne Silvia. I detti di una volta suscitano sensazioni di serenità e tu hai un modo di esprimerti che rende l’idea dell’armonia. Leggi molto?»
«Non quanto vorrei», ammise Mauro. «Da un mese ho sul comodino i racconti fantastici di Conan Doyle.»
«Io sto leggendo “I Ricordi di Marco Aurelio”», rispose lei. «Contiene molti concetti che fanno riflettere. Te lo presterò se seguiteremo a incontrarci.»
«Silvia», le chiese Mauro «ti ha tremato un po’ la voce quando ti sei augurata altri nostri incontri.»
«Mi è andata di traverso la saliva. Ancora hai da dirmi che cosa hai visto quel sabato pomeriggio.»
«Ah, già! Non ero giunto alla pineta quando, in un punto ombroso in cui il sentiero formava una strozzatura, notai una cosa fatta di macchie scure e gialle. Pensai fosse uno di quei panciotti mimetici che indossano i cacciatori, poi», continuò Mauro procedendo col tono trascinante di chi narrava una fiaba, «avvicinandomi…»
Silvia capiva quanto lo sfioramento della mano di Mauro sul suo seno non fosse involontario, nonostante lui volesse farlo sembrare casuale. Percepì il capezzolo inturgidirsi. Sperò non si accorgesse quanto si stesse accapponando la pelle delle sue braccia.
«… notai che quella cosa si muoveva.»
Silvia, come avesse voluto fargli intendere che poteva osare, sollevò la mano per stringergli il polso favorendo l’accostamento delle dita al petto. «Oddio cos’era?» gli chiese seguitando a stringergli il polso.
Palpare la rotondità della mammella, procurò a Mauro un fremito. Il monticello del capezzolo, sebbene fosse celato da maglietta e reggiseno, gli rimandò la sensazione che il suo stomaco si liquefacesse. Ebbe l’impulso di scostare la mano ma la stretta di Silvia gli impediva di compiere il gesto con la calma di una mossa che avrebbe voluto far sembrare casuale. Dovette inghiottire un paio di volte prima di seguitare a raccontare. «Un biacco acciambellato», rispose. Allargò le dita, poi strinse il capezzolo delicatamente. Avvertì Silvia intirizzirsi. Tornò ad allentare la presa per timore di esagerare.
«Cos’è, Mauro, un biacco?»
È la serpe più grossa che vive nei nostri boschi. Può superare due metri di lunghezza. Non è velenosa ma ha un caratterino! «Può rincorrere le persone, sibilando, nel periodo che va in amore.» Mauro mosse il viso per sentire la carezza dei capelli di Silvia sulla guancia. «Appena si accorse della mia presenza la serpe sollevò la parte anteriore del corpo e cominciò a sibilare.»
«Mamma mia, io sarei scappata.»
«Mica era un leone.»
«Le serpi mi fanno impressione. Dopo?»
«La filmai. Poi le tirai qualche sassolino per farla rientrare nella macchia.»
«Perché si sarà messa sul sentiero?»
«Credo avesse bisogno di un luogo più ventilato del sottobosco», suppose Mauro. «Anche gli animali a sangue freddo, come i rettili, devono disperdere calore se fa troppo caldo.»
«Mauro è bello come racconti le cose e qui è tutto così placido.» Silvia osservò i rovi che crescevano sui campicelli abbandonati. Notò che alcuni avevano le estremità dei sarmenti guarniti di fiorellini bianchi, altri di fiori rosa. «Sembra un luogo incantato. Ti aspetti che compaiano fate con ali di farfalla e si mettano a svolazzare sui quei rovi lassù.»
«Alla fine di agosto puoi vederle cibarsi dei loro frutti: more grosse come duroni di ciliegie, che qualche volta ho raccolto anch’io. Mia madre ci fa la marmellata.»
Silvia, l’espressione incredula, si discostò da Mauro quel tanto da poterlo scrutare negli occhi. «Non dirai sul serio.»
«Certo che dico sul serio. La marmellata casereccia di more è una leccornia e se la spalmi sul pane croccante di giornata, è la fine del mondo.»
«Intendevo la questione delle fate.»
«Puoi vederle, con un po’ di fantasia.»
«Sciocco.» Silvia gli si accostò ancor più al suo fianco e sospirò. Le sembrava che il sole splendesse con una magnificenza mai vista e si rese conto che mai aveva osservato lo splendore col quale l’acqua restituisse all’aria il riverbero abbacinante della sua luce. «Mauro da qualche parte ho letto che la vita si riduce soltanto ai giorni che si ricordano. Ieri e oggi li rammenterò per sempre, e questo luogo è come se abbracciasse. Hai la sensazione che oltre le colline finisca il mondo.» Sollevò il viso un po’ accaldato, gli occhi splendenti. «Questo sole di maggio sembra essere due palmi sopra di noi.»
«E t’illumina d’immenso.»
«Mi hai detto una frase stupenda.»
«“M’illumino d’immenso” è una lirica d’Ungaretti.»
«Ti piace la poesia?»
«Molto.»
«È naturale, altrimenti non saresti pittore.»
«Sai Silvia? A scuola il professore di lettere volle che imparassimo una poesia dedicata alla natura, lasciandoci liberi di sceglierla ma preferii un brano di prosa scritto da Edmondo de Amicis, perché mi rammentava questo luogo nel periodo del solleone quando la terra sembra che danzi liberando umidità sull’aria nel fluttuare ardente dei raggi solari.»
«Ciumbia che espressioni liriche hai usato. Lo ricordi ancora quel brano?»
«Nemmeno se rimanessi un secolo lontano dalla Valcorniola lo dimenticherei. Vuoi ascoltarlo?»
Silvia annuì trapassando Mauro con lo sguardo, silenziosa, senza batter ciglio.
“Era mezzogiorno e splendeva un sole ardentissimo. Non stridore di cicala, non canto d’uccello, non volo di farfalla, non voce, non moto né vicino né lontano; ogni cosa quieta, pareva che la natura dormisse. Allora la campagna s’anima d’una vita fantastica, come di notte. Si sentono suoni indefiniti, lunghe strida lontane, soffi, fruscii, ora a molta distanza, ora all’orecchio, qui, là, non si sa dove, da ogni parte. Pare che nell’aria ci sia qualcosa che fluttua e che s’agita; s’avvicina, si scosta, ritorna, ci rasenta, s’allontana. Ad un tratto s’avverte un acuto ronzio d’insetto, passa e silenzio. S’ha una scossa, ci si volta, è caduta una foglia. Sbuca una lucertola, si ferma, par che stia a sentire e, come impaurita da quel silenzio, via. La campagna ha qualcosa di solenne e triste, come un mare solitario. La testa s’abbassa come per forza e l’occhio socchiuso vaga per le valli oscure e cupi recessi che la fantasia languida gli finge tra i fili d’erba e i granelli della terra.”»
Silvia aveva ascoltato Mauro respirando adagio, percependo qualcosa di magnetico nella sua voce, qualcosa che riempiva d’arcana atmosfera quel luogo. «È un brano straordinario», disse. «Procura sensazioni fisiche. Hai l’impressione che De Amicis abbia trasformato la sua penna in un occhio e tu lo hai ripetuto in un modo così sentito da farmi venire la pelle d’oca. Guarda!»
«Temetti di prendermi una nota di biasimo dal professore», le confidò Mauro «per non aver scelto una poesia ma quando gli spiegai il motivo che mi aveva indotto a scegliere quel passo di prosa, mi encomiò davanti alla classe. Ci spiegò che anche la prosa poteva divenire lirica.»
Silvia guardò le minuscole rughe che Mauro aveva ai lati degli occhi. Pensò fossero dovute al suo amore per l’osservazione, e i tratti quasi aggraziati del suo viso, che contrastavano con uno sguardo dal quale traspariva un’acuta intelligenza. Immaginò che le sue iridi fossero gocce d’olio d’oliva nelle quali erano immerse pagliuzze dorate. Gli accarezzò la fronte ampia, i capelli castani, la minuscola cicatrice a forma di stellina. “Cribbio, Mauro, deciditi a baciarmi. Ho capito che sei un ragazzo per bene.”
«Il periodo durante il quale questo luogo assume un fascino che ti prende il cuore», seguitò lui «non è luglio ma settembre. Le giornate sono ancora calde ma i giorni più corti, l’erba appassita dal solleone, qualche fungo, le more avvizzite sui rovi, i cinorrodi di rosa canina e le corniole, divenuti vermigli, fanno presagire che l’estate muore. E non puoi immaginare, Silvia, quale fragranza emani questo luogo, in quel periodo, quando i primi acquazzoni bagnano la terra. Il vento diffonde fragranze muscose, odori pungenti di limo ed erba ti carezzano il volto. Allora hai la sensazione che quei profumi siano l’essenza della vita stessa e percepisci come anche una foglia morta abbia un’anima.»
«Accipicchia, Mauro, descrivi le cose come se recitassi un’ode. Voglio rammentarmela la descrizione che hai fatto di settembre. Intendo tentare di farne una poesia, una cosetta alla buona, eh? Permetti che m’ispiri a queste tue espressioni?»
«Ne sarei lusingato.»
«Non credo di riuscirci per mercoledì e poi ci sarà gente e, insomma, Mauro, spero capitino altre occasioni di rivederci.»
«Intendi dire: soli come stamattina?»
Silvia annuì. Fissò Mauro trattenendo il fiato.
«Accadrà, Silvia.»
«Non immagini il piacere che mi faccia a sentirtelo dire. Ora perdona l’ignoranza di un’ecologista che deve ancora imparare l’abc della flora: che cosa sono i cinorrodi?»
«Sono una sorta di falsi frutti della rosa canina. Sono grandi come un’oliva e contengono minuscoli semi pelosi. Si possono spremere per succhiare quel po’ di polpa agro dolce che contengono, ma bisogna attendere che siano molto maturi e stare attenti a non fare fuoriuscire i semi altrimenti i peli si appiccicherebbero alla lingua obbligando a sputacchiare. Quando eravamo bambini e i miei genitori accompagnavano me e Manuela in campagna, durante l’estate di San Martino, li raccoglievamo per mangiarli. Avresti dovuto vedere le boccacce di Manuela che non riusciva a spremerli nel modo giusto.»
Quelle ultime espressioni indussero Silvia a fissarlo ancora più intensamente e mal si trattenne dal prendere l’iniziativa di baciarlo. Riuscì a distrarsi da quel desiderio dicendogli: «Mauro, la tua macchina fotografica ha l’autoscatto?»
«Certo perché?»
«Vuoi farla una fotografia assieme a me?»
Lui si guardò attorno per trovare un posto adatto sul quale collocarla. Sulla parete di roccia, poco distante dalla fontana, notò che l’erosione della roccia aveva formato una sporgenza sulla quale poteva essere poggiata. «Mettiamoci accanto alla vasca.» Mise in funzione l’autoscatto, raggiunse Silvia e sollevò il braccio per posarglielo sulle spalle.
Lei si ravviò i capelli, lo cinse alla vita e la macchina si mise in funzione. «Facciamone un’altra, Mauro?»
Lui si guardò attorno. Scorta una grossa pietra si affrettò a raccoglierla e trasportarla accanto a lei. Tornò a reinserire l’autoscatto e corse a mettersi sul sasso.
«Che stai facendo?»
«È per sembrare alto quanto te.»
«Imbroglione.»
«Sss! Sorridi.»
Dopo lo scatto i loro volti di si avvicinarono tanto da avvertire il soffio delle narici. Rimasero immobili forse per una sorta di pudica necessità di frenare lo slancio col quale si sarebbero voluti baciare. Le loro labbra si sfiorarono, esitanti. Poi si schiusero.
Silvia e Mauro affidarono al silenzio le emozioni. Le finestrelle della casa di Pansecco erano occhi che osservano due ragazzi abbracciati, sotto il sole di maggio.
A Mauro il profumo di Silvia sembrava fosse inebriante e gli giungesse a folate, mosso dalla brezza che le accarezzava i capelli. «Silvia, hai un buon odore», le sussurrò. «Sai di fresco, d’erba.»
«Pure tu, Mauro, sai di Valcorniola.»
«Mi sto chiedendo se tu sia reale.»
«Tanto», gli mormorò Silvia «da non sapere come fare a dirti una cosa che non succede mai nei film, dopo che lui e lei si sono baciati per la prima volta.»
«Che sarà mai?»
«Mi scappa la pipì. Mi fa così se mi emoziono.»
Sul volto di Mauro apparve un’espressione divertita. «Mettiti dietro quell’arbusto di biancospino.»
«Tu guarda la fontanella e non voltarti altrimenti mi blocco.»
Poco dopo, come fosse il modo migliore di godere appieno ciò che era accaduto, Silvia e Mauro discesero la Valcorniola tenendosi per mano, senza scambiarsi parola. Soltanto in vista della cateratta lui esclamò, dopo essersi schiaffeggiato la fronte: «Miseriaccia!»
«Che cosa c’è?» domandò Silvia preoccupata.
Mauro le fece soppesare quanto fosse leggera la custodia della macchina fotografica.
«Presto, ritorniamo a prenderla.»
CAPITOLO QUINTO
Successione di “proprietà”
Da un’ora Nadia aveva spento il gas sotto la pentola dell’acqua per la pastasciutta e si aggirava in cucina come un’anima in pena. Vedere il marito, seduto accanto alla finestra, leggere tranquillamente il giornale, la innervosiva. Guardò l’orologio a muro per l’ennesima volta prima di chiedergli, con un tono irritato: «Luciano, spostati per favore.»
«A che ti serve aprire la finestra se il cancello si vede lo stesso?» rispose Luciano.
«Persino il cellulare si è dimenticato di prendere ma stavolta gli faccio una brontolata che se la ricorda per un pezzo.» Nadia si diresse verso il cucinotto ma si voltò di botto. «Luciano, sono le due e mezzo, che gli sarà successo?»
«Che la ragazza lo abbia costretto a fare sesso fino allo sfinimento?»
«Non essere spiritoso, Luciano! Dovremmo andare a cercarlo.»
«Nadia, calmati. Mauro sarà qui a momenti. Si saranno attardati per conversare e salutarsi e che diamine! Lo sai come succede no?»
«Ieri ha saltato il pranzo», mugugnò lei posando bruscamente il contenitore del parmigiano sulla tavola «per cena ha mangiato quattro forchettate di purè, stamattina è uscito senza fare colazione e s’è scordato perfino di prendere il cellulare.»
«Riaccendi il gas» le suggerì Luciano. Mauro sarà di ritorno prima che l’acqua ricominci a boll… eccolo che arriva. La sua macchina è seguita da un ragazzo in motoretta.»
«Un ragazzo?»
I coniugi Falaschi, col fiato sospeso, seguirono i movimenti del figlio e della persona che lo accompagnava, poi sospirarono rincuorati quando l’accompagnatore tolse casco e giubbino.
«Nadia, stamattina ci hai proprio azzeccato. “Per me è piccola e bionda, lo capisco dai suoi quadri che a Mauro piacciono le donne minute, con i capelli e gli occhi chiari”» la scimmiottò il marito in falsetto.
«Sei buono a stare zitto?» Nadia vide il figlio accarezzare la ragazza, parlarle con gestualità premurose e lei rispondergli affettuosa ma esitante. «Lucy, Mauro vuole convincerla a venire in casa.»
«Azzeccato.»
«Si fermerà a pranzo?»
«Che domande: sono le due e trentacinque.»
Dopo essersi accertata che non ci fossero macchie sulla tovaglia, Nadia si affrettò a riaccendere il gas.
Luciano rimase a sbirciare dallo spiraglio di una tendina. “Vai, si sono baciati e pure sulla bocca: E’ bbravo il mio Mauro!”
Ora Nadia era irrequieta per un altro verso. Sollevò le mani a toccarsi i capelli per il timore di non essere presentabile. «Luciano, come sto?»
«Insomma, un po’ sbattuta.»
«Mi fai venire rabbia quando rispondi così. Vado a cambiarmi d’abito. Stai attento che non trabocchi l’acqua dalla pent… anzi sarà meglio che torni a spengere il gas. Trattienili in salotto fino a che non sarò tornata.»
«Mauro, portami il cellulare. Devo avvisare i miei che ritarderò.»
«Insisto perché ti fermi a pranzo.»
«Mi vergogno. Il casco mi avrà scarmigliato i capelli.»
«Non sono spettinati e poi siamo una famiglia alla buona.»
«Cribbio, mi stai presentando ai tuoi. Sarei voluta essere più ordinata. Per noi donne queste cose contano. Tua madre chissà come mi squadrerà. Ti ho macchiato di rossetto la maglietta.» Lo vide fare spallucce, poi rivolgerle uno sguardo intenerente. «D’accordo», capitolò Silvia «andiamo a battere il primato di rapidità per i fidanzamenti in casa. Siamo matti da legare.»
«Oggi potrei presentarti soltanto come amica se potesse farti sentire… insomma meno impegnata e lo capirei.»
«Neanche per sogno!» replicò Silvia grintosa. «Lasceremo che capiscano da soli.»
La porta di casa si aprì quando ancora salivano i pochi gradini che portavano sulla veranda.
«Babbo lei è Silvia.»
“Maremma bischera che mora!” pensò Luciano. Non riuscendo a contenere l’evidenza dello stupore, sperò che l’impaccio, notato nel volto della ragazza, le avesse impedito di accorgersi quanto i suoi occhi si fossero sgranati. «Buong… buonasera, Silvia.»
«Buona sera signor Luciano. Conosce già il mio nome?»
«Mauro, ieri sera, ci ha parlato di lei e che sareste andati a fare un servizio fotografico su per il Rio Pansec… il Rio Maestro volevo dire. Mi perdoni ma è la forza dell’abitudine chiamare quel torrente Rio Pansecco.»
«Suo figlio me l’ha spiegato chi fosse Pansecco e ci siamo giunti fino alla sua casa.» Il tono di Silvia era già più rilassato.
«Mauro falla accomodare in salotto. Vuole togliere il giacchetto signorina Silvia?»
Qualche istante dopo, lei osservava, stupita, i quadri affissi alle pareti. Sopra un vecchio scrittoio riconobbe il ritratto del padre di Mauro. Accanto notò i volti di una donna e una ragazza, disegnati con matita sanguigna. Immaginò fossero i ritratti della madre e della sorella. Poi paesaggi e vasi di fiori. Cercò la mano di Mauro.
«Silvia posso darti del tu?» avanzò Luciano.
«Certo, anzi la prego», signor Luciano.
«Ti piacciono i quadri? Li ha dipinti Mauro.»
«Sono bellissimi. Immaginavo fosse un bravo pittore ma non fino a questo punto.»
«È pure un lavoratore coscienzioso.»
«Babbo che ti metti a dire?» proferì Mauro imbarazzato.
«Non credo che una semplice amica terrebbe per mano un ragazzo alla presenza di suo padre, perciò è mio dovere informarla sul tuo conto. «Ho fatto qualcosa di male Silvia?» rispose Luciano con sorniona spontaneità.
La schiettezza di quell’uomo stava liberando Silvia dagli ultimi legacci del disagio. «Perché mai signor Luciano?»
«Suppongo resterai a pranzo.»
«Sì babbo, rimane. La Mamma dov’è?»
«Un minuto e arriva.»
«Mauro», gli rammentò Silvia «dovrei telefonare ai miei.»
«Babbo, andiamo di là nel mio studio.»
«Tuo padre è simpatico. Ha i tuoi occhi. Lo stesso lampo intelligente.»
«È schietto e immediato. È meno emotivo di me, più ironico e cerca sempre di sdrammatizzare le cose ma non è un menefreghista.»
«Capisco quel che vuoi farmi intendere.»
«Silvia, ecco il mio piccolo regno.»
In ordinato disordine lei vide tutto quel che doveva esserci nello studio di un artista. Sul ripiano di una cassettiera notò una cornice argentata che racchiudeva la foto, in bianco e nero, di una ragazza dagli occhi intensi e le labbra carnose. I capelli, ad ampie onde e biondi all’apparenza, le sfioravano le spalle. «È Rossana?»
Mauro annuì. Abbassò lo sguardo nel tentativo di celare il disagio che avvertiva.
«È molto carina. La foto in bianco e nero n’esalta l’espressione. È una scelta tua?»
«Sì…»
«Vedo che la tieni ancora in bellavista.»
«Non avevo motivo per toglierla.» Mauro si sentì frugare l’animo da quegli occhi che sembravano grani di fuliggine.
«Fino ad oggi.» Il tono di Silvia era stato sommesso ma perentorio. «Ora non c’è bisogno che ti suggerisca quel che devi fare.»
Mauro ripose la cornice in un cassetto con malcelato riguardo, le porse il cellulare e, mentre la osservava comporre il numero con una sola mano, avvertì l’altra posarsi sulla sua nuca, come a sancire il passaggio di proprietà.
«Ciao Patry. Mi passi la mamma?»
«Silvia, ti avverto: è arrabbiata di brutto.»
«Me l’immag… mamma?»
«Silvia, sono le tre! Ti rendi conto? Da dove chiami?»
«Da Sanfabiano. Ci siamo attardati a fare il servizio fotografico, così un nostro socio mi ha invitato a pranzo. Sto telefonando da casa sua.»
«Non potevi avvertirci prima?»
«Nessuno aveva il cellulare.»
«Questa non la credo.»
«Puoi guardare nel cassetto del mio comodino se non credi che l’abbia dimenticato mamma?»
Chi c’è con voi?»
«I suoi genitori.»
«Voglio sperarlo. Quando torni?»
«Per l’ora di cena.»
«Lorenzo voleva la motoretta a disposizione per le sedici. Gli verrà un diavolo per capello.»
«Stasera ci penso io non preoccuparti. “Con una coccola e una mancetta.”
«Il babbo è riuscito a farti ripartire la macchina. Aveva le candele sporche. Le ha ripulite ma dovresti cambiarle.»
«Non è un grosso problema.»
«Silvia stasera raccontacela giusta, intesi?»
«Va bene, mammona.»
«Sii prudente con quel motorino.»
Seguita da una spiccia stretta di mano, quella di Nadia fu una presentazione cortese ma laconica. Avvenenza e statura dell’ospite le accentuarono l’inquietudine, piuttosto che tranquillizzarla. La scrutò, dritta negli occhi, prima di accennare un sorriso imposto dall’ospitalità.
Luciano si dilettò a osservare le espressioni delle due donne. Sua moglie gli fece immaginare un pugile che scrutava l’avversario e Silvia un uccellino caduto fuori del nido.
«Mamma, abbiamo fatto tardi perciò ho invitato Silvia a pranzo.»
«Avevo capito!» reagì lei con un tono conciso. «Silvia, accomodati pure in cucina.»
Lei si mosse titubante, senza intuire che la madre di Mauro avesse lasciato che la precedesse per scrutarla da tergo e cercare di capire, da come si muoveva, in che tipo di donna si fosse imbattuto suo figlio. Guardò Mauro come per dirgli dove si dovesse sedere.»
«Silvia, accomodati pure accanto a “mio figlio”. Ti è piaciuta la Valcorniola?»
«Sì signora, è molto bella.»
«Mauro, servile i crostini.»
«Signora, dovrei andare in bagno», disse Silvia.
Nadia la precedette per controllare che tutto fosse in ordine. Tornata in cucina notò che sul piatto dell’ospite mancava il crostino fatto con i fegatini di pollo e le coccole di ginepro. «Mauro, servile anche un crostino nero.»
«Mamma, Silvia è vegetariana. Potresti accontentarla?»
«Di certo non la manderemo a casa senza pranzare. Ora vado a scolare la pasta. Vieni ad aiutarmi?»
Madre e figlio furono avvolti dalla nuvola di vapore degli spaghetti.»
«È una ragazza molto bella. V’è successo in due giorni?»
«Per la verità nemmeno uno.»
«Con Rossana che intenzioni hai?» Nadia vide il figlio chinare lo sguardo. «Ancora porta la tua fedina. Dovresti sentire il dovere di dargli una spiegazione.»
«Lo farò ma soltanto se capiterà l’occasione giusta.»
«Invece dovresti avvertirlo come un obbligo», rispose Nadia rivolgendo al figlio uno sguardo biasimante «se non altro per rispetto dei suoi genitori. In fin dei conti hai frequentato casa loro e sei stato fidanzato con la figlia per quasi tre anni.»
«Mamma, credo che in certe cose sia meglio non rimestare troppo.»
«Mauro ha ragione», concordò Luciano, facendo capolino nel cucinotto. «Che cosa dovrebbe dire ai genitori di Rossana più di quel che sanno già? Le cose si spiegheranno da sole.»
«L’ambiente diventa troppo affollato», borbottò Nadia. «Andate di là, subito! Non sarebbe cortese se Silvia tornasse in cucina e trovasse la tavola vuota.»
Mauro schioccò un bacio sulla guancia a sua madre mentre lei si apprestava ad aprire un vasetto di sugo al pomodoro e basilico. «Grazie mamma.»
«Ruffiano va di là col babbo.»
Non appena Silvia vide servirsi gli spaghetti col pomodoro, mentre gli altri erano conditi col ragù di carne, si sentì liberata dall’obbligo di dover cominciare il pranzo rifiutando il primo. Sfiorò col suo il ginocchio di Mauro in segno di gratitudine.
«Spero ti piacciano», le disse Nadia, rivolgendole ora un sorriso quasi cordiale.
«Signora non si preoccupi, vanno benissimo e mi scusi se ha dovuto…»
«Di cosa? Mettici parecchio formaggio, piuttosto, perché gli spaghetti conditi in quel modo sanno di poco.»
Sciolte le briglie al riserbo, Silvia divenne loquace e invogliò Mauro a mandare giù qualche boccone che lo scombussolamento per quella concatenazione d’eventi, l’appetito glielo aveva annientato. Per secondo Nadia le servì un’abbondante porzione di sformato con le verdure, quindi il dolce di pasta sfoglia e crema pasticciera, infine la macedonia di frutta. Luciano scovò perfino una bottiglia di spumante avanzata dalle festività pasquali e proseguirono a conversare evocando fatti che riguardavano le rispettive famiglie.
Rimasto taciturno Mauro si affacciò alla conversazione chiedendo al padre: «Babbo, stamattina ha telefonato qualche cliente?»
«Era quel tizio che ci ha portato a restaurare il tavolino a tre gambe, quello che organizza le sedute spiritiche. Mi ha tenuto al telefono dalle undici e cinquanta a mezzogiorno e venti. Non lo reggevo più. S’è messo a spiegarmi che voleva lo verniciassimo blu notte e non grigio scuro come ci aveva chiesto. Che cavolo vorrà dire blu notte? Bah! Mischierò l’azzurro con un po’ di nero e buonanotte suonatori. S’è anche raccomandato che stessimo attenti a non otturare il forellino sul pianale. Poi che accidenti mi ha ancora detto di fargli a quel trabiccolo, che a dirla tutta non vale un cazzo, non lo ricordo.»
Silvia dovette coprirsi la bocca col tovagliolo per prevenire ciò che avrebbe potuto causare una risata non trattenuta.
«Luciano non essere volgare», lo rimproverò la moglie.
«Scusami Silvia. I clienti bisogna sopportarli come sono. Poi viene da sfogarsi.»
«A chi lo dice signor Luciano.»
«Babbo non mi riferisco a quell’ora. Intendevo verso le nove, dopo che sono tornato a prendere la macchina fotografica», insisté Mauro.
Nadia fece piedino al marito per tentare di fargli dire qualcosa come:
“Mi ha chiamato la zia Paola.”
«A quell’ora nessuno, perché?» Luciano sentì sua moglie pestargli un piede per comunicargli quanto fosse stato baccalà.
«Giacché non potevo risponderle perché mi ero scordato il cellulare», spiegò Mauro «Silvia, sperando non fossi ancora partito, ha chiamato sul telefono fisso per avvertirmi che sarebbe giunta in ritardo ma trovava sempre occupato.»
Luciano cercò di rimediare con quel poco che gli venne in mente d’acchito. «Forse la cornetta non faceva contatto con l’apparecchio.»
Mauro avvertì Silvia toccargli il ginocchio ma, preso dalla stranezza del fatto, non colse l’avvertimento. «Babbo come ha potuto trovare la linea libera quel tizio del tavolino se la cornetta non faceva contatto?»
«Camminando per casa l’avranno rimessa a posto le vibrazioni.»
«Babbo che stai dicendo?»
«Signor Luciano mi perdoni la curiosità, quel foro sul tavolino che il vostro cliente vi ha raccomandato di non otturare, a che cosa gli sarebbe servito?» chiese Silvia per impedire a Mauro di continuare la diatriba.
«Domanda acuta la tua perché quando i medium organizzano le sedute spiritiche, lasciano l’ambiente nella semioscurità per celare i movimenti e creare un’atmosfera di mistero, quindi incastrano un gancio brunito sul foro e uniscono a catena le mani dei partecipanti. A quel punto fingono di cadere in trans, alterano la voce per far intendere che parlano per conto del defunto evocato o scrivono sotto il suo dettato. Per la scena finale i furbacchioni infilano il gancio in un anello largheggiante e sollevano il leggero tavolo, creando l’illusione che leviti come per effetto d’occulte energie, e i babbei sono serviti.»
Più tardi l’effetto della digestione aveva reso sonnolento il convivio, cosicché quando Nadia si era alzata per preparare il caffè, erano passate le sedici e mezzo.
«Mauro, scusami. Vado a chiedere a tua madre se vuole che l’aiuti a lavare le stoviglie.»
«Vedrai che rifiuta.»
«Ne sono convinta ma devo mostrarmi cortese.» Silvia entrò nel cucinotto con la deferenza di chi invadeva un territorio che le donne consideravano loro, molto più che altri angoli di casa. «Signora Nadia la posso aiutare?»
«Nient’affatto! Torna di là da Mauro.»
«Signora immagino che lei stia pensando quanto sia stato frettoloso ciò che è accaduto tra me e suo figlio. Anch’io sono stupita perché ieri mattina nemmeno sapevo che Mauro esistesse.»
Nadia intuì quanta emozione provasse la ragazza dal tono della sua voce. «Te lo te lo riferito che è stato fidanzato?»
«Sì, signora. Si chiama Rossana.»
«Già!Veramente nemmeno sappiamo se tra loro ci sia stata una rottura definitiva. Un litigio li tiene separati da qualche mese. Mauro ti ha parlato anche di questo?»
«Sì, signora.»
«Silvia, smettila di dirmi sì signora!»
«Sì, sig… sì.»
«La loro storia è sempre stata traballante, specialmente nell’ultimo anno e Mauro ha tribolato molto. Ora, Silvia, cerca di capire quanto speri che mio figlio non si ficchi in un groviglio di sentimenti ancora più penoso. Lui è un ragazzo sensibile.»
«Signora Nadia le prometto…»
«Niente promesse, Silvia. Per piacersi basta uno sguardo. Poi occorre imparare a capirsi. A volte è sufficiente un giorno, altre non basta una vita. Mauro e Rossana si sono voluti molto bene, di questo sono convinta ma essere cresciuti assieme e avere trascorso quasi tre anni da fidanzati non sono bastati perché imparassero a tollerarsi.» Nadia si strinse sulle spalle come se pensasse quanto fossero complicati i rapporti tra le persone, poi si rivolse a Silvia osservandola con un sorriso un po’ mesto e un po’ bonario: «Ora andate in veranda. É una giornata così tiepida.» Le rivolse uno sguardo finalmente cordiale. Tra poco vi porto il caffè.»
Un’alta siepe e un grande albero di magnolia separavano il giardino dalla strada e attutivano il rombo dei pochi veicoli che transitavano. Poggiata la nuca sullo schienale di uno spazioso dondolo, Silvia e Mauro avevano accostato le tempie.
«Mauro, hai capito perché il telefono di casa tua dava occupato, stamattina?»
«Per me rimane un mistero.»
«L’avevano staccato i tuoi genitori per non essere disturbati.»
«Allora pensi che…»
Silvia glielo fece capire sorridendo con gli occhi.»
«Credo tu abbia ragione», rifletté Mauro «ma non viene il pensiero che i tuoi genitori possano ancora fare l’amore, quando sei adulto. Non li immagini proprio.»
«Lo fanno con più discrezione ma lo fanno», rispose Silvia. A me è capitato che li sentissi a capodanno, di primo mattino. Avevamo passato la sera di San Silvestro con amici di famiglia e, si sa, in compagnia vien voglia di spiluzzicare di più. Così ho mangiato troppo panforte. Alle tre del mattino mi sono alzata per prendere un digestivo e passando davanti la porta della loro camera li ho sentiti. In cucina mi sono messa a piangere come una bambina nel pensare quanto ancora si amassero. Sciocco, eh?»
«La chiamerei “sensibilità”, invece.» Subito dopo Mauro fece il gesto di grattarsi il capo. «Mi sa che ai miei ho rotto le uova nel paniere quando sono tornato per prendere la macchina fotografica.»
«A che cosa pensavi per esserti scordato pure quella?»
«La stessa cosa di quando me la sono dimenticata per la seconda volta sulla sporgenza di pietra: a te!»
Gli occhi di Silvia s’illuminarono per assumere subito dopo un’espressione interrogativa. «Ascolta Mauro, c’era intesa fra te e Rossana quando… insomma quando…»
«Posso non risponderti?»
«Cribbio voglio saperlo!»
«Abbiamo superato parecchi litigi facendolo.»
Silvia si adombrò all’istante.
«Lo immaginavo che non ti avrebbe fatto piacere.»
«No non me l’ha fatto. É stupido che mi senta gelosa per ciò che è stato il tuo passato. Mauro, me la perdoni questa gelosia un po’ cretina e retroattiva?»
«Non è cretina. La provano in parecchi.»
«Ti rivedrai con Rossana?» gli domandò Silvia.
«Soltanto se mi capiterà d’incontrarla per strada.»
Nel volto di Silvia apparve un’impercettibile contrazione del sorriso, una punta di panico nello sguardo.
Fiaccati da quel tumulto di emozioni, si scambiarono occhiate assonnate. Prese dal torpore loro voci divennero sommesse.
«Mauro stanotte non ho chiuso occhio per pensare che oggi sarei venuta con te.»
«Fallo ora un pisolino. Accosta il capo alla mia spalla. Brava così.»
Si sentirono avvolgere da un’irresistibile sonnolenza.
Quando Nadia si approssimò al dondolo, reggendo un vassoio dal quale si espandeva l’aroma del caffè, non li destò. Molte volte aveva visto Mauro e Rossana, abbracciati, senza provare emozioni ma osservare il figlio dormire accanto a quella ragazzona dalle chiome somiglianti a grandi ali di corvo, avvertì un acuto senso di separazione. Si allontanò discreta accostando piano l’uscio di casa.
CAPITOLO SESTO
Il Bizza
Silvia giunse in sede che Livio e Fabrizio stavano già conversando con Mauro. Poco dopo entrò Monica; sui trentacinque anni aveva corporatura brevilinea e robusta. I capelli dal tono rosso scuro, tenuti corti, le donavano un aspetto vivace e spigliato. Un minuto e giunse Franco; di media statura, quasi calvo e con l’aspetto di un cinquantenne, portava un pizzetto ben curato. Franco aveva appena salutato i presenti quando arrivò Stefano, un ragazzo longilineo con spalle ampie e lineamenti del volto straordinariamente simmetrici. I capelli biondi e gli occhi azzurri gli conferivano un aspetto nordico. Si presentò a Mauro con sorriso gioviale e salda stretta di mano. Raggiunse Silvia, le diede un rapido bacio sulla bocca e tornò a conversare con l’ospite.
Mauro si sforzava di apparire interessato al colloquio ma lo faceva con metà cervello perché l’altra era presa a pensare se a proposito di quel ragazzo, alla cui prestanza fisica non poteva reggere, Silvia fosse stata veramente sincera.
Comparve Arturo. Anch’egli sulla cinquantina era smilzo e di bassa statura. Aveva il volto stranamente paffuto, come quello di una persona che fosse in soprappeso di una ventina di chili. I suoi capelli grigi, ancora folti, contrastavano con gli stretti baffi curiosamente assai più scuri. Indossava una maglietta polo gialla, sulla quale era scritto, in colore verde, AMO LA BIO DIVERSITÀ. I pantaloni a pinocchietto facevano apparire le sue caviglie ancor più sottili di quel che fossero. Reggeva un libro e lo esponeva in bella vista come volesse farlo notare.
Dopo il saluto all’ospite e le rispettive presentazioni, a Mauro non occorse molto per capire quanto avesse ragione Silvia, a proposito della sua petulanza.
Stefano, sebbene smaniasse di tornare da Silvia, seguitò a trattenersi con Mauro per dovere di cortesia ma senza riuscire a spiccicare parola perché forse, per effetto del nuovo venuto, la loquacità d’Arturo era più traboccante del solito. Tentò lo sganciamento spostandosi di lato ma si sentì afferrare per un braccio.
«Stefano», gli disse Arturo con una vocina talmente grattante da somigliare al raschiare di una lima «non aver fretta di svignartela. Silvia non te la frega nessuno. Guarda che cosa ho trovato alla fiera della cianfrusaglia, su una bancarella di libri usati? L’ho portato per fartelo leggere. É un classico della fantascienza. L’ha scritto John Wyndham, un maestro del genere. Narra dell’umanità, divenuta cieca a causa di una cometa passata vicinissima alla Terra, in balia di strani vegetali vaganti e dotati di un mortale aculeo.
Stefano osservò il volume e lesse il titolo del romanzo: IL GIORNO DEI TRIFIDI. «Accattivante come titolo», commentò.
«Pure coinvolgente come trama», chiosò Arturo «perché i pochi umani che per particolari circostanze non sono divenuti ciechi, tentano una strenua resistenza contro i vegetali assassini ma…»
«Bizza è inutile che tu me lo dia da leggere se mi fai il riassunto da cima a fondo.»
«Hai ragione. Scusami. Allora, raccontami, com’è andata con Silvia?»
«Siamo usciti a mangiare la pizza.»
«Potresti essere meno striminzito di particolari?»
«Non c’è altro da sapere.»
«Stefano non essere ingrato. Ti sei scordato di quante volte sia sgattaiolato, da questa stanza, portandomi dietro Monica e Franco per lasciarti a conversare con Silvia, solo soletto?» Il Bizzarri strizzò l’occhio all’amico e gli diede una spintarella. «Ci sei riuscito?»
«A fare cosa?»
«Stefano non fare il cascamorto: a baciarla no?»
«Arturo dovremmo parlare di ben altre questioni. A Mauro non interessano i miei fatti personali.»
«Che c’è di male se ascolta? Mica è la sua ragazza. Allora s’è fatta baciare o no?»
«Sì.»
«Donna baciata mezza trombata», asserì il Bizza col gesto di coprirsi la bocca in un atto di confidente complicità. «Non c’è proverbio che abbia il suo contrario, tranne questo. «Bravo il mio Stefano, però non avresti buttato un anno se questo passo lo avessi fatto qualche settimana dopo averla conosciuta.»
Mauro si sentì attanagliare da una sensazione d’inganno.
Stropicciandosi le mani alla Bruno Ape, il Bizza fece un sogghigno volpino. «In ogni modo, Stefano, me lo sentivo che alla fine ci saresti riuscito», sogghignò soddisfatto.
«In verità non ci ha messo una gran passione nel bacio», ammise Stefano.
Arturo posò la mano sulla spalla dell’amico e replicò: «Tante gocce fanno il mare», enunciò per tranquillizzare l’amico «ma ora cerca di mettere il pisello a prua e naviga col vento in poppa, perché le cose lunghe diventano serpi.»
Stefano annuì, fece un risolino sommesso, poi si raccomandò che non andasse, subito, a spifferarlo ai quattro venti. «Nessuno si pentì mai d’aver taciuto. Lo conosci questo detto, esperto di saggezza popolare?»
«Stefano, per chi mi hai preso?»
«Per un chiacchierone.»
«Ingrato, sei un ingrato!»
Più in là Silvia annuiva al suo gruppo, come per concordare il loro scambio d’idee ma senza memorizzarne una parola perché la sua vera attenzione era diretta a percepire almeno il senso di qualche frase della conversazione che seguitava tra il Bizza e Stefano. Che parlassero di lei ne era certa perché li coglieva, sovente, rivolgerle rapide occhiate. Temeva di veder Mauro prendere l’uscio e andarsene. Trasse dalla borsetta il pacchetto delle sigarette e ne accese una. Avvertì un sapore strano nello stesso momento in cui Monica lo avvisava di averla accesa dalla parte del filtro.
«Accidenti», fu costretta a risponderle «i filtri bianchi ingannano.»
«Silvia mi sembri inquieta, distratta. Qualche problema?»
«Ho la luna di traverso, stasera.»
«Domenica scorsa siete usciti ancora insieme?»
«Arturo smettila per favore.»
«Mica pretendo che me ne parli fino a mezzanotte ma non tenermi sulla graticola.»
«Giovedì le ho telefonato per chiederle se domenica pomeriggio ci saremmo rivisti ed ha acconsentito. Poi mi ha richiamato sabato sera per disdire. S’è scusata per essersi dimenticata che i genitori del fidanzato di sua sorella l’avevano invitata a pranzo e non sapeva quando sarebbe tornata. Però avevo la strana sensazione che Silvia non vedesse l’ora di riattaccare.»
Districato il bandolo della matassa, Mauro si rilassò un poco.
«Silvia ti ha fatto prendere una tale scuffia che scambi ditali per tini», sogghignò Arturo.
«Non si dice fischi per fiaschi?»
«Troppo banale.» Arturo diede una pacca sulle spalle all’amico e lo incoraggiò dicendogli: «Stefano non fare quell’aria perplessa. Silvia te la sposi.»
Lui fece un vago cenno d’assenso, quindi si scusò con Mauro, raggiunse Silvia e la cinse alla vita. Arrossì quando Fabrizio non perse occasione per tirare fuori una delle sue solite allusioni.
«Silvia vorrei intercedere in favore di Stefano: intendi fargliela sospirare ancora per molto a sto’ povero ragazzo? E quando accadrà cerca di comprenderlo nel caso fosse… troppo frettoloso.»
Fabrizio aveva passato la quarantina ma i capelli castani, tenuti piuttosto lunghi, gli conferivano un aspetto giovanile. Il volto affilato e un paio di baffi sale e pepe, simili a quelli di Arturo, un sorrisetto beffardo, perennemente stampato sulle labbra sottili, gli donavano un’espressione burlona. «Per il fidanzamento ufficiale potremmo organizzare il rinfresco a casa mia. Che ne pensi Livio?»
«Certamente», commentò l’amico marcando la voce con una vena scettica che gli altri non colsero.
Silvia lanciò a Livio uno sguardo implorante come per chiedergli di aiutarla a trarsi fuori da quel pasticcio.
«La stiamo mettendo in imbarazzo», disse Franco.
Fabrizio posò una mano sul cuore e declamò, teatrale: «Trepidanza e malinconia, le due facce dell’amore.»
Nel frattempo la conversazione tra Mauro e Arturo continuava.
«Mauro hai la faccia di un ragazzo intelligente e bada che ci azzecco sempre. Permetti che ti porga un quesito per saggiare la tua cultura?»
«Perché no?» approvò Mauro. Se non altro quell’eccentrico individuo lo aiutava ad alleviare l’assillo di seguitare a scorgere quel Marcantonio di Stefano accanto a Silvia.
«Sai quale espediente usò Noè, per riuscire a imbarcare una coppia di Tirannosauri Rex sull’arca?»
«Nessuno perché quei lucertoloni si erano estinti sessantacinque milioni di anni prima del diluvio universale.»
«Mauro, mi stupisci. Con questa domanda cretina sono riuscito a gabbare persino fior di laureti. E non ti racconto panzane. A parte il fatto che io non credo ci sia stato un diluvio veramente universale, se non quello probabilmente avvenuto, durante l’era glaciale, tra i fiumi Tigri ed Eufrate, cioè quel pezzettino di mondo conosciuto agli albori della civiltà ma un giorno mi capitò di fare questa doman… Mauro, vedo che ogni tanto sbirci verso Silvia e ti capisco. È una gran bella ragazza eh? Ma ormai Stefano ha serrato le porte a eventuali concorrenti e ha fatto bene perché lei non è soltanto bella ma anche intelligente e sensibile. Per dartene un’idea ti racconto un fatto: l’anno scorso, un paio di mesi dopo che si era iscritta al nostro circolo, un riccio le attraversò la strada giù per la discesa di Montelignano e non poté evitare di arrotarlo. Quanto le dispiacque! Mauro ti stai accaldando? Vuoi che apra la finestra?»
«No Arturo lascia stare.»
«Invece la voglio sboccare. Ormai siamo nella stagione giusta. Purtroppo, durante le riunioni invernali, bisognerebbe mettersi la maschera antigas.» Guardali? Stanno fumando come turchi e stasera ci si è messa pure Silvia. Capirai con quell’agitazione che si sentirà addosso.»
«Gli ambientalisti non dovrebbero fumare», commentò Mauro, tanto per dire qualcosa.
«Parole sagge le tue. Sapessi quante volte li ho redarguiti tentando di convincerli quanto sia assurdo battersi contro l’inquinamento, poi incarbonirsi i polmoni e coinvolgere col fumo passivo chi ha più sale in zucca di loro.» Arturo spalancò le braccia e reagì, com’era solito fare quando voleva imprimere forza penetrativa alle sue argomentazioni: «Nemmeno ci pensano ai danni cagioni dal fumo alla salute: bronchiti croniche, enfisemi, gastriti, tumori che sbucano da tutte le parti, malattie cardiovascolari, calo della libido…»
Mauro incontrò gli occhi di Silvia mentre Arturo seguitava a elencargli la sequela infinita di malanni provocati dal fumo del tabacco. Gli comunicavano un’accorata richiesta di comprensione.
«Il risultato che ho ottenuto», seguitò imperterrito Arturo «è stato quello di farmi la nomea del rompipalle, però devo ammettere che mi trovo bene con loro. Mi chiamano “Bizza” perché è un diminutivo di Bizzarri, il mio cognome.»
«Arturo, scusami, la riunione quando comincia?» chiese Mauro.
Lui richiamò l’attenzione di Fabrizio picchiettando l’indice della mano destra sull’orologio.
«Vorremmo attendere Linda», rispose Fabrizio. «Prima di cena mi ha telefonato per confermare che sarebbe venuta col suo ragazzo.»
«Quale?» domandò il Bizza sciorinando un sogghigno volpino.
«Saranno fatti suoi», rispose Fabrizio con noncuranza. «Aspettiamo ancora qualche minuto, poi iniziamo.»
Arturo fece segno d’assenso, poi disse rivolgendosi ancora all’ospite. «Sai Mauro? Fabrizio è un architetto in gamba e si è laureato pure in ingegneria. Nel suo settore c’è chi lo giudica con ostilità perché ha criticato alcuni faraonici progetti urbanistici e i metodi clientelari che nascondono. Lui se ne sbatte perché trova lavoro quanto ne vuole, ma è un burlone matricolato. L’anno scorso mi combinò uno scherzo tanto pesante che mia moglie non voleva tornassi al circolo. Non gli rivolsi la parola per un paio di mesi. Devo ammettere, però, che se lui e Livio non ci fossero, chiuderemmo bottega. Loro due sono stati tra i fondatori della FNEI e fanno parte dell’esecutivo federale nazionale.»
Mauro cominciava a seguirlo con interesse perché Arturo sapeva quel che diceva.
La nostra federazione», spiegò il Bizza «è nata per contrapporsi alle troppe associazioni che cianciano di tutela ambientale. Dietro la facciata, molte sono più interessate a fare da spalla a questo o quel gruppo politico che non a difendere veramente la natura. Ho conosciuto troppi ambientalisti che si battevano a spada tratta per i problemi ecologici, poi sono divenuti dirigenti di questo o quell’ente locale, o peggio ancora, tirapiedi di qualche politicante per essere stati raccomandati. E ora prendono compensi da favola fregandosene di quante risorse naturali della Terra saranno dissipate per consentire loro di buscare tutti quei soldi. Non c’è equazione più correlata di quella che collega il consumo di energia al guadagno di denaro. Sì perché il denaro lo stampa la zecca ma per produrlo occorre dissipare le risorse del pianeta. Mauro, le isole veramente erbose sono poche nel nostro arcipelago e il termine “ecologia” è usato per tutto tranne che per agire in funzione di ciò che significhi. E diffida soprattutto di coloro che si riempiono la bocca di termini come “sviluppo sostenibile”, “tematica ecologica” o “questione ambientale”. Spesso dietro queste frasi d’effetto si nascondono soggetti trafficoni.» Arturo fece una smorfia e proseguì: «L’agricoltura biologica non avrebbe problemi d’approvvigionamento di fertilizzati naturali se l’ipocrisia si trasformasse in letame. Ah, ecco Linda.»
Linda
Poco sopra i vent’anni, Linda aveva la pelle luminosa e gli occhi di un celeste cristallino. Sebbene non fosse particolarmente alta, la sua snellezza la slanciava. La gonna sopra il ginocchio, i capelli biondi platino a baschetto con frangetta sulla fronte e il nasino all’insù le conferivano un aspetto attraente e un’aria indipendente. Era accompagnata da un ragazzo poco più alto di lei.
Arturo fece le presentazioni ma tra Linda e Mauro ci fu solo tempo per una stretta di mano.
«Forza, gente, sedetevi che cominciamo», li avvisò Livio. «E sollevate le sedie invece di trascinarle, altrimenti l’Allegrini ci sfonda il piantito col perticone.»
«Non mi meraviglierei se si fosse munito del misuratore di decibel», sogghignò Arturo. «Provate a immaginare lo sputtanamento che buscheremmo se sporgesse querela per inquinamento acustico.»
«Non trascinare la sedia come stai facendo se vuoi evitarlo», lo redarguì Fabrizio.
Quel suggerimento fu accompagnato da una risata corale.
Sollevando un braccio a mo’ d’ultimatum, il Bizza ribatté con enfasi: «State in campana, gente, invece di ridere. Potreste beccarvi una denuncia per attentato alla mia salute perché mi avete asfissiato con le vostre sigarette. Stasera persino Silvia è già a metà della terza.» Passò in rassegna i presenti e li avvertì con un tono ammonitore: «Andrà a finire che alle riunioni non…»
«…ci verrai più», lo anticipò Fabrizio cantilenando le parole come se quella tiritera fosse un film vecchio.
«Proprio così», sbottò il Bizza che ricominciò a trascinare la sedia.
«Bizza, la sedia», lo richiamò Franco.
«Franco non rompere anche tu.»
«Arturo non fare il noioso», intervenne Stefano. «Tutte le volte questa storia. Vai a spalancare la finestra.»
«Stefano, sostienimi invece di tollerare questi morituri, compreso la tua ragazza», lo incalzò il Bizza corrugando la fronte.
«Cercate di moderarvi col fumo», si raccomandò Livio. «Il Bizza ha ragione. Ora iniziamo.»
Silvia, come lo facesse casualmente, accennò qualche mossa per sedersi accanto a Mauro ma finì per ritrovarsi tra Stefano e Arturo.
Mauro dovette accomodarsi in seconda fila e Linda gli sedette accanto. Poiché la gonna della ragazza era salita, non riuscì a vincere la tentazione di sbirciarle le cosce.
Accortasene, lei gli indirizzò un sorrisetto ammiccante e si ricompose la gonna, tirandosela verso le ginocchia per quel poco che l’indumento consentiva.
Vedere Linda accanto a Mauro innervosì maggiormente Silvia. C’era poco da fidarsi di quel peperino. Sebbene avesse un animo tanto generoso da dividersi in quattro per aiutare un amico in difficoltà, non avrebbe rispettato parentele familiari se le fosse piaciuto il fidanzato di sua sorella. Ormai non c’era verso di stare accanto a Mauro finché fosse durata la riunione. E dopo? Stefano non l’avrebbe mollata un minuto. Accavallò nervosamente le gambe.
«La riunione s’è resa necessaria per discutere sulle iniziative da prendere per impedire la costruzione della diga sul Rio Maestro», iniziò a spiegare Livio.
L’irrequietezza di Silvia divenne agitazione quando Stefano gli cinse le spalle col braccio obbligandola ad accettare un contatto indesiderato. «Stefano, scostati, per favore», lo avvisò gentilmente.
«Silvia che cosa ti prende?» rispose lui accentuando l’abbraccio.
«Toglimi il braccio di dosso, cribbio!» reagì lei infastidita.
Arturo li osservò inarcando la fronte in un modo così spigoloso da far somigliare le sue sopracciglia agli spioventi dei tetti di due casette gemelle.
«Stefano, Silvia, prestate più attenzione», li riprese Livio battendo una mano sulla scrivania. «Stavo dicendo», ripeté «che abbiamo indetto la riunione per discutere le iniziative da prendere contro la costruzione della diga sul Rio Maestro e dobbiamo ringraziare il nostro nuovo amico Mauro Falaschi per averci informato.»
Silvia notò Linda proferire qualcosa a Mauro e quando vide lui indirizzarle un cenno d’assenso occhieggiandole le gambe, si agitò come se sulla sua sedia fossero cresciute puntine da disegno. Nondimeno si sforzò di prestare attenzione a Livio.
«Riteniamo che il progetto della diga sia ancora in fase preliminare. Queste nostre supposizioni sono avvalorate dal fatto che il tecnico incontrato da Mauro, il nostro nuovo amico pittore di Sanfabiano, gli abbia assicurato che aveva ancora tempo per dipingere altri scorci della valle.»
«Capperi nel gruppo mancava un’artista!» esclamò Arturo.
Mauro, per non recare disturbo al dibattito, avvicinò l’orecchio alle labbra di Linda che, sottovoce, voleva chiedergli qualcos’altro.
Silvia fremette nel vedere ancora l’amica parlottare con Mauro e notare quanto fosse farfallino il sorrisetto che gli indirizzava. Quel visino d’angelo, in un anno che la conosceva, aveva cambiato due fidanzati e il ragazzo che le stava accanto era il terzo.
«L’altro ieri», seguitò Livio «Fabrizio ha telefonato in Regione per avere informazioni. Purtroppo ha avuto conferma che un piano per costruire la diga esiste.» Tamburellò le dita sulla scrivania come per aiutarsi a riflettere. «Reazioni al nostro articolo sulla stampa non ce ne sono state e suppongo non ce ne saranno. È verosimile ritenere che gli enti interessati alla costruzione dell’invaso intendano evitare di soffiare sul fuoco delle polemiche. Sanno di essere in una fase importante e probabilmente attendono autorizzazioni e pareri necessari per procedere alla messa in opera del progetto. Questo è per noi il momento di agire. Vorrei però che Mauro capisse quante difficoltà dovremo superare per spuntarla e non è detto che ce la faremo.»
«Livio che proponi di fare?» chiese Franco.
Lui lasciò la parola a Fabrizio.
«Suggerisco di redigere un esposto contenente le osservazioni che potremo addurre contro la realizzazione dell’invaso. E lo dovremmo fare in fretta prima di ridurci alle porte con i sassi com’è già successo quando ci siamo mossi a lavori iniziati. Invieremo la richiesta alle autorità competenti corredandola con immagini della Valcorniola. Mauro si è recato a fotografare il luogo domenica scorsa e ci ha portato immagini di notevole interesse naturalistico. Dobbiamo fargli i nostri complimenti.» Livio tolse un pacchetto di foto da un cassetto della scrivania e invitò gli altri ad approssimarsi. Ci fu un tramestio di seggiole.
«Piano ragazzi o vedremo comparire l’Allegrini con lo schioppo.»
Linda e il Bizza tanto fecero che riuscirono a mettersi accanto a Mauro.
A Silvia pareva d’essere una pentola a pressione con le valvole intasate. E Stefano lo aveva ancora accanto.
«Queste foto sono bellissime», commentò Linda. «Sembrano scattate da un professionista. Che posto romantico, la Valcorniola. Il laghetto e la vecchia casa colonica sono poetici.»
Silvia fremeva. “Se gli chiedi di accompagnarti a vederli ti cavo gli occhi.”
«Questa foto col fontanile è meravigliosa», seguitò Linda. Mauro, posso averne una copia? La faccio ingrandire e la incornicio.»
Silvia non ci poteva stare lì, a sentirsi Stefano appiccicato addosso e avere di fronte quella smorfiosa sorridente e complimentosa nei confronti di Mauro. Doveva trovare un pretesto per discostarsi dalla scrivania e impedire che le sedesse ancora accanto quando sarebbero tornati al loro posto. «Stefano scusami ho lasciato la borsetta sulla sedia. Vado a prendere una sigaretta.»
Sogno infranto
Tornata a sedersi, Linda trovò Silvia piazzata tra lei e Mauro. Seppure irritata per l’invasione di campo, fu obbligata a farle buon viso ma non poté trattenersi dal chiederle: «È burrasca con Stefano?»
«A quale burrasca ti riferisci?» rispose lei ostentando stupore.
«Ho saputo dal Bizza che ti sei fidanzata con Stefano e siccome hai cambiato posto, ho pensato che tra voi ci fosse già maretta.»
Non trovandosi Silvia accanto, Stefano si voltò per vedere dove si fosse seduta. Notandola parlottare con Linda immaginò si fosse spostata per dirle qualcosa, magari a proposito del loro fidanzamento, quindi riprese ad ascoltare Fabrizio.
Silvia afferrò la mano di Mauro e se la portò sopra gli jeans per fare intendere all’amica come invece stessero le cose.
Linda, sbigottita, cercò il contatto del suo ragazzo.
Arturo toccò di spalla l’amico e gli domandò sottovoce: «Stefano, mi spieghi perché Silvia ha cambiato posto?»
«Evidentemente aveva da dire qualcosa a Linda.»
«Ma è tutta la sera che la vedo nervosa. Pare un’anima in pena.»
«L’ho notato anch’io ma non saprei dirti che cosa la agiti.»
«Avete fatto la prima leticata?»
«Affatto.»
Perplesso Arturo prestò attenzione a Fabrizio che stava togliendo un documento dalla borsa.
«La costruzione di quel bacino», iniziò a spiegare Ridolfi, «faceva parte di un piano irriguo risalente agli anni sessanta del secolo scorso che comprendeva la costruzione di diversi invasi artificiali. Il bacino di Montescuro e altri sono stati realizzati ma quando si pensava avessero rinunciato all’invaso riguardante la Valcorniola, questo documento, che risale alla fine degli anni novanta, l’ha rimesso tra le opere realizzabili. È un protocollo d’intesa interregionale che rilancia il progetto originale dell’EIRI nel quale è stata sottoscritta la volontà delle regioni firmatarie ad attivarsi presso il governo nazionale per il finanziamento dell’opera.»
Monica interpellò Fabrizio riguardo le dimensioni dell’invaso.
«Dovrebbe avere una capienza massima di trentacinque milioni di metri cubi d’acqua, ma non mi stupirei se avessero predisposto una variante al progetto per realizzare un bacino ancora più vasto.»
«Roba da matti», sbottò Arturo «lo vogliono sommergere tutto quel vallone. Poi qualcuno avrà pure la faccia tosta di sostenere che i benefici sociali derivanti da quella riserva idrica saranno superiori al sacrificio ambientale e troveranno anche qualche leccapiedi d’ecologista disposto a sostenerli.»
Seri e silenziosi, Monica e Franco annuirono.
«Bizza, vuoi saperne un’altra?» intervenne Livio. «Uno degli assessori regionali firmatari di questo protocollo è…»
Toccandogli una scarpa Fabrizio lo interruppe e gli mormorò all’orecchio: «Livio che cosa sta succedendo? Silvia ha cambiato posto e tiene la mano di Mauro in grembo.»
«Sabato scorso quel ragazzo ha fatto colpo su Silvia», rispose Livio bisbigliandoglielo. Sollevò una mano per nascondere il labiale e soggiunse: «Lei gli ha proposto d’accompagnarlo a fotografare la Valcorniola e…»
«Ho capito non c’è bisogno che tu aggiunga altro», tagliò corto Fabrizio. «Ora cerchiamo di mantenere concentrati Stefano e il Bizza perché se si voltano succede il pandemonio.»
«Che state confabulando?» mugugnò Arturo. «Non volete più dirlo chi sia il furbastro di turno? Siete stati evasivi anche sulla stampa, quindi smettetela di menare il can per l’aia e sputate l’osso. Perché, Livio, hai sollevato la mano per nascondere il labiale mentre parlottavi con Fabrizio?»
«Ha ragione il Bizza. Non vogliamo segreti», lo spalleggiò Stefano. «Dicci il nome.»
Livio lo pronunciò.
Arturo proruppe in una risata tanto gracidante che pareva il richiamo di una raganella. «Così dietro l’immagine dell’ecologista, impegnato a fare l’assessore regionale per l’ambiente, quel furbacchione s’è buscato un bel gruzzolo di quattrini alla faccia di quattro fessi come noi. Scommetto la salute che nemmeno ha messo piede in Valcorniola prima di sottoscrivere d’allagarla.» Si voltò a guardare Mauro per condividere un comune cruccio ma la scena che vide gli fece strabuzzare gli occhi. Sbatté le palpebre col timore di avere scambiato un lombrico per un anaconda ma la vista gli rimandò la stessa immagine; la mano del ragazzo di Sanfabiano era posata sui jeans di Silvia e notò come fosse lei a tenergliela stretta. Si accostò all’orecchio dell’amico e gli bisbigliò: «Stefano, stai all’erta perché mentre noi discutiamo dell’assessore tizio, il pittore della Valcorniola ti soffia la ragazza.»
«Che cosa hai detto?»
«Mauro ti frega Silvia», ripeté Arturo alzando la voce. «Hai capito ora? Voltati.»
A Stefano fu come avessero scagliato un macigno sul petto. Una sorda disperazione lo investì come un getto d’acqua gelida. Avvertì il sangue abbandonargli il viso.
Monica, incuriosita per quel parlottare, si sporse in avanti e chiese al Bizza che cosa stesse succedendo.
«Silvia quella stronza.»
«Stronza? Che cosa ha fatto?»
«Guardala e stupiscitene.»
Lei si voltò di lato ed esclamò: «Oh, Madonna!» Avvisò Franco e fra i tre iniziò un fitto scambio di frasi mormorate.
«Bizza, Silvia lo conosceva già quel ragazzo?» chiese Franco sottovoce.
«Che io sappia no.»
«Allora è successo tutto sabato scorso?»
«Mi sa che è andata così.»
«Da lei non me lo sarei aspettato.»
Notando il pallore sul volto del giovane amico, il Bizza sentenziò: «Mi cascassero gli occhi se a “quella” rivolgessi ancora la parola. Stefano ha cincischiato troppo tempo per corteggiare Silvia e gli è costata cara.»
«Per favore siate più attenti», li riprese Fabrizio.
«Bene», disse Livio.
«Bene un caz… un accidenti.»
«Bizza, smettila!» Anteponendo la questione da discutere ai fatti personali, Livio tentò di rimediare all’atmosfera guasta. «Domani informerò la nostra sede nazionale perché ci sostenga e si mettano in contatto con qualche parlamentare disposto a aiutarci con interrogazioni alla Camera e al Senato. Intanto potremmo programmare una conferenza stampa e televisiva. Che ne pensi Fabrizio?»
«Sono d’accordo. Tenterò di prendere contatto con qualche giornalista televisivo di testata nazionale.»
«Sarebbe utile organizzare una giornata informativa e farla coincidere con le interviste», propose Franco.
«E allestire cartelloni corredati da informazioni e foto, mettendoli presso la sede dell’Amministrazione Provinciale», suggerì Monica.
«L’idea di Monica è buona. Potrei dare una mano anch’io se la facessimo di domenica mattina», propose Silvia.
Di regola se in una riunione la proposta di Tizio era ritenuta meritevole d’attenzione di Caio, Tizio si voltava verso Caio per fargli un compiaciuto sorriso. Monica, invece, nemmeno volle dare a Silvia l’impressione d’aver sentito. «Potremmo anche raccogliere firme da allegare all’esposto», aggiunse rivolgendosi a Livio.
Franco e Arturo sostennero la proposta dell’amica. A Silvia non rivolsero un solo sguardo. Vollero che le pesasse subito la sensazione d’averla esclusa dal gruppo.
«Ottime proposte», convenne Livio «perciò suggerisco la costituzione di un comitato di lavoro che si prenda l’impegno di portare avanti le iniziative e indire un incontro con le altre associazioni ambientaliste per organizzare un piano comune.»
«Associazioni ambientaliste? Quali? In provincia ci siamo solo noi ad avere una struttura organizzativa solida», obbiettò Franco.
«Possiamo invitare Francesca Guadagni, Emma Innocenti e Carlo Boncompagni di GREENPLANET. Sono convinto», riprese Livio «che verranno anche Federica Bartolini e Dino Danesi dell’AIDA, l’Associazione Italiana per i Diritti degli Animali e…»
«L’AIDA s’è organizzata anche nella nostra provincia?» lo interruppe Franco.
«Altroché! Sono una settantina d’iscritti», s’intromise Arturo.
«Caspita non lo sapevo.»
«Non lo sapevi?» ironizzò il Bizza emettendo una risatina sfottente simile al ribollire di un gargarismo. «Franco, sei sbarcato ieri, proveniente dalla Papuasia?»
«Non possiamo essere sempre informati come te, che sai tutto di tutti», replicò l’amico, irritato.
«Franco non ti arrabbiare e che diamine», ribatté Arturo. Poi fissandogli il cranio quasi calvo sciorinò una delle sue pungenti battute: «Quando t’incazzi, ti viene la faccia di uno che sembra avere un diavolo per capello.»
«Sei tu che m’irriti con quelle risatine irridenti che fai. Su ogni cosa devi sempre mettere becco.»
«Che c’è di male a voler completare le informazioni?»
«Niente ma non mi va che tu lo faccia col tono di chi vuol sempre schernire gli altri facendoli passare per ignoranti.»
«Ho soltanto cercato di rimediare alle tue lacune ma se la pensi così vai affanculo, coda di paglia!»
«Basta smettetela!» li redarguì Monica. «Com’è possibile che siate sempre a leticare?»
Fabrizio smorzò una risatina sul nascere ma figuriamoci se Arturo non si accorgeva.
«Fabrizio, che cos’hai da ridere sotto i baffi? Ancora ho da digerire lo scherzo che mi hai fatto.»
«Porca miseria, posso continuare?» sbottò Livio battendo la mano sul tavolo. «Potremmo invitare Ugo Rossi e Luigi Gori del gruppo “AMICI DEL LUPO”.»
«Quel gruppo si è sciolto», disse Linda.
«L'ho saputo anch’io», confermò Arturo.
«Li avviseremo lo stesso.»
«Potremmo chiamare anche quelli del gruppo ecologista “TERRA NOSTRA”», propose Silvia.
«Buon’idea. Ezio Severi è un ragazzo in gamba. È ancora attivo?»
«Non saprei Livio», rispose Silvia «ma conosco Valeria Livi. È una ragazza del loro gruppo che si serve spesso nel mio negozio. Ho il numero del suo cellulare. Penserò io a informarla.»
Gli amici finsero di non averla sentita.
Livio richiamò l’attenzione di Mauro. «Lo conosci bene il tuo Sindaco?»
«Abbastanza.»
«Dovresti chiedergli di riceverci.»
«Per quando?»
«Non possiamo indicargli il giorno e l’ora ma se fosse di pomeriggio, oppure il lunedì o il venerdì mattina.»
«Proverò.»
«Bene, per stasera avremmo finito se non ci fossero altre proposte. Sollevate le sedie quando le rimetterete a posto.»
Tornarono a radunarsi attorno alla scrivania per rivedere le foto. Monica, Arturo e Franco si dimostrarono affabili con Mauro. Silvia fu ignorata.
Stefano tentò di concentrarsi nella lettura di un notiziario ecologico ma avvertiva un malessere così profondo che pareva mettergli radici eterne nell’animo.
Arturo, nel vedere quanto il disinganno avesse stravolto il volto dell’amico, lo seguiva con la coda dell’occhio come volesse farsi carico di un po’ del suo sconforto. “Povero Stefano”, mormorò tra se. Riuscì persino a trasmettere un po’ di umorismo nero alla sua amarezza. “Amare e non essere ricambiato, è come pulirsi il cu.o senza aver ca..ato.” Poco dopo vide il ragazzo imboccare l’uscio stringendo i pugni in tasca. Si affrettò a seguirlo tallonato dappresso da Monica e Franco.
Fabrizio affibbiò un calcio così violento al cestino della carta straccia da mandarlo a sbattere contro la parete di fronte. «Silvia, ognuno è libero della propria vita. Ci mancava fossi obbligata a fidanzarti con Stefano per compiacere i tuoi amici ma lui non solo ti adorava ma ti stimava e avresti dovuto farglielo capire in un altro modo. Così gli hai fatto cadere il mondo addosso, porca puttana!»
Lei, che mai avrebbe immaginato come quel burlone di Fabrizio potesse assumere un piglio tanto severo, rimase a capo chino senza sapere come giustificarsi.
Affacciatosi alla finestra Livio vide il gruppetto che parlottava accanto al portone. «Silvia, Stefano è ancora giù. Dovresti andare a parlargli. Forse si sentirebbe meno offeso se ti scusassi.»
«Potrebbe sentirsi peggio», replicò Silvia.
«Può darsi ma almeno gli dimostreresti rispetto.»
«Livio non me la sento», rispose Silvia. Il suo volto rimandava il disagio interiore che avvertiva.
«Dovresti sforzarti di farlo», le consigliò Mauro. «Livio ha ragione. Scendo con te.»
Franco e Monica se n’erano andati quando Silvia e Mauro giunsero in strada. Stefano inforcò la bicicletta e salutò Arturo appena li vide.
«Stefano aspettami», lo esortò Silvia. Fu costretta a corrergli dietro e chiamarlo più volte perché lui decidesse di rallentare.
All’incrocio voltarono l’angolo, senza rivolgersi uno sguardo.
Rimasto solo con Mauro, Arturo caricò d’ironia la sua voce asprigna. «Così, in qualsiasi modo finisca la faccenda della diga, hai sempre ottenuto.» Amareggiato, calciò un sassolino e borbottò: «Non siamo risentiti con te, intendi. Sicuramente sei un bravo ragazzo, magari migliore di Stefano ma la sorte, lasciamelo dire, qualche volta è una grandissima figlia di puttana. Tu prendi Stefano: è un anno che fa la corte a Silvia e nel momento in cui lei iniziava ad accettarla, paffete, sei arrivato tu e zacchete. Si può essere più iellati di così? Vedersi soffiare un pezzo di figliola come lei sotto il naso? Non ti offendere perché io sono per parlar chiaro. Oddio non voglio sostenere che tu sia brutto ma il confronto con Stefano non lo reggi. Valle a capire le donne. È proprio vero che l’amor non conosce misura», continuò Arturo facendo spallucce. Fissò ancora Mauro con quegli occhi dall’espressione eternamente intrigata per le faccende altrui e gli domandò:
«Non per fare il ficcanaso ma com’è successo che vi siete invaghiti alla velocità della luce?»
«Evidentemente è scattato qualcosa quando sabato scorso ci siamo conosciuti», ammise Mauro. «Poi Livio mi ha chiesto di fare il servizio fotografico in Valcorniola e Silvia sì è proposta di accompagnarmi.»
«Ah ecco com’è andata! La Valcorniola ti ha fatto scorrere l’acqua per l’orto.»
«Se vuoi metterla così.» Mauro portò la mano a tenersi il mento come per riflettere, poi rispose: «Ascolta, Arturo, capisco l’amarezza di Stefano ma che colpa ne ho?»
«Nessuna ma lascia che ti dica un’ultima cosa: mai avrei pensato che Silvia si comportasse come stasera. Ora ti saluto e spero che con Stefano possiate diventare amici lo stesso. Non ti dico “in bocca al lupo” perché temo che mi risponda “crepi” ed io rispetto i lupi più di tante persone, e se non sei il tipo che usa espressioni come “da subito” o “al limite” può darsi che impari ad apprezzarti. Che tu sia una persona perbene ne sono quasi convinto perché hai una stretta di mano energica.» Arturo accennò un saluto, si allontanò col passo strascicato di chi rimuginava un fatto mal digerito.
Silvia tornò a capo chino, il filtro bruciacchiato di una sigaretta tra le dita. Poco dopo era seduta nell’auto di Mauro, immobile, come se il senso di colpa che provava le impedisse persino di sfiorarlo. «Stefano ha detto che mi sono comportata come una… non ha pronunciato la parola ma l’ha pensato. Lui è un ragazzo leale, non dovevo comportarmi così. Sono stata una stronza. È vero Mauro?»
Lui quasi si tratteneva dal respirare.
«Mi sono comportata da stronza? Dimmelo Mauro!»
«Silvia non ferirti più di tanto o fai sentire in colpa pure me.»
«Invece voglio sapere come la pensi. Mi sono comportata da stronza? Dimmelo, cribbio!»
«Un po’… beh, sì.»
«Non lo avrei mortificato di fronte agli amici se non fosse stato per Linda. È una fraschetta, quella. Stava più accostata a te che al suo ragazzo. Ci stava provando, cribbio. L’ha fatto anche con Stefano ma lui stravedeva per me. Quella ci fa la collezione con i fidanzati. Ha da poco rotto col suo ex per mettersi con questo di stasera e già ti aveva messo gli occhi addosso. Non è cattiva, intendi, e ci sono poche persone che amano gli animali come lei ma è maestra nel fregare i fidanzati.» Lo fissò imbronciata. «E tu che le parlavi nell’orecchio.»
«Volevo risponderle senza disturbare.»
«Ti gongolavi quando si complimentava per le foto.»
«Mi faceva piacere. Tutto qui.»
«Le guardavi le gambe.»
«È stato un atto istintivo.»
«Ecco giustificati così.»
«Silvia non essere sciocca. Linda è una mezza calzetta al tuo confronto.»
«Anche Diana era più bella di Camilla, eppure Carlo…» Silvia lo fissò con cipiglio serrandogli le mani tra le sue, come per imprigionargliele e fargli ben intendere a chi appartenesse. Aveva le guance rigate di lucciconi quando Mauro tolse dal cassetto del cruscotto una busta con le loro foto scattate in Valcorniola.
Preparativi per il sit-in
L’indomani sera mancava soltanto Stefano nella sede della FNEI. Ai membri del direttivo si era aggiunto un gruppo di giovani che approntava tavoli con caprette e pannelli di paniforte. Silvia e Mauro si erano messi in disparte e, chini sull’impiantito, squadravano un foglio di cartone.
Saputo da Arturo la causa dell’assenza del loro capo branco, ragazzi e ragazze tiravano di lungo quando passavano accanto a Silvia e tagliavano corto ogni qualvolta i suoi approcci rischiavano di trasformarsi in colloquio.
Monica, Arturo e Franco avevano allestito un tavolo sull’angolo più lontano dai “due” e ora, rammaricati per la mancanza del loro pupillo, manifestavano freddezza anche a Mauro. Rivolgevano al “Sanfabianino” fuggevoli occhiate, parlottando, perché cogliesse l’atmosfera cordiale del loro affiatamento e percepisse la sensazione di sentirsi un intruso che aveva distrutto l’armonia di gruppo.
Fabrizio che non voleva alimentare il senso di colpa in Silvia, la rasentava perché facesse un rigo storto, quindi si avvicinava a Mauro e lo spingeva col ginocchio per fargli perdere l’equilibrio.
Mauro respirava piano come temesse di dare fastidio perfino col soffio delle narici. «Silva abbiamo combinato un bel casino», mormorò.
«Oh insomma» reagì lei «comincio a non poterne più di questa storia.»
«Che fossi andata a mangiare la pizza con Stefano non me lo avevi riferito.»
«Ho pensato non fosse importante.»
«Vi siete baciati sulla bocca. A me hai raccontato che nemmeno sulla guancia lo avevi fatto.»
«È stato un bacio frettoloso che ho accettato senza quasi desiderarlo.»
«Spiegami che significato abbia, “senza quasi”. Vorresti intendere che un po’…»
«Ascolta Mauro, quel misero bacio sarebbe potuto divenire il primo di tanti altri, appassionati, perché avremmo sicuramente dato seguito a quel primo appuntamento, se non ti avessi conosciuto. Ti soddisfa questa spiegazione? Ora l’episodio è divenuto un fatto senza importanza.» Silvia notò un’espressione ancora incerta sul volto di Mauro. Si alzò per imprimere maggiore forza alle parole. «Averti raccontato quell’episodio, in Valcorniola, mi avrebbe messo a disagio. Capiscimi per favore.»
«Silvia ti capisco. Ora torna giù.»
«Nient’affatto! Avresti dovuto lasciar correre invece di rinfacciarmelo», reagì lei risoluta. «Sei stato proprio tu a dirmi quanto sia sciocca la gelosia retroattiva. Ti rammento che hai fatto molto di più con quella tua paesana.»
«Silvia abbassa la voce.»
«Invece la alzo quanto mi pare e immagino chi sia stato a riferirtelo.» Silvia si diresse verso il tavolo d’Arturo a lunghe falcate. «Sei stato tu!» gridò incollerita.
Intimorito dalla grinta dell’amica, lui rimase interdetto. «Sono stato io a fare cosa?»
«Hai capito benissimo a che cosa mi riferisco. Non fare quella faccia da rimbecillito, Bizza.»
« Io a Stefano non gliel’avrei chiesto se avessi saputo che tu e quel Sanfabianino là vi eravate messi assieme. Lui era a un passo e ha sentito. Non sono uno spione.»
«Ficcanaso sì. E non ti permettere di chiamare Mauro, “quel Sanfabianino là” tantomeno biascicare “che mi sono messa con lui”.»
«Non è vero forse?»
«Tu hai usato quell’espressione in senso dispregiativo. Ora perché vi state comportando così? Non ho fatto promesse a Stefano. Mai! Lo volete capire stronzi?»
Monica stava per aggiungere qualcosa ma la voce tagliente di Silvia la fece desistere.
«Monica non t’impicciare.»
«Silvia calmati», si raccomandò Franco. «Noi volev…»
«Volevate escludermi perché ho rivolto i miei sentimenti verso una persona estranea dal gruppo? Begli amici che ho trovato! Non avrei mai pensato che foste così settari.»
Arturo ebbe un ritorno polemico e disse con un sarcastico risolino: «Mentre il cane si gratta la pecora va via.»
«Che cosa intendi Bizza?» gli chiese Silvia stringendo a pugno le mani.
Arturo, anziché rispondere, ostentò noncuranza maneggiando squadra e matita. Non aveva terminato di trarre due linee per formare un angolo retto, quando gli giunse la voce tagliente di Silvia.
«Allora te lo dico io che cosa abbia voluto significare quella tua allusione: mentre Stefano attendeva fiducioso, io l’ho ingannato. Non è così Bizza?»
«Embè, lui non meritava che tu…»
Silvia non gli fece terminare la frase e, mentre gli gridava di andare al diavolo lui e tutti i suoi proverbi, afferrò il pannello di paniforte su cui lavorava il gruppo e lo ribaltò con quel che c’era sopra. Asciugandosi gli occhi con un gesto rabbioso raggiunse l’uscio e gridò con voce sdegnata: «Da voi non tornerò più!»
Mentre, dal piano di sotto, risuonavano, sull’impiantito della sala, i colpi provocati dal perticone dell’Allegrini, Mauro afferrò il golfino di Silvia, poggiato sullo schienale di una sedia e si affrettò a raggiungerla.
La trovò seduta sull’ultimo gradino delle scale, il capo poggiato ai montanti della balaustra. «Qui fa fresco», disse simulando un brivido e sicuramente hai sudato un po’per l’arrabbiatura», le disse coprendole le spalle con la maglia. Le sedette accanto cingendola alla vita con cautela per timore che reagisse bruscamente. «È colpa mia. Scusami.»
«Non hai colpa di niente Mauro. Immagino quanto ti abbia turbato quella bugia. Non avrei mai pensato che i sentimenti facessero divenire tutto così complicato.»
Rimasero lì anche dopo che l’interruttore automatico ebbe spento la luce.
Sciolto dal pianto, il muco costringeva Silvia a tirare su col naso. «Mauro ho bisogno dei fazzolettini. Puoi andare a prendermi la borsetta, per favore, o dovrò soffiarmi con le dita.»
Nemmeno in seguito lui riuscì mai a capire perché quella fu l’espressione che più d’ogni altra gli rivelò quanto l’animo di Silvia fosse semplice. “O dovrò soffiarmi con le dita.”
«Bizza, miseriaccia ladra, sei sempre il solito piantagrane», lo redarguì Livio scattando in piedi. «Che hai combinato, stavolta, per scatenare questo pandemonio?»
«Ieri sera ho soltanto chiesto a Stefano se fosse riuscito a baciare Silvia. Mauro conversava con noi ed ha sentito. Forse ha voluto chiederle un chiarimento perché ignorava la “faccenda”.
«Così hai imbastito l’ennesimo casino.»
«Chi poteva immaginare che “quella” si fosse fidanzata con “quello”?»
«Bizza, miseriaccia ladra, quando imparerai a capire che dovresti tenere serrata la tua boccaccia?» rincarò la dose Fabrizio.
«Ascolta Fabry», reagì Arturo grintoso «la morale non farmela proprio tu. A noi, di Stefano, c’è dispiaciuto molto e se non fosse comparso il sanfabianino, Silvia si sarebbe fidanzata con lui.» Per trovare solidarietà si voltò a guardare gli amici che annuirono con un piglio severo.
«Gli abitanti di Sanfabiano si chiamano sanfabianesi, non sanfabianini. Non appiccicare nomignoli spregiativi alle persone», lo rimproverò Livio.
La risposta del Bizza fu un grugnito nasale.
«Ascolta Arturo», gli parlò Fabrizio posandogli una mano sulla spalla «capisco l’amicizia che vi lega a Stefano, però i sentimenti non si possono indirizzare a nostro piacimento.»
«Stefano è un ragazzo onesto, con intenzioni serie», insisté il Bizza «invece quel Mauro non si sa che tipo sia.»
«È un ragazzo a posto anche Mauro», intervenne Livio.
«Come fai a giudicarlo se lo conosci appena?» replicò Arturo.
«Oh, insomma, smettiamola con questa storia», eruppe Fabrizio.
«Lasciateci almeno il tempo di digerirla», proferì Franco. «C’eravamo talmente abituati all’idea che Stefano e Silvia si sarebbero fidanzati che ci siamo rimasti troppo male.»
«Spesso le cose non vanno come vorremmo», chiosò Livio. «Franco, se ben ricordo conoscesti tua moglie perché lei riuscì a prendere la tua stessa corriera grazie al fatto che avvisasti prontamente l'autista.»
«Che cosa c’entra questo fatto con Silvia e Mauro?» ribatté Franco.
«Nulla a parte la casualità che accomuna entrambi gli eventi. Ogni giorno capitano molti fatti e accade che qualcuno di essi cambi la vita.»
Fabrizio notò Arturo mettersi le mani dietro la schiena, incrociarle e fare le corna con entrambe. «Bizza che stai facendo?» domandò lisciandosi i baffetti per celare un risolino sardonico.
Preso in castagna, Arturo non trovò di meglio che replicare: «Con una mano grattavo il palmo dell’altra, perché quando si è assieme ad altra gente e capita il prurito in quel punto, galateo vuole che ci si debba grattare tenendo le mani dietro la schiena.»
«Bizza che t’inventi?» replicò Fabrizio. «Ho visto benissimo quel che facevi: le corna con entrambi le mani tenendo gli avambracci incrociati. Temi che nelle casualità rientri anche quella che potrebbe caderti una tegola sulla testa e ti faccia secco?»
«Morto io, morti tutti!» esclamò Arturo.
«In ogni caso, come diresti tu Bizza, molte cose il tempo cura che la ragion non sana», aggiunse Livio «e il tempo è il migliore dei medici per i mali del cuore. Stefano non faticherà a trovarsi un’altra fidanzata. Di ragazze come Silvia il mondo è pieno.»
«Bella come lei? Ne dovresti scartare novecentonovantanove su mille», obiettò Arturo.
«Bizza stavolta ti do ragione», gli rispose Fabrizio.
Arturo mugugnò ancora qualcosa. Poi cominciò a rimettere in sesto il tavolo aiutato dagli amici.
«Tacete», bisbigliò Linda «arriva qualcuno.»
Serio ma senza esprimere un’aria adirata, Mauro entrò per prendere la borsetta di Silvia.
«Non tornate ad aiutarci?» gli chiese Livio cordiale.
«Stasera non mi pare il caso.» Mauro fece un laconico cenno di saluto e uscì.
«Torneranno?» si augurò Franco.
«Domani telefonerò a tutti e tre», promise Livio «ma se volete evitare che appioppi una fila di pedate a qualcuno, lasciate fare a me. Ci siamo intesi Bizza?»
CAPITOLO SETTIMO
L’assemblea degli ecologisti
« …perciò nel documento di ricorso», precisò Fabrizio «oltre che rilevare l’importanza paesaggistica della Valcorniola e della biodiversità, sarebbe importante allegare uno studio morfologico del luogo perché la Valcorniola presenta aspetti di notevole permeabilità. Ci servirebbero per evidenziare difficoltà tecniche…»
Poiché le sedie non erano state sufficienti perché tutti si accomodassero, Monica, Linda e Arturo, assieme a Silvia e Mauro, si erano sistemati sull’ultima delle due panche improvvisate con tavole da ponteggio e pile di vecchi mattoni scovati in angolo della soffitta. Stefano, lo sguardo incupito, all’apparenza intento a seguire Fabrizio, si era messo un po’ in disparte accanto a Franco.
La biondina aveva tentato di sedersi accanto a Mauro ma il Bizza, che voleva riappacificarsi con i novelli fidanzati, era riuscito a precederla di un soffio. L’altro posto, quello alla destra di Mauro, era stato impossibile che lo occupasse perché Silvia, che nemmeno un istante aveva perso di vista il suo gironzolare, era rimasta appiccicata al braccio di Mauro come ci fosse incollata.
Dopo avere scrutato la “civetta” accendersi una sigaretta, imitando le movenze delle dive anni quaranta, Silvia si sentì fremere. La vide accavallare le gambe ammiccando Mauro con la coda dell’occhio per accertarsi che stesse occhieggiando. Accese pure lei una sigaretta per tenere a freno l’agitazione ma dovette spegnerla perché Arturo incominciò a sbracciarsi per disperdere il fumo, minacciando di andarsene e Linda non avrebbe esitato ad approfittarne per sedersi accanto a Mauro, magari con la scusa di chiedergli qualcosa.
Mauro si sforzò di non cadere nella tentazione di sbirciare, poi cedette ma si sentì rifilare sulla parte interna dell’avambraccio, dove la pelle era più tenera, uno di quei pizzicotti che lasciavano viola. «Silvia mi hai fatto male», si lamentò
«Te ne becchi uno più forte se non la smetti di lustrarti gli occhi sulle gambe di Linda.»
«Sarà inoltre indispensabile», seguitò Fabrizio «studiare tutte le normative che ci possano consentire di ritardare la messa in opera del progetto. Le leggi sono una giungla in questo campo e un esposto alla Procura della Repubblica potrebbe rivelarsi più efficace che cento manifestazioni di piazza. È un impegno che richiede la consulenza di un legale, esperto in ordinamenti ambientali, capace di frugare tra i commi degli articoli per scoprire conflitti di regole e ogni cavillo utile al nostro scopo. Insomma dobbiamo agire con accortezza e senza indugi. Mi pare d’avere spiegato il necessario per aprire il dibattito. Ora, se volete intervenire per esprimere la vostra opinione e proporre altri suggerimenti. Ah», aggiunse Ridolfi «è importante che le vostre associazioni sottoscrivano il ricorso, se ci sarà condivisione per il contenuto, naturalmente.»
Luigi Gori, del gruppo AMICI DEL LUPO, parlò per primo. «Ingegnere l’iniziativa è giusta ma noi siamo quattro gatti. La nostra associazione esiste solo sulla carta. Eravamo partiti con entusiasmo ma ci siamo arenati. Io e Rossi aderiremo al vostro circolo se quest’anno non riusciremo a riorganizzarci.»
Fu Livio a rispondergli. «Gigi ne saremmo lieti. Altri condividono l’impostazione della nostra iniziativa?» domandò rivolgendosi all’assemblea.
«Siamo d'accordo», intervenne Valeria Livi di “TERRA NOSTRA”. «Ringraziamo Silvia per averci invitato. Purtroppo siamo nella stessa situazione degli AMICI DEL LUPO. È trascorso un anno dall’ultima riunione che abbiamo fatto e la persona che avrebbe dovuto essere il nostro coordinatore non ci ha mai rappresentato ma non possiamo sostituirci a lui. Dovremmo prima sollecitarlo a indire una riunione per discuterne.»
«Si comincia bene», bofonchiò Arturo. Fece una smorfia di disappunto, si alzò in piedi e tossicchiò.
«Bizza vuoi dire qualcosa?» intervenne Livio.
«No. Mi sono alzato per aprire la finestra. Non è mezzora che discutiamo e c’è già tanto di quel fumo che si potrebbe affettare.»
«Non ha torto», intervenne Dino Danesi dell’AIDA, Associazione Italiana per i Diritti degli Animali. «Stiamo affumicando come aringhe. Per ciò che riguarda la sottoscrizione del ricorso noi non abbiamo problemi.»
«Anche noi ma per evitare che a qualcuno sia messo il veto di sottoscrivere l’osservazione senza essere stato delegato dalla propria associazione, lo farà a titolo personale», suggerì Francesca Guadagni di GREENPLANET.
Arturo, tornato a sedersi, notò che Linda gli aveva occupato il posto. Malizioso com’era figuriamoci se non si era accorto dell’interesse che la biondina provava per Mauro. Infilò il capo tra i novelli fidanzati e bisbigliò a entrambi: «Pace ragazzi?»
«Sei un grandissimo ficcanaso», gli rispose Silvia con un tono d’affettuoso rimprovero.
«Silvia mi spiace d’essermi comportato così. Ti parlo anche per conto di Monica e Franco. La nostra è stata una reazione spontanea. Lo sai quanto stimiamo Stefano ma avremmo dovuto sapere che non si può fare rientrare l’olio nelle olive. Vi auguriamo un gran bene.» Approfittò della carezza che Silvia gli fece per chiederle se potesse mandare una delle sue collaboratrici presso il suo emporio a prendere qualche scampolo di stoffa per confezionare cappottini per cani.»
«Certo che puoi.»
«Preferirei fossi tu a rovistare tra le pezze», precisò Arturo «oppure il tuo babbo in seconda battuta. Tua madre e tua sorella sono un po’ spilor… avarette.»
«D’accordo Bizza fai venire la tua collaboratrice di pomeriggio una mezzoretta prima che apriamo e dille di suonare il campanello.»
«Silvia sei un tesoro.» Arturo si rivolse a Mauro e gli mormorò: «Maestro che cosa si prova a essere corteggiati da due ragazze da calendario?»
«Calendario? Non capisco», rispose Mauro fingendo di non avere inteso.
«Mauro non fare la gattamorta. Sono convinto che sarà la mora a spuntarla. La do per novantanove a uno. Lascio una possibilità alla bionda perché nulla è certo al mondo.»
Silvia sollevò gli occhi al soffitto sbuffando. «Bizza smettila!»
«Come sei diventata suscettibile. Non accetti una battuta?»
«Non farmi arrabbiare un’altra volta. Non potevi startene seduto cribbio?»
«Mica potevo asfiss… to’ guarda! Linda mi ha occupato il posto.»
«Bizza stasera è la volta buona che ti strozzo se non ti levi di torno», sibilò Silvia.
Arturo sedette accanto alla biondina, le rivolse un’occhiata luciferina e fece il nesci. «Hai cambiato posto?»
«Sì Bizza. Lì c’era un bitorgnolo.»
«Un bito che?»
«Un bitorgnolo, un bitorzolo. Come diavolo la chiami una protuberanza?»
Arturo mosse le natiche in modo esagerato e le disse a bassa voce:
«Boh! Io non lo sento. “Lo so io quali protuberanze ti piacciono.”
«Invece a me dava fastidio.»
«Linda, sai che di dico in confidenza? Non ci riuscirai», le disse il Bizza con un tono di cigolante falsetto.
«Cos’è che non dovrebbe riuscirmi?»
«A soffiare Mauro a Silvia» bisbigliò lui accostandole la bocca all’orecchio.
«Bizza che cosa ti viene in mente?»
Arturo strizzò gli occhi e proseguì suggerendole in modo confidenziale: «È questo che ti frulla per il capo ma ti consiglio di tentarlo subito il colpaccio se vuoi avere qualche esigua speranza di riuscirci prima che un’energia inarrestabile radichi tra i due colombi un sentimento duraturo.»
Linda arrossì e alzò il tono della voce. «Arturo perché non fai gli affari tuoi?»
«Linda, per piacere, un po’ d’attenzione», la invitò Livio. «E tu, Bizza, finisci quel che hai da dirle e chetati.»
«Non c’è metodo peggiore come quello di costruire dighe per causare guasti ambientali», disse Carlo Boncompagni di GREENPLANET un geologo sulla trentina. La sua figura asciutta e il volto coperto da barba incolta gli conferivano un aspetto da ricercatore in campo. «Giacché c’è un bisogno crescente d’acqua dolce» spiegò «è facile convincere la gente dei benefici che la realizzazione degli invasi artificiali apportano perché è indubbio che nell’immediato ci siano. Purtroppo esiste il rovescio della medaglia e i danni si manifestano a livello planetario solo nei decenni successivi. Le dighe annientano molte forme di vita e coloro che le hanno volute mai si sono posti il problema delle interdipendenze di una catena alimentare animale generatasi in centinaia di migliaia di anni. I corsi d’acqua dolce del pianeta», proseguì «li abbiamo sbarrati tutti e seguitiamo a farlo costruendo invasi così vasti che quello previsto sul Rio Maestro, in Valcorniola è, scusate il paragone, come la pisciatina di un topo confrontata con quella di un elefante. Gruppi di ricercatori europei», seguitò a chiarire il geologo «hanno recentemente condotto studi sulla quantità d’acqua dolce di cui l’umanità può disporre oggi rispetto a quaranta anni fa. Ebbene sono giunti alla medesima conclusione, sostenendo che è diminuita del 40% a fronte di un aumento demografico di due miliardi mezzo di persone e diminuirà ancora in conseguenza della continua costruzione di dighe. Il lago d’Aral, la più estesa riserva di acqua dolce del mondo, aveva una superficie di oltre settantamila chilometri quadrati, all’inizio del secolo scorso; per darvene un’idea, considerate il lago di Garda moltiplicato per duecento. Purtroppo è stato ridotto a un acquitrino inquinato, quasi senza vita, in conseguenza dello sbarramento dei suoi immissari e di deviazione delle loro acque a scopo irriguo. Per darvi un’idea del disastro ambientale», spiegò «provate a pensare al mare adriatico prosciugato da Trieste fino ad Ancona.»
Ad Arturo venne una battuta agra. «I sovietici usavano l’acqua per irrigare i pali della luce se i cereali li acquistavano dall’America?»
«Anche gli americani hanno causato disastri ambientali!» A intervenire era stato un giovane sulla ventina, con barba e capelli lunghi.»
Ancora ridacchiante per la felice battuta, Arturo si accigliò di colpo e ribatté: «Giovane dall’aspetto sessantottino, posso sapere come ti chiami?»
«Alvaro.»
«Piacere io sono Arturo Bizzarri.»
Livio e Fabrizio si scambiarono occhiate preoccupate.
Avere trovato l’occasione giusta per sciorinare un’arringa, ad Arturo stimolò la loquacità al punto che già sentiva il ragionamento compiuto danzargli in testa ancor prima di tradurlo in parole. «Alvaro», incominciò a sentenziare mettendosi a braccia conserte «nell’ecocidio inteso come distruzione della vita sulla Terra, tutti gli uomini sono coinvolti.» Il Bizza fissò il ragazzo con una mitezza volpina e riprese a polemizzare: «In ogni modo, “neocompagno”, la mia voleva essere solo una battuta.»
«Non le permetto di sfottermi», reagì il ragazzo. «Poiché mi ha etichettato come soggetto di sinistra, mi può chiarire che specie di pesce sia lei?»
Arturo assunse una posizione di sfida e poggiò le mani sui fianchi. A nulla valse che Linda lo strattonasse per un braccio nel tentativo di farlo desistere dal replicare. «Sono un ghiozzo. M’infilo sotto i sassi per difendermi dall’indottrinamento e continuare a essere libero. Ora ascoltami Alvaro», replicò con voce da raganella: «Poiché dimostri vivacità intellettuale talmente ordinaria che il tuo cervello sembra un fiume banalizzato, dopo che qualcuno ha pensato di togliere a esso le anse, desidero chiederti: mastichi un po’ di geografia?»
«Che intende dire?» replicò il ragazzo quasi con foga.
«Semplice», argomentò Arturo «sapresti che il lago d’Aral si trovava nell’ex Unione Sovietica e che c’era anche la centrale atomica di Cernobyl da quelle parti, saltata per aria nell’ottantasei. Le radiazioni di quella catastrofe sono ancora sparse in mezzo mondo.»
«Lo sperpero delle risorse naturali e delle manipolazioni genetiche, sono opera delle multinazionali americane e gli accordi per ridurre i gas serra, sono sempre gli americani a ritardarne la sottoscrizione. Lei dovrebbe parlare anche di questo.»
«Sentitelo quante cosette conosce sto ragazzo», gracidò il Bizza «però ha la memoria corta perché ho già detto che tutti siamo responsabili.» Occhieggiò tra i presenti facendo roteare la mano in uno smaccato gesto sarcastico. «Lo aspettavo un tipo come lui che venisse a erudirmi.»
«Io c’ero quando la gente si scontrava con le forze dell’ordine per manifestare contro la globalizzazione dell’economia mondiale», replicò il ragazzo puntandosi il pollice contro il petto. «Lei dov’era?»
Arturo s’impose una brusca calmata. Poi, accentuando il tono asprigno della voce, ribatté: «Ero a casa, cocco bello e mentre voi rovesciavate i cassonetti dell’immondizia e incendiavate le campane per la raccolta differenziata, io denunciavo il mio vicino di casa perché, dopo aver cambiato l’olio dell’automobile col metodo fai-da-te, buttava quello esausto nelle fogne. Nel mio rione mi sono inimicato molte persone alle quali ho rimproverato di non rispettare l’ambiente ma è un prezzo che pago con piacere perché la mia è una causa giusta. Voi che razza di eco pacifisti credete di essere, se nemmeno vi scomodate a portare le buste del differenziato alle campane, dopo che i vostri genitori si sono assunti l’obbligo morale di riempirle? Non mi è mai capitato di vedere una persona sotto i trent’anni che lo facesse, e bada che passeggio molto.» Vedendo il ragazzo arrossire, al Bizza venne spontaneo replicare: «Alvaro, saresti un’eccezione a conferma della regola se lo facessi, ma sono convinto che nemmeno tu lo faccia perché non hai mai portato il materiale differenziato alle campane. Non è così?»
«Signor Bizzarri non nego che abbia ragione», ammise il ragazzo, attenuando il tono della voce «ma la devo informare che il sottoscritto da tre anni organizza, con un gruppo di altri ragazzi, la raccolta degli alberi di natale, che altrimenti andrebbero perduti, per un programma di riforestazione.»
«Quanti ne sono stati piantati?» domandò il Bizza, gli occhi strabuzzati per l’apprensione.
«Diverse migliaia.»
Arturo poggiò le mani al petto, come se temesse che la notizia, appena data dal ragazzo, potesse scatenargli un attacco cardiaco. «Disastro ecologico!» strepitò. «Ogni albero che piantate può provocare un’infestazione d’immani proporzioni. La dabbenaggine, la sprovvedutezza e l’ignoranza vostre potrebbero distruggere milioni di piante.»
«Che sta dicendo?» insorse Alvaro.
«Che gli alberi di natale», sbottò il Bizza fissando il ragazzo con un’espressione angosciata «potrebbero diffondere microrganismi letali, se provenissero da coltivazioni intensive malamente controllate. Devono essere rigorosamente esaminati prima della piantumazione e, in caso di sospetta malattia da parassiti, bruciati immediatamente. Ragazzo, cessa la tua deleteria attività e informa i tuoi amici, perché se vi sorprendessero i forestali, rischiereste pure una multa salatissima.»
Livio batté ripetutamente la mano sulla scrivania. «Arturo, per favore, basta!»
«No, Livio, non basta», seguitò il Bizza ormai lanciato «ho altre cose da dire: parecchi dei ragazzi che vanno a fare a botte con la polizia, per manifestare contro la globalizzazione, non fanno niente per favorire il risparmio energetico. Nemmeno le cose più semplici.»
«Che cavolo vuol dimostrare?» reagì il giovane accendendosi nervosamente una sigaretta.
«Che molti di voi si comportano come mio nipote che ciancia della necessità di produrre energia con fonti rinnovabili, ma obbliga mia sorella a fare il giro delle stanze dieci volte il giorno per spengere le luci che lui lascia sistematicamente accese. Ora, sentite questa», seguitò infervorato rivolgendosi a tutta l’assemblea. «Ve la riferisco perché non ho motivo di ritenerla una panzana giacché l’episodio me l’ha riferito un religioso. Ebbene un gruppo giovanile “eco pacifista” che aveva partecipato a una marcia della pace ad Assisi, si è recato a visitare la cascata delle Marmore, ma i ragazzi stanchi di portarsi appresso uno striscione in cui avevano scritto “PACE AZZURRA-FUTURO VERDE”, si sono sbarazzati del cartellone scaraventandolo nella cascata. Potevano essere più scriteriati di così?» Il Bizza, mentre proclamava, aveva pure adocchiato una ragazza che, seduta accanto al giovane, masticava un chewing-gum, biascicando rumorosamente.
«Bizza, smettila o sarò costretto a toglierti la parola. Hanno diritto di parlare anche gli altri», lo redarguì Livio.
«Va bene Livio, la smetto ma lascia che dica due ultime cosette ad Alvaro.»
Fabrizio assunse un’aria di rassegnata sopportazione e s’infilò le mani tra i capelli.
«Alvaro, posso chiederti di domandare alla ragazza, che ti siede accanto, di rimettere il masticone nella carta dalla quale l’ha tolto? Il suo ruminare mi fa immaginare il percolato colato da una discarica abusiva di rifiuti tossici e nocivi! E spengi quel cazzo di sigaretta!» Arturo scrutò l’intera assemblea e sentenziò: «Smettetela di fumare se volete che siano costruite meno dighe, perché parecchia acqua la succhiano le piantagioni di tabacco. Almeno questo lo capite, arcipelago verde dei miei coglioni?»
Tutti spensero le sigarette e la ragazza, arrossita per l’imbarazzo, ripose la gomma masticata in un fazzolettino di carta. Seguirono momenti di silenzio, rotto da colpi di tosse.
Il Bizza si lasciò cadere sulla panca improvvisata, teatralmente affranto. Anche quella sera, al prezzo d’essere stato riconfermato “superrompicoglioni”, aveva riportato la sua dialettica vittoria. Sentì Monica che gli diceva: «Arturo non ti pare d’averlo mortificato troppo quel ragazzo, e la sua amica c’è rimasta male. Smettila di essere così intollerante. Tra loro ci sono giovani che ci credono davvero in certi valori. Non di vedere soltanto le loro contraddizioni.»
Il Bizza guardò Monica con gli occhi ancora spiritati dai quali traspariva un’ombra di rammarico.
Carlo Boncompagni disse, con saggio distacco dalla polemica: «Vorrei aggiungere qualcosa, se permettete.»
«Prego vai avanti», lo sollecitò Livio.
«Al mondo sono state costruite 40 mila dighe, superiori ai 15 metri di altezza. Finora, però, nessuno è riuscito a valutare i benefici effettivi che hanno portato e spesso le utilità sono state gonfiate esageratamente in fase di progettazione e finanziamento, mentre i costi di costruzione, calcolati grossolanamente, sono accresciuti a dismisura. Per non parlare poi dei problemi di sicurezza che le dighe mal costruite rappresentano. Inoltre gli invasi artificiali, interrompendo il naturale scorrimento delle acque, impediscono a fanghi e ghiaie di giungere al mare e la riduzione d’apporto di questi materiali favorisce l’erosione delle coste, compreso l’aumento della salinità in corrispondenza delle foci cagionato da un minore afflusso d’acqua dolce. È un pericoloso irresponsabile chi sostiene che ogni metro cubo d’acqua dolce giunto al mare sia una ricchezza sprecata. Insomma la costruzione di una diga è un vero e proprio shock ecologico, un atto criminogeno nei confronti della natura.»
«Amen!» sentenziò il Bizza. «Quando capiremo che l’unico modo di rispettare l’ambiente è di lasciare che la natura faccia il suo corso?»
«Dovremmo non esistere», ironizzò Livio.
«Un invaso», seguitò Carlo riprendendo il suo ragionamento «potendo essere usato come regolatore di piene, impedirà lo straripamento del fiume a valle. Questo può sembrare un bene ma col passare degli anni la sua funzione si rivelerà più dannosa di un allagamento. Le terre alluvionali di pianura, maggiormente coltivate, non riceveranno più il deposito del limo, ottimo fertilizzante naturale trasportato dalle piene e avranno sempre più necessità di concimi chimici che daranno la possibilità di sfruttare la terra fino all’inverosimile facendola divenire più sterile della sabbia del deserto. Inoltre l’alveo del fiume, ricevendo quantità d’acque regolate, sarà soffocato dalla vegetazione delle sponde perché mancherà la funzione naturale di ripulitura delle grosse portate periodiche. Occorrerà perciò l’intervento dell’uomo che, per risparmiare tempo e manodopera, non sfoltirà manualmente la vegetazione ma userà le macchine, moltiplicando i danni.
C’è un’altra grave emergenza che dovremo affrontare in futuro ed è quello del cambiamento climatico. Periodi di siccità si alterneranno a nubifragi. Ebbene queste bombe d’acqua saranno rese ancora più disastrose dal cambiamento globale del clima e dallo sviluppo urbano. Abbiamo costruito e seguitiamo a farlo in aree alluvionali o addirittura sugli argini dei corsi d’acqua. Soltanto in Italia sono cementificati, perciò resi impermeabili, con catrame e cemento, cento sessantuno ettari di territorio ogni giorno.»
Il Bizza, come se quei chiarimenti fossero per lui cose risapute, si era estraniato dalla spiegazione e sollecitava Linda ad ascoltarlo. «Carlo Boncompagni ha sale in zucca. Ti suggerisco di farci un pensiero stabile perché gironzoli a vuoto da troppo tempo. Potremmo parlarci assieme dopo la riunione e chiedergli quali effetti provochino fitofarmaci, fertilizzanti chimici e pesticidi sugli anfibi. Questa è una domanda appropriata perché le rane si stanno estinguendo, poi io sgattaiolo, tu rimani a parlarci e… sai com’è no? Un discorso tira l’altro e potrebbe scapparci un invito in pizzeria. Sono convinto che lui non si farà scappare l’occasione di uscire con una ragazza carina di par tuo. Strinse l’occhio all’amica in un gesto di complicità. Poi aggiunse, stropicciandosi le mani come per liquidare un problema del quale era convinto di avere trovato soluzione. «Coraggio, Linda! Conosci il detto “ogni occasione lasciata è persa”?
«Arturo, per favore, smettila di pontificare e fammi ascoltare.»
«Ti ho dato un ottimo consiglio, Linda», terminò lui abbassando il tono della voce.»
«Torniamo a riflettere un minuto ancora», soggiunse Boncompagni «sui guasti provocati dagli sbarramenti artificiali dei fiumi. Ebbene il corso d’acqua, che riprende a valle della diga, ricevendo acque fredde pompate dai fondali del lago artificiale, subirà sconvolgimenti biologici dovuti allo sbalzo termico e tutta la vita fluviale preesistente, quella definita autoctona in gergo, si estinguerà per decine di chilometri. Si è provato a rimediare immettendo pesci adatti a temperature più rigide, ma con risultati mediocri perché un ecosistema è fragile come un castello di carte e se si altera, crolla irrimediabilmente.»
«Il malanno e l’uscio addosso», chiosò il Bizza.
«Proprio così», convenne il geologo. Dovremmo almeno proporre, come alternativa alla costruzione della diga, l’istituzione di una riserva naturale per la protezione della nuova fauna che s’insedierà sul lago.»
Tutti assentirono.
«Cercheremo di imprimere incisività alla nostra azione coinvolgendo parlamentari di governo e opposizione», disse Fabrizio, quindi rivolse lo sguardo all’ultima fila. «Il nostro amico Mauro, ha già chiesto un appuntamento al suo sindaco per conto della nostra associazione, perciò dobbiamo costituire una delegazione che rappresenti il comitato. L’appuntamento è fissato per lunedì mattina alle dieci e trenta», precisò Ridolfi.
L’assemblea convenne che facesse parte della delegazione un numero ristretto di persone: Livio, Fabrizio, Dino Danesi e Mauro.
Subito dopo Arturo spronò ancora Linda a fare conoscenza con Carlo.
«Mamma mia quanto sei impiccione, Bizza. Ti sei messo a fare il mezzano?»
«Quale mezzano d’Egitto. Voglio soltanto aiutarti. Potresti chiedere a Carlo quali uccelli lacustri s’insedierebbero sul lago se facessero la diga. Un’appassionata ornitologa come te potrebbe ricevere informazioni interessanti.»
«Bizza c’è qualcosa di provocatorio in quel che hai detto?»
«Lungi da me l’idea di sottintendere. Volevo spronarti ad attaccare bottone. L’eloquenza non ti manca.»
«Arturo ho già il ragazzo.»
«Quello dell’altra sera? Mah! Non è il tuo tipo. A te piacerebbe Mauro ma lui è già proprietà privata. Lo conosci, Linda, quel proverbio che dice: non entrare tra fuso e rocca se non vuoi essere filato?»
«Bizza», replicò Linda, infastidita: «che accidenti vuoi ancora intendere?»
«Che rischi di rimediare una scarica di botte da Silvia se insisti. Occhio che lei te le suona davvero.»
Mentre Arturo cercava di convincere l’amica a desistere d’avere contatti privati con Mauro, Fabrizio disse ai presenti: «Ora abbiamo un pittore tra le nostre file e se lunedì avanzerà tempo, andremo a vedere i suoi dipinti.
Poiché molti si voltarono per indirizzare compiacenti sorrisi all’ospite, Silvia si affrettò a tenerlo sottobraccio perché tutti sapessero del loro fidanzamento.
«Mauro, posso chiederti una cosa?» disse Arturo che aveva gli occhi intrigati dal pensiero di quel che stava per domandargli. «Hai mai lasciato una tela in bianco, dopo avere pensato di dipingerci che so, una natura morta, un nudo, un paesaggio?»
«Intendi dire che sia il pensiero creativo a essere importante piuttosto che la realizzazione dell’opera stessa?» argomentò Mauro.
«Accipicchia come sei perspicace!» esclamò Arturo, stupito.
«No non mi è mai capitato», rispose Mauro, quindi riprese ad argomentare: «Poni il caso che volessi usare un foglio da disegno bianco per farti il ritratto, però mi limitassi a osservarti senza eseguire un solo puntino sulla carta, poi mi accontentassi di compiacermi soltanto al pensiero di averti ritratto, quindi esponessi il foglio nella mia bottega, che cosa vedrebbero i miei clienti, Arturo?»
«Un cazzo, piuttosto che la faccia di un rompipalle», anticipò Fabrizio provocando generale ilarità. Vide il Bizza mugugnare con l’espressione di chi cercava una replica senza riuscire a trovarla. «E non divaghiamo con altre scemenze contorte.»
«Possiamo terminare se non ci sono altri interventi», propose Livio.
Fabrizio Ridolfi fu eletto portavoce del comitato, all’unanimità. Seguì la costituzione di un gruppo di lavoro formato da Livio, Fabrizio, Mauro e Danesi.
Nella stanza si levò il rumore raschiante della gente che spostava le sedie per alzarsi e quello del parlottio d’ogni fine riunione.
«Mi raccomando, fate meno rumore possibile», avvertì gli ospiti Franco «o l’inquilino di sotto ci sfonderà l’impiantito a pertic…»
Fu interrotto dalla rovinosa caduta dei mattoni di una panca improvvisata.
Non passarono cinque secondi che all’assemblea giunsero i colpi del perticone dell’Allegrini.
«Andiamo a prendere il gelato da Pistacchio?» propose Arturo ricevendo unanime assenso.
«Ah ragazzi», li avvisò Fabrizio reprimendo un ghigno beffardo «se il Bizza dovesse prendere un gelato al cono con pistacchio, nocciola e cioccolato, stategli lontano almeno tre metri se non volete rischiare di tornare a casa con i vostri abiti trasformati in tute mimetiche.»
Il Bizza dovette subire la risata digrignando i denti sotto un risolino forzato. Notando alcuni soffermarsi presso la scrivania, domandò: «Voi non venite?»
«Ci tratteniamo dieci minuti per redigere un comunicato stampa e vi raggiungiamo», rispose Fabrizio.
«Posso esservi d’aiuto?»
«Si tratta soltanto di quattro righe», gli spiegò Fabrizio con fare frettoloso.
«Potrei agevolarvi a trovare qualche espressione particolare», insisté Arturo.
Fabrizio rimase con lo sguardo incollato alla scrivania, per non incoraggiare l’amico a soffermarsi. Fece cenno agli altri di fare altrettanto o Arturo li avrebbe subissati con tante di quelle proposte e suggerimenti che l’indomani mattina, all’ora di colazione, sarebbero stati ancora impegnati a scrivere la brutta copia.
Il Bizza capì l’antifona e si affrettò a imboccare il corridoio. Raggiunse Alvaro, gli appoggiò una mano sulla spalla e iniziò una serrata conversazione. «Lo sapevi che una mucca produce in media settecento litri di metano il giorno, scoreggiando?»
«Chi se lo sarebbe immaginato. Anche noi lo produciamo?» domandò il ragazzo.
«Certamente.»
«Allora se qualcuno accendesse un fiammifero vicino al nostro deretano mentre scoreggiassimo, questo potrebbe trasformarsi in lanciafiamme?»
«In teoria sì.»
Proruppero in una sgangherata risata.
La “soffiata”
Un cane, all’apparenza randagio, passò rasente lo spazio esterno del bar e diede al gruppo di Silvia e Mauro l’occasione per parlare di un truce “sport” che si diffondeva.
«La settimana scorsa ho ricevuto una telefonata anonima», riferì Federica Bartolini. «Un tale mi ha informato di un combattimento tra animali, specificandomi il luogo, il giorno e l’ora in cui si dovrebbe svolgere.»
«Dove?» chiese il Gori.
Lei, una donna sulla quarantina, dall’espressione avveduta, esitò a rispondere ma Dino, il suo compagno d’associazione, ruppe l’indugio.
«In Carbonaia, nel comune di Castel del Monte. Il combattimento si svolgerà il secondo sabato di giugno, alle cinque del pomeriggio, questa volta.»
«Perché hai detto “questa volta”?» puntualizzò Mauro, incuriosito.
«Perché la gente che organizza i combattimenti, mai li fa più di due o tre volte nello stesso posto e sono convinto che la telefonata sia attendibile perché siamo a conoscenza che lotte tra animali sono organizzate spesso anche nella nostra provincia. Faccio il vigilante zoofilo volontario e l’anno scorso, io e il mio collega, ispezionando una macchia dalla quale proveniva un forte odore di carogna, trovammo le carcasse di un pastore tedesco e di un dobermann. Il cane lupo aveva un fianco squarciato. Le lacerazioni erano così profonde che lasciavano scoperte le costole. Anche il dobermann aveva lacerazioni simili. Supponiamo che abbiano fatto combattere i due cani contro un animale più grosso e aggressivo come un grande felino o un orso legati a un palo per costringerli a lottare.»
«Com’è possibile giungere a tanta crudeltà?» chiese Silvia a Dino.
«Gli atti violenti continuati sopprimono la sensazione di ripulsa per la sofferenza, come una sorta di adattamento e le forti scommesse sull’animale vincitore rappresentano lo stimolo economico. Il combattimento tra animali», spiegò Dino «è diffusissimo nel mondo e appartiene a una cultura millenaria, per molti popoli. Questi usi non facevano più parte della nostra cultura ma tornano a diffondersi e i cani sono gli animali più adatti e facilmente reperibili. I proprietari li accudiscono quasi amorevolmente fino a qualche giorno dal combattimento. Poi li incattiviscono tenendoli in ambienti strettissimi senza alimentarli. Li costringono a trascinare pesi enormi per irrobustirli, li bastonano e li frustano per inferocirli…»
«Basta, Dino!» esclamò Silvia, inorridita.
«Spero che qualcuna di queste persone sia finita in galera», commentò Luigi Gori.
Sul volto di Dino apparve un risolino scettico. «Che io sappia, no. Occorrerebbe cogliere quella gente sul fatto e filmarla per sperare in una sentenza severa.»
«Della telefonata abbiamo informato i forestali», disse la Bartolini «ma non c’è parso volessero dare importanza alla cosa.» Per loro poteva trattarsi di una burla.»
Stefano, che fino allora aveva conversato col barista, uscì dal locale, si approssimò a Mauro per chiedergli: «Potrei parlarti, in privato, se non ti spiace?»
«Come preferisci.»
Silvia, inquieta, li seguì con lo sguardo fino a che giunsero presso l’ingresso del vicino parco. Sopraffatta dall’apprensione, li raggiunse. «Dove andate?»
«Silvia, per favore, torna a sedere. Facciamo soltanto quattro passi», la rassicurò Stefano.
«Nemmeno uno ne fa, Mauro, senza di me», reagì lei con fermezza.
«Mauro, avremo occasione di rivederci. Anzi, ti telefono.» Stefano si era appena voltato per tornare verso il bar quando Silvia gli sbarrò il passo.
«Sono convinta che tu voglia parlargli della sottoscritta, perciò discutiamone subito, così risparmi la telefonata.»
Stefano fece per allontanarsi ma lei lo bloccò afferrandogli un braccio.
«Non pensare d’andar via così!» Lo guardò dritto negli occhi.«Vuoi raccontargli che con te ho fatto chissà che cosa per vendicarti?»
«Silvia ma che stai dicendo?»
«Mi hai già dato della troia che cosa dovrei aspettarmi?»
«Non l’ho detto.»
«Lo hai pensato. È la stessa cosa.»
«Ti ho chiesto di scusarmi.»
La discussione si era fatta tanto accesa che aveva attirato l’attenzione di tutti.
Il Bizza ruotò la sedia di novanta gradi per meglio osservare la scena. I suoi occhi brulicarono di curiosità quando vide Silvia agitarsi, Stefano tentare di rassicurarla, poi Mauro prenderle il viso tra le mani per calmarla. “Porca miseria che casino sta venendo fuori.”
«Che diavolo succede?» domandò Alvaro.
«Passione», rispose lui che, per ostentare riservatezza, si avvicinò all’orecchio del ragazzo. «È successo che…»
Silvia non mollava sebbene Mauro cercasse di dissuaderla.
«Dammi retta, torna al bar. Stefano vorrà assicurarmi che non mi tiene rancore.»
«Allora non vedo la ragione di parlartene appartandovi.»
«Per un uomo è importante chiarire certe cose a quattr’occhi. Non so come spiegartelo. È più dignitoso. Capisci?»
«Se invece volesse fare a botte?» replicò lei lanciando un’occhiataccia a Stefano. «È più grosso di te.»
«Silvia, lo sai bene che Stefano non è un violento.»
«Può accadere l’impensabile se si è risentiti per certe cose.»
«Non accadrà. Stai tranquilla. Ora torna al bar.»
Un po’ rinfrancata dai palmi asciutti di Mauro, lei annuì di mala voglia e li seguì con lo sguardo fino a che oltrepassarono l’accesso del parco.
Proposta azzardata
Quando i due ragazzi tornarono a sedersi, anche Stefano fu informato della telefonata. «Sapete come ci si arrivi in Carbonaia?» domandò.
«Conosco quel posto. Ci sono andato a cercare i funghi con mio padre un paio di volte», disse il Gori. «Si trova sotto il Passo della Torraccia. È chiamato Carbonaia perché una volta producevano carbonella in quel luogo. È un pendio che scende verso un ruscello, così fitto di erica che è un problema entrarci se non si conoscono i passaggi.»
«Mi accompagneresti?»
«Si può fare, però ti avverto: nella macchia suderemo come bestie.»
«Mi aspetti ai margini.»
«In due è più facile districarsi. Lasciami il tuo numero di cellulare. Ti chiamo appena posso. Perché vuoi andarci, Stefano?»
«Sono convinto che non sia stata una persona in vena di scherzare, a fare la telefonata.»
«Che cosa te lo fa pensare?» disse Federica.
«Gigi ha descritto il posto come isolato e con la macchia intricata. I vegetali sono ottimi insonorizzatori e schermano il rumore dei latrati. Sono convinto sia stata la soffiata di uno che vuole vendicarsi di qualche torto.»
«Poteva informare direttamente i forestali o i carabinieri.»
«Forse non l’ha fatto per paura di essere riconosciuto o forse sì ma i forestali hanno ritenuto non rivelarvelo.» Stefano si rivolse a Dino. «Quella gente avrà pure liberato uno spiazzo dalla vegetazione.»
«Suppongo di sì.»
«Ci tornerò con la videocamera per filmare il combattimento se lo trovassimo e rinvenissimo tracce di lotta», disse Stefano. «Avete detto il secondo sabato di giugno?»
«Stefano», si raccomandò Federica «quelle sono persone senza scrupoli. Rischieresti troppo.»
«Stefano non dirai sul serio!» lo riprese Monica.
«Non lo sono mai stato come stasera.»
«Solo non ci vai, non fare il cretino.»
«Ti accompagno», disse Luigi.
«Vengo con voi», si offrì Dino.
«Contate anche su di me», disse Mauro.
Silvia sbiancò.
«Ragazzi non siate incoscienti», li ammonì la Bartolini. «È troppo rischioso.»
«Federica e Monica hanno ragione», intervenne Franco.
«Lo riferirò a Livio e Fabrizio. Avvertirò anche i tuoi genitori, Stefano», minacciò Monica.
Stefano lanciò un cenno d’intesa al Gori e a Dino. Poi fece un gesto rassicurante alle amiche. «D’accordo, andremo per accertarci che ci sia lo spiazzo. Ci limiteremo a filmare le tracce dei combattimenti, per documentare la denuncia, se lo trovassimo.
«Non quel sabato», li redarguì Federica.
«Stai tranquilla, a pensarci bene era un’idea bislacca», la rassicurò Stefano.
Arturo, che non poteva trattenersi dal recarsi a curiosare, si era approssimato al gruppo e ascoltava la conversazione con la stessa avidità di un orso che depreda il miele da un alveare. «Posso domandare il motivo della vostra serrata conversazione?» chiese.
«No», rispose Stefano infastidito.
«Nemmeno una domanda si può fare e che diamine!»
Stefano pensò che allontanarsi fosse la soluzione più saggia piuttosto che iniziare una polemica interminabile ma senza evitare che Arturo lo tallonasse d’appresso.
«Stefano dove vai?»
«A fare una camminata. Hai presente un piede davanti l’altro molte volte di seguito?»
«Ti accompagno?»
«Per carità! Diverresti più fastidioso del prurito tra le scapole.»
«Stefano non è giusto che tu sia tanto acido con me. Ti sono stato sempre alleato. Ho condiviso le tue sofferenze quando è accaduto il fattaccio.»
«Bizza», insorse Stefano stringendo le mani a pugno per reprimere un’ira che traboccava da ogni poro della sua pelle «smettila di tornarci sopra porca puttana!»
«Nossignore», ribatté Arturo. «Sono stato io ad accorgermi di quel che accadeva alle tue spalle o forse stai pensando che sarebbe stato meglio non sapere perché se il tuo occhio non vedeva il cuore non ti doleva? Ma avresti rimandato la conoscenza della verità solo di poco e sarebbe stata più sconvolgente. Così ti sei cavato subito il dente.»
«Ascolta Bizza te lo farò saltare io un dente se non ti togli di torno. L’attitudine a rompere le scatole tu lo hai scolpito nel DNA.»
«Sai come si chiami il DNA?ۚ» gli domandò Arturo come fosse iniziato un altro motivo di conversazione in quell’istante.
«Non me ne frega un cazzo come si chiami!»
«Invece te lo dico lo stesso! Si chiama acido disossiribonucleico.»
«Se non chiudi quella boccaccia infernale, rimarrai soltanto con il ribonucleico perché penserò io a disossarti quella testaccia che ti ritrovi appiccicata al collo.» Stefano si allontanò a lunghe falcate ma non poté evitare di sentire Arturo snocciolare un adagio.
«Chi ha tempo non attenda tempo perché chi tempo attende tempo perde e tu hai menato troppo il can per l’aia. Stefano», aggiunse il Bizza amareggiato «ti auguro che il tempo possa curare ciò che la tua ragione non vuol sanare.» Senza aggiungere altro ma con la bocca ancora in movimento, come un pesce boccheggiante fuori dell’acqua, rimase a fissare l’amico mentre si allontanava frettolosamente. Seguitò a guardarlo finché scomparve dalla vista, poi bofonchiò tra sé: “A far del bene ai ciuchi si pigliano i calci.” Dopo essersi tratto in alto il cavallo dei pantaloni e allentato un buco della cintola, mugugnò: “Cascasse il mondo, non tornerò più da Pistacchio. Infila più aria lui in un chilo di gelato che tanta non ne occorrerebbe per gonfiare la ruota di un autotreno.” Fece un lungo peto e tornò a dirigersi verso il bar.
Quando, finalmente, Silvia e Mauro si diressero verso l’interno del parco per rimanere un po’ in intimità, Livio riuscì a impedire al Bizza di seguirli, sospingendolo nella direzione opposta. «Arturo», gli disse scotendo il capo «la tua curiosità rasenta la patologia. Logori la pazienza come un tarlo rosicchia il legno. Sai qual è il vegetatale che non riesce a superarti nella proprietà di essere irritante? L’ortica!»
«Livio», replicò lui allargando le braccia in segno di stupore «mi limito a dare consigli sensati, eppure…»
«Eppure riesci a rompere i coglioni a tutti!» tagliò corto Fabrizio.
Dopo i chiarimenti
«Che cosa ti ha detto Stefano?»
Silvia e Mauro si erano seduti in prossimità di una vasca al cui centro emergeva un masso dal quale scaturiva uno zampillo.
«Mi ha chiesto se fossi certo di ciò che provo per te. Poi mi ha assicurato che intende essermi amico senza malanimo.» Mauro rivolse lo sguardo allo getto della vasca. Frammentato in una moltitudine di gocce che la luce dei lampioni faceva brillare, il fiotto si dissolveva nell’acqua con fruscio di pioggerella. «Mi chiedo come avrei reagito se fossi stato al suo posto», mormorò con una vena d’amarezza. «Forse Stefano si voleva ficcare in quell’avventura di Carbonaia per soffocare la sua pena.»
«Gli avresti proposto d’accompagnarlo per sdebitarti?»
«Non lo so. Forse sì inconsciamente.»
«Mauro non possiamo continuare a sentirci in colpa. Non è giusto.»
«No, Silvia, non lo è.»
«Allora finiamola di castigarci con i rimorsi. Pensiamo a dove potremmo andare, domenica prossima, per festeggiare l’anniversario della nostra prima settimana di fidanzamento.»
«L’annivers… Silvia sei una sagoma. Andremo dove vorrai.»
«Un’idea l’avrei. Potremmo recarci a mangiare la pizza a Montelignano. Domenica c’è la Maggiolona. È la sagra del miele e di sera c’è lo spettacolo pirotecnico.»
«Per me va bene. Dove ti vengo a prendere?»
«A casa mia. Ai miei ho già detto che la nostra è una storia seria.» Silvia notò Mauro rimanere esitante. «Non ti vergognerai spero.»
«Un po’.»
«Sciocco mica ti mangiano. I miei sono alla mano come i tuoi.»
«Come ti trovo?»
«Segui Viale Vespucci, quello che costeggia le mura di Porta Maggiore. Al secondo semaforo prendi Via Pascoli e prosegui per un centinaio di metri, fino al negozio di frutta e verdura. Casa mia è nella palazzina di fronte. I miei terrazzi sono quelli del secondo piano con i gerani fucsia. Puoi parcheggiare la macchina nel cortile posteriore, dove ci sono le rimesse, se non riesci a trovare posto sulla strada. Suona il campanello di Riccardo Colombo e Tiziana Ferrucci.»
La scrupolosità con la quale Silvia gli aveva spiegato dove abitasse, indusse Mauro a un risolino malizioso. «Dopo questa spiegazione è impossibile sbagliare ma conosco la strada. Prima di fidanzarmi con Rossana frequentavo una ragazza che abitava dalle tue parti. Si dice il caso.»
«Questo non me lo avevi riferito», rispose Silvia adombrandosi di botto. «Puoi descrivermene l’aspetto?»
«Ha gli occhi azzurri, i capelli fulvi e un po’ di lentiggini sul viso. A quei tempi era formosa ma non grassa.»
«Si chiama Annalisa ed ha un piccolo neo sulla tempia destra?» domandò Silvia apprensiva.
«Sì! La conosci?» disse Mauro simulando stupore.
«Certo che la conosco», rispose lei aggrottando le sopracciglia. «È sorella di una mia commessa. Ehi ma tu quante ragazze hai avuto?»
«Abbastanza.»
«Quanto abbastanza?» pretese di sapere lei grintosa.
«Non è vero Silvia. Scherzavo.»
«Allora come sapevi che si chiamasse Annalisa e avesse un neo sulla tempia destra?»
«Me lo hai suggerito tu.»
«I capelli? Le lentiggini e il fatto che sia formosa come lo spieghi?» insisté Silvia.
«Semplice coincidenza che mi ha aiutato a farti apparire veritiera un’invenzione.»
«Cribbio, Mauro, è la verità?»
«Mi cascasse il naso.»
Lei gli strinse il lobo dell’orecchio tra i denti mettendoci un pizzico di rabbia. Mollò soltanto quando lo sentì emettere un gridolino di dolore. «Canaglia questa me la paghi. Giuro che te la faccio scontare. Ora alziamoci, all’una chiudono i cancelli del parco.»
«Come sai che chiudono all’una di notte?»
«Sapessi quanti ragazzi mi hanno accompagnato a fare passeggiate romantiche in questo posto. Non penserai che mi abbia corteggiato soltanto Stefano.»
Mauro gli sfiorò il naso, poi scrollò le dita come per fare cadere un bruscolo.»
«Che cosa mi hai tolto?»
«Una bugia. Rischiava di salirti su per una narice. Conosci l’orario di chiusura perché c’è scritto sul cartello affisso all’ingresso. L’ho letto quando siamo entrati.»
Silvia gli fece uno sberleffo, scattò in piedi e prese a strattonarlo. «Mauro, alzati, devi ancora tornare a casa. Hai gli occhi stanchi.»
«Hanno ragione di esserlo. Stamattina mi sono alzato alle cinque e mezzo.»
«È il solo motivo o li hai consumati per sbirciare le gambe a Linda?»
Imbarazzato lui si grattò il capo.
Domenica prossima mi rif…» Silvia lasciò volutamente in sospeso la frase.
«Che cosa intendi fare domenica?»
Invece di rispondergli lei gli ripeté: «Alzati marmotta!»
«A che ora devo essere a casa tua?» le chiese stropicciandosi gli occhi.
«Non prima delle diciotto e trenta perché vado a Villa Belvedere. Sofia non mi ha visto domenica scorsa e devo andare a farle visita.»
«Sofia?» domandò Mauro.
«È una ragazzina down alla quale sono affezionata. Povera cocca com’è stata sfortunata. Sua madre è morta sei anni fa. È stata investita da un ubriaco mentre andava a vuotare il secchio della spazzatura. Suo padre s’è risposato e da allora va pochissimo a trovarla.»
«La malasorte s’è accanita contro di lei», commentò Mauro. «Un vecchio detto sostiene che Dio manderebbe il freddo secondo gli abiti ma lei è come l’avesse condannata a vivere al polo senza nemmeno le calze ai piedi.»
«Mah!» esclamò Silvia scettica. «Non pensiamo al Creatore. Tirati su, piuttosto, o ci chiudono dentro.»
«Silvia mi sento fiacco.»
«Facciamo a chi arriva per primo a quell’albero laggiù, così ti scrolli di dosso la pigrizia?»
«Vuoi essere umiliata?»
«Provaci!»
Cogliendola di sorpresa Mauro si lanciò lungo il vialetto facendo schizzare ghiaia.
«Traditore non vale!» Silvia riuscì a raggiungerlo malgrado fosse intralciata da borsetta e maglia di lana. Quando fu certa che lo avrebbe battuto, gli fece linguaccia. Con la chioma svolazzante, come il vessillo di nave corsara, rimase al suo fianco fino a pochi metri dall’albero. Poi lo anticipò gridando “tana”. Vide Mauro chinarsi per riprendere fiato, le mani poggiate sulle ginocchia. Il senso di prevalenza la indusse a poggiargli una mano sulla schiena. «Ben ti sta.»
«Hai le gambe più lunghe e sei più allenata di me sennò…»
Silvia attese che Mauro si sollevasse, gli pose la mano sul capo, quindi la spostò fino a toccarsi il viso per verificare quanto fosse pressappoco più alta. Notò che l’estremità superiore dei capelli di Mauro le giungeva a malapena all’altezza delle sopracciglia. «Ti supero di almeno dieci centimetri.»
«Ti dispiace forse?» reagì Mauro corrucciato. «Non è la prima volta che me lo fai notare. Meglio sarebbe stato se ti fossi fidanzata con un ragazzo della tua stessa altezza.» Si allontanò a capo basso, le dita inserite nelle tasche dei jeans.
«Mauro!» Silvia lo raggiunse rimanendogli alle spalle. «Mauro non fare così. Ti chiedo scusa.»
Lui si voltò di scatto e la baciò sulla bocca. La tenne tra le braccia provando un sottile piacere a sentire quanto le galoppasse il cuore. «Ti ho fatto un altro scherzo. Non avrai pensato che mi fossi offeso veramente.»
«Altroché se lo penso! Ma ora sbrighiamoci, il custode sta per chiudere il cancello.»
CAPITOLO OTTAVO
Erminia la fruttivendola
A due piani, la palazzina in cui abitava Silvia era costruita secondo regole simmetriche, col portone centrale, le vetrate delle scale a forma d’oblò e lunghi terrazzi col parapetto in muratura, torniti alle estremità. L’architettura richiamava l’essenzialità del razionalismo fascista che aveva tolto qualsiasi fronzolo architettonico, tuttavia l’abitazione aveva un aspetto più elegante e solido d’altri palazzi dei dintorni, costruiti di recente, le cui forme li rendevano più simili a bagni pubblici che a immobili residenziali. Il parapetto dei balconi traboccava di gerani edera.
Mauro trovò un parcheggio libero poco distante il negozio di frutta e verdura. Si guardò allo specchietto per accertarsi se gli fosse uscito ancora sangue dal taglietto che si era fatto per radersi. Pulì un minuscolo grumo con la saliva. Si sentiva fiacco perché quella notte era riuscito a dormire ben poco per pensare al modo più cortese con cui voleva presentarsi alla famiglia di Silvia. Dopo pranzo si era coricato per tentare di schiacciare un pisolino ma una frase lasciata in sospeso da Silvia gli aveva scrollato di dosso il torpore. “Domenica, mi rif…” Era certo che avesse voluto dire “mi rifaccio”, come rivalsa per averlo sorpreso a sbirciare le gambe a Linda. Silvia aveva sempre indossato jeans da che si erano conosciuti, perciò aveva dovuto immaginare le sue dal tatto e da come modellavano i pantaloni. Così, preso dal pensiero delle cosce di Silvia, si era alzato e aveva gironzolato per casa suscitando il malumore di suo padre che non sopportava agitati intorno se trasmettevano l’arrivo di tappa del giro d’Italia. Per tentare di calmarsi era andato in bagno a radersi e mettersi gli abiti della domenica preferendo pantaloni e giubbetto color nocciola e una e camicia verde oliva. Era corso dietro sua sorella con la scopa perché seguitava a prenderlo in giro ripetendogli che aveva consumato le lancette dell’orologio a furia di guardarle. Con un sorriso che era miscuglio d’affetto e malizia, Manuela gli aveva aggiustato il colletto della camicia e pulito, con un fazzolettino di carta, quel grumo di sangue sotto il mento, conseguenza della rasatura nervosa. Gli aveva fatto scivolare il resto del pacchetto nella tasca del giubbotto. “Vorrei trasformarmi in una mosca per vedere la faccia che farai quando la tua futura suocera ti aprirà la porta.” Gli aveva bisbigliato.
Sistemò lo specchietto per potersi osservare. Lisciò le sopracciglia e tolse una minuscola caccola dall’occhio sinistro. Sceso dall’auto, si accertò che le scarpe fossero perfettamente pulite quindi si avviò verso casa di Silvia con un incedere quasi incerto. Giunto presso il portone lesse i nomi sulla targhetta del campanello: RICCARDO COLOMBO - TIZIANA FERRUCCI. Cercò di racimolare il coraggio per sollevare il braccio e premere il pulsante ma i palmi umidi e la salivazione azzerata lo fecero desistere. Decise di tornare in macchina e avvertire Silvia del suo arrivo in anticipo.
La fruttivendola, una donna sulla settantina, sottile come un fiammifero e gli occhi da furetto, scrutava il giovane dalla porta a vetri del suo negozietto. Le era parso avesse l’aria del bravo ragazzo appena era sceso dall’auto. Poi s’insospettì per il modo di camminare quasi accorto che aveva, come meditasse qualcosa. “Di questi tempi nemmeno della gente vestita da frate c’è da fidarsi.” Lo vide soffermarsi a occhieggiare i campanelli del palazzo nel quale abitavano i signori Colombo senza però premerne alcuno, poi tornare verso la macchina, risalire e portarsi il cellulare all’orecchio. Quell’ultimo gesto le diede la certezza che il figuro fosse venuto a studiare la zona; ora avvisava i complici per mettere in atto una mascalzonata. Posò la scopa e sganciò la cornetta del telefono.
«Silvia?»
«Ciao Mauro. Sei per strada?»
«Sono già arrivato. Mi trovo in macchina, a venti metri da casa tua.»
«Perché non sali? I miei lo sanno che devi arrivare.»
«Aspetto che tu sia tornata.»
«Mauro non fare lo sciocco. Forse potrei ritardare un po’. Un bambino ha compiuto gli anni e tra poco taglieranno la torta. Conosco i suoi genitori. Non posso assentarmi subito.» Silvia percepì un lungo sospiro. «Mauro?»
«Silvia ho i palmi sudati. Mi vergognerei se stringessi la mano ai tuoi ma se ci fossi tu.»
«Asciugali prima di entrare in casa.»
«Preferisco fare un giro qui attorno. Avvisami quando stai per arrivare.»
«Mauro ascolta, telefono a mia sorella e le dico di scendere per accompagnarti di sopra. Curiosa com’è di conoscerti non si sarà mossa di casa.»
«Capirebbero tutti che mi vergogno e non voglio fare la figura dell’imbranato.»
«Allora sali cribbio! Ora ti lascio. Sofia mi sta tirando un braccio. Ah, se Drillo ti… insomma se ti monta hai superato la prova simpatia.»
«Chi è Drillo?»
«È il mio cane, un piccolo meticcio che ho adottato. Lo abbiamo chiamato Drillo perché è il diminutivo di mandrillo.» Attese la risposta. «Mauro?»
Silenzio.
«Mauro?»
«Silvia, un’auto della polizia s’è accostata alla mia macchina. Stanno scendendo due agenti. Pare vogliano parlarmi. Devo riattaccare.»
Silvia fece il numero di casa col cuore in gola. Avvertì la voce di sua sorella. «Patry è in casa il babbo?»
«Lo sai che nemmeno bruciasse il palazzo si spoltronirebbe di domenica.»
«Passamelo sbrigati!»
«Babbo ti vuole Silvia. Calimero che t’è successo?»
«Niente Patr… babbo?»
«Se ghè Silvia?»
«Devi scendere in strada o la polizia potrebbe portare Mauro in questura.»
Intanto Patrizia era corsa sul terrazzo.
«Sant’Iddio Riccardo», domandò Tiziana poggiandosi una mano sul cuore «che cosa sta accadendo?»
Il marito le fece cenno di tacere per capire quel che Silvia avesse ancora da spiegargli.
«Mauro era giunto in anticipo e attendeva in macchina che tornassi perché si vergognava a salire. Mi stava telefonando quando un’auto della polizia s’è fermata vicino alla sua. Forse vorranno identificarlo perché non lo avranno mai visto dalle nostre parti.»
«Babbo giù in strada ci sono due poliziotti che parlano con un ragazzo», lo avvertì Patrizia.
«Silvia ascoltami bene: facciamo i conti appena torni se ti sei messa con un balordo.»
«Babbo che stai dicendo, cribbio! Sta succedendo un equivoco. Corri giù a chiarire come stiano le cose.»
Seguito dagli sguardi inquieti della famiglia e, preoccupato per non sapere che dire agli agenti, Riccardo si affrettò a scendere ma giunto di fronte ai poliziotti disse la cosa più ovvia: «Mauro c’è qualche problema?»
Intimorito dallo scrupoloso controllo dei documenti, lui nemmeno si era accorto di dove fosse sbucato quell’uomo alto, ben piantato, mezzo calvo e dagli occhi cerulei. Immaginatosi poi che altro non fosse se non il padre di Silvia, cercò di salutarlo spontaneamente. «Buonasera signor Riccardo.»
Uno degli agenti, che spesso si recava con la moglie a fare acquisti ai CIEFFE, salutò toccandosi la visiera. «Signor Colombo conosce questa persona?»
«È il ragazzo di mia figlia.»
«Tutto a posto», rispose il poliziotto rivolgendogli un cortese sorriso «normale controllo. Buona sera.»
Riccardo si rivolse a Mauro scotendo il capo. «Così m’è toccato sostenere che sei il moroso di Silvia ancora prima di conoscerti. Questa a l’è propi bèla ostrega.»
A Mauro il bruciore che si era sentito affluire al viso, gli aveva ridato colore.
«Cia ndem in ca’ che te ghet bisogn d’un cognacchin.»
La fruttivendola, poggiata sul manico dello spazzolone, li seguiva col rammarico d’aver preso una madornale cantonata. Era combattuta tra la tentazione di tacere, il bisogno di scusarsi e la curiosità di sapere chi fosse il giovanotto al quale il signor Colombo teneva una mano sulla spalla. Infine la curiosità prese il sopravvento e uscì dal negozio. «Buona sera sor Riccardo.»
«Sera signora Erminia. Sta facendo le pulizie?»
«Purtroppo bisogna arrangiarsi. Durante la settimana chi lo trova il tempo?»
«Non me ne parli.»
«Mi sforzo di tenere il negozio sempre in ordine per soddisfare l’occhio alla clientela perché la vita diviene sempre più difficile per i piccoli negozianti. Oggi vanno tutti a fare shopping nei centri commerciali e la clientela diminuisce a vista d’occhio, ma non voglio tediarla con questi problemi. Vedo che stasera ha ospiti.»
«È il ragazzo di Silvia.»
«Oh Madonna che ho combinato!» esclamò la fruttivendola colpendosi la fronte. «Venga dentro sor Riccardo, devo scusarmi col giovanotto o stanotte non dormirei. Ho creduto fosse un tipo losco e ho chiamato la polizia», disse facendoli rimanere di stucco. «Sor Riccardo l’ho visto camminare in modo strano e fermarsi presso il portone del suo palazzo. Poi tornare indietro, salire in macchia, mettersi a telefonare e… mi scusi tanto giovanotto. Al mondo d’oggi occorre stare sempre sul chi va là?»
Per sminuire l’accaduto Mauro le fece un sorriso indulgente. «La capisco signora.»
«Sor Riccardo l’ha saputo che cosa è capitato a Emilio del Pasqui?»
«No.»
«Un uomo e una donna», riferì la fruttivendola, poggiando lo spazzolone a uno scaffale per avere più libertà di gesticolare «sono entrati nella sua mesticheria quando Emilio stava per chiudere, lo hanno ipotizzato e…»
«Ipnotizzato vorrà dire?»
«Sì l’hanno ipotizzato e si sono fatti consegnare l’incasso.» La fruttivendola appaiò le mani e le mosse ripetutamente avanti e indietro. «Che mondo è diventato, questo, sor Riccardo. Stiamo sempre con la paura addosso. Oggi c’è gente che ti ammazzerebbe per rubarti gli spiccioli degli euro. Strinse il braccio a Mauro. «Capisci perché l’ho fatto cocco? Di dove sei?»
Riccardo fece intendere a Mauro, con un cenno del capo, che un po’ d’attenzione dovevano concedergliela.
«Di Sanfabiano.»
«Ah, Sanfabiano! C’è andata ad abitare mia nipote. Suo marito lavora in banca. Si chiama Ugo Bertini.»
«Lo conosco.»
«Ah sì? È proprio vero che il mondo è piccolo. Come ti chiami?»
«Mauro.»
«Ho visto Silvia crescere sai Mauro? Qualche volta le ho cambiato anche i pannolini a quella pisciona. Le sue nonne la portavano sempre appresso quando venivano a comprare la frutta. Compariva vestita della sua tutina rossa e il ciuccio in bocca. Aveva lo sguardo fiero e gli occhi che bucavano come spilli tanto erano neri. Portava sempre lo stesso giocattolo. Era uno di quei cosini di plastica che si trasformavano in mostri e razzi. Rammento che una volta le feci prendere una ripicca che non ti dico. Le tolsi il ciuccio di bocca dicendole che lo avrei dato al gatto. Non l’avessi mai fatto. Arrabbiata incominciò a buttarmi per terra la frutta. Insomma mi toccò ridarglielo o mi avrebbe messo sottosopra la bottega.» La fruttivendola riprese lo spazzolone e si appoggiò al manico con l’espressione di chi aveva nostalgia non di grandi avvenimenti ma dei piccoli fatti che rendevano tanto figurati i ricordi, quanto venato di tristezza il pensiero della vita che scorreva. «Come fugge il tempo. Mi pare ieri che Silvia si alzava sulla punta delle scarpine per vedere che frutta ci fosse nelle cassette più alte. Ora nemmeno le arrivo alle spalle. Mauro da quanto tempo sei fidanzato con Silvia? Quella birbona non me lo aveva riferito.»
«Ci scusi Signora Erminia ma dobbiamo andare», le disse Riccardo schiarendosi la voce.
«Certo, certo e scusatemi per quel che ho combinato.»
«Non ci pensi. A proposito come sta suo marito?»
«Con le nuove medicine che gli hanno prescritto, sembra che la malattia non progredisca ma la sclerosi a placche è una brutta bestia.»
«Lo so signora Erminia. Me lo saluti e gli porga tanti auguri.»
«Riferirò e lei rammenti a Silvia di fermarsi qualche volta perché troppo spesso mi saluta di fretta e corre via.»
Mentre attraversavano la strada, Riccardo disse a Mauro: «Non ha potuto avere figli perciò s’è affezionata ai miei come fosse una zia. Ha un grande spirito quella donna. Suo marito è infermo perciò ha dovuto mettere la badante e tirare avanti il negozio da sola. Quante croci si scoprono a questo mondo, eh?»
Casa Colombo
Pronunciato un timido permesso, Mauro entrò in un ampio soggiorno nel quale troneggiava un tavolo circolare, in noce massello, contornato da sedie massicce. Nell’angolo, adibito a salotto, dominava una libreria nella quale era inserito uno scrittoio che sorreggeva il monitor di un Personal Computer. Uno spazioso divano ad angolo abbinava due poltrone di stoffa color caffellatte. Un televisore a schermo panoramico era piazzato in un angolo. Appesi alle pareti c’erano quadri realizzati da mani diverse. Da una porta socchiusa s’intravedevano le sagome d’alcuni elettrodomestici e lo spicchio di un tavolo ricoperto con una tovaglia dai motivi floreali.
Sul divano sedeva una ragazza. Come tutte le giovani donne con qualche chilo di troppo, aveva la pelle del viso tanto liscia da sembrare levigata. I capelli bruni, di taglio corto, accentuavano la rotondità del suo volto. Un ragazzo robusto, rossiccio di capelli e lo sguardo bonaccione le sedeva accanto. Di fronte a loro, in una poltroncina di vimini, resa un po’ soffice da un cuscino a fiori, sedeva una signora magra e attempata. I capelli chiarissimi, ancora folti della donna, facevano pensare a un fiocco di zucchero filato.
«Mauro accomodati. Sono Tiziana la mamma di Silvia.»
Lui si ritrovò a salutare un’altra Silvia, gli stessi occhi scuri, i capelli bruni, la voce armoniosa e il sorriso luminoso ma più bassa di almeno dieci centimetri e col viso che iniziava a essere segnato dall’età. «Silvia le somiglia moltissimo signora», riuscì a dirle con un tono saldo. Avvertendo d’avere il palmo asciutto, le porse la mano con naturalezza. Il sorriso cordiale che la donna gli indirizzava, con l’aria d’avere apprezzato il complimento, lo fece sentire quasi a suo agio. Vide sbucare un cagnolino, abbrancargli una gamba e iniziare a muovere velocemente i lombi col roseo pistolino sguainato. Tentò qualche movimento per scrollarselo di dosso senza riuscirci.
Con gli occhietti sporgenti dalle orbite, la bestiola seguitò ad avvinghiare la gamba all’ospite e pareva volesse dirgli: “Ti piace eh? E questo è il primo assaggio.”
Tiziana si chinò per allontanare il cane ma esso ringhiò costringendola a desistere. «Drillo smettila!» gridò. «Riccardo così non l’aveva mai fatto.»
Suo marito, che si sforzava di rimanere serio, abbrancò il cane e lo prese in braccio.
La bestiola si divincolò mostrando i dentini aguzzi ma si calmò di botto quando vide la grossa mano del padrone sollevarsi. Sniffò l’aria per annusare il nuovo arrivato, le orecchie dritte come punte di lance e il tartufo brillante di sana umidità.
A Tiziana presero fuoco le gote quando si accorse che i pantaloni dell’ospite erano bagnati di pipì. Corse in cucina e tornò con alcuni fogli di carta assorbente e un panno inumidito. «Mauro, scusaci. A questo diavoletto, ogni tanto, prendono le frenesie.»
«Ogni tanto?» ridacchiò la signora anziana. «Invece che con le crocchètte pare lo alimentino col viagra.»
Mauro si ritrasse quando Tiziana fece la mossa di chinarsi. «Faccio io. Lasci stare, signora.»
Spero non rimangano macchiati.»
«Sono soltanto poche gocce di pipì.» Il disagio che Mauro leggeva negli occhi di tutti ebbe il merito di smorzare il suo. «Silvia mi aveva avvertito che se Drillo lo avesse fatto avrei superato la prova simpatia.» Notò i Colombo azzardare misurati sorrisi.
«Io sono Patrizia, la sorella di Silvia e lui è Sergio, il mio fidanzato.»
«Vi prego rimanete seduti», disse Mauro porgendo loro la mano.
Quella bella signora lì è nonna Martina», aggiunse Patrizia.
«Bela come l’cul de la padela», rispose l’anziana mostrando una dentiera perfetta. Al ma tuca sta anca a sedé insci, perché i pultrun, al ma fan mal ai oss. Al sun cunsciada propi bén giuinott.»
«Nonna, non parlare in dialetto lombardo, altrimenti Mauro non ti capisce», si raccomandò la nipote.
«La capisco, Patrizia, non preoccuparti.» Mauro si approssimò all’attempata signora, dall’aspetto così esile da fargli immaginare che sarebbe bastata una folata di brezza per soffiarla in cielo, e le porse la mano. «Io la trovo in forma signora Martina.»
«Va là, che a l’è minga vera. La veciaia a l’è una brüta bèstia e ghè nient da fa.»
Seguirono momenti durante i quali nessuno trovò argomenti per conversare. Poi raccontando del perché si fosse fermata la polizia, Riccardo ruppe il ghiaccio facendo ridere tutti e l’atmosfera divenne familiare.
«Al ma par che te set un brav fiё, ma cos’è che le fai alla Silvia, che da una settimana l’è semper agitada?» Gli domandò nonna Martina. «Mangia quanto un uselin e, l’è anca turnà a ca’ con gli occhi rossi dal pianto. Stag atent che la Silvia, l’è una brava tusa nè? Se ti comporti male te ciapì a scuvà, te capì?» lo ammonì puntandogli l’indice ossuto.
Mauro stava cercando d’organizzare una risposta, quando intervenne Patrizia.
«Nonna non metterlo in imbarazzo. Saranno cose loro.»
«Perchè, cusa l’è che lgò di’?». L’anziana mosse il capo e i suoi capelli ondeggiarono come una matassa di bambagia.
Tiziana pensò bene di cambiare binario alla discussione invitando l’ospite a sedersi e chiedendogli se gradisse qualcosa da bere.»
«Signora Tiziana non vorrei disturbare.»
«Fa minga i cumpliment, né?» disse Riccardo mentre lisciava il dorso di quella creaturina che gli si era acciambellata sulle gambe.
«Mauro ti piace il chinotto?» gli domandò Tiziana.
«Sì grazie.»
«Allora ti faccio compagnia», disse Riccardo.
«Mamma portane anche a noi.»
«Non so se ci sarà per tutti, Patry.»
«Anca par mi», disse nonna Martina che, scrutando da sotto gli occhiali da vista, seguiva la conversazione reagendo con espressioni diverse del viso a tutto ciò che era detto nell’intreccio della conversazione.
«Mamma, le bevande gasate ti fanno male.»
«Uffa, a l’è semper la solita menada. Al mas fa tüc mal.»
«Ti porto un po’ di tè alla pesca.»
«Al ma pias minga tant, ul tè alla pesca.»
«Mamma, lo bevo anch’io.» Tiziana accarezzò i capelli della suocera e raggiunse la cucina.
«Sai, Mauro?» disse nonna Martina. «Il tè alla pesca, a la mè nuora, al ga pias minga quant’ul chinott ma lo prende lo stesso per non lasciarmi da sola a berlo. A l’è üna brava tusa e la Silva, ha l’è spicicada a la so ma’.»
Un vassoio di biscotti cantucci e una bottiglia di vinsanto casereccio, rese cordiale l’atmosfera. Drillo si mise a gironzolare tra le gambe di tutti per rimediare qualche briciola di biscotto. Poi balzò in grembo a Mauro e si acciambellò.
«Drillo scendi di lì!» gli ordinò Patrizia.
«Non da fastidio.» Carezzando la testolina del cane, Mauro si mise a osservare i quadri appesi alle pareti.»
«Silvia ci ha raccontato di come vi siete conosciuti», disse Tiziana porgendogli il vassoio dei cantucci «e anche l’episodio della seggiola.» Vide Mauro portarsi le mani agli occhi in segno d’imbarazzo. «Ci ha pure riferito che fai il restauratore di mobili e sei un bravissimo pittore.»
«Ho notato che osservi i nostri quadri. Ti piacciono?» gli domandò Riccardo.
Mauro bevve un sorso di vinsanto e li osservò nuovamente. Rimase indeciso se dare una risposta.
«Non aver paura a giudicarli.»
«In verità no.»
«Perché?» domandò Tiziana, stupita. «La marina notturna a me sembra stupenda. La luna, che appare tra lo squarcio delle nubi, illumina le onde con un effetto bellissimo.»
«Ha usato il termine giusto, signora Tiziana», rispose Mauro. «Sono quadri d’effetto ma non hanno valore artistico. Scusate se mi permetto di chiedervelo: dove li avete acquistati?»
«La marina è un regalo di nozze», disse Tiziana. «Il borgo antico e il vaso di fiori li abbiamo comprati da un commerciante di cornici. Il carro tirato dai buoi non lo ricordo.»
«Alle fiere settembrine», rammentò Patrizia «da quel tale che voleva comprassimo anche il quadro col volto del pagliaccio da circo.»
«Allora, Mauro, credi davvero che non abbiano valore artistico?» insisté Tiziana.
«Sono opere dozzinali, signora, fatte da mestieranti che hanno dimestichezza con le proporzioni e il colore. «Gli autori sono spesso più persone. Del soggetto da dipingere, uno fa l’abbozzo e altri lo rifiniscono. Lavorando a catena riescono a farne molti, così, dopo avergli messo una cornice appariscente, li consegnano a venditori che li immettono nel giro del commercio ordinario e degli ambulanti.»
«Ed io», commentò Tiziana con un’espressione disingannata «mi ero illusa di… non dico di avere acquistato opere d’arte ma almeno di un certo valore. E nemmeno poco li abbiamo pagati.»
«Tiziana, che fossero crostoni l’ho sempre sospettato», chiosò Riccardo.
«Fanno arredamento ugualmente», rimediò Mauro cogliendo delusione nei loro volti. «Le cornici e i colori s’inseriscono bene con i mobili del soggiorno.»
«Mauro ci vuoi consolare?»
«Affatto. L’effetto decorativo è piacevole.»
Quel “piacevole” suonò ai Colombo come obbligo di cortesia.
A Mauro cadde l’occhio su un quadretto di modeste dimensioni. Era collocato in un angolo, quasi fosse stato appeso lì per adempiere una sorta di dovere, senza che guastasse l’armonia dell’insieme. «Quello con la barca ormeggiata al ramo dell’albero non è male», disse. «L’ha dipinto una mano sola e gli ha trasmesso un po’ d’anima.»
«Vuoi dire quello raffigurante il lago?» chiese Riccardo lisciandosi la calvizie.
«Sì.»
«L‘ho dipinto io. Sette anni fa andammo in vacanza sul lago di Bolsena e siccome mi annoiavo, comprai il necessario per dipingere, sperando poi di dedicare un po’ di tempo alla pittura anche a casa, nel tempo libero. Invece nemmeno ricordo dove siano stati ficcati i colori.» Riccardo si recò a prendere il quadretto e lo consegnò a Mauro che confermò la sua prima impressione.
«Mi piace.»
«Questa poi! Non lo dici per arruffianarti col papà di Silvia?»
«Riccardo!» lo riprese la moglie.
«Tiziana era solo una battuta.» Riccardo tornò a osservare la sua “opera” con un’aria compiaciuta. «Effettivamente non ero una schiappa in disegno.»
«E si nota ma i colori sono troppo crudi, freddi e c’è poca profondità», disse Mauro. «Potremmo migliorarlo velando l’azzurro del cielo e i monti con un po’ di violetto, poi dare più luce alle nubi rafforzandole con qualche pennellata di bianco, mescolato a una punta di giallo. Signor Riccardo, mi permette di ritoccarlo?»
«Puoi portartelo a casa.»
«Potrei farlo ora. Non occorrerà molto tempo se i pigmenti dei suoi colori fossero ancora pastosi.»
Eccitato, Riccardo interrogò la moglie con lo sguardo.
«Il cofanetto dovrebbe essere nella rimessa del furgone, dentro il vecchio armadio.»
In quel momento Drillo sollevò la testolina e uggiolò.
«L’ha ga sentì Calimero», disse nonna Martina.
Silvia aprì l’uscio di casa e vide Drillo lanciarsi tra le sue braccia con un tale slancio che lei dovette acchiapparlo al volo. Non fece in tempo a scostare il viso che la bestiola glielo leccò, riuscendo perfino a metterle la lingua in bocca costringendola a fare boccaccia schifata. Celò i sospiri, causati dall’emozione di trovarsi in casa col ragazzo che aveva scelto per fidanzato, stringendosi il cane al petto. Si sedette sul bracciolo della poltrona di Mauro e si aiutò a superare il pudore di cingere le spalle di un uomo davanti a suo padre, per la prima volta, scompigliandogli i capelli. Poi l’imbarazzo si trasformò in un risolino quando nonna Martina le riferì come Drillo avesse sottoposto Mauro alla prova simpatia. «Vado in camera mia a mettere qualcosa per stasera», mormorò a Mauro in un orecchio. Gli diede perfino un bacetto sulle labbra e scomparve dietro la porta a vetri della zona notte.
«Allora, Mauro, ndem a fare il ritocco a questo scarabocchio?» lo sollecitò Riccardo. «Ah, ti va di restare a cena con noi?»
«Silvia vorrebbe che andassimo a mangiare la pizza a Montelignano. Ci saremmo fermati a vedere i fuochi artificiali.»
«I fuochi iniziano a mezzanotte perché, prima, c’è la partita di calcio», gli riferì Riccardo. «Potreste andare a vederli dopo cena. A Silvia farebbe piacere se cenaste in casa. Mangiamo la pizza pure noi, la domenica sera.»
«Mauro la preferisci capricciosa o margherita?»
«Che cosa, signora Tiziana?»
«La pizza, la preferisci margherita o capricciosa?»
«Oddio, mi scusi la distrazione, preferirei capricciosa.»
«Anca par mi nè?» disse nonna Martina.
«Mamma non la digerisci. La sera ti fa male.»
«Gnanca un cicinin di quella al taglio?»
«Va bene Tiziana», acconsentì Riccardo «altrimenti mangerà la nostra con gli occhi e ci terrà il muso tutta la sera.» Guardò la madre con piglio severo e si raccomandò che la masticasse bene. «Non farci chiamare il centodiciotto come la volta scorsa, te capì?»
Lorenzo
Lorenzo, uno spilungone dagli occhi di un celeste chiarissimo e i capelli biondi, tenuti corti per tentare di arginare un precocissimo accenno di diradamento, era intento a spolverare la sua motoretta fuori della rimessa. Al rumore dei passi sollevò il capo. Adocchiato il quadretto, rivolse al padre una pungente battuta. «Babbo, era ora che decidessi di buttare quell’oscenità. Ti comunico che la famiglia, tutta, ha sopportato lo sgorbio per amor tuo.»
Riccardo piazzò il dipinto davanti agli occhi del figlio, con fare orgoglioso. «Invece lo ritoccheremo e diverrà un bel quadretto. Lo sai chi è questo giovanotto?»
«È tutta la settima che Calimero ne parla. A me e a Patrizia ha fatto un paio di palle. Ciao Mauro e scusami l’espressione. Era per rendere l’idea.»
«Figurati. Ciao Lorenzo.»
«Vuoi davvero correggere quello scarabocchio?»
«Lorenzo, non è così brutto come a te sembra.»
«Se lo dici tu», commentò lui arricciando le labbra in un’espressione dubbiosa.
«Lory la mamma deve mandarti in un posto.»
«Ho capito mi tocca andare a caricarmi di pizze.»
«Lorenzo non fare storie.»
«Uffa babbo tocca sempre a me.»
«Smettila di lamentarti che non ci rimetti. Prima aiutami a cercare i colori che comprai quando andammo a Bolsena. La mamma pensa siano nel vecchio armadio.»
Fu Lorenzo a trovare la valigetta.
Riccardo trasse dal portafoglio una banconota da venti euro e la porse al figlio.
«Babbo se avessi bisogno di cercare qualcos’altro…»
Per fare intendere a Mauro quanto i soldi potessero e come fossero ruffiani i figlioli, Riccardo emise un sogghigno. «No, grazie Lorenzo. Ora corri in casa.»
Prima di avviarsi il figlio portò la motoretta nella rimessa e la coprì con una vecchia coperta stando bene attento a non lasciarne un solo centimetro quadrato esposto alla polvere.
Riccardo fece cenno a Mauro d’osservarlo. «Guarda come tiene di conto della sua roba. Quest’anno ha gli esami di maturità e gli sta dando sotto. Per scaramanzia non dovrei dirlo ma ho tre figli uno migliore dell’altro. Sì, devo ammetterlo, oggi averne tre, della loro età, tutti col capo sulle spalle, vuol dire avere una fortuna sfacciata. Adesso vediamo di aprire questo coso.»
Mauro emise un sibilo di sorpresa nel vedere dodici tubetti di colore corredati con pennelli di varie dimensioni e forme, riposti in buon ordine nei loro comparti. L’astuccio conteneva anche un flacone di diluente e tre spatole metalliche di diverse dimensioni somiglianti a cazzuole in miniatura. «Accidenti, signor Riccardo, i colori sono i Sisley. Contengono pigmenti ottimi e i pennelli hanno la setola naturale. È un kit favoloso.»
«Infatti mi costò un occhio della testa, ma lascia stare il “signore”. Chiamami solo Riccardo.»
Mauro premette i tubetti e li sentì cedere alla pressione. «I colori si sono conservati benissimo.»
Riccardo era eccitato. «Hai bisogno di altro?»
«Un cavalletto ma sarebbe pretendere troppo.»
«Dipinsi il quadretto appoggiando la tela allo schienale di una sedia», disse Riccardo.
«Non importa, quel tavolino andrà bene. Adoperate ancora quei piatti sulla scaffalatura?»
«È roba vecchia. Silvia non vuole che li buttiamo nel cassonetto della spazzatura ma si scorda sempre di portarli al centro di raccolta comunale per i rifiuti speciali.»
«Posso prenderne uno?»
«Certo che cosa vuoi farci?»
«Una tavolozza. La mescolanza dei colori si controlla benissimo sullo sfondo bianco e la pasta rimane fluida perché lo smalto impedisce l’assorbimento del diluente. Nel mio studio tengo un piatto da pizze come tavolozza.»
«Giusto, è proprio giusto», concordò Riccardo lisciandosi la calvizie «ed io che l’avevo improvvisata con una tavoletta di compensato. Più diluente mettevo nei colori, più il legno assorbiva.»
«Lo credo bene», convenne Mauro togliendo la tela del dipinto dalla cornice. «Posso portare il tavolo fuori della rimessa? C’è più luce.»
«Fai come credi. Hai ancora bisogno di qualcosa?»
«Acqua ragia e uno straccio per ripulire i pennelli.»
«Li vado a prendere.»
Giunto al primo pianerottolo, Lorenzo udì il rumore della porta di casa chiudersi con un tonfo tanto secco da farlo sobbalzare. Poi un rapido scalpiccio. Rimase a bocca aperta per lo stupore.
«Ah, Lory, sei tornato?» gli disse Silvia senza fermarsi.
«Quella che vedi è soltanto la mia proiezione astrale. Il vero Lorenzo sta ancora ripulendo la motoretta dalla polvere delle campagne di Sanfabiano.»
«La mamma ti vuole.»
«Lo so, anche stasera mi tocca andare a caricarmi di pizze», mugugnò il fratello sporgendosi dalla ringhiera per darle un’altra occhiata. Entrò nel soggiorno e vide che Patrizia e Sergio, assieme a nonna Martina, guardavano la televisione. «Gente, l’avete vista come s’è vestita Silv…»
«Lory la mamma ti vuole. Devi andare a prendere le pizze.»
«Lo so! Mi avete fato un paio di cogl… marroni.»
«Lorenzo fa minga il maleducato, né?» lo rimproverò la nonna.
Lui entrò in cucina simulando un’aria preoccupata e disse alla madre: «Mamma, rammenti il posto in cui abbiamo ficcato la mia tenda da campeggio?»
«Che sta succedendo», rispose lei «che oggi è tutto un cercare roba? Sarà in soffitta da qualche parte. A che ti serve?»
«Stanotte non ci dormo in casa. Vado a montare la tenda sul campo da calcetto di Don Vittorio. A voi consiglio di portare il furgone lontano dalle case e dormirci dentro. Stanotte verrà un terremoto da spianare le montagne. Silvia ha messo la gonna.»
Tiziana scoppiò mentalmente a ridere ma con lui assunse una grinta severa. «Lorenzo ascoltami bene perché non te lo ripeterò un’altra volta: a tavola non azzardarti a fare qualcuna delle tue battute spiritose, intesi?»
«Promesso.»
«Voglio sperarci. Ora corri da Sorrentino. Gli ho ordinato sette pizze capricciose, una margherita, e una al taglio per la nonna.
«La pizza fa male alla nonna. Toccherà chiamare il centodiciotto un’altra volta.»
«Cercheremo di fargliela masticare bene. Eccoti i soldi. Basteranno sessanta euro?»
Il figlio tentennò il capo. «Mamma, il cambio monetario ha scombussolato tutto.»
«Eccone altri quindici. Ora fila via filibustiere perché ho telefonato a Sorrentino e le pizze stanno già cuocendo. Ah rammentati di dirgli di cuocerle bene senza bruciacchiarle.»
Lorenzo uscì da casa con le labbra assottigliate da un risolino volpino. “Venti me li ha dati il babbo, quindici mi avanzano, cinque me li sconta Sorrentino, perciò sono quaranta euro tondi, tondi. “Che giornatina!”
Arcano
Mauro miscelava i colori quando un ticchettio attirò la sua attenzione.
La camicetta color crema, la gonna lilla a pieghe ampie, corta sul ginocchio, sulla quale spiccava una cintura viola, e i sandali a mezzi tacchi, anch’essi lilla, conferivano a Silvia un’immagine radiosa. Il rossetto purpureo e la sfumatura d’ombretto malva le davano lucentezza al viso e un aspetto di sbarazzina sensualità. Procedette verso di loro, la gonna ondeggiante sulle ginocchia.
Perfino il padre s’incantò a guardarla.
Mauro posò il pennello e la salutò con un imbambolato “ciao”.
«Ho saputo che ceneremo in casa», disse Silvia con ostentata padronanza.
«Me l’ha proposto tuo padre. Io non…»
«Mauro va benissimo non preoccuparti, così potrò ridarmi un ritocchino al trucco dopo cena», lo rassicurò Silvia con una leggera carezza. Poi aggiounse: «Allora come procede il restauro dello sgorbio?» Ignorandolo, Silvia obbligò il genitore a spostarsi. «Mi hanno riferito che vuoi fare il miracolo di migliorarlo.»
«Stavo per cominciare...»
Lei gli sfiorò la guancia con le labbra per non sporcarlo di rossetto, quindi redarguì il padre con un tono quasi perentorio: «Pa’ per quanto tempo hai intenzione di sequestrarmi Mauro?».
“Te saludi ritucch. Ura ul Leunard, al ma va in del balun.” Borbottò Riccardo tra se. Sbuffò spazientito e mise l’orologio davanti agli occhi della figlia. «Tra dodici secondi esatti inizierà a salire il primo gradino di casa. Silvia potresti andare ad aiutare tua madre a sbrigare qualche faccenda?»
Lei finse di ignorare il consiglio, gli fece una smorfia perché intendesse quanto lo scarabocchio che Mauro si accingeva a migliorare fosse irrecuperabile.
«Silvia ostrega», brontolò Riccardo «vuoi levarti di torno?»
Lei schioccò al padre un bacio sulla guancia e si allontanò frettolosa. Si soffermò a osservarli qualche istante. Poi scomparve dietro il cantone lasciando impressa nella mente di Mauro l’immagine svolazzante della sua gonna.
«Te l’avevo detto che le avrebbe fatto piacere se aveste cenato in casa. Li conosco i miei figli.» Riccardo scosse il capo e commentò col tono meditato di chi rifletteva sulle arcane sottigliezze dei comportamenti femminili: «Mauro, le donne sono così strane che nessuno riuscirà mai a capirle.»
Ravvivando luminosità di una nube, lui fece un assorto cenno d’assenso.
«Te sé propi in gamba.»
Guardando Riccardo, a Mauro venne da sorridere.
«Cusa l’è che l’ghé?»
«Silvia gli ha lasciato l’impronta delle labbra sulla guancia.»
«O’Ssignur! È meglio che vada a pulirmi prima che qualcuno mi veda.» Tenendosi coperto il viso, Riccardo si diresse verso la vaschetta di servizio della rimessa.
Mezz’ora dopo il dipinto aveva assunto profondità e tonalità ariose. Il cielo, dapprima di un crudo celeste, Mauro lo aveva velato di trasparenti violetti che si riflettevano sul lago. Anche la barca aveva acquistato una silhouette slanciata e l’acqua somigliava all’acqua.
«Gli hai fatto il lifting», commentò Riccardo.
«Il bello della pittura a olio è di poter rimettere le mani su un’opera realizzata da qualche tempo», gli spiegò Mauro. «Ora dovrebbe tenere il quadro ad asciugare in un luogo buio per una decina di giorni, perché la luce fa precipitare i colori se sono ancora freschi.»
«Precipitare?»
«I colori perdono tono e intensità.»
«Lo metterò nell’armadio.»
Mauro capovolse la tela.
«Perché lo guardi al rovescio?»
«Per una verifica. In questo modo è possibile riscontrare se siamo riusciti a dare all’opera un solo punto di richiamo per l’occhio. Quel punto deve avere maggiore intensità luminosa e di regola è meglio realizzarlo in una posizione di centralità. È importante perché solo in quello deve concentrarsi l’attenzione di chi guarda. È quel punto che crea armonia.»
«E il mi… il nostro l’ha?»
«Sì vuol provare a trovarlo?»
Riccardo fece un passo indietro e strinse gli occhi per scrutare il dipinto con fare da intenditore. «Al vuria minga di’ una stüpidada, ma al ma par che… sì è tra la depressione delle due colline?»
«Esatto.»
«O’Ssantambreos!» Riccardo capovolse la tela alcune volte per avere una conferma. «A l’è propi vera.»
«Quella di capovolgere l’opera è un accorgimento che serve parecchio», gli spiegò Mauro.
Proveniente dall’alto la voce di Silvia interruppe la conversazione.
«Mauro, babbo, salite! Lorenzo ha portato le pizze. Sono belle calde.»
«Veniamo subito Calimero.» Con un tono che tradiva un’ombra di rammarico, Riccardo rivelò a Mauro: «È la prima volta che Silvia posticipa il mio nome a un'altra persona. Alla fine doveva succedere.»
Non sapendo quale risposta dargli, Mauro iniziò a pulire gli attrezzi e riporli nell’astuccio.
«Sono certo che tu sia molto importante per mia figlia perché ci ha raccontato la prima grossa bugia della sua vita pur di venire con te. Francamente è stata avventata e se avessimo saputo che sarebbe andata in un bosco in compagnia di un uomo, per di più conosciuto da poche ore, non ci saremmo conosciuti perché avremmo fatto di tutto per impedirle di partire. Capisci, Mauro?» Riccardo gli sorrise per non acuirgli il disagio quando lo vide annuire con l’imbarazzo stampato negli occhi. «E nemmeno intendo criticare il vostro fidanzamento frettoloso. Tra me e mia moglie è capitata la medesima cosa. C’eravamo ficcati in un magazzino di granaglie per sfuggire a una carica della celere ma è una storia troppo lunga perché te la possa raccontare ora. Voglio invece darti qualche dritta perché sono convinto che ce la farete a rimanere assieme. Avverto che avete due indoli opposte perché tu sei mite, perciò non farti ingannare dagli occhi sorridenti di Silvia perché ha un temperamento tenace. È pragmatica e diretta, odia il gossip e non ama le futilità. Non sopporta gli ordini perciò astieniti dal dirle “fai questo o quello”. Proponigli le cose col tono di chi vuole suggerire. In questo modo avvertirai sempre la sua ragionevolezza perché la sua non è tenacia cocciuta ma plasmabile. È capace di profonde riflessioni folosofiche ma farebbe a botte con una rivale pur di non mollarti. Ha un tale senso della materialità che da bambina smontava i giocattoli per vedere quel che ci fosse dentro e alle bambole preferiva gli ufo robot. In camera sua c’è un poster che ha ricavato da una foto trovata in internet. Indovina quale personaggio raffigura?»
«Gianna Nannini, Vasco Rossi», suppose Mauro.
«L’astronoma Margherita Hack», ripose Riccardo. «Sostiene sia la donna alla quale bisognerebbe erigere monumenti, com’è successo per Garibaldi. Nella vita di gruppo, con i suoi fratelli, benché Patrizia fosse più anziana di quasi due anni e mezzo, il capo branco è stato sempre lei, perciò stai attento a non farti assoggettare troppo.»
Mauro annuì, ripose la boccetta del diluente e guardò Riccardo con un’espressione interessata. «Le bambole non piacevano a Silvia?»
«Non le ha mai sopportate. Una volta sua madre gliene mise una sul lettino ma lei la scaraventò fuori di camera. Non sono mai riuscito a capire perché le detestasse.»
Mauro sorrise, come se di quell’avversione ne sapesse qualcosa e gli riconsegnò i colori.
«Puoi tenere l’astuccio», gli propose Riccardo. «Ne farai un uso migliore. Mettilo in macchina, prima che saliamo, così non te lo scordi.»
«Grazie ma non so come ricambiare», rispose Mauro.
«Lo hai già fatto», disse Riccardo mostrandogli il quadretto. «Vorrei però chiederti un favore: non hai acceso una sola sigaretta da quando sei arrivato perciò suppongo che tu non abbia quel vizio.»
«No non fumo.»
«Allora cerca di convincere Silvia a smettere. Per ora riesce a regolarsi. Un pacchetto lo fa bastare tre o quattro giorni ma è la strada per fumarne di più. Rammentale che la cosa più importante è la salute e che la vita può trasformarsi in un inferno, se si perde, e rovinare perfino i sentimenti.»
Udirono ancora la voce di Silvia. «Mauro, babbo, le pizze si stanno raffreddando.»
«Veniamo noiosa. Sentito? Non sono più il suo primo uomo. Mauro, credo tu abbia imboccato la via per diventare mio genero, una strada dalla quale Silvia cancellerà ogni bivio», affermò Riccardo mentre faceva scorrere in basso la serranda della rimessa. “E qui, bisogna che mi decida a mettere l’automatico” «Offrirgli una coppa di gelato se vi capitasse di litigare.»
«Perché l’avete soprannominata Calimero?» domandò Mauro accostando il prezioso cofanetto al petto.
«Silvia nacque con gli occhi e i capelli così scuri che ci venne spontaneo soprannominarla come il pulcino della scenetta televisiva che pubblicizzava un detersivo. Lo hai in mente?»
CAPITOLO NONO
A Montelignano
Sulla strada per Montelignano, istigato dalla postura di Silvia che la obbligava a guidare la sua utilitaria con le cosce alquanto scoperte, Mauro non riuscì a vincere la tentazione di sbirciare. La vista di quelle gambe lunghe e tornite, alla quale la semioscurità dell’abitacolo conferiva il fascino di una magica sensualità, gli suscitava un tale rapimento dei sensi da privarlo persino del desiderio conversare.
Compiaciuta per quel malizioso gioco che alimentava di rivincita la sua vanità femminile, Silvia nulla fece per impedire che la gonna salisse ancor più di quel che la posizione sul sedile imponesse. Le furono complici i fari dei veicoli che procedevano in senso inverso e che illuminavano, a sprazzi, i suoi seni tesi contro la camicetta, dondolanti a ogni asperità della carreggiata.
Soltanto all’imbocco del viale che saliva a Montelignano alta, Mauro riuscì a liberarsi dall’attonito incanto e le confidò quanta fatica facesse a prendere sonno. «Silvia, ti stai riversando dentro di me con una tale irruenza che la mia mente non riesce a dare spazio alla memoria per accoglierti. Ho sempre la sensazione di non rammentarmi qualcosa di te. Anche tu avverti quel che provo?»
«Affatto», rispose lei cercandogli la mano. Avverto invece un altro impulso: ti strangolo se continui a sbirciare le gambe di Linda.»
Raggiante, Mauro immaginò che quella frase celasse l’intesa che dovesse osare. Le posò la mano su un ginocchio e la mosse verso l’alto ma gli giunse il perentorio richiamo di Silvia.
«Mauro, stai buono o finiamo fuori strada.» Rise tra se quando lo vide ritrarsi con un sospiro ansioso. Più avanti rallentò per indicargli l’imbocco di una stradina laterale. «Là c’è la nostra casa, quella in cui abitavano i miei nonni materni. Ti porterò a vederla un giorno. Ah, eccoci arrivati.»
Arroccata su una collina, ammantata di uliveti e punteggiata da casolari colonici ristrutturati, la storica Montelignano dominava il piano sul quale, a cominciare dagli anni sessanta del secolo scorso, molti lignanesi avevano costruito casa. Si era andata così formando una moderna zona residenziale con tanto di chiesa dall’architettura moderna, impianti industriali e sportivi ma la sede del municipio era rimasta nel centro storico, in un palazzo settecentesco nobiliare. Nei cuori di quella gente sopravviveva tuttavia una tale omogeneità culturale che il loro antico borgo era mantenuto lindo e protetto per volontà di ambedue le frazioni.
Tra le comunità era però inevitabile che nascesse una rivalità di campanile alla quale era dato sfogo disputando una gara di calcio. Così la “partitissima” si era aggiunta alle iniziative di folclore che animavano la Festa delle Api, soprannominata Maggiolona, ricorrenza propiziante l’armonia tra il mondo vegetale e animale. La sagra, attribuita in origine al culto del sole, poi cristianizzata con la cerimonia della benedizione di un alveare, aveva come simbolo il prodotto più nobile della natura, immagine assoluta di laboriosità: il miele. Alle ragazze da marito ne era offerto un vasetto assieme a un ramoscello fiorito di ginestra in segno augurante di fertilità.
Fin dal mattino il borgo antico si riempiva di bancarelle sulle quali erano esposti prodotti alimentari locali, dal miele come ospite regale, ai dolci caserecci fino al ragù d’anatra. Nel pomeriggio, preceduti da mazziere e banda, sfilavano tamburini e sbandieratori che anticipavano la massa dei figuranti abbigliati da messeri, dame e paggetti. Seguivano gli arcieri che si sarebbero misurati in una tenzone di tiro con l’arco sul Terrazzone.
Ognuno faceva il costume a proprie spese. Poiché la vanità prevaleva anche nei cuori lignanesi, si notavano abiti alcuni dei quali non erano rigorosamente fedeli all’abbigliamento del quattrocento, ma sempre realizzati con stoffa pregiata.
Dietro i figuranti, tirati da vacche bianche, sfilavano i carri agricoli sui quali uomini e donne, vestiti da mezzadri del primo novecento, distribuivano ricche porzioni di dolciumi caserecci e vinsanto. Così i lignanesi sfilavano sul loro borgo tra drappi di stoffa gialla che penzolavano dai davanzali delle finestre, e mazzi di fiori di ginestra appesi sopra ogni porta e serranda.
Di sera, a Lignano al Piano, si svolgeva la “partitissima” per contendersi il “Trofeo Sommo”, modello bronzeo della vecchia fortezza. La squadra vincente avrebbe conquistato il diritto di custodirlo nella propria sede sociale fino alla successiva disfida.
Infine la Maggiolona terminava con lo spettacolo pirotecnico.
Ora spendiamo due parole per descrivere lo stradone che collegava il piano col monte. Era uno spazioso viale alberato, in dolce salita, fatto di lunghi rettilinei e ampi tornanti. Per i lignanesi rappresentava la strada della passeggiata serale estiva.
Siccome il luogo si era prestato, negli ultimi tempi, ad attività ambigue, i lignanesi avevano organizzato petizioni per sollecitare il Municipio affinché aumentasse l’illuminazione e fosse rafforzata la vigilanza. Le iniziative si erano protratte con infiammate riunioni fino a che le autorità avevano provveduto e l’offensiva delle attività ambigue era stata respinta.
Il gelato
Silvia e Mauro superarono un arco sul quale spiccava uno stemma consunto dal tempo. Entrarono in un borgo lastricato d’arenaria sul quale correvano antiche case mantenute nella loro storicità.
«Silvia, questo posto è incantevole. Là c’è un parcheggio. Fermati. Voglio osservare quello scorcio.» Mauro si mise a osservare il frontale di una chiesina romanica, col rosone che sovrastava il portale e si affacciava su una piazzetta al cui centro spiccava un pozzo con spallette d’antica fattura. Dinanzi la chiesa dominava un palazzotto medioevale con una scala esterna, coperta da un loggiato ad archi.
Proseguirono per vicoli e anditi incontrando soltanto una coppia anziana che camminava guardinga per non inciampare sulle irregolarità del lastricato e un ragazzo con un gambaletto di gesso che si sosteneva alle stampelle. Raggiunsero un ampio piazzale in fondo al quale s’innalzavano grandi chiome di tiglio.
«Questo è il Terrazzone», gli spiegò Silvia. «È la vecchia piazza d’armi dove si adunavano gli armigeri. Laggiù si vede il panorama della valle.»
Il bar-gelateria, che dava su un angolo della piazza, era quasi deserto. Ai tavoli esterni un uomo di mezza età conversava con una giovane donna indaffarata a non far colare il gelato sugli abiti di due bambine somiglianti come gocce d’acqua.
Il barista, un tipo sulla quarantina, con capelli ricciuti che gli lambivano le spalle, allargò le braccia in segno d’ammirazione ed esclamò: «Silvia, ogni volta che ti rivedo mi sembri più splendida! Spedirò la domanda per te se non ti deciderai a iscriverti al concorso per Miss Italia. Sbaraglieresti tutte soltanto col tuo sorriso senza contare il resto.» Le prese la mano e proseguì con un che di smanceria: «Stasera il Terrazzone è vuoto ma basta la tua presenza ad animarlo.»
«Ciao, Walter. Ti presento Mauro, il mio ragazzo.»
Lui, irritato da quel tipo che si mangiava Silvia con gli occhi, si scostò di un passo e guardò in un’altra direzione per far intendere al “gelataio” che dovesse smettere di tastarle le dita e finirla con quei discorsi da Casanova.
Dopo avere squadrato Mauro con un’espressione indefinita, il barista si propose di offrire loro il gelato. «Accomodatevi, stasera non c’è problema di spazio. Sono tutti a vedere la partita di calcio.»
Notando quanto Mauro avesse assunto un’aria infastidita, lei esitò ad accettare.
«Silvia, non vorrai negarmi questo piacere», insisté il barista seguitando a stringerle la mano.
«Ti ringrazio ma preferiamo fare quattro passi», rispose lei strattonando le dita per liberarle dalla stretta.
«Accettate almeno che ve lo offra sul cono, allora.»
“Mauro, che facciamo?” gli chiese lei con lo sguardo. Lo vide annuire a labbra strette.
Procedendo fra due tribune che avevano ospitato il pubblico durante la gara di tiro con l’arco, i novelli innamorati si diressero verso le chiome degli alberi. Di tanto in tanto si soffermavano per leccare tutt’attorno al cono e impedire che rivoli del gelato colassero sulle dita.
Silvia diede a Mauro una spintarella di spalla per indurlo a guardarla. «Vuoi che rimanga sempre con te? Non farmi mancare il gelato.»
«Avresti dovuto scegliere un gelataio, invece che fidanzarti con un restauratore di mobili. Quel Walter ti ha dato un gelato così grosso che per finirlo ti toccherà leccarlo fino a mezzanotte.»
«Sa che ne sono golosa e il suo è ottimo. E pure lui è un bell’uomo», lo pungolò lei esibendo un risolino lezioso. «Peccato sia sposato e un po’in là con l’età.»
«Spiritosa, fammi il solletico che rido.»
Silvia adoperò la lingua per rintuzzare l’attacco di un’altra colata e rispose: «Mi ero accorta del fastidio che provavi, sai?»
«Embè, ti teneva la mano in un modo che al posto delle dita pareva avesse i tentacoli con le ventose come una piovra.»
Silvia serrò le labbra per non innaffiare il Terrazzone con una risata non trattenuta, ma finì per mandarsi il gelato di traverso e tossì. «Sciocco per poco non strozzavo!»
«Ben ti sarebbe stato! Hai notato lo sguardo che mi ha indirizzato quel tuo gelataio, ammiratore, quando mi hai presentato come il tuo ragazzo?» insisté Mauro.
«No…»
«Allora te lo riassumo: mi ha squadrato da capo a piedi con sufficienza, poi ti ha scrutato come volesse biasimarti per esserti fidanzata con una schiappa. Ho usato un sinonimo soft rispetto a quel che sicuramente ha considerato.»
«Che t’importa? L’avrebbe pensato per invidia.»
«Stasera hai pure messo i sandali con i tacchi», mugugnò Mauro mentre la osservava immergere le labbra sulla porzione di vaniglia.
«Non avrei dovuto? Non sono molto alti.»
«E ti stanno benissimo.»
«Allora dov’è il problema?»
«Mi hai fatto apparire ancora più basso.»
«Oh, senti, non vorrai fartene un complesso.»
Rabbuiato in viso, lui si strinse nelle spalle.
«Metterò le scarpe con tacco “dodici” se continuerai con questa storia dell’altezza.» Silvia rallentò per osservarlo camminare, ebbe un pensiero di comprensione e gli tornò accanto.
Mauro sollevò il braccio sinistro per cingerle le spalle e farle notare come il suo disagio avesse ragion d’essere. «Forse mi devo soltanto abituare.»
«Voglio sperare che ci riesca presto, altrimenti finirò per sentirmi colpevole del tuo disagio.»
«Scusami.»
«Ti scuso se mi fai sentire il “bacio”.»
Lui si sollevò sulla punta delle scarpe e posò le labbra sulle sue.
«Intendevo il gusto al “bacio al Gianduia” del gelato. Non fare il furbo.»
«Ah, questo?» le rispose Mauro ammiccando la parte marrone che marmorizzava la crema e dalla quale emergeva la semisfera di una nocciola.
«Questo gusto mi piace un sacco», disse Silvia adocchiando il seme «ma non lo prendo perché c’è il cacao. Temo mi faccia venire i brufoli.»
«Allora è meglio evitare che ti venga un brufolone sulla fronte», le rispose Mauro allontanandole il gelato dalla bocca proprio quando lei stava per affondarci le labbra.
«Mauro, solo un assaggio», lo supplicò imitando un piagnucolio.
«Te li metterai i tacchi alti?»
«Che cosa c’entrano i tacchi alti col gela… ricattatore!»
«Te li metterai?»
«Sì!»
«Allora niente assaggio.» Mauro leccò il “bacio” e le fece notare quanto lo appagasse quel gusto socchiudendo gli occhi. «Quell’antipatico del tuo amico Walter fa un “bacio al Gianduia” che è la fine del mondo. Silvia non sai cosa perdi», aggiunse usando ancora la lingua a mo’ di cucchiaio.
«Mi arrendo, non li metterò.» Silvia gli strinse il polso per impedire che Mauro allontanasse il cono, affondò le labbra sul freddo amalgama marrone, lo assaporò facendolo sciogliere tra lingua e palato, c’immerse ancora le labbra e ne fece sparire un’altra porzione.
«Mi hai preso la nocciola intera. Era il bocconcino che tenevo per ultimo. Sputa l’osso!»
Silvia serrò la bocca e si piegò in avanti per trattenersi dal ridere.
«Ti autorizzo a deglutire il gelato ma non la nocciola. E non provare ha masticarla», le intimò Mauro. «Dammene metà.»
Lei pose il seme tra le labbra per fargli vedere che nemmeno l’aveva rotto. Poi lo rimise in bocca. «Mi fai assaggiare anche la crema?»
«Ghiottona taglieggiatrice, quel tuo spasimante mi ha offerto una misera porzione di gelato rispetto alla tua e vorresti mangiarmene metà?»
«Ha voluto fare il cavaliere», rispose Silvia gongolando.
«Ha voluto fare il cascamorto. “Come sei bella qui, come sei bella, là! T’iscrivo al concorso di miss Italia se non lo fai tu. Stasera il Terrazzone è vuoto ma basta la tua presenza ad animarlo”. Se ci ripenso…»
Silvia gli sbarrò il passo e torreggiò di fronte a lui. Aveva lo sguardo dolce e disteso. Il perfetto disegno delle sue labbra era interrotto da un minuscolo sbafo marrone del “bacio”. Spezzò la nocciola con gli incisivi e gliene passò metà, accostando la bocca alla sua.
L’anziana maestra
Gettarono i coni, intrisi di gelato colaticcio, in un cestino dei rifiuti e si lavarono le mani a una fontanella. Poi si appoggiarono al parapetto del bastione per ammirare il panorama della valle. Le chiome degli alberi attenuavano il chiarore proveniente dai lampioni del piazzale, cosicché le luci che punteggiavano la vallata avevano quel brillio tipico delle stelle e davano l’impressione che il cielo si specchiasse sulla Terra.
Dallo stadio giungevano fin lassù le grida attutite dei tifosi lignanesi. Le trasportava un tiepido scirocco che addolciva la sera e spandeva per l’aria l’inebriante profumo dei fiori di tiglio precocemente sbocciati. A ponente, sul filo dell’orizzonte, insisteva un rimasuglio di chiarore crepuscolare.
Tra una pianta e l’altra lo spazio era arredato con due panchine, segno evidente che quel luogo era molto frequentato.
Silvia e Mauro si erano appena avviati lungo il parapetto, quando udirono un brusio d’anziane voci femminili. Intravidero tre sagome sedute su una panchina.
«Buona sera, signora Gina.»
L’anziana, alla quale Silvia si era rivolta, rispose con voce tremula: «Buona sera. Mi scusi ma qui c’è poca luce e la vista comincia a farmi cilecca anche con gli occhiali.»
Silvia lasciò Mauro accanto al parapetto e si avvicinò. «Signora Gina, ora mi riconosce?»
«Cocchina, scusami. Non riesco a vederti bene.»
«È la nipote del povero Nanni e della povera Lina», disse la donna che gli sedeva accanto, «la figliola mezzana di Tiziana.»
«Silvia?»
«Sono io signora Gina.» Quella donna era stata dirimpettaia dei nonni e n’era passato di tempo da che l’aveva vista l’ultima volta.
L’anziana poggiò la mano sullo schienale della panchina per aiutarsi a mettersi in piedi ma Silvia si chinò per impedirglielo.
«State comoda signora Gina», le disse posandole la mano sulla spalla.
«Ora ti riconosco.» La fronte ossuta dell’anziana si raggrinzò in file parallele di rughe profonde. «Silvia, tutto bene in famiglia?»
«Sì. Voi?»
«Diciamo di sì ma gli anni cominciano a essere troppi e la vecchiaia riduce rinsecchiti al pari di rami morti, come se la terra volesse riprendersi tutta la linfa che ti ha prestato in gioventù. Il novembre prossimo ne compirò novanta.»
«Però vi vedo ancora in forma.» Silvia le strinse la mano ossuta. «So che ora abitate con la vostra figliola Loredana.»
«Dopo la morte di mio marito non potevo più rimanere sola.»
«Mi è spiaciuto tanto, quando l’ho saputo signora Gina.»
«Così è la vita, Silvia. Oggi ci siamo e domani… sia fatta la volontà del Signore. Ci andate sempre nella casa dei tuoi nonni?»
«Quasi tutte le domeniche. L’abbiamo fatta anche ristrutturare.»
«Quanto ci stavo volentieri laggiù», seguitò la Gina con un tono vacillante, venato di rimpianto. «Mi fa piacere sapere che voi continuiate ad abitarla. Io esco sempre meno di casa, purtroppo; una volta l’artrosi, un’altra il cuore che traballa. Mi faccio compagnia con la televisione ma anche quella devo vederla col contagocce per via della vista. «Stasera i miei sono andati a vedere la partita e siccome mi sentivo bene, sono uscita con le mie vicine a fare quattro passi. Sei qui per vedere i fuochi, Silvia?»
«Sì signora Gina.»
«Ho piacere che tu sia rimasta affezionata alle tradizioni paesane. Correvi con i tuoi fratelli intorno a questi alberi e la vostra mamma non vi perdeva d’occhio per timore che vi sporgessi dal parapetto. Rammento tutto dei fatti lontani e più sono indietro nel tempo, più ricordo i particolari, perfino molti nomi dei bambini cui ho fatto scuola ma non quel che mi è capitato la settimana scorsa. Forse il buon Dio vuole prepararci a lasciare la vita terrena facendoci il dono di rammentare soltanto la nostra giovinezza.»
Silvia sentì, nella mano della vecchia, la tensione dei tendini a fior di pelle. Gliela strinse come a volerle trasmettere un po’ della sua energia.
«Questo giovanotto chi è? Tuo fratello? Lorenzo, avvicinati, fatti vedere meglio.»
«È Mauro, il mio fidanzato.»
«Gesù, ti tenevo in braccio ieri.»
«Quanto vorrei tornare a diciotto anni», commentò una delle donne anziane. «Tra un bombardamento e l’altro andavo scalza per i campi a cercare qualche frutto da mangiare e le stoppie neanche le sentivo.»
Mauro si approssimò per porgere la mano e la Gina gliela trattenne accanto a quella di Silvia.
«Lo sai Mauro? Da piccola, Silvia, era così bellina che l’avrei mangiata dai baci e i giochi che le piacevano le stimolavano la pipì. Una volta cadde sulla ghiaia del cortile e si spellò un ginocchio, sicché mio marito dovette portarla in casa per disinfettarglielo. Siccome per le scale strillava che pareva la sirena dei pompieri, mio marito gli inventò che il ginocchio le doleva perché saliva dalla parte sbagliata. Gli spiegò che quando lui si faceva la bua, saliva le scale dall’altra parte e il dolore gli passava. Silvia fece come gli disse il mio Tonino e quando lui le domandò se sentisse ancora dolore, lei tirò su i mocci e rispose: “Nnnzzz”!»
«Non sarà vero, Silvia!» esclamò Mauro ridendo.
Lei annuì obbligandosi a non battere le ciglia per trattenere le lacrime.»
«Se la sua mamma non gli dava il gelato, perché ne aveva già mangiato troppo, prendeva certe bizze. Ti spiace se rammento queste cose, Silvia?»
«Non vi preoccupate signora Gina.»
Rievocare momenti sereni diede un po’ di vigore alla voce della vecchia. «E quant’era curiosa. Si faceva accompagnare da sua sorella sotto un pino che cresceva in fondo al mio orto per guardare i bruchi, quelli pelosi che formano lunghe file e irritano come l’ortica se li tocchi. «Le chiocciole», proseguì la Gina «le chiamava cicciole. Le metteva sul dorso della manina e attendeva che venissero fuori del guscio. Le avevo insegnato a canticchiare una canzoncina. La ricordi Silvia?»
«Cicciolina, cicciolina tira fuori le cornina perché voglio mirare come sei bellina», disse lei col groppo in gola.
«Quando le chiocciole uscivano dal guscio», proseguì la Gina, «Silvia rimaneva incantata a osservarle salire su per il braccino, poi le metteva nel buco di un muro. Nella loro casetta, diceva.»
La Gina raccontò che lei e sua sorella si contendevano sempre una vecchia carriola con la quale si divertivano a scorrazzare il piccolo Lorenzo e finiva spesso che l’avesse vinta lei, anche se poi le toccava faticare fino a diventare rossa come un peperone per sollevare le stanghe e spingerla.
Casa mia», seguitò la Gina «aveva un ampio cortile in comune con quella dei suoi nonni. Silvia non si allontanava mai di lì e sapevi il luogo in cui andare a cercarla, se spariva. La trovavi dietro casa mia nello stanzino dei conigli. Una volta decidemmo di pranzare assieme, sicché mio marito dovette ammazzare due conigli ma mentre lo faceva, non t’arriva Silvia. Si mise a strillare così forte che mi affacciai alla finestra. Temevo si fosse fatta molto male cadendo.»
Mauro vide Silvia portarsi le mani al viso, come se quell’episodio si accingesse a riviverlo con sofferenza.
«Vidi invece il mio Tonino massaggiarsi una gamba e Silvia fuggire via mentre gli gridava: “Cattivo, non ti voglio più vedere e non venire più in casa mia!” Ricordi Silvia?»
Lei annuì turbata.
«Da quella volta non volle più mangiare carne. I pediatri consigliarono i suoi genitori di fargliela mangiare perciò macinavano il pollo lessato e glielo mescolavano al minestrone di verdure oppure trituravano il petto di tacchino e lo mettevano nello sformato. Lei se ne accorse e iniziò a fare lo sciopero della fame. I genitori pensarono bastasse regalarle qualche animaletto per farla rinunciare, così le donarono una coppia di cardellini, ma lei li liberò il giorno dopo. Ora la finisco o ti metto in imbarazzo davvero, Silvia.»
«Signora Gina potete dire quel che volete.» Silvia si chinò per posarle le labbra sulla fronte. «Mi ha fatto tanto piacere, rivedervi.»
«Anche a me e vedo che sei diventata una ragazzona anche senza ciccia. Purtroppo ognuno va per la sua strada, il tempo sfilaccia tutto e il vecchio muore. “Ognuno sta solo, sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole ed è subito sera”. Il suo volto si distese in un fiacco sorriso. «Ora non facciamoci prendere dalla malinconia.» Respirò con affanno e si rivolse a Mauro. «Da quanto tempo siete fidanzati?»
«Da otto g…»
«Otto mesi», lo anticipò Silvia.
«Allora è poco. Avrete modo di conoscervi meglio.»
«Signora Gina», disse l’anziana che le sedeva accanto «è ora che mi avvii verso casa, ma se tu e Clara volete rimanere restate pure.»
«Veniamo anche noi», rispose lei tentando di sollevarsi.
Mauro e Silvia si affrettarono ad aiutarla.
«Non restate a vedere i fuochi?» chiese Silvia.
«Ci piacerebbe ma la guazza della sera lascia con le ossa rotte. «Buona notte, ragazzi», disse la Gina «e tu, Silvia, rammenta alla tua mamma che mi farebbe piacere se venisse a trovarmi, almeno una volta, perché non la tirerò per le lunghe. Ho il cuore rigido come uno stoccafisso e le sue pareti stanno divenendo di carta velina.»
«Ve lo prometto signora Gina.»
L’anziana strinse assieme le mani dei due ragazzi, come per benedirli quindi le tre donne con le mantelline fatte all’uncinetto, posate sulle spalle, si avviarono tenendosi sottobraccio.
Turchese
Si sederono sulla medesima panchina e avvertirono il tepore che le anziane avevano lasciato.
«La tua amica Gina ha recitato una delle più belle poesie di Salvatore Quasimodo. Mi ha sorpreso.»
«Beh, era maestra elementare. Ha insegnato a parecchie generazioni a Montelignano.»
«Ecco perché si esprimeva così bene.»
Ora, Mauro, ho bisogno di confidarmi. Mi ero affezionata a quei coniglietti perché mi affascinava vederli crescere. Correvo subito in quello stanzino quando venivamo alla casa dei nonni, per vedere quanto fossero cresciuti. Uno aveva il pelo bianco e gli occhi celesti. Lo chiamavo Cico. Mangiava l’erba medica dalla mia mano. Il caso volle che un giorno giungessi mentre Tonino lo teneva penzoloni per le zampe posteriori e lo colpiva tra il collo e le orecchie con un bastone. Cico si divincolava e Tonino insisteva a bastonarlo. Cico mi guardava come volesse chiedermi il perché di tutto quello strazio. Il sangue gli usciva dal naso, dalla bocca e Tonino che continuava a tenerlo penzoloni perché il sangue seguitasse a scolare per terra. Poi Cico rimase intirizzito, con gli occhi sbarrati, come se la natura gli avesse persino negato di chiuderli al mondo. Raccolsi una pietra e la tirai a Tonino.
Mauro avvertiva quanto sforzo le costasse confidargli un fatto che le aveva procurato un rimorso del quale non era riuscita ancora a liberarsi. Lasciò che si sfogasse stringendole la mano.
«Lo colpii su una gamba e lui fece cadere il coniglio a terra. Fissai il musino insanguinato del mio Cico. Poi corsi in casa strillando. Rimasi in camera mia per tutto il giorno, sconvolta. La domenica successiva i miei genitori mi accompagnarono da Tonino perché mi scusassi. Ubbidii ma non ci tornai più in casa sua e mi voltavo dall’altra parte se lo incontravo. Tonino era un brav’uomo e uccise Cico in quel modo perché era così che si faceva ad ammazzare i conigli. Rammento che mi cuoceva le castagne mettendole in una padella bucherellata, di quelle col manico lungo. Poi mi raccontava della sua prigionia in africa, durante la seconda guerra mondiale e della fame che non riusciva a togliersi.» Silvia incominciava ad avvertire la sensazione che dentro qualcosa le sarebbe parso più leggero. Col dorso della mano rintuzzò una lacrima. «Ho pianto più da quando ti ho conosciuto che in tutta la mia infanzia cribbio!»
«Mio padre sostiene che la vita è un susseguirsi di varchi per attraversare i quali si devono pagare pedaggi fino all’ultimo respiro. Persino la gioia ha un prezzo.»
«È così Mauro. Vorrei andare nel futuro per sapere se attraverseremo quei varchi sempre assieme.»
«Io nel passato per vedere quale aspetto birichino ti donasse la tutina rossa. Sarei voluto comparire mentre gettavi a terra la frutta a Erminia la fruttivendola perché ti aveva nascosto il ciuccio.»
«Come sai certe cose?»
«Me ne ha parlato lei, oggi, dopo essersi scusata per l’equivoco. Lo ricordi quel fatto?»
«Altroché! Che altro ti ha raccontato di me?»
«Che portavi appresso sempre lo stesso giocattolo.»
«Era uno di quei robottini spaziali tipo Goldrake.»
«Preferivi i robot alle bambole?»
«Quelle le detestavo.»
«Pure mia sorella. Aveva il terrore che cominciassero a muoversi senza che nessuno le toccasse.»
Silvia assunse un’espressione stupita. «Avevo questa paura Anch’io. Temevo che le bambole si aggrappassero alle coperte e di vedere le loro faccine comparire dal bordo del letto e strisciare verso di me. Ho sempre pensato fosse soltanto mia quella fobia. Non puoi immaginare quanto mi conforti sapere che altri ne abbiano sofferto. Chissà da quale grinza della mente nasceranno certe paure.»
«Fortissimo quel che hai detto: la grinza della mente. Dà l’idea di qualcosa che bisogna stirare se si vuole tentare di capirci qualcosa.
«Mi è venuto di dirlo a caso ma ora lasciamo agli psicanalisti la missione di fare gli speleologi dell’inconscio e dimmi: che altro ti ha rivelato di me quella chiacchierona dell’Erminia?».
«Un’altra cosa ma non te la posso riferire.»
«Mauro dimmela!»
«Mi ha riferito quanto fossi pisciona, come la maestra Gina.»
«Oh cribbio! Che altro sai della mia infanzia?»
«Che ti divertivi a fare l’autopsia ai giocattoli.»
Questo può avertelo detto soltanto mio padre.»
Mauro avvertiva quanto piacere Silvia provasse a scoprire che di lei sapesse tante cose e quanto, ora, quello stesso piacere riuscisse a rimetterle in un angolo della memoria il brutto ricordo del coniglio. «Avrò il rammarico di aver perso vent’anni della tua vita», le sussurrò.
«Mauro smettila o piango.»
Fu quell’atmosfera di confidenza a guidargli la mano nel punto in cui la gonna lasciava scoperte le gambe di Silvia. L’accenno di sorriso con il quale lei accolse il gesto gli esprimeva intesa. Le sue dita avvertirono la freschezza dei vent’anni quando s’insinuarono tra la morbida carne nell’incavo delle cosce. S’impose di non darsi fretta a risalire quelle gambe affusolate per bearsi di centellinare la loro vellutata levigatezza.
Seguì un bacio convulso nel quale i denti di entrambi si urtarono, le lingue duellarono per contendersi lo spazio, un bacio che divenne calmo, a poco a poco, fino a divenire esplorazione reciproca degli angoli più reconditi delle loro bocche.
Silvia divaricò un po’ le gambe per fargli intendere che avrebbe potuto osare. Avvertì la mano di Mauro risalirle le cosce lentamente, indugiando ad accarezzarle, palparle con leggerezza, poi risalire fino a posarsi sulle mutandine. Nonostante l’emozione riuscì a sussurrargli un monito. «Accontentati di queste o non sarà mia nonna a prendere la scopa ma io il matterello.»
Lui smorzò un risolino accostandole la bocca ai capelli e fu come se il tepore di quella pelle levigata, dalle dita gli salisse al volto. Avvertì il soffice vello oltre il tessuto sottile delle mutandine.
«Mauro stai arrossendo?»
«Non saprei.»
«Io sì. La tua guancia mi scotta il collo.»
«Silvia le hai le foto di quand’eri bambina», le bisbigliò.
«Due album pieni.»
«Anche con la tutina rossa?»
«Molte.»
«Posso averne qualche copia? Recupererò con le immagini il tempo in cui non ti conoscevo.»
«Te ne porterò di tutte le età.» Silvia gli posò le dita sulle labbra e le insinuò tra esse. La parte interna, umida di saliva, le provocò un brivido e quando lui, con la mano libera, fece il tentativo di sbottonarle la camicetta, compì l’atto di aiutarlo a liberare le mammelle dalle coppe del reggiseno con una spontaneità istintiva. Avvertì i capezzoli inturgidirsi ancor prima che Mauro li sfiorasse con le labbra. Inarcò la schiena alla leggera stretta dei denti, il respiro corto, spezzato. Gemette piano e sussurrò qualcosa.
Lui respirò la fragranza che emanava la carne soda di quegli opulenti seni, insinuò la mano sotto le mutandine e accarezzò la soffice peluria che celava il tenero nido: rugiada sulle dita.
Silvia percepì l’ardore col quale si scopriva donna. «Mauro mi sento tutta bagnata…»
«Lo credo bene, sei pisciona.»
«Sciocco, lo sai che non è pipì.» Lo sentì emettere un risolino, le dita insinuarsi nel suo nido, indugiare sul minuscolo forellino dell’imene poi iniziare a titillarle il bottoncino. Mosse il bacino per assecondarlo, emise un gemito nasale, avvertì uno struggimento tanto intenso da sembrarle uno spasimo quasi insopportabile. Il cuore le batteva nel petto come un tamburo. Arcuò la schiena stringendogli con forza i capelli. La sua mente figurò un’onda tumultuosa, si sentì sollevare sulla cresta del flutto, infine lasciò che il cavallone la sommergesse una volta, poi l’onda si calmò un istante prima di sommergerla ancora e tutto fu turchese. Si sentì adagiare su una quieta risacca e cullare da placidi ritorni dei flutti. Fece un respiro profondo, gettò la testa indietro e la sua chioma dondolò oltre lo schienale della panchina. Immaginò che il piacere fisico provato fosse rimasto sospeso sull’aria come una bolla di sapone che la bava di brezza faceva fluttuare. La luce aranciata dei lampioni illuminò il suo viso con un gioco di luci e ombre che sfumavano l’intensa soddisfazione dei sensi e modellavano un’opera d’arte: l’espressione di una donna appagata. Restò in silenzio, sorpresa e rilassata, le mani a blandire con tenerezza i capelli di Mauro, rimasto col viso tra i suoi seni.
Mauro colse gli occhi di Silvia dritti nei suoi quando sollevò il viso dalle sovrane del mondo. Affascinato, rimase a osservarne il volto ovale, le iridi luccicanti per il riflesso dei lampioni, il respiro leggero.
«Mauro volevi farmi svenire? È la prima volta sai? Nemmeno da sola avevo mai provato, invece a te non manca la pratica.»
Lui soffocò un altro risolino premendogli la bocca sul collo, poi disse con un tono esageratamente saccente per il piacere interiore di essere stato il primo uomo a farle provare la delizia del suo primo orgasmo: «Nel sesso si può imparare la tecnica ma è l’amore l’artefice principale, perché l'arte di dare piacere è l'arte del sentimento. Senza amore la tecnica più perfetta è priva di valore e diventa solo un artificio senza profondità e senza anima.»
«Mauro», gli rispose lei, la voce ancora alterata dal languore «questa è la frase più bella e romantica che avresti potuto dirmi.»
«Sei tu la mia ispiratrice, Silvia.»
Lei gli sorrise dolcemente, poi gli disse: «Te ne sei accertato eh?»
«Di cosa?»
«Non cascare dalle nuvole che mi hai fatto una visita ginecologica completa.» lo vide grattarsi il capo imbarazzato. «Ti fa piacere che sia ancora vergine?»
«Altroché!»
Gli poggiò la mano sinistra alla guancia e lo costrinse a guardarla. «Mauro sto bene con te, cribbio come ci sto bene. Il buffo è che non riesco a capire fino in fondo il perché. Mi sembra di conoscerti da anni. È come se tutte le cose sappiano di te.»
«Pur strano che possa sembrarti avverto anch’io le medesime sensazioni.»
«Sciocco non dirlo con quel tono ironico da vissuto Dongiovanni altrimenti ritorno da Walter a farmi riempire di complimenti.»
«Passami un fazzolettino invece di rammentarmi quel vanesio», le chiese Mauro fissandola con uno sguardo biasimante. «Ho d’asciugarmi le dita pisciona che non sei altro. Ehi ma tu fai la pipì sempre così scivolosa?» La sentì emettere un risolino compiaciuto. Gli premette un nuovo fazzoletto sul naso. «Soffia. L’emozione di avere provato per la prima l’orgasmo ti ha sciolto pure i muchi del naso.»
«Mauro mi fai sentire una bambina così.»
«Lo sei. Forza soffia. Assecondò la fuoriuscita del muco stringendole e allentandole le narici. «Mi sa che Erminia la fruttivendola s’è scordata di avvertirmi che sei anche moccicosa oltre che pisciona. Questo fazzolettino ora peserà mezzo chilo.» Lo tenne ciondoloni per due lembi.
Silvia rise fino ad avere un rigurgito. «Scemo mi fai tornare il gelato alla gola.»
«Lo credo bene il tuo ammiratore te ne ha dato un chilo! Vuoi vedere che riesco a infilare entrambi i fazzolettini nel cestino dei rifiuti?» disse Mauro accartocciandoli.
«Non ci riuscirai. È troppo distante.»
«Andranno dritti senza svolazzare, pesanti come sono. Me lo dai un bacio se faccio canestro?»
«Nnnzzz.»
Mauro li lanciò centrando il cestino. «Hai visto che mira?»
«Vieni qua dongiovanni mascherato da ingenuo ma preso al laccio. E stanne certo che il mio cappio non ti lascerà scampo.»
«Hai detto che non volevi baciarmi.»
«Dai, Mauro, scherzavo.»
«Ora sono io che non voglio più baciarti.»
«Mi vuoi bene Mauro?»
«Nnnzzz!»
«Cribbio quant’è stronzetto sto ragazzo che mi ha tolto il sonno. Verso le cinque del pomeriggio incomincio a ciondolare il capo sul banco, mia madre se ne accorge e mi fa accompagnare da Adriano a prendere il tè.»
«Ce ne sono capitate troppe in pochi giorni ma vedrai che pass… Chi è Adriano?»
«È l’unico commesso uomo che abbiamo», rispose Silvia con un tono malizioso. «Mi accompagna spesso al bar. È un bel ragazzo, moro e con baffi. È alto quanto Stefano e il migliore di tutti a servire i clienti.»
«Hai finito di trovargli i pregi?»
«Puoi dormire tra due guanciali. Adriano è gay.»
«Uno di quelli che ha guadato il fiume in pianta stabile o gli garba fare escursioni anche in questa parte della sponda?»
«La prima ipotesi credo sia quella giusta. Convive con un ragazzo da diverso tempo ormai.»
«Speriamo ci rimanga.»
Una virgola di sorriso distese le labbra di Silvia. «In ogni caso non sarebbe il mio tipo.»
«Però ti piace punzecchiarmi, eh?»
Silvia gli accostò le labbra all’orecchio per sussurrargli: «Pure a te. Non mi sono scordata lo scherzo della Tavanti Margherita sai?» Lo baciò d’impulso tenendogli una mano premuta sulla nuca perché non si scostasse. Gli posò l’altra sul cuore, poi la fece scivolare più giù. Mosse le dita a cercarne la forma tra le pieghe della stoffa. Lo sentì turgido e pulsante come fosse dotato di vita propria. «Ciumbia è già…»
«Silvia, mica abbiamo fatto il gioco dell’oca.»
Lei fu presa da un rimescolio d’eccitazione e curiosità. Cercò la linguetta della chiusura lampo e le sue dita scivolarono sotto la stoffa dei boxer.
«Silvia questo non è il posto adat…»
Lo interruppe baciandolo ancora. Caldo e morbidamente rigido le riempì la mano. «Come siete buffi voi uomini Sembra vivo. Strinse le dita e il pene ebbe un impulso erettile. Sorrise mentalmente e lo strinse ancora. «Sei tu che lo fai muovere così?»
«È il mio cervello che risponde alle tue carezze.»
Ogni attimo che passava Silvia si sentiva più padrona. «Vuoi che continui?»
Mauro occhieggiò verso il piazzale per accertarsi che non venisse gente. «Sì ma adagio o mi sporco se vengo.»
«Se sei già qui.» Lo vide farle linguaccia e socchiudere gli occhi.
Abbassò il prepuzio del pene e sfiorò il glande. Lo sentì bagnato di liquido viscoso. «Sei venuto un pochino?»
«No è che un po’ ci lubrifichiamo anche noi sai?»
«Questa, giuro, non la sapevo.» Silvia lambì il frenulo scivoloso col pollice e continuò ad accarezzarlo con delicatezza. Godeva nel cogliere i corti sospiri e gli improvvisi sussulti che Mauro faceva. Gli osservò le palpebre abbassate, tremolanti. Dall’espressione del suo volto capiva quanto si sforzasse di rimanere in bilico tra il bisogno di “naufragare” e il desiderio di continuare a “galleggiare”. Certa che l’avrebbe fermata prima del “naufragio”, continuò ad accarezzarlo in quel punto sfiorandolo appena. Lo sentì irrigidirsi e bloccarle la mano.
Mauro abbandonò il capo sulla sua spalla. «Silvia ora non inventarmi che t’è venuto di farlo solo per istinto.»
«Ho soltanto seguito le indicazioni di un inserto sui rapporti sessuali intitolato “cento modi per farlo impazzire col petting”. Era su una rivista femminile che compra mia sorella.»
«Non dimenticarti gli altri novantanove.»
Silvia gli rivolse uno sguardo dolcissimo e gli disse a bassa voce: «Mauro hai bisogno di sfogarti?»
«Insomma.»
«Vuoi che andiamo da qualche parte in macchina?»
«E i fuochi?»
«Un’altra volta.»
«Quanti fazzolettini ti sono rimasti?»
«Devo avviare un nuovo pacchet… cribbio non vorrai allagarmi la macchina.»
«Stasera correrai questo pericolo.»
Lei gli fece una complice strizzata d’occhio. «Andiamo?» Subito dopo udì un parlottio. Temendo si avvicinasse gente, si affrettò a tirare in alto la linguetta dello zip. Avvertì l’aggeggio scorrere un poco sulle guide, poi bloccarsi. Sentì Mauro afferrarle il polso ed emettere un gemito, scorse una smorfia di sofferenza sul suo viso. «Cribbio, Mauro, che ti è preso?»
«Tu che cosa mi hai preso piuttosto!» sospirò lui reprimendo una smorfia di dolore. «Mi hai preso la pelle del prepuzio nella chiusura lampo.»
«Oddio scusami, mi era parso che arrivasse qualcuno. Silvia si voltò verso la piazza per accertarsene. Notò alcune persone che si erano incamminate verso il centro storico conversando e mangiando gelati. Fece il gesto di imprimere alla linguetta uno strappo verso il basso ma si sentì bloccare la mano.
«Fermati! Mi fa un male boia», reagì Mauro.
«Mamma mia ora che facciamo?»
«Devo riuscire a liberarmi che altro?»
«Fai piano. Ora è anche mio.»
Lui, che aveva già stretto i denti per prepararsi allo strappo, rilassò le braccia. «Silvia non farmi ridere.» Impresse uno strappo secco trattenendo il fiato. Liberarsi fu più facile di quel che avesse temuto. «Guarda se esce sangue.»
Lei chinò il capo ma la luce debole gli impediva di verificare. Tolse l’accendino dalla borsetta e illuminò alla meglio il pene. Vide un filo vermiglio che colava dal prepuzio e macchiava gli slip. «Oddio Mauro esce sangue per davvero.»
«Oh porco diavolo prendi i fazzolettini.»
Agitata Silvia tornò a frugare nella borsetta. «Cribbio no! Quello avviato è vuoto ma pensavo d’averne preso un pacchetto nuovo.»
«Cerca ancora.» Mauro intravide alcune persone che si approssimavano a passo lento. «Sbrigati Silvia.»
«È inutile. Ora ricordo, l’ho tolto per sistemare le sigarette e m’è rimasto sul comodino.»
«Almeno ti fosse capitato il contrario. Fruga nelle tasche del mio giubbotto.»
Lei gli ubbidì tremante. «Mauro li ho trovati!»
“Grazie Manuela. Aprine tre, mettine uno sopra l’altro e avvolgicelo.»
Silvia ubbidì, l’espressione umiliata.»
«Brava, così.» Mauro sistemò gli slip in modo che tenessero i fazzolettini fermi il più possibile. Poi la accarezzò per consolarla. «Ora stiamocene buoni ad aspettare i fuochi.»
«Cribbio», si amareggiò Silvia «la prima volta che tocco il pisello al mio ragazzo, per poco non lo circoncido. Bisognerebbe disinfettarlo.»
«Non ce n’è bisogno.»
«Ma esce sangue.»
«Esce perché lì ce n’è parecchio in certi momenti ma è solo un graffio.» Mauro vide le guance di Silvia rigarsi di lucciconi. «Prova a pensare al lato buffo», le disse per consolarla «se un regista usasse quel che c’è successo per la scenetta di un film comico, basterebbe perché faccia cassetta. La abbracciò per consolarla dondolandola adagio.
«Mauro, insisto per disinfettarlo. In macchina ho l’occorrente per il pronto soccorso.»
«Va bene ma ora stiamocene buoni ad attendere i fuochi.»
Con l’avvicinarsi della mezzanotte iniziò a giungere molta gente e il chiacchiericcio degli adulti si mescolò alle grida dei bambini che si rincorrevano improvvisando cori.»
«Ona, ona, ona com’è bella la maggiolona.»
«Quassù pare di stare al cinema, in galleria», disse un uomo di mezza età che conversava con un gruppetto di coetanei.
«Io sono uscito dallo stadio che mancava un quarto d’ora alla fine della partita per evitare la confusione del rientro», commentò un altro. «Ho saputo che i fuochi saranno più belli dell’anno scorso.»
«Ogni volta dicono così, invece li fanno sempre più miseri», dissentì un tipo panciuto.
«Lo credo bene», chiosò un tale che esibiva un gran paio di baffi. «Con questo diavolo d’euro è raddoppiato tutto e i fuochi costano una barca di soldi.»
«Io», disse una signora rivolgendosi al baffone «so di paesani che nemmeno un centesimo hanno sottoscritto per la festa. Non voglio fare i nomi ma tra loro c’è gente benestante.»
«Poi son quelli che criticano», borbottò un’altra. «Mio cognato ruba il tempo alla famiglia per contribuire a organizzare la sagra e deve pure sopportare le lamentele di chi non muove un dito. Si sa, qualcosa è possibile sbagliare ma è facile criticare e basta. Andrà a finire che nessuno vorrà più organizzare la Maggiolona.»
«Il problema è», aggiunse un’altra donna sulla trentacinquina, che con gli orecchi ascoltava e con gli occhi vigilava i figlioli, «che c’è entrata di mezzo la politica. Ho saputo che… Mirco, Luana, o scendete subito di lì o vi riporto a casa, intesi? Insomma, ho sentito dire che… »
Un fiore multicolore si allargò sullo sfondo bruno del cielo e tutti tornarono bambini. Con la bocca schiusa per gli strascicati “oh” di meraviglia, la gente commentò che ogni fuoco pareva più bello dell’altro e Silvia si accese una sigaretta per godersi appieno lo spettacolo. Infine ci fu l’assordante gragnola di botti finali che fece accucciare i cani tra le gambe dei padroni.
«Arrivano!» gridò un bambino. «Quest’anno li abbiamo suonati per quattro a due.» Si mise a gridare “alé ooh, alé ooh, ooh” con un gruppo di coetanei.
Sul viale comparve uno strombazzante serpente di fari. Le auto dei lignanesi al monte seguivano l’ape di Ciro detto Faina perché era tradizione che concedessero a lui l’onore di trasportare l’ambito trofeo fino alla loro sede. Ciro aveva volto aguzzo, occhi piccoli e guizzanti. Il soprannome “Faina” gli derivava non solo dall’aspetto ma per la scaltrezza con la quale, nottetempo, si “procurava” legna dalle cataste che avvistava sui bordi delle strade di campagna, e “rimediava” uva dalle più solatie vigne di collina, per farci un vino di tredici gradi, senza che nessuno fosse mai riuscito a prenderlo in castagna.
La gente si avviò alla spicciolata verso casa e della maggiolona non rimase che un vago odore di polvere pirica sull’aria e, per terra, qualche busta con rimasugli di patatine fritte.
Ritorno ai campi elisi.
Avevano raggiunto il piano e si erano addentrati in un passaggio campestre. Lo schienale della poltrona di Mauro era abbassato e Silvia reggeva un batuffolo di cotone imbevuto d’antisettico.
«Silvia, lascia stare, è solo un graffio.»
«Mica ti vergognerai.»
«Insomma…»
«Sul Terrazzone non provavi vergogna.»
«Ora sì. Il cervello è buffo. Quel disinfettante è scaduto?»
«No che non è scaduto. Non sono due mesi che ho comprato questa roba.»
«Brucia?»
«Non è alcool.»
«Lì è una parte parecchio, parecchio delicata, però.»
«Uffa non fare il fifone.»
«Silvia, l’hai sentito?»
«Che cosa?»
«Un rumore strano. Non credi sia meglio andarcene?»
«Mauro non inventare scuse e tira giù i pantaloni.»
«Silvia mi raccomando.»
«Togli anche gli slip.»
Dallo strato di fazzolettini traspariva una macchiolina vermiglia.
Silva provò a rimuovere le salviette ma dovette desistere perché Mauro emise un gridolino di dolore. «Il sangue ha appiccicato la carta alla ferita.»
«Allora staccherò i fazzoletti con l’acqua calda a ca… ahia!»
«Fatto.» Silvia fece un risolino. «Com’è bruttino quando è floscio! E queste paiono uova di gallinella.»
Mauro si coprì gli occhi. “Altroché se ha ragione tuo padre a sostenere quanto tu sia curiosa”
«C’è un graffietto sulla pelle.»
«Vedi che non c’è bisogno di disinfettarlo, Silvia?»
«È meglio di sì invece.» Silvia passò il cotone sul graffio delicatamente. «Brucia?»
«Nnnzzz!»
«Che ti avevo detto, pauroso che non sei altro?»
Mauro, superata la fifa, cominciò a rimboccare le correnti che conducevano ai campi elisi.
«Cribbio si sta ingrossando e la ferita si sta riaprendo. Non puoi farlo stare buono?»
«È una parola con te che lo tocchi.»
«Ciumbia mica lo hai piccolo. Ce lo hanno tutti così i maschi?»
«Silvia non c’è una misura standard. Credo di essere nella media.»
«Mauro ti ho fatto una domanda sciocca?»
«Non è sciocca, mi meraviglio soltanto che…»
«Che non ne abbia visti altri, per fare un paragone, volevi dire? No non li ho mai visti nemmeno in internet in qualche video hard, ma ora credo sia meglio andare, sai?» aggiunse Silvia avvertendo qualcosa che somigliava ad uno svolazzo di farfalle nello stomaco. «A casa disinfettalo ancora e butta gli slip o tua madre chissà cosa penserà ti abbia fatto.»
CAPITOLO DECIMO
QUELLA DIGA NON S’ HA DA FARE.
BATTAGLIA ECOLOGISTA IN DIFESA DELLA VALCORNIOLA.
COSTITUITO UN COMITATO PER IMPEDIRE LO SBARRAMENTO SUL RIO MAESTRO
Il professor Livio Livi, presidente provinciale della FNEI e Francesca Guadagni, portavoce del circolo “GREEN PLANET”, annunciano la costituzione di un comitato contro la costruzione di una diga in Valcorniola sul torrente Rio Maestro. Portavoce è stato eletto l’ingegner Fabrizio Ridolfi, noto per le sue battaglie ecologiste. Ridolfi annuncia che il comitato sta redigendo un ricorso da inviare agli enti competenti e che parlamentari appartenenti a maggioranza e opposizione, presenteranno interrogazioni a Camera e Senato. “Se fosse necessario”, dichiara Ridolfi “ci appelleremo anche al Presidente della Repubblica e al Parlamento europeo pur di impedire la realizzazione di un progetto che distruggerebbe un ecosistema biologicamente integro e da salvaguardare istituendo un parco naturale protetto.” Gli ecologisti organizzeranno una manifestazione con raccolta di firme nei pressi dell’Amministrazione Provinciale, durante la quale sarà tenuta una conferenza stampa e radio televisiva.”
Il sindaco di Sanfabiano
Era il contenuto dell’articolo pubblicato nella terza pagina del Corriere della Provincia e che Roberto Marchetti, sindaco di Sanfabiano aveva letto prima che lo avvertissero dell’arrivo della delegazione ecologista.
Il primo cittadino, un giovane sulla trenta cinquina, si sentiva impreparato perché, pur strano che sembrasse, (ma non per chi conoscesse quanto fossero pachidermici gli scambi informativi tra gli enti pubblici), della questione “diga” ne sapeva ben poco. Eletto da due anni, erano ancora molti i problemi che gli volavano sopra il capo, nonostante il suo impegno di acquisire esperienza. Laureato in Scienze della Comunicazione, era apprezzato dai concittadini per l’intelligenza viva e il carattere cordiale. Brillante nella conversazione si era costruito un’immagine di persona avulsa dal mondo dei politicanti.
A Sanfabiano una delle due fazioni in lizza aveva deciso di affrontare le elezioni comunali sostenendo la necessità di rimpiazzare la vecchia guardia con uomini giovani, svincolati dalle logiche dei partiti e capaci di imprimere una ventata di rinnovamento. Facendo leva sull’ambizione che albergava in tutti, e usando come “arma” la sua reputazione di persona estranea al politichese, la fazione di minoranza aveva strappato il comune a quell’avversa convincendo Marchetti ad accettare la candidatura di sindaco. Il Roby, come lo chiamavano a Sanfabiano, si era rivelato un asso pigliatutto perché aveva ottenuto consensi non solo tra quei cittadini che dei politicanti erano stufi, bensì tra la gente tradizionalmente schierata dall’altra parte. Quella volta, nemmeno c’era stato bisogno del ballottaggio perché Marchetti aveva sconfitto l’avversario al primo turno con il settantuno per cento dei consensi, un vero plebiscito.
Esultanza, onori e cenone per il neo eletto sindaco.
Accantonati gli intenti innovatori, i conquistatori erano tornati ai dettami della politica, vecchia maniera, dei postulanti. Certi che l’inesperto giovane avrebbe accettato di adeguarsi alle logiche spartitorie, accogliendo ordini di scuderia sotto forma di “suggerimenti”, si erano preoccupati quando avevano capito che così non sarebbe stato. Il Roby, ignorando i soggetti “proposti” per mansioni di rilievo nell’amministrazione, aveva manifestato il suo primo atto d’indipendenza intellettuale nominando persone di sua fiducia agli assessorati del bilancio, dell’urbanistica e dei lavori pubblici. Aveva poi rotto le uova nel paniere a individui che speravano in qualche maneggio urbanistico e remato controcorrente nel fiume di “parentopoli” rigettando la “richiesta” di un barone di partito che intendeva “sistemare” la figlia, già impiegata presso un’azienda privata, in un ufficio municipale per renderle più retribuito e sicuro il lavoro. Alla “raccomandata” aveva preferito una ragazza madre laureata, che sbarcava il lunario facendo le pulizie domestiche, in attesa di un’occupazione migliore.
Infine il coordinamento politico vincitore era caduto nella costernazione quando Marchetti aveva convinto parte dei consiglieri di minoranza a votare importatati deliberazioni assieme alla maggioranza. In altre parole si era andata creando una sorta consorteria trasversale che, per i conquistatori, non era più rappresentativa delle loro direttive politiche e, per perdenti, riduceva l’importanza e il ruolo dell’opposizione. Insomma le due fazioni avevano finito per ritrovarsi alleate nel rivendicare il ruolo a loro scippato da uno sbarbatello.
Siccome era più facile rompere una pigna verde, colpendola con una pagina di giornale, che sconfiggere il sistema, i “conquistatori” erano passati al contrattacco. Dapprima avevano tacciato il sindaco di faziosità, poi sparso la voce di una sua tresca con la ragazza madre assunta in municipio. Sgonfiatasi tale malignità, avevano fatto ricorso all’ostracismo. In altre parole il Roby non era invitato a convegni e seminari che servivano a rimanere collegati con il quotidiano divenire, ma lui non mollava.
Dopo il primo anno di mandato, convintisi della sua refrattarietà ad adeguarsi alle secolari maniere, i “conquistatori” avevano adottato il metodo della carota che consisteva in promesse d’avanzamento nelle cariche amministrative. Fallito anche quel tentativo, erano passati al sistema dei favori a questo o quel consigliere comunale, oliando lo sfuggente reticolo degli interessi privati. Così il Roby aveva cominciato a perdere carisma, tanto da essere stato costretto a rimandare alcune sedute del consiglio comunale per mancanza di numero legale, o aveva subito lo smacco della bocciatura d’importanti deliberazioni.
Le cose andavano meglio in giunta ma quella era ormai una cittadella assediata. Per di più le malelingue, sguinzagliate da entrambe le fazioni, andavano spargendo, per la città, la voce che Marchetti si stava rivelando inetto, manco buono a convocare un consiglio comunale e che meglio figura avrebbe fatto se si fosse dimesso. Per il Roby la vita di primo cittadino era divenuta agra.
Il sindaco invitò la delegazione ecologista ad accomodarsi e si rivolse al compaesano con modi informali per creare un’atmosfera di ospitalità. «Come ti va, Mauro?»
«Bene. A te, Roby?»
«Per carità non me ne parlare.» Il sindaco si era espresso con un tono talmente spontaneo che i suoi interlocutori si guardarono incuriositi.
«La pittura, Raffa?»
«Bene anche quella.»
Il sindaco assunse un’espressione crucciata e si rivolse agli ospiti. «È dalla mia elezione di sindaco che sollecito Mauro a fare la sua prima mostra personale a Sanfabiano. La sala delle esposizioni c’è e avrebbe il patrocinio del Comune. Evidentemente non ritiene la sua cittadina meritevole di quest’onore.»
«Roby, mi occorrerebbe almeno una trentina di quadri ma non li ho.»
«Non riuscirai a fare mostre se continui a vendere dipinti. Sapete?» aggiunse il sindaco rivolgendosi agli altri ospiti, «non fa a tempo a esporre un quadro in bottega che trova il compratore. Fortuna volle che la cascata sul rio Maestro riuscissi ad averla perché quel quadro non voleva venderlo. Dovetti raccomandarmi a suo padre perché lo convincesse.»
Come aveva detto il Roby, se Mauro esponeva un dipinto in bottega, non passavano un paio di giorni che non lo avesse venduto e non di rado capitava che il compratore ordinasse qualche lavoro di restauro. Per lui e suo padre, che campavano di quel mestiere e dovevano cavarci anche lo stipendio per un dipendente, quell’aiuto cosa da poco non era.
«Ho letto il vostro comunicato sul giornale», disse il sindaco chiedendo agli ospiti il consenso di accendersi una sigaretta.
«Allora possiamo risparmiarci i preamboli e chiederle se lei sia favorevole alla costruzione della diga in Valcorniola», proferì Livio.
«Non lo sono», fu l’immediata risposta del sindaco.
Avvezzi a repliche cortesi ma temporeggianti, Livio e Fabrizio si fissarono stupiti.
«La nostra vallata ha subito un sacrificio ambientale fin troppo pesante con la costruzione del bacino di Montescuro.» Il Roby fece una pausa per espellere il fumo, corrugò la fronte e proseguì: «Ci troviamo davanti ad una bella gatta da pelare perché suppongo che la realizzazione di una tale opera rientri nella categoria d’interventi che rivestono importanza nazionale e può essere fatta in deroga ai piani urbanistici locali. Interpellerò il segretario comunale per saperne di più.»
«Parole sagge e prudenti le sue», convenne Ridolfi «ma l’esperienza ci porta a formulare una considerazione: se non ci fosse intesa tra enti locali e Stato, nascerebbe una diatriba che potrebbe far ritardare la fase esecutiva di costruzione dell’opera perché lo Stato cerca sempre un dialogo con gli enti locali, prima di imporsi. È perciò importantissimo che il consiglio comunale approvi una risoluzione, un atto d’indirizzo, una mozione, chiamatela come vi pare, che si opponga alla costruzione della diga.»
«Darebbe vigore alle nostre iniziative», motivò Livio.
«Non posso farlo», rispose il sindaco schiacciando quel che rimaneva della sigaretta nel portacenere. «Non ho gli elementi necessari per redigere una mozione contraria alla costruzione della diga e dovrei fare i conti col coordinamento politico dei partiti che mi hanno fatto eleggere, anche se li avessi. Lì c’è gente che non la pensa come noi. Potrebbero chiedere ad alcuni consiglieri di non presentarsi all’assemblea per fare mancare il numero legale, o indurli a votare contro per bocciare la mia mozione. Viceversa potrebbero fare approvare un’altra risoluzione, magari anche con l’appoggio della minoranza, per sostenere che l’investimento per la costruzione dell’invaso recherebbe molti vantaggi economici alla vallata. Potrebbero addirittura chiedere finanziamenti per opere pubbliche compensative all’utilizzo del territorio. «Quelli ne sanno una più del diavolo e non gliene frega niente se sommergere la Valcorniola, significhi distruggere un ambiente giunto a noi miracolosamente integro.» Facendosi riflessivo, Marchetti concluse: «Non presenterò la mozione, nemmeno se avrò gli elementi necessari per poterla redigere. Una sua probabile bocciatura porterebbe acqua al mulino di chi vorrebbe la diga.»
Fabrizio comunicò a Livio la sua sorpresa per le affermazioni del sindaco, colpendogli un tacco con la punta della scarpa.
«Ho letto che invierete un ricorso agli enti di competenza, avverso il progetto», disse il sindaco.
«Dobbiamo rivederlo in qualche un punto ma è ormai definito. Lo invieremo anche a lei.»
«Avete una bozza?»
«Sì, certo.»
«Nell’attesa di riceverla ufficialmente potrei fotocopiarla? Per domani ho convocato la riunione della giunta. Affronteremo la questione ed è necessario che acquisisca elementi utili che voi conoscete dei quali non sono informato.»
Fabrizio tolse un fascicolo dalla borsa. «Il contenuto potrebbe esserle utile per chiedere la valutazione d’impatto ambientale. Sarebbe importante se giungesse agli enti competenti anche il ricorso del sindaco di Sanfabiano e della giunta che presiede.»
«Sarò colpito da una tempesta di fulmini per avere agito autonomamente ma vedrò se mi sarà possibile farlo. Dovrò prima verificare la legittimità dell’iniziativa quindi discutere la formula più adatta con la giunta. Intanto vi ringrazio per la documentazione.»
«Deve prometterci di non divulgarla.»
«Avete la mia parola.» Il sindaco si recò a fotocopiare il ricorso personalmente e tornò dagli ospiti.
«Le confessiamo il nostro stupore. Eravamo abituati a ricevere disponibilità al confronto, da parte degli amministratori, ma sempre con risposte elusive e temporeggianti. Non avremmo immaginato di trovare un primo cittadino così determinato», commentò Livio.
«Lo immagino», rispose il sindaco con un gesto di noncuranza. «In ogni caso sappiate che sto dalla vostra parte. Vi chiedo il silenzio stampa per non dare spago a chi si è già messo sul chi va là. Se alcuni consiglieri mangiassero la foglia, facessero votare un atto d’indirizzo in favore della diga, dovrei aspettarmi anche una mozione di sfiducia. A quel punto non mi resterebbero che le dimissioni e le elezioni anticipate sarebbero una conseguenza.» Tamburellò le dita sul tavolo. «Sarà dura, ragazzi. Spero di potervi sostenere.»
Signor sindaco, sono convinto che lei non cambierà idea perciò mi permetta di suggerirle che se aspirasse a un avanzamento di carriera politica, se la scordi», considerò Fabrizio «e mi perdoni la battuta se aggiungo che, sostenendoci, rischia d’essere buttato fuori del comune ruzzolando le scale.»
«Già», annuì il sindaco con un sommesso tono d’inevitabilità. «Ogni giorno di più mi accorgo quanto sia impossibile esercitare la funzione di primo cittadino e rimanere autonomo dalle forze politiche. Chi asserisce di esserci riuscito, o è falso o si è illuso di esserci riuscito. Allo scadere del mio mandato tornerò a lavorare a tempo pieno nell’azienda di mio padre. Mi chiedo perché mai abbia accettato la candidatura.»
«Perché nessuno è immune alle lusinghe», asserì Livio «ma non ha fatto il successivo passo, quello di adeguarsi al sistema, perciò sarà sconfitto perché il soggetto anomalo piombato nell’immutabile ingranaggio politico delle convenienze è lei. Lei è un personaggio giusto per un mondo immaginario ma in questo, mi passi il termine, è un rompicoglioni come noi.»
Il Sindaco annuì. «Ora vi prego di scusarmi. Credo che di là ci sia gente che attende. Teniamoci in contatto. Raffa, salutami i tuoi e Rossana.»
«I miei senz’altro ma non Rossana. Non stiamo più insieme da qualche mese.
«Avrei giurato foste una coppia affiatata.»
«Invece litigavamo spesso.»
«Sentitelo», esclamò Fabrizio «il Dongiovanni della Valcorniola era fidanzato e l’ha pure rimpiazzata perché come ha messo piede nella nostra sede, ha fregato la ragazza a un nostro socio. E vedesse che bella figliola s’e accaparrato.»
«Buon per lui», rispose il sindaco «anche se un po’ mi spiace. Rossana è mia cugina di secondo grado, ma così va la vita.»
La celia
Da dieci minuti la delegazione ecologista era seduta attorno al tavolo di un bar di Sanfabiano.
Fabrizio teneva una mano sulla spalla di Mauro e sorseggiava il caffè. «Spero non te la sia presa per la battuta.»
Mauro fece spallucce e rimase col sorriso sulle labbra.
«Rubacuori, che stai covando?»
«Mi è venuto in mente quale sia il colmo per un laureato in Scienza della Comunicazione.»
«Quale?» domandò Fabrizio.
«Essere proprietario di un’impresa di pompe funebri.»
«Un colmo così azzeccato come ti è venuto in mente?»
«Il mio sindaco ha preso quel dottorato.»
«Ed è proprietario di un’impresa di pompe funebri?» gli chiese Dino.
«È l’azienda di suo padre.»
Risero così rumorosamente che la commessa del bar li scrutò con l’espressione di chi si domandasse quante rotelle mancassero agli ospiti di Mauro.
Perfino Livio, che se rideva lo faceva in modo sobrio, aveva mollato i freni. «Questa è più bella dei colmi sui carabinieri», disse.
«Il lavoro non gli mancherà se tornerà a gestire la sua azienda a tempo pieno», seguitò Fabrizio, sarcastico «e se non vorrà trovarsi incastrato in qualche guaio, magari per una piccola imprudenza pubblica o privata, dovrà tornarci alla svelta a vendere le casse da morto. Gli amministratori che si comportano come cani sciolti, sono terra di nessuno, bersagli per essere sputtanati alla prima occasione e finiranno rosolati allo spiedo dei professionisti che vogliono mantenere lo status quo. Viviamo in un mondo che brulica di vigliacchi e la calunnia è l’arma più efficace perché germina il dubbio sulla gente, anche se è falsa. Fabrizio assunse un tono meno pessimista e chiese se le copie delle foto fossero pronte.
«Stasera le avrò», confermò Livio.
«Bene. Vediamoci dopo cena nel mio studio per rivedere il ricorso. La mia segretaria lo spedirà domattina. Ah, dimenticavo: ho preso contatto con due reti televisive nazionali.»
«Come ci sei riuscito?»
«Un colpo di fortuna.»
«Fabrizio ti ringrazio da parte di tutti. Fammi sapere quanto ti dobbiamo per il materiale e la spedizione postale», disse Livio.
L’amico fece un gesto di noncuranza e terminò di sorseggiare il caffè.»
«Fabrizio ce la faremo?» domandò Mauro.
«È difficile dirlo. Intanto bada a Silvia perché dovrai farle la guardia con lo schioppo.» Fabrizio gli diede un buffetto sul braccio e aggiunse: «Si scherza, eh? Sono convinto dovrai cambiare pannolini a una ciurma di figlioli e il tuo sindaco può aiutarci molto se riuscirà a dare il suo ultimo colpo di coda. Ora portaci a vedere le tue opere.»
Si accingevano ad alzarsi dal tavolo quando il cellulare di Livio si animò.»
Silvia parlò con voce sommessa per timore di recare disturbo. «Siete ancora nell’ufficio del sindaco?»
«Già fatto. Ci siamo fermati in un bar a bere qualcosa.»
«Il colloquio com’è andato?»
«Il sindaco è intenzionato a condurre la nostra stessa battaglia.»
«Accipicchia da non crederci!» esclamò Silvia. «Chissà come sarà rimasto contento Mauro. Me lo passi?»
Fabrizio fece un rapido cenno a Livio di volerle parlare per primo.»
«Fabrizio ti vuol dire qualcosa. Te lo passo.»
«D’accordo, ciao Livio.»
«Silvia?»
«Ciao Fabry. Livio mi ha informato che anche il sindaco di Sanfabiano non è favorevole alla costruzione della diga.»
«Incredibile ma vero. Miss Europa, che stai facendo?»
«Stiro. Se non lo faccio il lunedì mattina che teniamo chiuso dove lo trovo il tempo?»
L’amico fece un teatrale sospiro. «Silvia, rimembri ancor…»
«Fabry smettila di fare lo spiritoso e passami Mauro.»
Lui strizzò l’occhio agli amici perché stessero allo scherzo che già tramava. «Non c’è. È uscito dal bar poco fa.»
«È tornato a casa?»
«Non lo sappiamo. È entrata una ragazza e si sono messi a colloquiare in disparte.»
A Silvia tremò la voce. «Che… che cosa si sono detti?»
«Mica ci siamo messi ad origliare e che diamine, Silvia», rispose Fabrizio nicchiando per non ridere. «Per di più parlavano a bassa voce.»
«Discutevano o conversavano?» Fabry è importante che lo sappia», insisté Silvia.
«Dapprima si sono guardati con imbarazzo, come volessero scusarsi di qualcosa l’un l’altro, poi hanno conversato sorridendosi. Dopo un paio di minuti Mauro ci ha salutato e sono usciti assieme.»
«Assieme!?»
«Proprio così. Evidentemente si conoscevano “molto bene” perché lei l’ha preso sottobraccio. Ora ti saluto. Ciao.» Fabrizio passò prontamente il cellulare a Mauro.
«Silvia?»
«Il groppo che le aveva serrato la gola si tramutò in un impeto di rabbia. «Mauro, ripassami quello stupido del Ridolfi.»
Fabrizio rattrappì le spalle come per prepararsi a prendere una legnata.
«Deficiente, ti strozzerei se ti avessi tra le mani.»
«Silvia sarei una forza come attore, ammettilo.»
«Meriteresti l’Oscar come cretino. Ora ripassami Mauro, spicciati! Mauro?»
«Ciao Silvia.»
«Fabrizio mi ha fatto prendere una fifa blu.»
«È una persona in gamba, però.»
«Lo so ma ogni tanto esagera con gli scherzi idioti. Ancora ho la palpitazione.» Silvia fece una pausa, trasse un sospiro e la sua voce divenne più rilassata. «Allora, nemmeno il tuo sindaco vuole la diga?»
«Sì! E mi è parso determinato. Sta mettendo a repentaglio la sua stessa carica. Ora ti sei calmata?»
«Insomma. Quando ci vediamo?»
«Questa settimana non te lo prometto. Siamo indietro col lavoro e mi toccherà stare in bottega fino a tardi.»
«Ti capisco. Pure a me capita. E poi ne hai fatta di strada questa settimana.»
«Silvia ti prometto che ci vedremo tutte le volte che potrò. Ah, mia sorella mi ha chiesto di invitarti a cena, sabato prossimo. Ti vuole conoscere.»
«Verrò ma sarò da te non prima delle otto. Il sabato pomeriggio c’è maggiore afflusso di clienti, perciò non posso assentarmi troppo presto.»
«Ceneremo quando arriverai.»
«Promettimi di dire a tua madre che non dovete sentirvi in obbligo di cenare in un certo modo.»
«Non preoccuparti, la mia mamma è piena di risorse.»
«Sabato ti porto le copie delle foto.»
«Non dimenticare quella con la tutina rossa. Voglio fare il ritratto di Silvia bambina.»
«Sarà la prima che vedrai. Ciao Mauro. Salutami gli altri, compreso Fabrizio e se facesse gesti da sdolcinato, come immagino faccia, togliti una scarpa e sbattigliela in testa, da parte mia.»
L’elogio di Fabrizio
«Mauro, hai talento», disse Fabrizio esaminando i giochi di luce e d’ombra di un sottobosco e una mandria di mucche che pascolavano su un prato battuto dalla pioggia. Notò come le nuvole bigie non togliessero luce all’insieme della composizione. Pensò che occorressero doti notevoli per rendere luminosa una giornata di pioggia e al contempo comunicare la mancanza di luce solare. «Veramente apprezzabile. Complimenti. Che ne pensi Livio?»
Lui che esaminava il disegno di due gatti che si fronteggiavano col pelo irto sulla groppa, commentò: «Sono stupito.» Tornò a osservare i ritratti dei genitori e della sorella, appesi alle pareti, lo lodò per il tratto pulito e gli disse: «Dipingi con straordinaria capacità comunicativa. Riesci a bloccare il movimento dei soggetti vivi nell’istante in cui vuoi che l’osservatore lo colga.»
«Mi è difficile associarti a una corrente pittorica», tornò a considerare Fabrizio «e di storia dell’arte non sono acerbo. A quale corrente ti senti vicino?»
«All’espressivismo.»
«All’espressionismo? Non mi pare siano espressioniste le tue opere.»
«Ho detto espressivismo.»
«È la prima volta che ne sento parlare.» Fabrizio aggrottò la fronte e domandò Mauro a quale corrente si riferisse.
«Alla mia. Io non dipingo ispirandomi a uno stato d’animo come sostengono molti pittori, che vogliono dare ad intendere quanto il loro stile scaturisca da un moto interiore, ma ciò che vedo. Lascio alla capacità della mia mano definire l’intimità di persone e natura.»
«Meglio non potevi esprimerne il concetto.» Fabrizio si rivolse a Nadia alla quale brillavano gli occhi. «Signora suo figlio ha talento. Sarei onorato se potessi aiutarlo a fare una mostra. Conosco alcuni critici d’arte che gestiscono gallerie in città importanti. Gente seria.»
«Deve chiederlo a lui.»
«Intanto, Signora Nadia, lo convinca a non vendere altrimenti non farà mai mostre personali.»
«Soprattutto smettere di regalare quadri», disse lei con un tono di biasimo.
«Mamma, ne ho regalato solo qualcuno.»
«A Rossana?»
«Lei è un caso a parte. E poi due sono ritratti suoi a carboncino.»
«Gli altri sono dipinti a olio», obbiettò Nadia. «Uno raffigura un vaso con rose di colori diversi. Sembra escano dalla tela, tanto paiono vere, benché le abbia dipinte con poche pennellate. Mi sarebbe piaciuto metterlo in camera mia quel quadro.» Nadia assunse un’espressione risentita e rivelò agli ospiti quando Mauro fosse sensibile»
«Mamma, per piacere», la pregò Mauro.
«Per piacere un corno!» Nadia prese a rigirarsi la fede matrimoniale con gestualità nervose e rivelò agli ospiti, col tono di chi reprimeva, da un po’ di tempo, la necessità di sfogarsi con qualcuno: «Rossana è la sua ex fidanzata. A noi non ha dato ad intendere quanto gli sia dispiaciuto lasciarla, invece ha sofferto parecchio. Per più di un mese non ha toccato i pennelli.»
«Ha fatto soffrire a sua volta», chiosò Livio.
«Scusi non capisco.»
«Signora, la vita è una giostra di gioie e patimenti, e anche Mauro l’ha fatta girare. Conosce Silvia?»
«Sì è stata qui domenica scorsa.»
«Che impressione le ha fatto?»
«È molto bella e mi sembra si esprima con franchezza.»
«Franca lo è davvero signora», la rassicurò Livio. «Eppure lei e suo figlio hanno combinato un grosso guaio. Stefano, un ragazzo del nostro circolo, corteggiava Silvia da un anno e lei aveva incominciato ad accettarla da poco tem…»
«Suppongo, allora, che Silvia e quel ragazzo non si fossero ancora fidanzati», lo interruppe Nadia rivolgendo al figlio lo sguardo della mamma indulgente che non voleva rendere colposo l’accaduto.
«Sarebbe successo se Mauro non fosse venuto in sede», commentò Livio «ma se le cose vogliono andare per un verso non c’è niente da fare. A Mauro è bastato mezzo pomeriggio per portargliela via.»
Nadia seguitò a rigirare nervosamente la fede attorno all’anulare e assentì contegnosa.
«Ora Mauro», s’interpose Fabrizio per far ritornare la discussione nell’ambito dell’arte «mettiti a dipingere con impegno, trai la volontà unicamente dal piacere di farlo e senza l’assillo di pensare a ciò che sarà la lode o il biasimo dei critici. Soltanto in questo modo potrai lavorare con la massima spontaneità. Dovrai fare almeno cinquanta pezzi. Quanto tempo pensi ti occorrerà?»
«Considerando che devo aiutare mio padre e che…» Mauro strisciò la suola delle scarpe sul pavimento.
«Che c’è anche Silvia», chiosò Fabrizio.
«Non meno di un anno e mezzo, forse due.»
«Non è poi molto, considerata la tua età e non è necessario che porti soltanto opere a olio. Potresti dedicare un settore della mostra ai tuoi disegni. Vedo che riesci a realizzarli con materiali e metodi diversi ed è importante che la critica noti le tue capacità. In ogni caso prendila sul serio la mia proposta. Hai talento e rimanere isolato non ti giova maestro Falaschi.» Fabrizio inarcò le sopracciglia e gli suggerì che nemmeno avesse bisogno di uno pseudonimo perché Falaschi suonava benissimo come firma di un artista.
CAPITOLO UNDICESIMO
Confidenze
Per fargli una sorpresa Silvia non aveva avvertito Mauro che sarebbe giunta in anticipo. Emozionata più della prima volta, si ritrovò a suonare il campanello senza avere memorizzato d’essere scesa dall’auto. Indossava un tailleur verde giada con gonna appena sopra il ginocchio, camicetta bianca e scarpe a mezzi tacchi; attese di vedere apparire Mauro, col cuore in gola.
Dal portico scese invece una ragazza graziosa i cui lineamenti del viso somigliavano a quelli di Mauro. Aveva capelli castani di taglio corto. La pelle, chiara, era punteggiata da rade lentiggini. Gli occhi, di un saturo marrone, s’intonavano ai pantaloni e alla camicetta beige. Sguardo e sorriso comunicavano stupore e gioia. «Ciao, Silvia.» La sua voce aveva ancora un tono striato d’infanzia.
«Ciao. Suppongo tu sia Manuela.»
Lei annuì e le toccò sollevarsi sulla punta delle scarpe per accostare le guance alle sue. «Mia madre mi ha parlato di quanto fossi bella ma soltanto ora capisco il motivo per cui Mauro mette i libri in frigo. Giovedì sera abbiamo trovato il manuale tascabile di tecnica del colore, che consulta spesso, nello scomparto dei formaggi, però non dirglielo che te l’ho riferito. Mi terrebbe il muso.»
«Sarà il nostro primo segreto.»
«So che compirai vent’anni ai primi d’agosto ma quest’abito ti fa qualche anno in più e ti dona l’aspetto di una stupenda signora.»
«Manuela non farmi diventare rossa che ho già il cuore in gola.»
«Dove hai posteggiato la macchina?»
«In strada.»
«Portala dentro. In questi paraggi c’è un cretino che si diverte a rigare le auto, specialmente se riconosce che i proprietari non sono del luogo. Dietro casa hai voglia di spazio.»
Al ritorno si soffermarono nella veranda.
«Silvia indovina dov’è andato il tuo spasimante?»
«Non saprei.»
«Pensa a qualcosa che ti piace.»
«A comprare il gelato?»
«Sì. Di quello artigianale.»
«Sai già che sono golosa di gelato?»
«Anche di quali gusti: nocciola, crema e fior di latte. Ti piace pure il bacio ma ci rinunci perché temi che il cacao ti faccia venire i brufoli.»
«Manuela anch’io so qualcosa di te.»
«Mio Dio, che cosa?»
«Da bambina eri ghiotta di bacche delle rose canine ma non sapevi spremerne la polpa senza che fuoriuscissero i semi, così lasciavi che lo facesse Mauro per te.»
«Proprio così», rispose Manuela. «Era tanto bravo che riusciva a svuotarle senza fare uscire un solo semino, raccoglieva la polpa di cinque o sei bacche sul polpastrello di un dito, poi m’imboccava.»
«Mauro mi ha anche riferito che da bambina odiavi le bambole. Temevi cominciassero a muoversi», le confidò Silvia.
«Proprio così», ammise Manuela mostrando stupore. «Scopro che mio fratello ti ha fatto la cronaca della mia infanzia. Ero pure terrorizzata che iniziassero a parlare. Una vera fobia.»
«Te l’ho chiesto», rispose Silvia «perché ho da confidarti che anch’io soffrivo delle medesime paure e la tua è una conferma che mi farà sentire meno strana. Ero convinta d’essere l’unica al mondo ad avere quella fissazione.»
«Forse siamo solo in due.»
Risero e fecero spallucce.
«Ciao Silvia.» Nadia era apparsa in mezzo all’uscio d’ingresso con un gran sorriso ospitale. «Entra cocca. Manuela falla accomodare in salotto. Glielo hai riferito che Mauro è andato a comprare il gelato? Silvia, mio marito è uscito a fare quattro passi ma non tarderà a tornare. Ti aspettavamo più tardi.»
«Mia madre mi ha lasciato libera prima di quel che sperassi.»
«Vuoi togliere la giacca, Silvia? Manuela, offrile qualcosa. Vuoi del tè freddo o preferisci un aperitivo? C’è anche…»
«Mamma per piacere.»
«Beh, io vado in cucina.»
Manuela osservò i bicchieri in controluce per accertarsi che fossero lustri e ci versò un aperitivo analcolico. «Silvia, so che mio fratello ti ha parlato di Rossana perciò penso che non ci sia nulla male se t’informo di alcune cose che li riguardino.»
«Fai pure, Manuela.»
«Ti confesso subito che a me i modi di fare che aveva Rossana non li sopportavo e questa era una mia sensazione, perciò non ho mai influenzato mio fratello, ma veniamo a loro: sebbene non si vedano da qualche mese, una rottura definitiva non c’è stata tra loro e la fedina di fidanzamento che Mauro le ha regalato, Rossana la tiene ancora al dito perciò sono convinta che proverà a riappacificarsi. Persuaderò mio fratello a informarla che ci sei tu, ora. Un messaggino chiarisce tutto.»
«Manuela ti chiedo il favore di non interferire», si raccomandò, invece, Silvia. «Desidero che Mauro affronti il problema secondo coscienza.» Silvia trasse un sospiro inquieto e gli confidò di essere convinta che Mauro sarebbe costato molto lasciare Rossana definitivamente. «Anzi spero possa riuscirci», sospirò. «Da ciò che mi ha riferito, ho capito che non riuscivano ad andare d’accordo non perché tra loro fosse finito l’amore ma per incompatibilità di carattere.»
Manuela accennò un assenso ammettendo che tra suo fratello e Rossana c’era stato un sentimento veramente sincero, seppure avessero avuto un rapporto trascinatosi continuamente da un litigio all’altro ma che fosse stata sempre Rossana a trovare il pretesto per bisticciare. «A differenza di Mauro, che è permaloso ma in fondo ragionevole, Rossana ha un carattere impulsivo e astioso. L’anno scorso», prese a raccontare Manuela «mi operai d’appendicite e Mauro mancò all’appuntamento della domenica pomeriggio con lei, per farmi compagnia. Gli tenne il broncio una settimana. Io che adoro mio fratello non potevo baciarlo sulla guancia e dovevo guardarmi dal fargli gesti affettuosi in sua presenza, altrimenti si sarebbe immusonita. Ti rendi conto? Era pure gelosa di me. Ti confido che a volte lo coccolavo per farle dispetto. E se lo coglieva a guardare le gambe di un’altra, apriti cielo. Che mio fratello non resista dallo sbirciare le belle gambe è un fatto ma è un maschio e che diamine!»
Silvia assentì per farle intendere che pure a lei non garbasse quel vizietto.
«Non dirmi che ti è già capitato di coglierlo in castagna.»
Lei annuì con una paziente alzata di spalle.
«Mamma mia non c’è verso che gli passi quella brutta abitudine. Qualche volta gliel’ho fatto pure notare ma lui, sebbene ammetta quanto sia sconveniente farlo, non riesce a controllarsi. Sostiene che un paio di gambe femminili accavallate, un po’ scoperte, siano lo spettacolo più erotico che esista. La prossima volta rifilagli un pizzicotto, di quelli che lasciano il segno.»
“Già fatto. Seguirò il tuo consiglio Manu.»
«Ho notato che Mauro ha tolto la fotografia di Rossana dal ripiano della cassettiera, nel suo studio. Questo è un buon indizio», precisò Manuela.
«Sono stata io a fargliela levare. L’ha riposta nel primo cassetto. Avresti dovuto vedere con quale premura l’abbia fatto.»
«Lo immagino. Ci penso io a toglierla anche di lì.»
«Lascia che sia lui a sentirne l’obbligo. In ogni modo ti ringrazio per esserti confidata come se fossimo amiche da sempre.»
«Non immagini quanto ti sia grata per avermi tolto Rossana di torno.» La sensazione d’intesa che Silva le comunicava, stimolò Manuela a seguitare la conversazione. «Mauro ti ha raccontato il motivo del loro ultimo litigio?»
«Certo.»
«Il comportamento di Rossana come lo giudichi?» Manuela notò Silvia farsi perplessa. «Ti ho fatto rammentare qualcosa di spiacevole?»
Silvia posò il bicchiere sul tavolo con un gesto lento, quasi esitante. «Mauro aveva buone ragioni per rinunciare ad accompagnarla a quella festa, benché capisca pure il rammarico di Rossana. Aveva lavorato molto per fare quei costumi e poi trovi difficile giudicare gli altri se tu stessa hai fatto soffrire», terminò Silvia.
«Mia madre me l’ha accennato. Si chiama Stefano eh?»
Silvia assentì abbassando lo sguardo. «Lo consideravo, come posso spiegarti… sì una persona nei confronti della quale si avverte molta amicizia, tanto affetto ma solo questo. Allo stesso tempo ero compiaciuta che fosse innamorato di me e glielo facevo intendere vagamente perché non rivolgesse i suoi interessi altrove. Ora mi rendo conto di essermi comportata come avessi voluto tenerlo di scorta nel caso non mi fosse capitato qualcosa di più coinvolgente. “Scorta”. Ho usato una brutta parola ma è l’unica che mi pare adatta alla mia condotta. Gli ho fatto buttare un anno di vita.»
«Silvia, ti assicuro che il tuo comportamento è più comune di quanto tu immagini tra le donne. Le mie due compagne universitarie d’appartamento, hanno un atteggiamento simile al tuo: tengono vivo l’interesse dei loro corteggiatori ma senza impegnarsi seriamente e fregandosene se qualcuno si sia veramente innamorato di loro. Non vogliono rischiare di compromettere studi e carriera con ragazzi nei confronti dei quali non provano un particolare interesse emotivo, sempre che non arrivi l’amore vero a scombussolare tutto.» Manuela cercò di ridare brio alla conversazione chiedendole quanti anni avesse Stefano.
«Venticinque.»
«Lavora o studia?»
«È perito elettrotecnico. Lavora presso un’azienda d’impianti termo-idraulici. È un ragazzo generoso e pure bello. È qualche centimetro più alto di me, ha gli occhi azzurri e i capelli biondi.»
«Accipicchia, potresti farmelo conoscere?»
«Perché no? Vieni con Mauro a una delle nostre riunioni.»
«Silvia, sto scherzando. Non ho intenzione di fidanzarmi fino a che non avrò terminato gli studi e oltre. Vuoi ancora un po’ d’aperitivo?»
«Basta così Manu. Amiche?»
«Amiche», le rispose Manuela strizzandole l’occhio.
Udirono il motore di un’auto che entrava nel cortile.
«È Lui. Glielo facciamo uno scherzo per testargli la cotta? Hai il cellulare?»
«Sì ma… che cosa dovremmo fare?»
«Te lo spiego: tu devi…»
Lo scherzo
Dopo avere ascoltato il piano che voleva ordire Manuela, Silvia rimase titubante. «Manu, lo sai quanto Mauro sia permaloso. Sei sicura che non s’arrabbi?»
«Non per una cosa così, fidati.»
«Vedrà la mia macchina.»
«È dietro casa e lui mette la sua nella rimessa soltanto la sera tardi. Sbrighiamoci o non faremo a tempo. Corro da mia madre per avvertirla di stare al gioco. Conta fino a trenta, prima di telefonargli.»
«Manu, se tuo fratello venisse in salotto?»
«C’è una probabilità su un milione. Si dirige subito in soggiorno a cercare la “mamma” quando rientra.»
«Come mio fratello.»
Prima di socchiudere la porta, Manuela roteò le pupille. «I maschi sono tutti mammoni. “Comportati da amante quando si corica, da mamma quando si alza e non divenire una rompipalle se vuoi che un uomo rimanga sempre appiccicato alla tua sottana”. La proprietaria dell’appartamento che condivido con le mie compagne d’università, ci ripete sempre questi suggerimenti», disse strizzandole l’occhio.
Qualche istante dopo Mauro entrò in casa con un voluminoso contenitore in polistirolo e si diresse senza indugio verso il soggiorno. «Mamma?» chiamò.
A Manuela vedere il grosso involucro di polistirolo, che Mauro reggeva, diede modo di sfogarsi a ridere senza destare sospetto. «Mauro non ti pare di avere esagerato? Hai comprato una cassapanca di gelato.»
«Manu non dire sciocchezze. La mamma dov’è?»
«Sono qui, nel cucinotto.»
«Mamma, vieni a vedere. Mauro ha comprato un baule di gelato», ridacchiò Manuela.
«Quale baule. Taci criticona.»
Nadia a malapena si trattenne dal colpirsi la fronte.
«Hai visto che roba, mamma? Avremo la scorta di gelato artigianale. Fino a Natale. Come minimo avrà speso cinquanta euro.»
Lei tagliò corto perché conosceva bene i figlioli. Cominciavano a punzecchiarsi e finivano per litigare. «Nel congelatore grosso hai voglia mettere gelato. L’estate ha da cominciare.»
Mauro si era appena seduto quando gli suonò il cellulare.
«Mauro?»
«Ciao Silvia. Stai per partire?»
«Ascolta, stasera non posso venire.»
«Ancora problemi con la macchina?»
«Non è questo. Alcune amiche, che non rivedevo dai tempi della scuola, hanno organizzato una festicciola per ritrovarci, con qualche tartina e un po’ di musica.»
Nadia entrò in cucina e provò un fiotto di materna protezione a vedere il figlio impallidire. Mal si trattenne dal rivelargli che si trattava di uno scherzo.
«Mia madre stava preparando una cena vegetariana», disse Mauro con un tono dispiaciuto.
«Chiedile di scusarmi ma le mie amiche hanno tanto insistito che non ho potuto negarmi.»
«È una festa tra donne?»
«Non proprio. C’è anche qualche amico.»
Mauro inghiottì a vuoto.
Silvia aprì l’uscio del salotto e si mosse verso la cucina.
«Allora vediamoci domani. Vengo io da te.»
«Domani pomeriggio dovrò andare dai miei amici down.»
«Lo so. Intendevo domani sera.»
«Domani sera…»
Poiché quel “domani sera” Silvia lo aveva pronunciato con un tono esitante, Mauro iniziò a provare irritazione e, dato che non esisteva sistema più efficace dell’arrabbiatura per far tornare salda la voce, le rispose asciutto: «Sì, domani sera. Non avrai qualche altro impegno, spero.»
«È il compleanno di una mia dipendente.»
«Suppongo dovrai andare a un'altra festicciola e anche lì non sarete solo tra amiche.»
«Penso di no», rispose Silvia, giunta all’ingresso del soggiorno.
«Allora vengo anch’io.»
«Sono persone che non conosci.»
«Mi presenterai. Non è un problema. O non vuoi che ti accompagni per la vergogna di presentarmi come il tuo ragazzo a causa della nostra differenza di statura?»
«Mauro non dire sciocchezze.»
«Allora dovrei pensare che mi giudichi meno importante dei rinfreschi? Chiariamola subito questa faccenda, Silvia!»
«Certo ma non so quando potrò essere libera per incontrarci», rispose lei approssimandosi di un altro passo.
«Non lo sai? Silvia ma che…» Mauro s’interruppe perché gli giunse una folata di profumo che ormai conosceva e gli parve che la voce nel cellulare si sovrapponesse a quella proveniente dalle sue spalle. Avvertì una carezza sui capelli.
«Eccoti saldato per lo scherzo della Margherita Tavanti», gli sussurrò Silvia in un orecchio.
«Hai calcato doppiamente nella rivalsa, canaglia.»
«Ben ti sta sbircino di gambe femminili.»
Mauro lanciò un’occhiataccia a sua sorella che apparecchiava con un’espressione da nesci stampata in faccia. «Questa burla, Silvia, non è farina del tuo sacco. Lo so io chi sia l’ispiratrice.» Con gli occhi stretti in una fessura indagatrice, Mauro notò le labbra di Manuela arricciate in un sorrisetto birbone. «Con te facciamo i conti domattina. Mamma, aiuto, queste due hanno già fatto comunella.»
«Hai voluto la bicicletta? Pedala!» gli rispose lei beata in cuor suo. Poiché la più appagante delle soddisfazioni per l’animo umano è suscitare invidia, già si gongolava nel pensare che a Sanfabiano si sarebbero voltati in molti a guardare quella mora passeggiare sottobraccio al suo figliolo.
La cena
Come antipasto Nadia e Manuela avevano preparato una specialità di casa Falaschi: crostini alla crema di pinoli e un denso passato di verdura come primo piatto, per secondo hamburger di soia con melanzane alla parmigiana, quindi formaggio pecorino accompagnato da fave appena colte dall’orto, infine la montagna di gelato e frutta.
Silvia provava una tale gioia per essere al centro di tante premure da sentirsi quasi in uno stato d’ansia.
Luciano fece la mossa d’alzarsi quando Nadia mise in tavola il pecorino e le fave. «Silvia, vado a tagliare qualche fetta di spalla se permetti.»
«Babbo, no!» lo riprese Manuela. «Almeno stasera.»
«Manu, vorresti che tuo padre rinunciasse perché ci sono io?» disse Silvia. «Faccia pure, signor Luciano. Sono l’unica vegetariana della mia famiglia.»
«Lo sei da molto tempo?» le chiese Nadia.
«Fin da bambina ma i latticini e le uova, li mangio.»
«Per essere veri vegetariani, nemmeno quelli bisogna mangiare?»
«Mamma, lo dice la parola stessa», le fece osservare Manuela.
«Manuela, se non lo sapevo, non lo sapevo.»
«I vegetariani più rigidi si chiamano vegani», spiegò Silvia. «Si alimentano soltanto con verdura e frutta, crude.»
«Non soffrono d’anemia?» domandò Nadia.
Lasciandole a dissertare sulle carenze proteiche cui andavano incontro i vegani, Luciano entrò nel cucinotto e tirò fuori la sua adorata spalla di maiale della dispensa. «La taglio anche per voi, gente?»
«Per me due fettine babbo», chiese Manuela.
«Eri quella che criticava.» Luciano si mise all’opera con l’acquolina in bocca.
«Due anche a me», gli chiese Mauro.
«Pure a me», si accodò la moglie.
Luciano che a tagliar gli affettati era valente quanto a restaurare, iniziò a stendere, su un candido vassoio, lunghe e sottili fette di spalla dal colore rosso cupo che contrastava col filo di grasso, bianco rosato, sul bordo. «Presto ti arriveremo all’osso, spalletta mia», disse dando alla frase un tono musicale. «Silvia, sei capitata in un covo di voraci carnivori. Al nostro confronto il tirannosauro rex era una pecorella.»
Manuela strizzò l’occhio a Silvia e le disse con un fare complice:
«Tra poco metterà il vassoio in tavola e, come sempre ripete se abbiamo ospiti, dirà: “Non faccio per vantarmi ma come taglio gli affettati io, ce ne sono pochi”.»
Dal cucinotto Luciano cercò di tentare l’ospite. «Silvia, ne taglio una fetta anche per te?»
«Luciano non fare lo spiritoso», lo rimbrottò la moglie.
«Signor Luciano non riuscirà a corrompermi», lo sfidò Silvia.
Facendo il tipico rumore nasale di chi gustava il boccone, lui assaggiò mezza fetta di spalla. «Silvia non sai che cosa perdi. È squisita.»
«Mi fa una rabbia quando vuol dire spiritosaggini fuori luogo», brontolò Nadia.
Luciano entrò in soggiorno e, quasi fosse un rito, posò in tavola il vassoio sul quale aveva steso, in bell’ordine, le fragranti fette di suino. «Non faccio per vantarmi ma come taglio gli affettati io, ce ne sono pochi. Sai, Silvia?» continuò. «Questa spalla apparteneva a un maiale allevato con ghiande e castagne selvatiche. Invece gli hamburger che abbiamo mangiato, chi te lo assicura che non siano fatte di soia proveniente da coltivazioni transgeniche contenenti geni di tacchino? Avresti mangiato lo stesso la carne per vie occulte, se così fosse.»
Manuela guardò la madre come per esortarla a farlo tacere, poi sbottò:
«Babbo, ora basta! Lasciala stare e levati dalla faccia quel risolino ironico.»
«Che cosa ho detto di tanto sconveniente?» replicò Luciano stendendo le braccia. «Volevo solo invitarla ad assaggiare carne vera. Silvia, se ne mangi un po’ non peggiori il mondo. Ti promettiamo che saremo muti come tombe.»
«Luciano, smettila, per favore», lo redarguì la moglie «sei più insistente dei bambini se attacchi a fare lo spiritoso. Vuoi un po’ di formaggio, cocca?» chiese a Silvia con un sorriso affettuoso.
Avevano poi seguitato a conversare del più e del meno e quando Silvia si era affacciata nel cucinotto per aiutare a rigovernare, Manuela l’aveva spinta fuori perché andasse a fare una camminata con Mauro per smaltire tutto il gelato che si era mangiato.
La passeggiata
Mauro, per pudore di farsi vedere con un’altra donna che non fosse Rossana, rivolgeva lo sguardo altrove quando incontrava gente che sapeva esserne troppo conoscente. C’erano però momenti in cui il suo amor proprio sopraffaceva il disagio, cosicché gli sembrava di avere vinto la gravitazione terrestre. Vide alcuni amici seduti fuori dell’Esperia Bar cosicché, deliziandosi per il loro strabuzzare d’occhi, li salutò osteggiando passo fermo e spontaneità.
Punzecchiata nella vanità femminile, Silvia accentuò il suo già sinuoso procedere.
Due giovani uscirono da un portone e uno di loro chiese all’altro se il ragazzo, che li precedeva di una ventina di passi, non fosse il Falaschi.»
«È proprio lui», confermò l’amico.
«Puttana Eva con che gnocca s’è messo! Rossana che fine ha fatto?»
«Giorgio», sogghignò Massimo «vivi a Sanfabiano o sulla luna? È da mo’ che hanno rotto. È successo dopo il veglione di carnevale allo Smeral… cazzo se quella mora avesse il viso come il culo sarebbe un pezzo di fica stratosferica.»
«Già, a volte si buscano certe fregature», ghignò Giorgio.
«Come quella che ti beccasti con la spilungona di Frattole l’anno scorso», ridacchiò Massimo.
«Giorgio non farmi ripensare a quell’incubo. Mi occorsero sei mesi per spiccicarmela di torno. Il naso del povero Bagongo pareva quello di Monica Bellucci al confronto del suo. Aveva due tette e un paio di cosce favolose ma se una tipa ha il viso orrendo e quando parla sembra avere un topo morto in bocca, il resto non lo gusti. Avrei dovuto obbligarla a indossare il burqa e scoparla per tutta la vita alla pecorina. Allunga il passo, voglio vederla in faccia la stangona.»
«Parla piano buzzurro.»
Dopo averli sorpassati, Massimo, col modo di chi si accorgeva casualmente di ravvisare una conoscenza, si voltò indietro con fare stupito.
«Ciao Raffa.»
«Ragazzi, come va?»
«Da noia paesana», rispose l’amico, indirizzando una rapida occhiata alla ragazza.
«Lei è Silvia, la mia fidanzata.»
Pronunciatole un cortese saluto all’unisono, i due amici urtarono le mani così goffamente che lei non riuscì a trattenere un risolino.
«La riorganizzate la squadra per il torneo di calcio in notturna?» domandò Mauro.
«Certo. Se ne parlava proprio ieri. Quest’anno ci sarà anche Gigabaitte.»
«Accidenti, allora lotterete per la coppa. Gigabaitte è migliore come centrocampista che come tecnico informatico.»
«Perché parli in seconda persona, Raffa? Non parteciperai?»
«Non so se riuscirò a trovare il tempo. Devo prepararmi per una mostra di pittura.»
«Raffa, davamo per scontato che partecipassi», si rammaricò Giorgio. «Cerca di trovare uno scampolo di tempo o siamo del gatto.»
«Ragazzi non posso promettervelo.»
Certo che il vero ostacolo fosse “lei”, Massimo, da scaltro terzino qual era, tentò un lancio lungo per saltare il centrocampo. «Silvia lo convinca lei, per favore», si raccomandò assumendo un’aria supplice «perché sarebbero guai grossi per la squadra se mancasse Mauro.»
Presa alla sprovvista lei rispose nel modo che le parve più accomodante. «È lui che dovrà decidere. Io non c’entro.»
«La ringraziamo da parte di tutti per la sua ragionevolezza, signorina Silvia, perché non sarebbe la prima volta», le spiegò Massimo «che abbiamo dovuto rinunciare a qualcuno perché la fidanzata s’è opposta. In fin dei conti disputeremmo soltanto sei partite se giungessimo in finale.»
«D’accordo non mi metterò in mezzo», promise lei con un rassicurante sorriso.
«Gliene siamo grati, Silvia. A giorni cominceremo ad allenarci. Ti terremo informato Raffa. E buon proseguimento di passeggiata.»
«Pure a voi ragazzi.»
Massimo attese di non essere più a portata di voce per redarguire l’amico. «Accidenti a te, Giorgio. Per colpa tua abbiamo fatto una figura di merda. Sei sempre il solito maldestro. Non potevi aspettare ad allungarla quella tua manaccia callosa?»
«Faccio il muratore», replicò l’amico «non sono un impiegatuccio pubblico, per di più raccomandato dal “partito” come sei tu e poi come potevo immaginare che anche tu lo avresti fatto nello stesso momento.»
«Sono stato io a proferirle parola, quindi era logico che dovessi darle la mano per primo. E togliti quell’incarto di gelato che hai appiccicato sotto il tacco sinistro.»
Giorgio abbassò lo sguardo e vide che si trascinava dietro l’involto di un gelato pinguino. «Porca puttana, da quando mi strascico dietro questa cartaccia?» brontolò Giorgio staccandola con rabbia.
«Forse da prima che ci fermassimo a parlare col Raffa e la sua ragazza», suppose malignamente Massimo. Vide le gote del paesano rosseggiare come ravanelli lavati, prima di intingerli nel pinzimonio.
Giorgio si sentiva come se la ragazza lo avesse colto in un momento in cui si era scordato di tirarsi su la cerniera della patta. «Credi che lei mi abbia visto strascinare quel coso?»
«Spero di no altrimenti avresti fatto la figura di un sozzone che nemmeno sta attento a che cosa pesta», rispose l’amico ostentando un risolino di maligna compiacenza.
«Porca troia, Massimo, non potevi avvertirmi?»
«Mica tengo gli occhi appiccicati alle tue scarpe», lo rimbeccò il paesano sforzandosi di trattenere un’altra risatina irridente.
«Ho fatto una figura di merda.» Istintivamente Giorgio si voltò per vedere se il Raffa e la sua ragazza ridessero ma inciampò sulla sporgenza di un tombino. A malapena riuscì ad evitare di cadere bocconi sul selciato. Sciorinò una sequela d’imprecazioni. «Porca zozza, dovevo proprio inciampare su quel cazzo di rialzo? Accidenti al Comune!»
«Quale Comune, guarda a dove metti i piedi buzzurro», sogghignò l’amico.
«Massimo», commentò Giorgio «quella Silvia ha il viso più bello delle chiappe. Puttana Eva che gnocca! Coscia lunga taglio fine.
«Che accidenti vuol dire “coscia lunga taglio fine”? domandò Massimo.
«Che tra le cosce ha qualcosa di meravigliosamente seducente tutto da lecc…! Hai notato che bocca ben disegnata? Mi sento arrapare da certe fantasie se vedo labbra così.» Il Raffa ha una fortuna sfacciata con le donne. Anche Rossana è una bella fichettina ma questa ha un paio di fianchi che ti fanno immaginare quanto sia a regola d’arte la fessura che ha tra le cosce. Donna che muove bene l’anca o è maiala o poco ci manca», aggiunse.
Pure Massimo non poté trattenersi dal curiosare per “valutare” quanto fossero motivate le impressioni dell’amico, poi giudicò il procedere posteriore della mora con un’espressione meno boccaccesca. «Per me, quella Silvia, ha il passo elegante della donna di classe e ancheggia in modo raffinato, difficile da vedersi. Pensa piuttosto a tua cugina che, da come sculetta, delle troie sembra la regina.» Si lasciò andare a un ghigno soddisfatto per la rima riuscita, evitò una gomitata dell’amico, poi si domandò, a voce alta, chi fosse la stangona e da dove venisse. Con sua sorpresa, Giorgio gli rispose: «Il suo viso non mi è nuovo. Mi pare di averla notata quando accompagnai mia sorella in città, a una svendita stagionale dell’emporio CIEFFE. Quell’ambiente è vasto e con diversi reparti. C’era una tale ressa di clienti che gli diedi solo un’occhiata perché dovevo stare attento a non perdere di vista mia sorella. Un dettaglio, però, lo ricordo bene; indossava un grembiule bianco mentre quello delle altre commesse era celeste, quindi suppongo sia perlomeno una caporeparto. Proverò a domandarlo a Radiobecera. Quello è talmente impiccione da sapertene dire vita e miracoli, se stasera gli capitasse di vederla.» Giorgio rimuginò tra se qualche istante prima di domandare al paesano: «Massimo credi che il Raffa verrà a giocare?»
«Ho i miei dubbi.»
«A me, lei, è parsa disponibile.»
«Cambierà idea quando scoprirà che Mauro dovrà allenarsi sacrificando parecchie sere», commentò Massimo. Guardò l’amico con un’aria commiserata e soggiunse: «Tu non le conosci proprio le donne. Non rammenti la fine fatta da Misdea e Caluvia? E Gnacchera? Lui era il più compagnone di tutti. Neanche legato sarebbe rimasto in casa, la sera, ma da quando s’è fidanzato con la Marzia nemmeno al bar s’è più rivisto. Lei gli ha fatto inzuppare il biscotto nella cremina calda, poi l’ha chiuso in casa.»
«Massimo vuoi sapere come la penso? Mi farei mettere briglia, cavezza, attaccare al barroccio e manderei affanculo te, gli amici del bar e il torneo se mi capitasse la fortuna di fidanzarmi con un pezzo di figliola come quella Silvia.»
Un incontro da evitare
Per la strada di casa Silvia domandò a Mauro se la mostra di cui aveva accennato ai suoi amici l’avrebbe fatta a Sanfabiano.
«No, in una città importante ma ancora non so dove.»
«Non me ne avevi parlato.»
«Me l’ha proposto Fabrizio lunedì scorso. Penserà lui a organizzarla ma non prima di due anni.»
«Cacchio mi sa che ti dovrò tenere d’occhio. Negli ambienti artistici le donne sono troppo disinibite.»
«Silvia, non ess…»
«Così giochi al pallone?» tagliò corto lei.
«Giocavo. Fino a un paio d’anni fa ero titolare della Sanfabianese. Ho smesso a causa dei troppi impegni di lavoro. Poi mi sono fidanzato con Rossana e a lei non andava seguitare a sacrificare ogni domenica pomeriggio.»
«Ho capito non aggiungere altro perché meno me la rammenti, meglio sto. Che ruolo avevi nella squadra?»
«Hai detto ruolo? T’intendi di calcio?»
«Ogni tanto sento che lo dice mio padre. È tifoso dell’Inter. Gli è rimasto il cordone ombelicale. Allora, che ruolo avevi?»
«Portiere.»
«Ciumbia! Eri bravo?»
«Abbastanza. Erano le palle alte che mi mettevano in difficoltà. Al torneo dell’anno scorso riuscii a fare giungere in semifinale una squadra sgangherata che non ti dico. Parai perfino un rigore.»
«Lo tirarono a mezza altezza?»
«Spiritosa!»
«La semifinale com’è finita?»
«Abbiamo perso quattro a zero.»
«Cacchio, un tracollo! Ti chiamano Raffa per le tue capacità di arraffare i rigori?»
«Non è per questo ma per l’abitudine che ho sempre avuto di fare il ritratto a chiunque, appena mi capita a tiro un foglio e una matita. Da ragazzino mi chiamavano Raffaello. Poi sono passati all’abbreviativo ed è venuto fuori Raffa.»
Accetta la proposta dei tuoi amici», gli rispose Silvia guardandolo con un’espressione indulgente. Vengo a farti il tifo.»
«Tra poco dovremo iniziare ad allenarci due o tre volte ogni settimana e disputare partite amichevoli per affiatarci. Ognuno ha il suo lavoro e potremo farlo solo di sera o sacrificare il sabato e la domenica. Il tempo per stare insieme ne rimarrebbe ben poco per giugno e luglio.»
«Cribbio, quasi tutta l’estate?»
«Già. Le cose non stanno proprio che ha spiegato il mio amico. Mi è parso giusto dirtelo perché disputeremmo la finale a fine luglio se passassimo tutti i turni.»
«Cacchio mi sono fatta raggirare come una scema.»
Silvia fu così spontanea che Mauro s’intenerì. «Vuoi che rinunci?»
«Ti costerebbe molto sacrificio?»
«Un po’.»
«Allora giocalo questo cacchio di torneo. Ormai ho promesso e per quest’anno è andata.» Silvia dovette fermarsi di botto perché Mauro si era immobilizzato.
«Oh, porca miseria, Silvia, voltiamo.»
«Non si passa di qui per tornare a casa tua?»
«Si può passare anche di là.»
«Per quale motivo dobbiamo cambiare strada?»
«C’è Rossana con le sue amiche. È seduta lassù, fuori del bar.»
«Qual è?» gli chiese lei avvertendo un fremito di sfida.
«Quella col golfino rosa e i pantaloni neri. Torniamo indietro. Credo non ci abbia ancora visto.»
«Nient’affatto!»
«Silvia, mi sentirei di farle una cattiveria. La mortificheremmo davanti alle sue amiche.»
«Io sono del parere che è bene capisca subito come stiano le cose.»
Un attimo prima che li vedesse, Rossana era intenta ad ascoltare la conversazione tra le sue amiche sorseggiando acqua tonica. Fissò la ragazza dai capelli lunghi, bruni e fluenti che teneva il suo Mauro sottobraccio, sovrastandolo in altezza. Di un’eleganza classica, che colpiva l’occhio, la vide avanzare con un incedere altero. Posò il bicchiere sul tavolo con una lentezza che tradiva sbigottimento. Seguitò a fissarla senza battere ciglio, col respiro sospeso, le labbra semiaperte per la sorpresa. Sul volto impallidito, reso ancora più livido dalla luce artificiale, smarrimento e amarezza.
Notando che Rossana fissava la strada con un’espressione sconcertata, le sue amiche si voltarono e ammutolirono.
Silvia avanzò sfrontata e impettita, guardando ciò che le stava attorno con indifferenza ostentata, ma quando il suo sguardo incrociava quello di Rossana, la fissava dritta negli occhi, come per lanciarle il guanto di sfida. Vederla con l’inutile fedina all’anulare sinistro, leggerle stupore e sgomento in faccia, le procurava sensazioni di perfida soddisfazione. Mauro lo avrebbe baciato davanti a lei se avesse ubbidito all’impulso di compiacersi.
Rossana poggiò una mano sul petto. Avvertì la sensazione che si fosse lacerato qualcosa dentro di lei, poi si allontanò frettolosa, seguita dalle compagne.
«C’era bisogno di umiliarla?»
«Quanti scrupoli! Senti ancora qualcosa per lei, eh?» reagì Silvia lanciando a Mauro un’occhiata diffidente.
«È dai tempi delle elementari che ci conosciamo, se non altro ho l’obbligo di portarle rispetto.»
Immusonita, lei non rispose.
«Silvia non avrei voluto comportarmi cinicamente, lo capisci?»
«No!»
«Dio Santo come sapete essere crudeli voi donne, per soddisfare il vostro amor proprio.»
Silvia seguitò a rimanere silenziosa, arroccata nel proprio orgoglio.
CAPITOLO DODICESIMO
Sul dondolo
Mauro ritenne non fosse il caso di rincasare, entrambi con i musi lunghi, cosicché si fermarono in veranda e sederono sul dondolo.
Posata la borsetta su una seggiola e adoperato lo schienale come omino morto per la giacca, Silvia si era messa a meditare con l’espressione di chi si doleva per qualcosa della quale non si sentiva orgogliosa.
«I meteorologi sostengono che questo caldo sia anomalo. Suppongono dipenda dai gas serra che immettiamo nell’atmosf… Silvia non vorrai rimanere immusonita tutta la sera.» Mauro le sostenne il mento per obbligarla a guardarlo. «Calimero?»
«Sei buono, Mauro. Pensi come dipingi. Invece io ho fatto la passerella per marcare il territorio come fanno gli animali con la pipì. Ho voluto umiliare i sentimenti di Rossana per orgoglio e vanità. Dio che insolente sono stata! Ho ancora negli occhi la sua espressione avvilita quando mi ha fissato prima di correre via. In fin dei conti ti ho sottratto a lei. Cribbio da quando ti ho conosciuto non faccio altro che far soffrire gente.»
«Silvia, smettila di commiserarti. Non avvertiresti rimorso se fossi malvagia d’animo.»
«Vi sareste rappacificati se non mi avessi conosciuto, ne sono certa.»
«Questo che cosa c’entra? Sei arrivata tu e hai cambiato le cose.»
«Ecco, vedi? Mi stai giudicando ladra di sentimenti.»
«Quale ladra? Per Stefano provavi soltanto affetto e anche se mi fossi riappacificato con Rossana, sono certo che la nostra relazione non sarebbe durata. Ci saremmo lasciati comunque.»
«Non ne sono convinta. Mauro ho paura.»
«Di che cosa?»
«Rossana è molto carina, più che nella foto. La fedina che porta al dito è quella del vostro fidanzamento. È stata tua sorella a informarmi che non se l’era tolta e questo significa che si considera ancora la tua ragazza perciò tornerà a cercarti.»
«Dopo stasera non lo farà.»
«Mauro, ti sbagli. Stasera le ho dato una ragione in più per farlo perché l’ho ferita nell’orgoglio ed io non posso competere con lei perché può vederti quando vuole. Mauro promettimi che non mi lascerai.»
«Non c’è bisogno che ti faccia promesse.» Mauro le poggiò una mano sulla gonna. Premette le dita sulla coscia come la volesse rassicurare con quel contatto. «Sarà così e basta.»
«Me lo devi promettere invece.»
«Non lo prometto, te lo giuro sui miei genitori ma ora ho bisogno di un tuo sorriso.»
«Non mi viene.»
«Abbracciami allora.»
«Mamma mia non avrei mai pensato che i sentimenti facessero divenire tanto egoisti», disse Silvia con un tono commiserante. Lo vide sorridere, indulgente. Avvertì la sua mano insinuarsi sotto la gonna, poi fermarsi come volesse attendere l’intesa di seguitare. «Mauro», mormorò «potrebbe venire qualcuno dei tuoi.»
«Vado ad avvertirli che siamo sul dondolo, così non usciranno.»
«Ormai sei esperto, eh? Chissà quante volte lo avrai fatto con Rossana», reagì Silvia con un improvviso ritorno polemico.
«Smettila o mi farai arrabbiare. Non ero un frate di clausura prima di conoscerti.» Mauro fece per ritrarre la mano ma lei glielo impedì.
«Scusami non ho intenzione di diventare un’altra Rossana.» Silvia indugiò a sfiorargli i capelli. «Ora vai Mauro.» Lo vide fare il gesto di sollevarsi, poi rinunciare.
«Beh, perché non ti muovi?» gli chiese.
«Devo aspettare che il mio amico si calmi. Non posso andarci col rigonfiamento davanti.»
«È un segno che non sei adirato?»
«E di tante altre cose. Ecco brava ma togli quell’accenno di broncio al sorriso.» Mauro si scostò da lei chiedendole di non toccarlo. «Devo cercare di immedesimarmi a sbrigare faccende tediose. «Proverò a immaginare di vangare l’orto.»
«Sono tutti così buffi gli uomini?»
«Se sono normali.»
«Ci stai riuscendo?»
«Macché!»
«Posso provare ad aiutarti?»
«Per carità, stattene buona e zitta. Basta la tua voce per farlo agitare.»
«Volevo suggerirti di pensare d’aver fatto cadere a terra un quadro ancora fresco.»
«Non male come idea.» Mauro si figurò una tela cascata dalla parte sulla quale aveva appena ultimato un dipinto.»
«Funziona?»
«Un po’ ma credo sia meglio mi allontani subito.»
Effusioni
Al ritorno Mauro tolse le scarpe e si distese sul dondolo, il capo poggiato sul grembo di Silvia.
«Guardatelo come s’è messo. Non vuoi più continuare?»
«A fare cosa?»
«Mauro, hai capito, non farmelo dire.»
«Ora mi va di stare così. Ti sono passate le paturnie?»
«Questa domanda mi fa pensare che tu voglia castigarmi. Farai durare molto la punizione?»
«Non sono così severo.»
«Una settimana?»
«Penalità già scontata.» Mauro si sentì arruffare i capelli, poi ebbe il viso coperto da una cascata di chiome brune e avvertì un bacio sonoro schioccato in fronte.
«Mauro mentre eri assente, pensavo all’affetto che provo per i miei e l’amore che avverto per te. Sono due sentimenti diversi ma identici nell’intensità.»
«Perché hai fatto questo paragone Silvia?»
«Non lo so. Forse per confidarti quanto desiderio abbia di sentirti mio.»
«Vuoi vedere chi mi sono fidanzato con una femmina tanto carnale quanto passionale?» le disse Mauro.
Silvia gli distese una mano sulla guancia e annuì sussurrandogli: «Me lo stai facendo scoprire tu. Prima di incontrarti nemmeno mi sfiorava l’idea di essere così, però ora ti devo svelare un’altra cosa: «Riguardo ai miei genitori ti voglio confidare che a volte provo ingratitudine per non avere mai detto loro quanta riconoscenza provi per avermi messa al mondo.»
«Sbagli», obiettò Mauro carezzandole il volto «perché glielo hai dimostrato facendo la tua parte, senza mai deluderli e se c’è intesa tra genitori, è più difficile che siano delusi dai figli.» Mauro rimase assorto qualche istante e aggiunse: «La concordia tra i miei ha fatto sempre sentire protetti me e mia sorella: mai urla, mai grossi litigi, mai mutismi o sguardi ostili, tanto che li ho paragonati a una candela: mio padre lo stoppino, mia madre la cera.»
«Ogni tanto», commentò Silvia «vieni fuori con certe espressioni! “Stoppino e cera”. Dà l’idea di una coppia che invecchia con la consapevolezza dell’indispensabilità reciproca. Sarà così anche per noi Mauro?»
L’importante è volerlo e augurarsi che un po’ di fortuna ci aiuti a tenere lontane le fatalità e il buon senso ci faccia respingere le tentazioni. Spero che impareremo a divenire complementari come il verde lo è del rosso. In un dipinto c’è consonanza se i colori s’intrecciano con armonia. Mio padre ha tirato avanti la famiglia ragionando così. Dopo le medie inferiori si è messo a imparare il mestiere di restauratore, invece di continuare a studiare. A sedici anni lavorava già nove ore il giorno, ed era mio nonno che lo spronava perché andasse a farsi una chiacchierata con gli amici al bar. Non s’è arricchito ma ci ha fatto sentire la terra sotto i piedi, sempre. È anche un uomo di profonda cultura e diventa pure zuzzurellone quando ci si mette.»
«E tua madre?»
«Ha un’intelligenza più istintiva e la capacità di avvertire la falsità delle persone, a pelle. È capitato più di una volta che abbia avvisato mio padre di non fidarsi di questo o quello, azzeccandoci.» Mauro rivolse lo sguardo verso il giardino e soggiunse: «La mia mammona è una gran chioccia.»
«Ciumbia, come l’hai detto. Gli sei attaccato parecchio?»
«Molto.»
«I figli maschi sono tutti così. Vedo mio fratello, non che a suo padre voglia meno bene intendi, ma mai una volta che sia entrato in casa e abbia detto dove fosse il babbo. “Gente, dov’è la mamma”. Mi sembra di sentirlo.
«É un richiamo naturale, Silvia.» Mauro le prese la mano, se la portò alle labbra e la baciò sul palmo.
«Li hai ancora tutti e quattro i nonni, Mauro?»
«Fortunatamente sì. I materni si sono trasferiti a Morciano. Vivono con una zia nubile. I paterni abitano soli, a poche centinaia di metri da qui. Mio nonno Federico viene spesso in bottega a darci una mano e mia nonna Cesira cuoce il sugo per la pastasciutta come lo faceva la tua. Spesso, di domenica, la vedi che arriva verso le undici e mezzo del mattino, con un pentolino di ragù anche per noi. Ti porterò a conoscerli una delle prossime domeniche.»
«Mi farebbe piacere. Provo tenerezza per le persone anziane.»
«Ho conosciuto anche la mia bisnonna, sai?», seguitò Mauro. «Avevo otto anni quando morì, all’età di novantasette anni.»
«Cacchio!» esclamò Silvia «sei di razza longeva. Morirò prima di te e mi terrai per mano nel momento della dipartita.»
«Non darlo per scontato. Le donne sono più dure degli uomini a tirare le cuoia.»
Silvia si lasciò andare a una risatina finalmente distesa. Gli domandò se rammentasse la sua bisnonna.
«La ricordo un po’ curva con gli occhi arrossati, sempre attenta a dove andassi e quel che facessi. Quando mi ammalavo, era sempre lei che si accorgeva per prima. “Quando voce di bambin non squilla o ha la febbre o gli piglia” diceva.»
«Continua Mauro», lo incalzò Silvia.
«Portava una mantellina fatta all’uncinetto come le anziane di Montelignano. Voglio farle un ritratto. Ho qualche foto che mi possa aiutare. La collocherò accanto ad un focolare acceso, mentre dondola la mia culla. Aggiungerò un gattino che dorme in un canto, ma dovrò attendere di essere migliorato a dipingere il fuoco. Non è facile dare alle fiamme il senso del movimento, cogliere l’istante in cui si distaccano dal ciocco per danzare sull’aria.»
«Mauro descrivi le cose in un modo che incanta. Chiunque tu sia, grazie ingegnere per avere incontrato sto ragazzo. Non lo avrei conosciuto altrimenti. Credo mi sarà difficile non essere gelosa.»
«Ed io non avrei avuto questo cuscino morbido», disse Mauro, sospirando. «Muovi un po’ il dondolo.»
«Sentitelo il mio cucciolotto, vuole essere cullato.» Silvia spinse i piedi e il dondolo oscillò. «Mica sembri un pittore. Sei troppo, come dire… sì, troppo ordinario. Gli artisti sono tipi strani, sempre tormentati, portano capelli e barba lunghi, vestono eccentrici.»
«Detesto le persone che si comportano in modo strambo per apparire più talentuosi di quel che non siano. Spesso la loro originalità è segno di pochezza creativa. Sul serio, Silvia, pensi sia necessario mettere le mutande in capo per essere veri artisti?»
«Certo.»
«Come sarebbe a dire, certo?» replicò Mauro accigliandosi. Cercò di sollevarsi ma Silvia lo trattenne ponendogli una mano sul petto.
«Mamma mia come sei permaloso!»
«Embè! È come mi avessi dato del banale.»
«Ma dai Mauro! Ho capito quale sia il motivo del tuo spirito di artista, sciocco. Il mondo non lo guardi ma lo osservi e frughi nelle cose per cogliere lo spirito anche delle pietre.»
«Allora non preoccuparti se talvolta vedrai che mi assento dal presente perché non starò pensando a un’altra ma a come abbia anima anche una goccia d’acqua che brilla colpita da un raggio di sole.»
«Mauro, mi hai fatto vedere lo scintillio della rugiada sopra una foglia.»
«Due animi poetici si esauriranno assieme, come candela e stoppino. Siccome sei gelosa, dovremo mettere la bugia sotto la candela per trattenere la cera.»
Lei reagì dandogli un colpetto sulla guancia. «Furfante, ti diverti a provocarmi.»
Tiziana e Riccardo
«Silvia, i tuoi genitori come si sono conosciuti se lui è milanese?»
«Ci si potrebbe scrivere un romanzo. Dopo il liceo mia madre andò a studiare a Milano. Aveva appena iniziato a frequentare il primo anno di Economia e Commercio quando conobbe mio padre. Un giorno partecipò a una manifestazione di piazza studentesca che sfociò in un tumulto. Loro scapparono in tutte le direzioni e…»
«Si nascosero in un magazzino di granaglie dopo essersi allontanati da un tafferuglio tra polizia e dimostranti», terminò Mauro.
Silvia, stupita, aggottò la fronte e gli chiese: «Come conosci questi particolari, Mauro?»
«Me l’ha accennato tuo padre quando siamo andati a ritoccare il quadretto. Suppongo abbia voluto manifestarmi comprensione spiegandomi di non essersi stupito che ci siamo piaciuti a prima vista perché a lui e tua madre è accaduta la stessa cosa. Si sono innamorati dopo essersi scambiati uno sguardo tra sacchi di cereali.»
«Cribbio che uomo straordinario è mio padre. Non gli ho mai disubbidito perché non ho avuto bisogno di farlo. Ha sempre voluto che percepissi i suoi ordini come fossero consigli. Capiva la mia ostilità ai comandi. Solo quella volta della bambola mi ha punito con lo sculaccione ma, cacchio, mia sorella si era intestardita a giocare sempre con quella e me la ritrovavo dappertutto. Ero arrivata al punto di immaginare quella cosa sbucare da ogni angolo di stanza e trascinarsi carponi verso di me.»
«Che avversione viscerale! Dovresti circondarti di bambole per vincere questa fobia.»
«Per carità!»
Si sorrisero stropicciandosi il naso.
Tua madre era attivista del movimento studentesco?» le chiese Mauro.
«Macché! Nemmeno voleva andarci alla manifestazione. Le sue compagne d’appartamento la convinsero e si ritrovarono in mezzo ad un carosello di camionette e lanci di lacrimogeni. Il getto di un idrante antisommossa la gettò a terra. Si sentì sollevare per le ascelle e incitare a correre ma aveva perso una scarpa e zoppicava. Quando la persona che l’aveva sollevata si chinò per toglierle l’altra, vide un ragazzo biondo, con barba e capelli lunghi, che le gridava di sbrigarsi a corrergli appresso. Fu così che si nascosero nel magazzino di granaglie. Solo allora mia madre poté rendersi conto di come fosse ridotta. Dal golfino e dalla camicetta parecchi bottoni erano saltati e aveva perduto il soprabito di loden che teneva sottobraccio. Mio padre, che continuava a sbirciare fuori della porta, guardò mia madre in faccia soltanto quando capì che gli scontri si erano allontanati.»
«Silvia pensa a quanto sia bizzarra la casualità delle circostanze. Ci siamo potuti conoscere per quell’idrante della polizia; se tua madre non fosse stata investita dal getto d’acqua, tuo padre,forse, le sarebbe passato accanto ma senza chinarsi per allontanarla dai tumulti.»
Quella frase ebbe l’effetto di farla divenire stranamente pensosa.
«Silvia, ho detto qualcosa che ti ha turbato?»
«Pensare che il capotreno della vita sia l’imprevisto», rifletté lei «fa un po’ paura perché sta in agguato pronto a riprendersi quel che concede. Temo sempre che accada qualcosa alle persone che amo, più di quel che possa capitare a me. In questo somiglio a mia madre.»
«Forse hai un’indole troppo materna», ripose Mauro percependo il tepore del suo grembo sulla nuca.
«Ti farebbe piacere se lo fossi?»
«Le mogli-mamme sono spose premurose.»
«Non ti sentiresti oppresso?»
«Affatto.»
«Saperlo mi tranquillizza perché conosco il mio temperamento e temo che sarò troppo posses… protettiva», si corresse Silvia dandogli un altro bacetto sulla fronte.
«Non sarà certo la tua predominanza a crearmi problemi. Che cosa successe ai tuoi, in seguito?»
«Vuoi che continui?»
«Certo. È meglio che al cinema.»
«Mio padre disse a mia madre di spogliarsi ma lei esitava.»
“Togliti questa roba fradicia di dosso, te capì? Stai battendo i denti ostrega! Vuoi prendere un malanno?” Vedendo che rimaneva imbambolata si tolse il maglione.»
“Levateli dopo che sarò uscito, metti questo e avvolgi i piedi con quei sacchi vuoti.”
“Tu dove vai?”
“A cercare qualcosa d’asciutto. Qui vicino abita una famiglia che conosco. Sono compagni.”
“Vengo con te.”
“Scalza non passeresti inosservata e se ci beccasse la polizia, ci porterebbe in questura e ci farebbe un verbale per adunata sediziosa e tumulti.”
“Se vengono i proprietari, che cosa gli dico?”
“Che passavi per strada col tuo ragazzo, siete rimasti coinvolti nei tafferugli, avete trovato riparo qui dentro e lui è andato a cercarti degli abiti asciutti.”
“Se non ci credessero e volessero chiamare i carabinieri?”
“Allora piangi. Funziona sempre per una donna.”
“Come ti chiami?”
“Riccardo. Tu?”
“Tiziana.”
“Hai il viso più bello del nome.”
“Lascia stare i complimenti, Riccardo, e cerca di tornare presto.”
«Tornò?» domandò Mauro poggiandole l’orecchio sull’addome.
«Spiritoso, non ci saresti ad ascoltare se mi brontola la pancia.»
Lui si lasciò andare a un beato sorriso.
«Quando giunse mio padre trovò la porta spalancata. Due operai caricavano sacchi di cereali in un furgone. Non sapeva che fare. Uno di loro, vedendolo che occhieggiava, disse che avrebbe trovato la sua morosa nella stanza in fondo al magazzino. Siccome esitava ad andarci, quello lo rassicurò, dicendogli: “Cià ndem giunot, che t’accumpagni da la tò murusa.” Vedendolo ancora indeciso, seguitò: “Ehi student, ghe sun minga i carabiné, ostrega, fides!”
«Trovò mia madre seduta accanto ad una stufetta elettrica. Sorseggiava tè bollente. Quella gente le aveva persino rimediato scarponi da montagna perché tenesse i piedi al caldo.»
«E dopo?»
«Lei si buscò un forte raffreddore, mio padre andò a trovarla e da quel giorno incominciò la loro storia. Pure lui era al primo anno universitario. Frequentava la facoltà di matematica. Per mia madre iniziarono anni difficili perché mio padre credeva nel riscatto del proletariato dallo sfruttamento capitalistico. Aveva otto anni quando perse il padre muratore, in un incidente sul lavoro, per via di un ponteggio malandato. Sicuramente si era portato dietro un profondo risentimento nei confronti della società per quell’accaduto. Così, nell’ultimo anno di liceo, entrò nella militanza politica per incitare gli operai a unirsi agli studenti e battersi contro i padroni. Sapessi quante volte mia nonna Martina mi ha confidato: “Se el ghera no la tò ma’, che l’frenava, ul tò pa al podaria ess accuppà.” Mia madre dovette passare parecchie notti in casa di mia nonna che penava perché lo sapeva fuori alle assemblee o a occupare le scuole. Una volta rientrò all’alba con la camicia intrisa di sangue. Il suo gruppo aveva avuto uno scontro con studenti di destra e si era buscato una coltellata dalla parte del fegato. Siccome era una ferita da taglio e i medici sarebbero stati obbligati a informare la polizia, lui preferì rinunciare all’ospedale. Così gli dovettero fermare l’emorragia premendogli sulla ferita un asciugamano riempito di ghiaccio. Fortuna volle che lo avessero preso di striscio.»
«Era un bello sciagurato», commentò Mauro. «Tua madre non ha mai pensato di lasciarlo?»
«Era innamorata e mia nonna paterna si raccomandava che non lo facesse. Trovarsi senza marito, lavorare in fabbrica nove ore il giorno, per mandare a scuola un figliolo come quello e badarlo, non ci sarebbe riuscita da sola.»
«I tuoi nonni materni sapevano della sua attività politica?»
«Come non potevano? Leggeva le riviste della sinistra extraparlamentare quando in estate veniva a trovare mia madre. Molte volte si sono raccomandati che lo lasciasse, ripetendole che un futuro non se lo sarebbe fatto con quello sfaticato barricadiero, ma lei gli rispondeva che lo amava troppo e che era affezionata molto a sua madre. Così, fra preoccupazioni e periodi tranquilli, giunsero a laurearsi. Nel frattempo i miei nonni, che avevano un negozietto di mercerie, assunsero la prima commessa, iniziarono a vendere abbigliamento e acquistarono la casa in cui abitiamo oggi. Nell’attesa di trovare un’occupazione, mia madre andava ad aiutarli e siccome la clientela aumentava, si ritrovò a dover galoppare da mattina a sera per fare fronte alle necessità. Mio padre, invece, rimase a carico di mia nonna. Capirai, lui dove andava a cercare le raccomandazioni giuste per trovarsi un lavoro? Aveva fatto sempre il rivoluzionario. E nemmeno era il tipo da concorsi. Sosteneva che a vincere erano i soliti raccomandati dalle consorterie dei partiti.»
«Avrebbe dovuto partecipare comunque, quantomeno per acquistare punteggio. Alla fine l’avrebbe spuntata.»
«Lui era fatto così. Sono anche convinta che la lontananza di mia madre abbia contribuito a privarlo della volontà d’impegnarsi. Un giorno mia nonna Martina le telefonò per avvertirla che Riccardo aveva iniziato a frequentare una donna più anziana e che andava sempre più spesso a dormire a casa sua. Puoi immaginarti l’amarezza di mia madre. I miei nonni tentarono di convincerla che avrebbe dovuto mandarlo al diavolo, quel lazzarone, ma alle due del mattino li destò per avvertirli che sarebbe andata a Milano, perché voleva avere un chiarimento a quattr’occhi. Mio nonno le disse che la migliore decisione sarebbe stata di lasciarlo. Poi quando si rese conto che lei non voleva sentire ragioni, minacciò di negargli le chiavi dell’alfetta ma mia madre gli rispose che avrebbe preso il treno, poi sarebbe andata via di casa. Quando giunse a Milano nonostante mia nonna avesse cercato di convincerla che meglio sarebbe stato se lo avesse atteso in casa, si fece dare l’indirizzo di quella donna e ci andò.»
«Che animo! Ora mi sa che viene il bello.»
«Quella donna era un’ex modella e all’epoca che mio padre la conobbe, faceva la stilista. Di soldi ne doveva guadagnare perché abitava nell’attico di un palazzo signorile. Al citofono, mia madre le disse d’essere Roberta, un’ex amica d’università di Riccardo, che aveva cose urgenti da comunicargli da parte di compagni. Fu lei ad aprirgli la porta. Era sui quarant’anni, alta e magra. Parlava con l’evve moscia che le conferiva un tono aristocratico. Indossava una svolazzante veste da camera, si muoveva con modi affettati e già aveva la sigaretta in bocca.»
«Un anticapitalista come tuo padre si era messo con una fantesca della borghesia?»
«Negli anni settanta non era impossibile trovare persone di ceti signorili che ostentavano cultura di sinistra. Mio padre conobbe quella donna a uno spettacolo di cabaret. Siccome aveva i soldi e lui cominciava a non vedere sbocchi per il suo futuro, pensò d’allontanare i problemi accompagnandosi con lei e sperando che lo raccomandasse da qualche parte. Insomma fece accomodare mia madre e le disse: “Signovina Vobevta, ho già avvevtito Viccavdo. Spevo non sia accaduto nulla di gvave.”
“Non si preoccupi. Devo soltanto riferirgli alcune informazioni.”
“Signovina, si sieda. “Viccavdo, sbvigati!”
“Vengo subito, Olga.”
«Che scena!» esclamò Mauro.
Silvia finse d’aver perso il filo del racconto. «Dov’evo avviv… oh cribbio, anch’io…»
Risero sommessi.
«Che lei aveva invitato tua madre a sedersi», le ricordò Mauro.
«Ah già! Quando mio padre si presentò, indossando soltanto i pantaloni del pigiama, sbiancò come un lenzuolo nel vedere mia madre ma ci pensò lei a fargli tornare il colorito perché gli mollò quattro ceffoni da rivoltargli la faccia e disse con voce quasi affettuosa, per fargli pesare ancor più il rimorso, che l’avrebbe atteso in macchina. Lasciò l’evve moscia a bocca aperta e occhi sgranati. Lo attese col batticuore per timore che non scendesse ma lo vide arrivare dopo dieci minuti con un mucchio d’abiti sottobraccio. Mai lo aveva visto con le lacrime agli occhi, nemmeno quando si era buscato la coltellata. Lui provò a darle un bacio ma mia madre gli fece due occhiacci da fulminarlo. Poi gli spiattellò in faccia: “I miei mi hanno detto che sono una sciagurata a voler perdere tempo con te perciò apri bene le orecchie: andiamo a casa di tua madre perché devo riposarmi un po’. Ti do tempo fino alle cinque per sistemare la tua roba in macchina ma se decidessi di rimanere a Milano, anche se dovrò patire le pene dell’inferno per pensare a quella santa donna di tua madre, non mi vedrai più. Stop, finito tutto e mi faccio una famiglia con un ragazzo che ha la testa sulle spalle.”
«Accipicchia, si dice parlar chiaro», commentò Mauro facendo il gesto di grattarsi il capo. «Tua madre lo aveva il pretendente o fingeva?»
«La corteggiava il figlio di un grossista di materiali elettrici che aveva il deposito vicino al nostro negozio. Insomma alle cinque e mezzo erano già in vista del casello di Lodi. Tre mesi dopo si sposarono.»
«Tua nonna Martina rimase sola?»
«Viveva in uno di quei vecchi casolari tipici delle campagne lombarde, quelli col cortile interno e i ballatoi. Sapeva che non avrebbe ricavato un gran che a vendere le tre stanzette perciò, nonostante avesse raggiunto l’età della pensione, voleva seguitare a lavorare per almeno due anni e mettere da parte i soldi per comprare un bilocale, presso casa nostra. Combinazione volle che i nostri dirimpettai si trasferissero proprio in quel periodo e un’occasione migliore non poteva capitare, perché mia nonna Martina, con un po’ d’aiuto da parte dei miei nonni paterni, acquistò la loro casa. In seguito, io ero ancora piccola, unirono i locali ricavandone un ampio appartamento. Così i miei tre nonnini me li sono goduti sotto lo stesso tetto per tutta l’adolescenza.»
«Tuo padre faticò ad ambientarsi?»
«Affatto e fu una sorpresa per tutti. All’inizio mio nonno lo aiutò a trovare un’occupazione presso una scuola serale per studenti lavoratori e durante il giorno stava in negozio a svolgere lavoretti ma senza che nessuno lo forzasse. Siccome la parlantina non gli mancava, cominciò a contrattare con i rappresentanti. Mio nonno, accortosi che ci sapeva fare, gli diede fiducia consegnandogli l’amministrazione dell’azienda, e quando mio padre gli propose di acquistare un furgone per rifornirsi di grossi quantitativi di merce, seguì il suo consiglio. In quel modo riuscivano a vendere a prezzi competitivi e qualora ce n’era bisogno, mio padre aiutava pure al banco. Insomma, tra scuola e negozio lavorava dodici o tredici ore il giorno. Mio nonno, vedendo che si stava appassionando a un lavoro che mai avrebbe pensato gli sarebbe piaciuto, accettò la sua proposta di ampliare il negozio e assumere un paio di commesse. Così mio padre cessò di fare l’insegnante per dedicarsi unicamente al commercio. In seguito il negozio fu ancora ampliato utilizzando un ex deposito di pneumatici. Tutti gli articoli furono sistemati decorosamente, fu assunto altro personale e realizzato settori di vendita distinti. Nella nuova insegna ci fecero scrivere EMPORIO CIEFFE, iniziali dei cognomi di mio padre e mia madre. Io e mia sorella siamo andate a dare manforte, dopo esserci diplomate. Questo, Mauro, è il pezzo di storia più importante della mia famiglia. Così da quell’irriducibile contestatore qual era, mio padre si ritrovò a essere imprenditore con tanto di dipendenti, compresa Morena Valdes l’ultima assunta, un’extracomunitaria peruviana.» Silvia trasse un sospiro. «Mauro ci sono momenti in cui mi sento grottesca.»
«Ora non ti capisco. Sei bella e sana, hai una famiglia unita, agiata, un capitale.»
«Se penso alla mia azienda come un’attività che contribuisce a sperperare le risorse del mondo mi sento ipocrita. Mi sforzo di rimanere vegetariana ma la fetta di spalla che tuo padre mi voleva offrire l’avrei mangiata con gli occhi. Solo facendomi tornare alla mente Cico sono risuscita a resistere. Faccio l’ecologista, da una parte lotto per salvare la tua bella Valcorniola e dall’altra contribuisco a sostenere quel sistema che la vorrebbe sommergere.»
«Che stai dicendo Silvia!»
«La verità! Non dobbiamo vendere, vendere e continuare a vendere con la formula del “più ne compri più li sconti”. Tu, almeno, hai la fortuna di fare un lavoro che recupera e ridona bellezza alle cose senza consumare.»
«Anche noi facciamo parte del sistema consumistico. Abbiamo computers, cellulari, tutti gli elettrodomestici immaginabili, due automobili e un furgone. E poi, Silvia, il mio mestiere non è ecologico come immagini. È vero che non utilizziamo molto legname ma adoperiamo solventi e vernici prodotti dalle industrie chimiche. Persino quando dipingo utilizzo sostanze nocive all’ambiente. Livio e Arturo hanno ragione a sostenere che nessuno può essere assolto, in un modo o nell’altro, perciò non sentirti in colpa più di tanto.»
«Vorrei almeno poter essere utile per impedire che molte creature si estinguano a causa della nostra avidità e aiutare le persone che soffrono.»
«Lo stai facendo altrimenti non ti saresti impegnata con la FNEI e non andresti a fare l’animatrice in quell’istituto di bambini down. Il suggerimento che ti posso dare è di seguitare a farlo con la coscienza di non poter giungere a tutti. Bada che le tue aspirazioni non si trasformino in assillo, altrimenti ti sembrerà gravoso dare aiuto anche a poche persone. Suppongo avrai sentito parlare d’Alex Anger. Lui avrebbe voluto soccorrere tutti i sofferenti della Terra: uomini e animali. Forse è stata la consapevolezza di essere impotente che l’ha condotto al gesto estremo. Il suo non era più scopo ma perenne angoscia. Ora accendi una sigaretta. Ti aiuterà a svicolare dai brutti pensieri ma non sperare che mi ripeta. Ho promesso a tuo padre che avrei cercato di farti smettere di fumare.»
«Lo immaginavo che te lo avrebbe chiesto ma non ne fumo parecchie.»
«Nessuna sarebbe meglio.»
A Silvia soltanto il pensiero che avrebbe goduto qualche tirata bastò per farle riprendere il buon umore. «La cenere dove la butto?»
«Per terra. Domattina spazzerò.»
«Spazzavi anche quando ti appartavi con Rossana?»
«Lei non fumava.»
«Intendi dire che sono più viziata di lei?»
«Silvia, per favore, smettila.»
«Scusami. Ora, però, alzati.»
«Hai bisogno di sgranchirti le gambe?»
«No. Rischio di farti cadere la cenere negli occhi se accendo la sigaretta.»
«Li terrò chiusi fino a che non avrai finito. Così ci morirei.»
Nadia e Luciano
«Mauro perché ridi sotto i baffi?»
«La vicenda dei tuoi genitori mi ha fatto tornare alla mente come si siano conosciuti i miei. Mio padre combinò un tale strattagemma a mia madre che mi viene da ridere solo a pensarci.»
«Che cosa le combinò?» gli domandò Silvia deliziandosi di una tirata di sigaretta.
«Non sapendo come fare ad attaccarci bottone escogitò di forarle la bicicletta. Un giorno si trovava fuori l’uscio di bottega a dare la coppale a un mobile, quando notò una ragazza mai vista che passava in bicicletta. La famiglia di mia madre era venuta ad abitare da poco tempo a Sanfabiano e lei doveva passare da lì per andare a lavorare in un calzaturificio.»
Silvia espulse il fumo dalle narici con gran diletto. «Tuo padre ha partecipato alla contestazione giovanile?»
«Pensava soltanto a imparare il mestiere. In quanto alla contestazione giovanile, credo pensasse di più al… niente, mi stava scappando una battuta.»
«Prima m’incuriosisci e poi… ora me lo dici.»
«Invece che al significato di sessantotto credo pensasse di più quello del numero successivo.»
«Ho capito, dove li aveva i pensieri», commentò Silvia dandogli un buffetto sul viso.
«Verso le cinque del pomeriggio, quando lei tornava a casa dal lavoro, mio padre si metteva a lavorare fuori dell’uscio per vederla passare e guardarle le gambe. Mia madre si accorse e quando era vicina, smetteva di pedalare per tenersi bassa la gonna.»
«Guardare le gambe alle ragazze è una vocazione del vostro ramo maschile?»
«C’è chi è portato alla vocazione di castità e chi…»
«Credo sia meglio lasciare cadere l’argomento e seguitare con la storia dei tuoi.»
«Dopo qualche giorno cominciarono a salutarsi con un ciao frettoloso. Mio padre aveva notato che lei non portava fedine così, sperando non avesse il ragazzo, pensò d’attaccarci bottone ma non sapeva come fare.»
«Dove lo butto il mozzicone?»
«Di sotto sulla ghiaia.»
«Allora?»
«Escogitò di forarle la bici. Il necessario per riparargliela l’aveva, compreso il secchio per l’acqua.»
«Occorre un secchio con l’acqua per aggiustare le biciclette?»
«Certo. Si deve togliere la camera d’aria dal copertone, gonfiarla e immergerla nell’acqua. Nel punto in cui fa le bollicine, si scopre il buco.»
«Ingegnoso. Non lo sapevo.»
«Non avete biciclette in famiglia?»
«Più di una.»
«Non t’è mai capitato di forare e doverla portare a farla aggiustare?»
«Sì ma il meccanico delle bici è distante, perciò le ha sempre portate ad aggiustarle mio padre, caricandole nel furgone e non gli ho mai chiesto come facessero.»
«Pensa quanta fortuna hai avuto a conoscermi? Ora sai perfino che occorre un secchio colmo d’acqua per riparare le forature.»
«Doveva bucarla senza che lei si accorgesse, però.»
«Infatti, approfittò che ci fosse un minimarket poco distante dal laboratorio dove lei si fermava spesso, sicché escogitò di forarle la bici mentre faceva spesa. Il giorno in cui decise di mettere in atto il piano non riusciva a trovare il punteruolo cosicché prese a frugare nei cassetti degli attrezzi in fretta e furia. “Luciano” gli chiese mio nonno, “che diavolo cerchi? Vuoi dirmelo invece di buttare all’aria la bottega?”
“Questo.” gli rispose levandogli l’attrezzo di mano. Mio nonno gli domandò a che cosa gli servisse.»
“Per parlare con una ragazza.”
“Lo vuoi fare con un punteruolo? Luciano, sei partito di testa?”
Silvia ascoltava tenendole la mano tra i capelli, un sorriso appena accennato sulle labbra.
«Mio nonno gli corse dietro, preoccupato», seguitò Mauro «ma quando vide che forava il copertone di una bicicletta tornò in bottega scotendo il capo. Mio padre portò fuori dell’uscio un mobiletto e si mise a stuccarlo. Mia madre si accorse di avere una gomma a terra alla prima pedalata. Così prese a spingere la bici e quando passò davanti bottega, lui le disse con aria dispiaciuta:
“Signorina ha forato?”
“Purtroppo. Doveva capitarmi proprio stasera che ho fatto più spesa del solito”
“Non se la prenda, sono cose che succedono.”
“La ruota era gonfia quando sono entrata in negozio, non riesco a capire come abbia potuto forarsi da ferma.”
“Sarà successo prima che lei giungesse e non se n’è accorta perché il copertone s’è sgonfiato lentamente.”
“Chi potrebbe ripararmela? Abito a Sanfabiano da poco tempo e non saprei da chi andare”
Mio padre ebbe il temerario impulso di darle del tu. “Posso aggiustartela se vuoi. Io e mio padre usiamo spesso le biciclette e capita anche a noi di forare, perciò abbiamo l’occorrente.”
“Non avrei sparato in tanta fortuna. Te ne sono grata. Ti chiami?”
“Luciano. Tu?”
“Nadia.”
“Nadia, ci metterò un po’, non ho la pratica del meccanico.”
“Fa niente. Mi potresti indicare una cabina telefonica? Devo avvertire i miei che arriverò a casa in ritardo.”
“Quale cabina! Abbiamo il telefono in bottega, vieni.”
Mio padre preparò il secchio con l’acqua, la toppa, il mastice e la pompa.
“Cavoli, come sei organizzato.”
“Che ti avevo detto? A mio padre capita di forare una volta su tre che adopera la bicicletta. Le camere d’aria della sua bici attirano i chiodi come le calamite.”
«Insomma un po’ per mancanza di pratica, un po’ perché non voleva darsi fretta, riuscì a trattenerla per quasi un’ora ma senza che gli tornasse alla mente il discorso che si era preparato per chiederle l’appuntamento, sicché, preso dalla fretta, riuscì a improvvisare qualcosa quando lei aveva già inforcato la bici.»
«Che cosa le disse», gli domandò Silvia tornando ad arricciarsi una ciocca di capelli sul dito.
Le propose di andare a mangiare il cocomero.»
«Almeno le fosse venuto in mente di offrirle la pizza, ma il cocomero», commentò Silvia, ridendo sommessa.
«Già. A mia madre doveva essere scattato qualcosa dentro per accettare di uscire con uno che gli aveva proposto di andare a mangiare il cocomero. Credo che in seguito la Valcorniola fosse divenuta il posto preferito dove andavano a fare l’amore perché, da sposati, prima che nascesse Manuela, mi portavano spesso lassù. Ricordo che mi mettevano in mezzo a loro, mi sollevavano tenendomi per le mani e mi facevano toccare terra più avanti per darmi l’impressione di volare. Da grandicello continuai ad andarci con i miei amici di scuola. In seguito, più che all’Istituto d’Arte, ho imparato a dipingere lassù.»
Silvia gli sfiorò la fronte con la punta delle dita, trastullandosi a muovere indice e medio come fossero arti di un minuscolo omino. «Ora capisco perché tieni a quel luogo. Chi ti ha raccontato la storia della bicicletta?»
«Mia sorella.»
«Lo immaginavo. Le mamme hanno un debole per i figli maschi ma della loro vita ne parlano più volentieri con le figlie. Tua sorella è affezionata molto a te. Me l’ha detto lei, prima di cena.»
«Da piccoli non me la spiccicavo di torno. Ha graffiato Rossana più di una volta perché volevano stare dalla mia parte quando giocavamo a ruba bandiera.»
«Quanti anni avevi?»
«Nove, dieci.»
«Cavoli, hai iniziato presto a farti le fidanzatine. Spero non avrete giocato al dottore.»
«Non con lei ma con Tamara la barista del distributore.»
«Addirittura? Che cosa le hai fatto?»
«Niente. Ci siamo nascosti dentro una botte per vedere com’eravamo diversi. É normale che i bambini siano curiosi.»
«Ecco mettiamola così. Mamma mia che maialino di fidanzato mi ha portato il Rio Pansecco!»
«Che cosa ti dicevo Silvia? Ah, sì, di Rossana. Lei è rimasta antipatica a Manuela anche dopo che ci siamo fidanzati. Mia sorella si sforzava di trattarla con affabilità ma ha sempre evitato di prenderci confidenza, invece vuoi due avete fatto comunella subito.»
«C’è venuto spontaneo. Diciamo sia stato un colpo di fulmine d’amicizia, ed è bene perché mi aiuterà a tenerti sotto controllo, faccina da santarellino.»
«Silvia non considerarmi una specie di casanova perché non lo sono.»
«Certo, certo, tuttavia hai qualcosa che suscita l’attenzione delle donne, quindi meglio non abbassare la guardia.»
Azzurro
Mauro, compiaciuto per la lusinga, giocò a stuzzicarla accarezzandole il seno nel punto in cui avvertiva la protuberanza dei capezzoli.
«Attento che ci sento.»
«Soltanto a sfiorarteli sopra la camicetta?»
Lei annuì socchiudendo gli occhi.
Udirono un cinguettio.
«Silvia, è giunto un usignolo a farci compagnia. Sentilo come gorgheggia.»
Rimasero ad ascoltare il melodioso canto fino a che avvertirono un frullo d’ali allontanarsi.
Lei gli introdusse la mano sotto la maglietta e prese a carezzargli il torace. Si soffermò sui minuscoli capezzoli pizzicandoli appena. Sentì Mauro irrigidirsi e fare un breve sobbalzo. Si stupì di scoprire quanto, anche per i maschi, fossero sensibili quelle parti del corpo; insisté a pizzicarli godendo nel sentirlo irrigidirsi e rilassarsi.
«Silvia che stai facendo?»
«Imparo a conoscere le tue zone erogene», gli mormorò. «Te lo hai mai fatto Rossana?»
«Nnnzzz!»
“Molto bene”, pensò Silvia ritraendo la mano per accarezzargli il viso. «Sai Mauro? La Valcorniola è stata il nido d’amore dei tuoi genitori, ti ha fatto da musa e per merito suo ci siamo conosciuti. Ha tracciato il tuo destino e comincia a segnare il mio. Quel luogo è benigno per noi. Dovremmo andarci a fare un picnic, una delle prossime domeniche. Ti va l’idea?»
Mauro annuì facendole scorrere la mano sui capelli. «Porterò il mio blocco da disegno e farò qualche ritratto con la sanguigna alla mia fatina dai capelli turchini.»
«Chi sarebbe la tua fatina, Pinocchio?» gli domandò Silvia trastullandosi a stringergli il naso tra le dita.
«Indovina?»
«Ce li ho neri non turchini.»
«Illuminati dal sole emanano riflessi azzurrini così intensi che dovrò usare il blu di cobalto per farti il ritratto.»
Silvia provò un tale fiotto d’emozione da farle galoppare il cuore. «Mauro, ci credi che ti voglia bene?»
«Certo, perché me lo hai chiesto?»
«Perché te ne voglio un miliardo di volte più di quel che pensi.» Glielo sussurrò con un filo d’ansia. «Sei un ragazzo dolcissimo.»
«Anche tu.»
«Non saremo troppo romantici?»
«Non per le coccole», rispose Mauro cominciando a sbottonarle la camicetta. «Lo siamo perché abbiamo ancora qualche aspirazione ideale.» Ed eccoli lì, morbidi e sodi, levigati e pieni, caldi e prepotenti, la conca tra essi magicamente accostata dal reggiseno, e le grandi aureole che si affacciavano dal balcone delle coppe, a pochi centimetri dal suo viso. Fece debordare le mammelle e la luce soffusa proveniente dai lampioni della strada, le fece biancheggiare di perlaceo lucore. Si riempì la mano di quella morbida opulenza, ora dell’una, poi dell’altra, con delicatezza, come per riverente sudditanza.
A Silvia un brivido corse lungo la schiena quando Mauro incominciò a succhiarle un capezzolo, non poté trattenere un sussulto. Iniziò a dondolare il busto per cullarlo come fosse un bimbo d’allattare.
Lui colse quel sapore ineffabile, come di latte tiepido e dolciastro, eppure così inebriante, prepotente e onnipotente. Succhiò e mordicchiò il turgido capezzolo ancora e ancora.
Silvia provava una sensazione di soffice vuoto mentale. Era come se la bocca di Mauro le tramutasse pensieri ed energie in ovatta. Lasciando che il languore la invadesse, chiuse gli occhi e le parve di immergersi in quel manifesto che aveva affisso in sede, quello che raffigurava un campo di grano così gremito di fiordalisi e papaveri che l’oro delle messi emergeva soltanto qua e là dal tappeto celeste e vermiglio. Mosse il bacino, ebbe il desiderio di chiamarlo ma quando lo fece, la voce le uscì flebile. Improvvisi, avvertì i muscoli del corpo tendersi come per prepararsi a ricevere una sferzata dei sensi. Poi l’azzurro dei fiordalisi sovrastò il rosso dei papaveri e fu come se il presente perdesse i confini. Soffocò i gemiti premendogli la bocca sulla fronte, le lunghe chiome a coprirgli il viso.
Un evento particolare
«Silvia?» la chiamò Mauro sottovoce.
«Oddio», mormorò lei, gli occhi socchiusi «ho provato piacere.»
«Davvero?» rispose lui fingendo stupore.
Silvia annuì, lo sguardo turbato che il suo accenno di sorriso non riusciva a mascherare. «È come avessi fatto qualche goccia di pipì», spiegò.
«Dici sul serio?»
«Certo che dico sul serio. Mauro è normale?»
«Affatto ma parecchie donne invidierebbero la sensibilità che stai scoprendo d’avere: un mistero svelato che mi lasciava scettico», disse lui mostrando un risolino beato.
«Quale mistero?»
«Quello dell’eiaculazione femminile e quando le donne hanno tanta sensibilità, spesso sono pluriorgasmiche.»
«Mauro che intendevi dire con quell’ultima parola?»
«Che hai la capacità di provare più di un orgasmo durante il rapporto sessuale.»
«Addirittura! Allora a Montelignano ho avuto due orgasmi.»
«Credo proprio di sì», rispose lui beandosene.
«Cribbio spero non abbia bagnato la gonna.»
Mauro fece un risolino, poi si stirò per godere appieno della delizia che provava. Le premette ancora il viso tra i seni e gli parve sprigionassero la fragranza della Valcorniola in giugno, quando maturavano le fragoline di bosco e l’acqua del Rio Maestro espandeva essenza di alghe e muschi novelli. «Silvia ti basterò quando avrai preso l’aire?» le domandò dopo averle schioccato un bacio su un capezzolo.
«Sciocco nemmeno lo devi pensare.» Gli diede un buffetto sul viso, poi forse per aggirare quegli argomenti che le facevano bruciare le guance, gli rivelò di avere fatto il corridoio in punta di piedi quando era giunto in sede e aveva spiato da una fessura tra le assi della porta per vedere che tipo fosse. «Ti ho visto perplesso. Sembrava pensassi dove cacchio fossi capitato e guardavi in alto.»
«C’era una tortora che beccava qualcosa fuori del lucernario.»
«Appena ho aperto l’uscio, ho sentito una vocina sussurrare dentro di me che sarebbe nato qualcosa d’importante tra noi. Mi sei apparso come un ragazzo mite, di quelli che si sforzano di rimanere spontanei anche quando parlano con una persona che non conoscono. Tu che cosa hai pensato di me, a parte l’estetica?» gli chiese lei divertendosi a stropicciargli un orecchio.
«Ho provato un tuffo al cuore nel vedere quanto le tue tette premessero nella maglietta che indossavi.»
«Scemo, ricadi sempre sulle anatomie sessuali.»
«La mia mente era troppo stravolta dalla tua avvenenza per immaginare che carattere avessi e stasera ho pure scoperto la tua sensibilità sessuale e che hai le tette molto più belle di come le avessi immaginate ma ora le rimetto a nanna», disse Mauro facendo rientrare le mammelle sotto le coppe del reggiseno.
Rimasero a osservarsi, gli occhi colmi di gioia. Rammentarono l’episodio della seggiola sfasciata e del grumo di liquirizia, ridendosi sui denti.
«Ti sudano i palmi perché sei emotivo?» gli domandò Silvia, indugiando ad arricciargli i peli delle sopracciglia.
«Ho sofferto d’ansia fin da bambino ma col passare degli anni sono riuscito ad addomesticarla. Da malessere psichico l’ho trasformata in risorsa creativa. Insomma cerco di gestirla a mio vantaggio, però mi sudano i palmi delle mani se provo forti emozioni.»
«Ora ce li hai asciutti.»
«Mi fai sentire in paradiso.»
«Quando hai cominciato ad avvertire qualcosa per me?»
«Quando…»
«Aspetta non dirlo. Voglio indovinarlo col gioco del fuoco e l’acqua: è stato al bar del distributore?»
«Acqua.»
«Invece sono convinta che mi aspettassi col batticuore, anche se non volevi darlo a vedere.»
«Azzeccato ma non è stato lì che ho avvertito una vampata di sentimento per te.»
«Ci sono: quando ti ho preso la mano mentre risalivamo la Valcorniola?»
«Acqua.»
«Mauro, giochi a farmi girare a vuoto. Lo sentivo che avevi il palmo sudato ed eri teso.»
«Anche tu eri irrequieta e quando ho ammesso di essere fidanzato, sei impallidita.»
«Mi ero già innamorata di te, cribbio! Ora aiutami a indovinare.»
«Devi ripensare a ciò che hai fatto dopo essermi apparsa sulla porta della sede.»
«Ti ho salutato e invitato a entrare. Poi mi sono voltata e ti ho preceduto nel corrrid… quando mi hai visto sedere?»
«Lo hai da sballo.»
«Sporcaccione, mi hai rotto l’atmosfera romantica. Ora non te la leva nessuno una sberla.»
«Sstt!» bisbigliò Mauro bloccandole il polso. «I miei vicini hanno dotato d’orecchie anche i muri.»
«Una pacca te la becchi lo stesso. Lasciami!»
«Accidenti come sei forte. Non è vero che lo hai da sballo, sembra piuttosto un paiolo.»
«Ah sì? Ora ti becchi due sberle.»
«Insomma, come devo dire? Mi arrendo.»
«Alzati sbircino di gambe femminili.»
Mauro ci godeva a far finta di temerla. «Prometti di non picchiarmi?»
«Credo che ci siamo intesi al primo sguardo», disse Silvia sentendosi traboccare di tenerezza.
«Vogliamo provare a far durare l’intesa tutta la vita?»
«Togli il provare. Ora abbracciami forte.»
Quando Mauro, finalmente, si sollevò, ebbe la sensazione di avere le vertigini. «Oddio mi gira il capo. Sono rimasto troppo tempo sdraiato.»
Lei lo interruppe cercandogli la bocca mentre gli faceva scorrere in basso la cerniera dei pantaloni. La penombra le ammorbidì l’atto materiale di avvolgergli il membro con la mano.
«Silvia non è necessario che stasera lo facciamo.»
«A no?» disse sentendoglielo più rigido del manico di uno spazzolone. Questa rigidezza, allora, come la spieghi?»
«È naturale» cercò di spiegarle lui. Non posso ordinare alla mia mente di farlo stare buono mentre uno splendore di ragazza come te me lo stringe. È la mente che domina tutto. I nostri genitali non sono che dei terminali; reagiscono agli stimoli erogeni del cervello. Se ti bagni non puoi rimandare indietro i tuoi umori quand’anche avessi intenzione di farlo.» Mauro la guardò negli occhi. Notò quanto lo sguardo di Silvia fosse miscuglio di compiacimento e curiosità. Si portò una mano alla fronte e sollevò gli occhi al cielo come per dire all’Onnipossente quale schietta e sensuale femmina gli avesse fatto conoscere.
«Vado bene così?» gli domandò lei iniziando a muovere le dita attorno al pene con un ritmo avvolgente.
«Perfetto», rispose Mauro con un sospiro strascicato. «Dove hai imparato?»
«C’è bisogno della Laurea per saperlo? gli sussurrò lei all’orecchio.
«Fermati Silvia», le disse Mauro quando avvertì che stava per straripare.
«Cribbio non starà arrivando qualcuno un’altra volta.»
«No ma in questo modo mi sporco tutto. Bisognerebbe avvolgerlo in qualche fazzolettino di carta.»
«Stavolta ne ho portati due pacchetti», lo rassicurò Silvia rivolgendogli un malizioso risolino.
Fu così che Mauro giunse all’acme avendo il pisello avvolto da un “profilattico” formato da strati di fazzolettini di carta riciclata.
Dal grande orologio del palazzo comunale, lento e solenne, giunse il rintocco dell’una mattutina.
Continuarono a vezzeggiarsi fino a che scivolarono in un sonnolento abbandono.
Più tardi Mauro fu destato da brividi di freddo. Si alzò in piedi per scrollarsi di dosso il torpore, guardò che ore fossero ed ebbe un gesto di disappunto. «Silvia, svegliati.»
«Torna giù e abbracciami», mormorò lei tendendogli le braccia, la voce arrochita dal sonno. «Sento freddo.»
«Tirati su invece. Sono le due e venti del mattino.» La aiutò a sollevarsi e rimettersi la giacca.
Silvia batté i piedi per dissolvere il formicolio. Si sostenne poggiandogli il mento su una spalla, gli occhi ancora socchiusi. «Devo andare in bagno a rimettermi in sesto e mi scappa la pipì.»
Un quarto d’ora dopo, prima che Silvia mettesse in moto la sua auto, Mauro le domandò se la sua presenza fosse stata necessaria alla dimostrazione di quella ormai medesima mattina.
«Non è indispensabile. Preferisco tu venga a casa mia stasera. Nel pomeriggio vado a trovare i miei amici down. Ti spiace?»
«Perché mai?» rispose Mauro tornando a guardare l’orologio con apprensione. «Abbiamo fatto le tre meno dieci. Vai Silvia.»
«Salutami i tuoi Mauro.»
«Pure tu. Non correre e non dare passaggi.»
«Fossi matta.»
Prima che partisse Mauro posò la mano sul tetto dell’auto con la stessa delicatezza che avrebbe usato se le avesse accarezzato il viso. Certo che Silvia lo avrebbe guardato dallo specchietto retrovisore accennò un saluto. Vide accendersi gli stop e la macchina tornare in retromarcia. Scorse Silvia portarsi una mano alla fronte ancor prima che i vetri scorressero in basso. «Hai dimenticato qualcosa?»
«Macché, scema che non sono altro, mi scordavo di darti le foto.» Gli allungò un pacchetto di carta lucida verde sul quale spiccava un fiocco vermiglio. Si baciò il palmo della mano, ci soffiò sopra e ripartì lasciandogli il pegno di un complice sguardo.
CAPITOLO TREDICESIMO
La manifestazione
Gli ambientalisti erano giunti sul piazzale dell’Amministrazione Provinciale verso le dieci del mattino. Avevano allestito la cartellonistica con foto della Valcorniola per evidenziarne l’importanza naturalistica e altre immagini dimostrative degli sconvolgimenti ambientali provocati dagli invasi artificiali.
Silvia era seduta al banco della petizione, Monica aiutava il Bizza a collocare alcune immagini, Stefano e Franco erano indaffarati a completare l’allestimento dei pannelli. Fabrizio, Livio e la Guadagni conversavano con l’assessore all’ambiente della Provincia e un consigliere. Iniziata pacatamente, la discussione era trascesa in controversia sulla necessità di coltivare prodotti alimentari geneticamente modificati.
«Lo sa, assessore, quanti litri d’acqua occorrono per portare a maturazione una spiga di granturco? Trecento! Poco meno di un terzo di metro cubo, ma se usassimo geni che consentissero alle pannocchie di crescere con minore irrigazione, le coltivazioni potrebbero diffondersi anche in zone semi desertiche.»
«Non si faccia sentire dai suoi associati, professor Livi. La scambierebbero per un agente prezzolato dalle multinazionali transgeniche.»
«Cerco di farle capire un concetto elementare: se una spiga di mais maturasse con cinquanta litri d’acqua invece che trecento, le popolazioni delle regioni aride avrebbero un motivo per non emigrare.»
«Così altereremmo il corso naturale delle cose.»
«Lo abbiamo già alterato e le migrazioni causate dall’esplosione demografica ci obbligheranno a realizzare altre abitazioni, servizi, strade, col risultato che salterà il precario equilibrio ecologico delle zone economicamente avanzate e sarà il disastro per tutti.»
«Lei ritiene davvero che gli alimenti transgenici possano essere in grado di legare i popoli alle loro terre?» commentò l’assessore.
«Alcuni cereali come grano, riso e mais, modificati per resistere ai parassiti e crescere senza l’utilizzo di diserbanti e pesticidi chimici sono l’unico sistema per tentare di farlo. Si dovrebbero però destinare aree per la protezione del genoma di tutte le varietà agricole esistenti e salvaguardarne la specie. E non è solo questione di produrre alimenti ma dobbiamo dare alla gente del terzo mondo la possibilità di acquistarli, altrimenti le eccedenze saranno distrutte. È la logica del mercato e se produzione e vendita rappresentano i fondamenti dell’economia, occorre concedere ai paesi in via di sviluppo parte dei miliardi d’euro che sono assegnati all’agricoltura dell’Europa e degli Stati Uniti d’America.»
«Per una migliore la distribuzione della ricchezza, sono d’accordo ma sarebbe stupido rinunciare a parte dei contributi destinati a coltivatori europei e americani per aiutare il terzo mondo», replicò l’assessore, perplesso. «Potremmo perfino mandare in malora le nostre industrie legate alla trasformazione dei prodotti agricoli. Sarebbe come dire: poiché ho due braccia, e tu nemmeno una, rinuncio a una delle mie perché con quella che ti do, tu possa mozzarmi l’altra.»
«Assessore dobbiamo rischiare o le conferenze mondiali sullo sviluppo sostenibile continueranno a rimanere uno spreco di denaro per chiacchiere, passerelle televisive e pranzi.»
L’amministratore tentennò il capo. «Professore lei parla bene, però…»
«Assessore, è indubbio che ci sia un’infinità di “però”, come quello di controllare l’utilizzo delle risorse economiche da concedere ai paesi in via di sviluppo per evitare che i loro governanti le spendano in acquisto d’armi ma non c’è altra strada se vogliamo dare un futuro all’umanità.»
Il consigliere entrò nella contesa domandando a Livio: «Professore non pensa alle conseguenze dei possibili inquinamenti biologici che gli OGM potrebbero trasmettere alle altre colture? Sarebbe meglio diffondere le coltivazioni biologiche, invece.»
Infastidito Fabrizio anticipò Livio. «Lei fa apposta a non capire?»
Che intende?» domandò il consigliere irrigidendosi.
«L’ha spiegato Livi perché è necessario produrre cereali con sementi OGM. Costerebbero meno e sprecheremmo meno territorio. Il rischio d’inquinamento genetico c’è ma è un modo di evitare catastrofi peggiori. In quanto alle coltivazioni biologiche, queste dovrebbero essere veramente tali perché concimare il terreno col letame o gli ammendanti provenienti da impianti di compostaggio che riciclano i fanghi prodotti dai depuratori fognari, non credo sia molto sano. Gli ammendanti che se ne ricavano, spesso contengono metalli pesanti e batteri in eccesso che possono provocare epidemie difficilmente debellabili con gli antibiotici. Occorrono aziende qualificate per praticare correttamente quel tipo d’agricoltura. Senza contare che sui prodotti agricoli possono verificarsi infestazioni di muffe e funghi non meno pericolosi della genetica. Molti oncologi lo affermano. In ogni caso è necessario introdurre sementi OGM per combattere la fame.»
«Ci sono ambientalisti che non la pensano come voi», commentò l’assessore con un tono ponderato.
«Quando mai è capitato che si siano trovati d’accordo?» ghignò il consigliere. «Vogliono difendere l’ambiente e non sanno da che parte farsi.»
«Non le do torto», rispose Fabrizio.
«Meno male. E le voglio dire un’altra cosa, architetto: molti di coloro che si definiscono “eco pacifisti” non sanno distinguere una ghianda di leccio da quella di una quercia», sogghignò con sufficienza sarcastica «ma sono esperti a fare barricate con i cassonetti dei rifiuti e a bruciare le campane per la raccolta differenziata.»
«È vero pure questo ma è meglio non riconoscere le piante che volerle tagliare come avrebbe intenzione di fare lei.»
«A cosa si riferisce Architetto?» reagì il consigliere.
«Alla mozione presentata in Consiglio Provinciale dal presidente della commissione per l’agricoltura, cioè lei, con la quale avete preso atto, all’unanimità, dell’importanza di rilanciare le opere irrigue contenute nel vecchio programma EIRI, non realizzate. Come la diga in Valcorniola, tanto per intenderci.»
«Finalmente c’è arrivato.»
«Siamo qui apposta.»
«Architetto Ridolfi, non capisco perché vi ostiniate a voler impedire la costruzione di un’opera pubblica di quell’importanza. Per la nostra provincia significherebbe un investimento di milioni d’euro, forte indotto economico e un’altra riserva idrica. E la possibilità di costruire una centrale idroelettrica e farla funzionare con l’acqua dell’invaso, dove la mette? Sarebbe energia pulita e rinnovabile.»
«Guarda caso, a Montescuro, dove il bacino è alimentato da un corso d’acqua più grande del Rio Maestro», replicò Fabrizio «la centrale non è stata realizzata, però hanno costruito condotti per convogliare quell’acqua in ogni dove, escluso Sanfabiano che sarebbe dovuto essere stato il primo centro urbano a goderne.»
«L’acqua è un bene che appartiene a tutti e dobbiamo distribuirla solidalmente secondo le necessità. C’è una legge che lo stabilisce.»
«Così, per solidarietà, si toglie acqua a un bacino imbrifero che ha una piovosità media annua scarsa e s’invia in altre zone in cui le piogge sono più abbondanti. Vi pare un comportamento che si conformi ai principi di comunanza? Credo ci sia invece una corsa ad accaparrarsi la gestione dell’acqua e quella legge è divenuta il pretesto per raggiungere lo scopo.»
«Vuole sapere come la penso veramente, architetto?» reagì innervosito il consigliere, trasformando la contesa in diverbio. «State tentando di sabotare un grande progetto per salvare quattro cerri e tre granchi. Che siate o no per l’agricoltura transgenica voi ambientalisti siete tutti disfattisti.»
Fabrizio contrasse i muscoli, strinse le mani a pugno e ribatté, aspro: «I veri disfattisti, siete voi.»
«E lei, architetto, sputa nel piatto in cui mangia.»
«Io non ho mai mangiato in quel piatto che intendi», ringhiò Fabrizio avventandosi contro il consigliere ma due robuste braccia lo trattennero.
«Calmati, Fabry, o ti metti nei guai», lo esortò Stefano.
Lui lanciò una torva occhiata all’amministratore mentre questi era strattonato dall’assessore perché si allontanasse. Tese le orecchie per capire quel che ancora borbottasse, infine il suo corpo perse rigidezza.
«Fabry, ora ti lascio. Mi prometti di rimanere buono?»
«Stai tranquillo Stefano. Accidenti, mi ha fatto uscire dai gangheri quell’ignorante.»
«Fabrizio, andiamo a prendere qualcosa al bar», propose Livio prendendo sottobraccio l’amico.
«Silvia, vieni anche tu? Ti offro il gelato. Devo ancora farmi perdonare.»
«Fabry, sto bene così. Corro a chiamarvi se nel frattempo giungono i giornalisti.»
«Pace, Silvia?»
Lei scrutò Fabrizio con un’espressione imbronciata, poi il suo sguardo si addolcì. «Pace, Fabry», gli disse sorridendo.
Giunti al bar Livio commentò disilluso: «Sai, Fabrizio, a che cosa pensavo mentre discutevate? Nemmeno con l’agricoltura transgenica potranno essere risolti i mali del mondo. Anzi, le conseguenze della cura potrebbero rivelarsi peggiori della malattia.»
«Temi che a mangiare ceci modificati col cromosoma di bue, possano crescerci le corna?» rispose ironicamente Fabrizio.
«Questa è buona», commentò Livio. «Stavo riflettendo su un fatto: se l’agricoltura transgenica moltiplicasse le possibilità alimentari e fosse creato un sistema economico che distribuisse più equamente la ricchezza, centinaia di milioni d’individui diverrebbero più resistenti alle malattie, i rapporti sessuali sarebbero più frequenti, moltiplicando le nascite. Per mancanza di risorse del pianeta, quest’enorme massa di gente non potrebbe conseguire il benessere economico cui siamo giunti noi e che ci ha ricondotto al tasso di crescita “zero”. Forse potranno raggiungere il nostro livello di vita dei primi anni sessanta quando, usciti dalla miseria della guerra, abbiamo avuto un’esplosione demografica altissima e sarà questa il cancro della Terra perché già nel 2011 supereremo la soglia dei sette miliardi di abitanti. Insomma precipiteremmo nel disastro totale dopo i primi miglioramenti, e dubito che gli anticoncezionali possano invertire la tendenza. Saremo costretti a trovare le risorse, non per assorbire un aumento di cento milioni di persone ogni anno, ma forse di duecento e via così in modo esponenziale. Sarebbe allora insensato parlare di difesa degli animali e delle foreste. Ho una gran paura che andrà a finire così. In natura se aumentano gli erbivori, prolificano anche i carnivori per abbondanza di cibo. I carnivori diminuiscono a mano a mano che riducono il numero degli erbivori, ma gli umani sono gli unici animali che sfuggono questa regola compensativa. Si adattano a tutti i climi e non hanno predatori, se non loro stessi e ovunque giunge l’uomo, con le sue necessità, la distruzione della natura è inevitabile. Temo che lo sviluppo sostenibile sia un’illusione. Erich Fromm sosteneva che l’uomo è l’unico animale la cui esistenza è un problema che deve risolvere, che ne pensi Architetto?»
«Bah», rispose Fabrizio allargando le braccia «come la metti, ne manca sempre un pezzo. Temo che saranno i topi a danzare sulla tomba della tomba della civiltà umana se andrà avanti così.
Decisione azzardata
Silvia notò Stefano e il Gori che parlottavano poco distanti. Insospettita per le fugaci occhiate che entrambi le rivolgevano, s’impose di reprimere il disagio di avvicinarsi a Stefano e si approssimò. «Gigi, siete andati in… come si chiama quel luogo?»
«Carbonaia. Sì ci siamo stati. Qualcuno ha tagliato la macchia per formare uno spiazzo circolare presso il fosso. Abbiamo rinvenuto tracce di combattimenti tra animali, purtroppo. C’erano ciuffi di pelo e piume. Evidentemente fanno combattere anche i galli. Mauro viene stamattina? Dobbiamo avvertirlo che abbiamo deciso d’andarci.»
«Avevate promesso che non lo avreste fatto», gli ricordò lei indurendo lo sguardo.
«Silvia, cerca di capire, è un’occasione unica per filmare quella gente sul fatto.»
«Lo direbbe a Livio e Fabrizio se Monica lo sapesse. Avvertiranno i vostri genitori», replicò Silvia.
«Non riferirglielo e nessuno lo saprà. Ti ho chiesto di Mauro e non mi hai risposto», ripeté Gigi.
«Stamattina non viene.»
«Vuoi darci il numero del suo cellulare?»
«Nient’affatto!»
«Riusciremo a saperlo ugualmente.»
«Se viene lui, ci sarò anch’io.»
«Neanche a parlarne», la avvisò Gigi.
«Allora nemmeno voi andrete perché lo dirò a tutti.»
«Sarebbe una carognata Silvia.»
«Pensala come ti pare, Gigi, ma senza la sottoscritta Mauro non va da nessuna parte.»
«Non ce la faresti se ci fosse da scappare.»
«Ci lascerebbe indietro», obiettò Stefano. «Gigi, lasciamo che venga perché se dice di fare una cosa, la fa.»
«Stefano», sbottò Silvia «avrei una gran voglia di mandare per aria tutto. Cribbio, che idea hai avuto a coinvolgere anche Mauro.»
«S’è proposto da solo.»
«Se stavi zitto non sarebbe accaduto.»
«Che cavolo d’animalista dimostri di essere, a ragionare in questo modo?»
«Sei uno stronzo, se la metti così.»
I tre giovani furono improvvisamente distolti dal sopraggiungere d’alcuni furgoni.
«Diamine che colpo ragazzi! Sono arrivati due canali televisivi nazionali. Fabrizio è una forza.» Silvia corse verso il bar voltandosi soltanto per intimare ai due ragazzi di non azzardarsi a tenerle qualcosa nascosto.
Rossana
Intanto che accadevano questi fatti, dai Falaschi suonava il campanello fuori del cancello di casa.
Manuela scostò la tendina della finestra e si portò la mano al viso. “Ed io mi ero illusa che si fosse tolta di torno per sempre quell’antipatica.” «Mamma, c’è Rossana.»
«Falla entrare, non c’è altro da fare.»
«Potremmo fingere che in casa non ci sia nessuno.»
«Manu, la macchina di Mauro è sul vialetto. La vedrà. E le persiane sono aperte. Vai ad aprirle e cerca di farle buon viso.»
Manuela si avviò verso l’ingresso mugugnando. Aprì la porta di uno spiraglio e vide Rossana che indossava jeans e maglietta neri. Notò il suo trucco ben curato che, tuttavia, non riusciva a nasconderle un cerchio sotto gli occhi, segno di tensione e dispiacere. S’impose di rivolgerle un breve sorriso. «Ciao, Rossana.»
«Ciao Manu. Tuo fratello è in casa?»
«È nel suo studio. Dipinge.»
Rossana si obbligò a un immane sforzo di volontà per apparire disinvolta ma lo stomaco se lo sentiva rimestare. «Desidererei parlargli.»
«Vado a chiedergli se può riceverti. Puoi attendere?»
«Sì, certo.» Rammentando che qualche mese addietro non avrebbe fatto anticamere, Rossana fu assalita da una raggelante estraneità verso quella casa che considerava quasi come fosse sua. Rimase attonita a fissare la porta richiudersi con un clic di gelido garbo. Quanto amasse Mauro, l’aveva compreso la notte durante la quale si era appartata in auto con Valerio, quel ragazzo di Ponte al Pino. “Morto un papa se ne fa un altro” Così le avevano consigliato le amiche. Lei aveva provato a seppellire l’amarezza ma col risultato di respingere Valerio, quasi in malo modo, quando si era avvicinato per baciarla. Era scesa dalla sua auto senza nemmeno capire quel che lui le biasimasse. Fuori c’era un bel chiaro di luna, una striscia d’argento fredda e silenziosa che illuminava la viuzza nella quale si erano addentrati. A Mauro piaceva osservare la luna piena, con la guancia accostata alla sua. La tensione nervosa per il senso di colpa che aveva provato, si era tramuto in nausea e aveva vomitato anche l’anima. Fortuna che Valerio si era poi dimostrato gentiluomo e l’aveva accompagnata fin sull’uscio di casa, cercando pure di capirla.
Certa che Mauro fosse ancora innamorato di lei, non si era preoccupata quando aveva rifiutato d’incontrarla. Era passata davanti bottega molte volte e aveva sempre notato la sua auto posteggiata nei dintorni, con lo stemma della Sanfabianese e della Fiorentina, attaccati sul lato sinistro del lunotto, e la piccola ammaccatura sul portellone posteriore. Quelle cose sempre uguali e il modo che aveva lui di posteggiare, con le ruote leggermente sotto sterzo e lo specchietto, che dava dalla parte della strada, ripiegato verso la portiera, le avevano trasmesso un senso d’invariabilità delle cose. Anche le informazioni delle amiche confermavano che nessun pericolo era in agguato, perciò bastava attendesse che il tempo stemperasse l’accaduto per chiedergli di rimettersi assieme. Ora averlo visto sottobraccio a “quella” stravolgeva tutto e avvertiva la coscienza biasimarla.
“Come hai potuto essere così stupida da lasciarlo per una mascherata, e tanto orgogliosa da rimanergli adirata per tutto questo tempo? D’accordo che per fare quei costumi ci avevi lavorato da perderci gli occhi ma… scema che non sei altro. Hai sempre sbagliato tutto con lui, sempre a fargli le ripicche, a tenergli il broncio, a cercare piccole rivincite per delle cretinate. Stavolta se riesco a rifarci pace, giuro che… di dove sarà sbucata quella spilungona?”
Manuela entrò nello studio di Mauro. Lo vide intento a risolvere i toni di un chiaroscuro.
«Chi ha suonato Manu?» chiese lui alla sorella.
«Rossana.»
«Miseriaccia, che devo fare?»
«Vado a dirle che hai ospiti e non puoi riceverla.»
«Così non me la sento.»
«Sei sicuro che farla entrare sia una buona idea?»
«Manu non lo so. La mamma mi ha suggerito che sarebbe bene mi chiarissi con lei.»
«Mauro non farlo. Conosco Rossana. Farà l’agnellino per un po’ ma tra un mese sareste punto e a capo se vi rimetteste assieme.»
«Aprile, Manuela.»
La sorella sbuffò e lo avvisò stizzita: «Mauro, se ti azzardi a rimetterti con quella, io… »
«Falla entrare!»
Presso la porta dello studio il cuore di Rossana prese a galoppare.“Non devo subito pretendere di affrontare i nostri problemi, ma cosa potrei dirgli? Sì, gli parlerò della diga che intendono fare sul Rio Pansecco.” Bussò adagio, come temesse persino di lasciare le impronte delle nocche sulla porta.
«Vieni, Rossana.»
«Ciao Mauro.» Era riuscita a salutarlo con disinvoltura. Lo vide posare il pennello sul pianale del cavalletto e sorriderle senza eccedere.
«Come stai Rossana?»
«Così. Tu Mauro?
«Così.» Lui evitando che lei gli cercasse la bocca, deviò il bacio sulla guancia con un movimento del viso, poi s’impose di resistere all’impulso di abbracciarla, nondimeno si sentì pervadere da un’ondata di nostalgia struggente. Capì quanto lei soffrisse dalle occhiaie che le segnavano il volto.
Lei gli cercò la mano, sperò di sentirla asciutta ma avvertì il sudore dell’ansia.
«Ho la mano sporca di colore», si scusò Mauro ritraendo le dita. Finse di pulirsi con un canovaccio, liberò una sedia da un volume dedicato alla pittura di Renoir e si accertò che non ci fossero tracce di colore fresco. «Non sarebbe una novità se ti macchiassi.»
Rossana sedette composta, come fosse ospite per la prima volta, le ginocchia accostate, la borsetta in grembo e le mani che ne cincischiavano nervosamente il manico.
Mauro si sforzò di guardarla in faccia. Vi lesse una tristezza troppo profonda persino per le lacrime. Provò ad allentare la tensione chiedendole se volesse bere qualcosa. «Mi ha preso sete. Mi fai compagnia?»
«Se ti fa piacere...»
«Certo. Torno subito.» Mauro trovò Manuela nell’ingresso, intenta a spolverare il mobiletto del telefono. «Mi sbaglio o lo stavi lustrando anche mezz’ora fa?» le chiese sottovoce.
«Quale mezz’ora fa? Rossana ti ha già mandato nel pallone?»
«Manu, abbassa la voce.»
«Sai che cos’è questo?» disse la sorella piazzandogli un foglietto davanti agli occhi. «È il numero del cellulare di Silvia.»
«Manu, per favore, non complicare le cose e lascia fare a me. C’è del succo di frutta?»
«Le vuoi offrire pure da bere?»
«Voglio essere soltanto gentile.»
«Noi due andiamo a leticare di brutto, ti avverto.»
Mauro dovette usare le mani come ventaglio per attenuare il bruciore che avvertiva sulle gote. Guardò sua sorella con un’espressione di biasimo e scosse il capo.
Crudeli decisioni.
Rossana si guardò attorno. Sul cavalletto c’era una tela sulla quale Mauro aveva abbozzato la figura di una bimba seduta su un panchetto, che stringeva una specie di robot umanoide nella manina destra. In cima a un montante del cavalletto notò, trattenuta da un pezzetto di adesivo trasparente, la foto della bimba alla quale Mauro s’ispirava. Sul mobiletto la sua immagine era sostituita da tre fotografie, inserite provvisoriamente: raffiguravano la ragazza con la quale lo aveva visto passeggiare. In una di esse, Mauro era accanto ad una vasca colma d’acqua e le cingeva spalle. Sullo sfondo s’intravedeva un laghetto e una casupola. In un’altra la ragazza era ripresa a mezzo busto e si accarezzava una lunga ciocca di capelli; notò i suoi occhi incredibilmente neri che catturavano l’espressione del sorriso. Nella terza indossava un succinto bikini e si reggeva all’albero di una barca a vela, sporgendosi verso il mare. Osservò la sua forma slanciata, i capelli bruni, sciolti al vento, il sorriso luminoso. Raggiunse la finestra, scostò le tendine e cercò di attenuare il patema osservando l’andirivieni dei balestrucci dai nidi, sotto la gronda della casa vicina. Udì un cigolio della porta e i passi discreti di Mauro che tornava.
Bevvero il succo di frutta senza sapere che dirsi.
Rossana cercò di carpirgli i pensieri scrutandolo negli occhi sfuggenti.
Mauro faceva di tutto per non incrociare il suo sguardo. Fissava il bicchiere oppure osservava l’abbozzo sulla tela. Poi le chiese come stessero i suoi familiari.»
«Bene, Mauro, grazie.»
«Tuo zio? So che recentemente ha avuto un incidente d’auto piuttosto serio.»
«La macchina è da rottamare ma lui, fortunatamente se la caverà con una decina di giorni d’ospedale.» Sulle labbra di Rossana apparve l’ombra di un sorriso. «Ho saputo che sarà costruita una diga sul Rio Pansecco, e tu hai accompagnato un gruppo d’ambientalisti dal Sindaco per discuterne.»
«Come si risanno alla svelta le cose», commentò Mauro con un tono neutro.
«Figurati. Due giorni dopo lo sapevano tutti a Sanfabiano.»
La suoneria del cellulare di Mauro si attivò. Ebbe un fremito d’apprensione che si attenuò quando vide un numero diverso da quello di Silvia. Pronto?»
«Mauro?»
«Ciao, Linda.»
«Ho piacere che mi abbia riconosciuto dalla voce. A volte il telefono la distorce. Disturbo?»
«No, figurati.»
«Ho da chiederti un consiglio.»
“Linda?” Rossana tornò a guardare le foto. Non poteva che essere lei la ragazza alla quale Mauro stava rispondendo.
«Intendo rifare il mio salottino ma a me non piace la mobilia moderna. La trovo fredda e impersonale. Lo voglio arredare con mobili classici, abbinati a dipinti di tema figurativo. Che ne pensi se scegliessi qualche natura morta?»
«In un ambiente piccolo e con quel genere d’arredo, anch’io sceglierei le nature morte. I paesaggi hanno bisogno di spazio per valorizzarsi.»
«Te ne intendi, eh?»
«Esperienza di mestiere.»
«Immagino quanto tu sia bravo. Ascolta Mauro: verrei acquistare qualcosa di tuo. Posso venire a trovarti?»
«Certo ma…»
«Non vuoi che venga?» lo anticipò Linda con un tono dispiaciuto.
«Non è questo. Al momento non ho niente di quel che vorresti.»
«Potresti dipingermi qualcosa?»
«Sarà difficile. Ho promesso a Fabrizio che mi sarei impegnato a preparare i quadri per una mostra personale.»
“Linda, Fabrizio, una mostra personale?” Rossana inghiottì a vuoto. Com’era possibile che nella vita di Mauro fosse entrato un altro mondo in così poco tempo?
«Spero m’inviterai all’inaugurazione.» Linda fece una pausa perché la sentisse sospirare. «Mauro, cerca di trovare un po’ di tempo anche per me.»
«Non te lo posso promettere Linda, mi spiace.»
«A me più che a te, però desidererei vederli ugualmente i tuoi lavori. Ti farebbe piacere se venissi a Sanfabiano?»
«Perché non dovrebbe?»
«Allora ti telefono per chiederti quando potremmo vederci.»
«D’accordo.»
«Mauro, la pista non la mollo. Ciao!» Linda aveva riattaccato senza aggiungere altro e pronunciato quell’ultima frase con la fretta di chi voleva far “trapelare”, lasciando all’interlocutore il sottile dubbio d’interrogarsi.
«Rossana, scusami.»
«Niente», rispose lei rigirando nervosamente il bicchiere tra le dita. Fece un cenno in direzione del mobiletto. «Linda è la ragazza della foto? Quella che ti accompagnava ieri sera?»
Mauro, la cui mente non aveva ancora perso contatto con le ultime parole di Linda, mal si collegò a quel che Rossana gli aveva chiesto. «Cos… ah, no, è sua amica. Mi ha domandato se avessi quadri di nature morte.»
«Allora, quella sulla cornice chi è?»
Mauro esitò.
«Rispondimi, per favore», insisté Rossana.
«La mia ragazza.»
Rossana afflosciò le spalle ma i suoi occhi rimasero asciutti. Posò il bicchiere e si mise di fronte a lui. «Mauro, ascoltami.»
«Rossana perché sei venuta?»
«Perché sono io la tua ragazza.» Attese invano che Mauro rispondesse. Poi aggiunse accarezzandolo: «Mauro, ho provato a non pensarti ma non ci riesco.»
Lui avvertì l’impulso di stringerla ma s’impose di lasciare le braccia abbandonate lungo i fianchi.
Malgrado percepisse l’angoscia serrarle la gola, Rossana cercò di ragionare con calma. «Mauro, ascolta: da quanto tempo la conosci?»
«Due settimane.»
«Allora non puoi esserti affezionato molto a lei. Proviamo un’altra volta. Ti prego.»
«Lo abbiamo fatto, ripromettendoci ogni volta di non litigare più ma non è servito.»
«Stavolta starò con te anche in bottega se avrai da lavorare. Te lo prometto con tutta me stessa.» Rammenta i nostri propositi, ti prego: tre bimbi, una giostrina per i loro trastulli su un giardinetto, e i tulipani in fila come soldatini sulle aiuole.» Lo vide scuotere il capo. «Mauro, ti voglio troppo bene.»
«Anch’io te ne voglio Rossana. Sei stata la donna più importante della mia vita.»
«Anche tu: unico e lo sai.»
Mauro annuì senza avere il coraggio di guardarla negli occhi. «Con te sono sempre teso, non riesco a rimanere sereno per più di una settimana. Sei sempre immusonita per qualcosa. Mi rilasso soltanto se facciamo l’amore. In quei momenti diventi dolcissima ma non possiamo farlo in continuazione.»
«Mauro guardami», lo supplicò Rossana accostando il corpo al suo «non li sviare gli occhi.»
Lui riuscì ad accontentarla solo per qualche istante. Poi lasciò che il suo sguardo indugiasse su un minuscolo ragno che risaliva una gamba del cavalletto.
«Come si chiama quella ragazza?» gli domandò Rossana.
Mauro esitò a rispondere. Sembrava che un tarlo gli rodesse il cuore, tanto era il senso di colpa che avvertiva.
«Come si chiama?» ripeté Rossana.
«Silvia… »
«È un bel nome ma non bello quanto il mio, vero Mauro? Lo hai sempre detto che per te non esisteva un nome più bello del mio.»
«Rossana, che cosa c’entra questo?»
«Tutto c’entra. Persino la banalità di un piccolo complimento è importante per seguitare ad amarsi.»
«Rossana, ti prego, non rendere tutto più difficile», rispose Mauro sfiorandole una guancia con i polpastrelli. La vide sollevare il braccio, afferrargli la mano per indurlo ad appoggiarle sul viso anche il palmo.
«Mauro», gli disse, tentando di incrociarne gli occhi «credi sia facile accettare la fine di un sentimento iniziato tra i banchi delle elementari?» Gli strinse il polso perché seguitasse a tenere la mano appoggiata al suo viso. Stavolta andrà bene. Te lo giuro sui miei genitori, Mauro. Non litigheremo più.»
«Con lei m’intendo meglio che con te», rispose lui tentando di trarre animo da un sospiro. «Ha un carattere diverso. Ci comprendiamo, c’è empatia tra noi.»
«Non ti credo», reagì Rossana, lo sguardo rianimato dall’orgoglio. «La tua è soltanto un’infatuazione perché è una bella ragazza, ma in due settimane è impossibile capire quanto si possano comprendere due persone. E poi non è di Sanfabiano e neanche delle vicinanze, perciò non credo abbiate avuto la possibilità di incontrarvi tutti i giorni. Mauro, ti ho amato da quando eravamo alti così. Volevo sempre fare squadra con te se giocavamo a ruba bandiera e sopportavo le tirate di capelli che mi dava Tamara. Prendevo graffi da tua sorella perché era gelosa. Non puoi esserti dimenticato queste cose. Mi disinfettavi tu. Rammenti quella volta che ti feristi al polso per andare a prendermi le giuggiole nell’orto di Baldino? Quanta cura misi per fasciarti. Mi dicesti che nemmeno un’infermiera avrebbe potuto fare meglio. Mi promettesti che da grandi mi avresti sposato. Mi desti pure un bacetto.»
«Rossana, lo rammento.»
Lei s’impose di parlare lentamente come se, scandendo le parole, riuscisse meglio a controllare l’emozione. «Allora ricordati di quando, in macchina, ci coglieva un acquazzone e aprivamo i finestrini per sentire l’odore che emanava la terra bagnata. Mi ripetevi che quello era il profumo più buono del mondo. “La terra, una fragranza di polvere spenta, esala” ripetevi parafrasando una poesia. Non lasciare che tutto questo finisca. Non te lo chiedo per i nostri momenti di sesso ma per questi semplici ricordi e per quei giochi che facevamo da bambini, te lo chiedo in memoria di quel bacetto.» Lo sguardo supplice ma dignitoso, Rossana aggiunse: «Io mi sentirei morire, lei piangerebbe una sera perché ha pochi ricordi.»
Mauro guardò la cintura con fibbia d’argento che le aveva regalato a Natale. Notare quanta eleganza donasse ai jeans che Rossana indossava, quegli stessi che più di una volta l’aveva aiutata a togliersi, prima di fare l’amore, lo obbligò a uno sforzo immane per opporsi alla tentazione di stringerle il viso con entrambe le mani. Avvertì un’acuta sensazione di meschinità. Respingeva un sentimento consolidato per perseguirne un altro iniziato da pochi giorni. Il ricordo di tre anni trascorsi assieme gli solcò la mente e si fece tormento. La rivide con i calzoncini cortissimi, sfilacciati agli orli, correre e saltare per afferrare la palla che le lanciava nel cortile di casa.
«Con quel ragazzo di Ponte al Pino non ci ho fatto niente, anzi mi è servito per capire quanto ti amassi. Credimi Mauro.»
«Rossana ti credo.»
Lei ebbe l’impulso di abbracciarlo, cercargli la bocca.
Mauro socchiuse gli occhi ma nel barlume sanguigno, che le palpebre abbassate lasciavano filtrare, la sua mente materializzò una bambina in tutina rossa. Tra le manine cicciottelle stringeva un ufo robot. «Rossana è troppo tardi», disse facendo uno sforzo immane per abbassare le mani dal suo viso.
«Mauro, no!» Rossana ebbe la sensazione che un gatto le graffiasse l’anima. Gli poggiò la fronte sulla spalla e lo colpì sul petto con pugni appena accennati, che avrebbe voluto dare a se stessa con tutta la forza che possedeva. In quel momento si sentì pervadere da un amore tanto intenso per lui come mai aveva provato, un sentimento lacerato dalla sua incapacità di non averlo saputo alimentare. Lo fissò ancora per sperare di cogliere quell’espressione dolce con cui era sempre tornato a guardarla dopo ogni litigio, ma gli occhi di Mauro erano persi sul pavimento.
Mauro sperò non si mettesse a piangere perché temeva di non farcela a sopportare di vedere le lacrime rigarle il viso. La vide scostarsi e avvicinare la mano destra all’anello di fidanzamento che le aveva regalato: tre smeraldini incastonati in una veretta d’oro bianco.
Rossana sfilò la fedina sforzandosi di farlo con dignità. La ripose sul mobiletto accanto alle foto della ragazza. «Vorrei tenere i ritratti che mi hai fatto e riavere le mie foto.»
Lui aprì il primo tiretto della cassettiera e le porse, assieme a un piccolo album, l’immagine che aveva tolto dalla cornice. «Vorrei riavere anche le mie.»
«Te le manderò per raccomandata. Non me la sento di tornare qui.»
«Rossana, puoi riprendere l’anello, se vuoi.»
«Ci soffrirei troppo», rispose lei guardando istintivamente la sua mano sinistra. Quanto le sembrò vuota. Sull’anulare c’era l’impronta che la fedina aveva lasciato sulla pelle. «Ora, Mauro, che faccio? Nemmeno a lavorare vado volentieri.»
«Rossana non so che dirti. Sarei cinico se ti suggerissi di trovarti un altro ragazzo.»
Lei annuì fissandolo negli occhi. «La colpa è del mio caratteraccio, perciò non rammaricarti troppo per avere fatto la tua scelta. Sei un bravo ragazzo ma devi imparare a essere meno permaloso. Spero che col tempo riesca a soffocare il rimpianto per averti perduto. Tua sorella sarà contenta, finalmente. Non mi ha mai sopportato.» Rossana non aggiunse altro. Uscì dallo studio con passi accorti, quasi non volesse provocare rumori molesti. Scivolò fuori di casa accostando piano la porta alle sue spalle. Vedere il dondolo le cagionò un’aggressione di ricordi. I suoi occhi si velarono di lacrime e la costrinsero ad appoggiarsi al corrimano per scendere i pochi gradini. Tutto, in quel luogo, le causava una struggente nostalgia. Guardò la pianta di giaggiolo che cresceva in un angolo del giardino, con le sue foglie che puntavano al cielo, dure e dritte come sciabole. Il bulbo di quell’iris, che a Mauro piaceva chiamare “giglio della fiorentina” perché si ornava di grandi fiori dal colore viola intenso, come quello della squadra per la quale tifava, glielo aveva portato lei e interrato assieme ripromettendosi che il loro amore sarebbe durato più di quella pianta longeva. Udì lo scatto del meccanismo elettrico che apriva il cancelletto di servizio, prima che lei vi giungesse.
I rondoni stridevano rincorrendosi rasente i tetti del centro storico di Sanfabiano e il sole ammolliva i grumi d’asfalto sulla strada.
Mauro scostò la tenda della finestra. Osservò l’andirivieni dei balestrucci. Rammentò il mattino di una loro breve vacanza al mare e la notte che si erano incantati a osservare la spiaggia deserta, illuminata dalla luna piena, l’ombra di una vecchia barca, tirata in secca, che spiccava, lunga, sulla superficie della sabbia, il rumore della risacca che s’infrangeva sul bagnasciuga con un lieve sciacquio, e il battello, illuminato da fila di luci, dal quale proveniva musica festaiola, che sembrava scivolare su un immenso specchio d’olio bruno. Dopo essersi presi sotto quella placida stellata, si erano svegliati col sole che incominciava a scaldare gli asciugamani con cui si erano coperti per proteggersi dall’umidità notturna. Sulla via del ritorno, in fondo ad un passaggio campestre, sugli asciugamani che odoravano di crema solare e imprigionavano ancora granelli di sabbia, avevano fatto l’amore un’altra volta. Quel giorno, Rossana, nemmeno aveva avuto timore che gli insetti la pungessero. Un battito di palpebre e avvertì le lacrime rigargli il volto.
Apprensione
Nel frattempo il gruppo ambientalista seguitò a svolgere le attività lasciando che dell’intervista se ne interessassero Livio, Fabrizio e la Guadagni.
Silvia indicava a un uomo il punto in cui apporre la firma per la petizione, quando notò Linda approssimarsi. L’amica aveva la faccia tesa e lo sguardo ombroso. «Linda, qualcosa non va? Sembra che tu abbia un diavolo per capello.»
«Ho rotto col mio ragazzo. All’inizio si comportava in modo tollerante. Poi ha cominciato a pretendere che rimanessi in casa. Non voleva venissi alla manifestazione. Ti rendi conto? Così l’ho liquidato in quattro e quattr’otto quel bamboccio.» Accese una sigaretta con movimenti nervosi. «In poco più di un anno mi sono imbattuta in un bisex, in una patata lessa che pensava più ai ravioli che a me, poi in un geloso patologico. Il migliore dei tre era sicuramente il bisex perché è almeno stato sincero confessandomelo subito. Ho una sfortuna in certe cose. Scusami Silvia, Ho da fare una telefonata. Tra cinque minuti vengo a darti una mano.»
Nell’osservare l’amica, Silvia avvertì il desiderio di telefonare a Mauro. Compose il numero ma trovò occupato.
Vide Valeria Livi approssimarsi al banco.
«Silvia, sto organizzando una gita al parco del Gran Sasso. Partiamo un sabato mattina e torniamo domenica sera: pernottamento in albergo a tre stelle e cucina locale. Sei dei nostri?»
«Mi piacerebbe ma non posso.»
Notandole conversare, Arturo s’intrufolò sgocciolando curiosità. «Che cosa bolle donne?»
«Organizzo una gita al parco del Gran Sasso. Vuoi venire Arturo?»
«No, grazie, Valeria.»
«Che risposta stringata! Arturo non è da te essere così conciso.»
«Valeria», sermoneggiò lui «queste gite sono deleterie per l’ambiente perché interferiscono sul normale ciclo della natura e provocano una devastante tensione antropica su flora e fauna. Un’ecologista impegnata come sei tu dovrebbe saperlo che i parchi naturali fruibili per la gente sono una scemenza della quale i politici si riempiono la bocca per fare intendere di essere interessati al turismo eco-compatibile.»
«È l’unico modo per osservare la natura dal vero. Non possiamo accontentarci di vederla nei documentari televisivi», obbiettò Valeria.
Il Bizza fece un gesto di biasimo e replicò: «Il sottoscritto ha cessato di guardare pure quelli. Non fanno altro che proporti filmati di bestie che ne mangiano altre.»
«È naturale che accadano certe cose», ribatté Valeria. «In natura prevale il progetto complessivo e la vita d’ogni singolo individuo non ha alcun valore perciò i tuoi discorsi, Arturo, non hanno né babbo, né mamma.»
«Accipicchia che frase ridondante e l’hai pure rifinita con un proverbio nostrano. Hai frequentato qualche corso serale d’etologia?»
La Livi mal sopportò quella battuta e reagì in modo brusco. «Invece la tua è stata di un’ironia maliziosa. In ogni caso è educativo pure che facciano vedere la cruda realtà della lotta per la sopravvivenza.» Fece un rapido dietrofront e prese ad allontanarsi.
«Tutto dovrebbe avere una misura, però», replicò Il Bizza accostando le mani alla bocca alla stregua di un megafono «invece certe scene te le propinano con un’insistenza morbosa: leoni che sbranano zebre, ghepardi che divorano gazzelle, serpi che inghiottono altri rettili. La scena del coccodrillo che attende lo gnu al guado e lo fa a pezzi, è stata trasmessa decine di volte. E non parliamo delle orche che s’ingozzano di foche dopo averle lanciate per aria. Sembra si voglia tenere alto il numero dei telespettatori, facendo leva sul fascino morboso che prova la gente nel vedere il dolore che non la tocca, in altre parole tutti vogliono guardare il morto ma nessuno a casa propria. Hai la percezione che registi e conduttori attendano che succeda un disastro o un omicidio oscuro per parlarne mesi interi. Preferisco gustarmi un filmetto hard e sentirmi meno guardone.»
«Arturo, esageri sempre in tutto ma smettiamola con questa discussione perché parlare con te, è come dare letame al terreno in cui coltivi la tua logorrea», ribatté la Livi «se inizi divieni fastidioso oltre i limiti del tollerabile.»
«Valeria, se la pensi così», insisté il Bizza «posso descriverti la scena dello squalo che squarcia l’otaria o la foca leopardo che sbrindella il pinguino o quella del lupo che attacca l’aquila con un’ala spezzata o il puma che… dove corri?»
«A comprare un biglietto del gratta e vinci», reagì la Livi, voltandosi. «Arturo, hai da ridere anche su questo?»
Sollevando il braccio destro e drizzando l’indice verso il cielo, il Bizza rivolse all’amica un ammonimento: «Scaccia dalla mente ogni fantasia ingannatrice sulla fortuna.»
«Arturo ti sei messo a fare il Savonarola?»
«Quale Savonarola d’Egitto! Volevo soltanto metterti in guardia dalle fregature legalizzate. Premiando qualcuno e facendo leva sulla speranza di giungere a rapida ricchezza, lo Stato vi gabba a milioni. Mio nonno affermava che chi dal lotto sperava il soccorso, faceva il pelo lungo come un orso. In ogni caso non pensare che quel frate brontolone avesse tutti i torti, perché la società di allora era corrotta quanto quella d’oggi. Anzi ti dirò un’altra cosa prima che ti allontani troppo dal mio tiro di voce: tutto lo scibile filosofico umano, da Platone, passando per Marx, fino ai giorni nostri, non ha cambiato di una virgola il comportamento umano!»
Rimasto solo con Silvia, il Bizza non poté trattenersi dal chiederle se trovasse giuste le sue osservazioni e quando gli confermò che pure lei condivideva molti dei suoi ragionamenti, si gongolò soddisfatto. Le sedé accanto e virò la rotta verso argomenti confidenziali. «Mauro non viene stamattina?»
«Gli ho suggerito di rimanere a casa. Ieri sera abbiamo fatto tardi.»
«Eri a Sanfabiano?»
«Ho cenato a casa sua.»
«Accidempoli, già fidanzati in casa?»
Silvia annuì rivolgendogli un luminoso sorriso. «Bizza, puoi sostituirmi cinque minuti? Devo fare una telefonata.»
«A Mauro?»
«Sì a Mauro!» ribatté lei non riuscendo a reprimere un moto d’insofferenza.
«Che c’è di male se te l’ho chiesto?»
«Arturo, hai in mente il prurito che viene in un punto della schiena irraggiungibile? Ebbene tu sei più fastidioso di quello quando insisti.»
«Che vi è preso, a tutte, stamattina?» reagì il Bizza con un tono querulo, gesticolando per rimarcare il suo stupore. «Poco fa ho chiesto a Linda che cosa la turbasse e mi ha mandato a quel paese. Immaginavo che avesse rotto col suo ragazzo ma volevo che mi raccontasse come fosse andata.» Aveva appena terminato di parlare, quando avvertì un “plop”. Ammutolito, osservò la defecazione di un uccello sulla manica della giacca. Sollevò il capo e vide alcuni colombi che svolazzavano da un cornicione all’altro dei palazzi. La posizione che assunse lo fece somigliare a uno spauracchio.
Assillo
«Mauro?»
«Ciao Silvia. Li avete allestiti i cartelloni con le foto?»
«Certo. E sono pure giunte due reti televisive nazionali. Stanno intervistando Livio.»
«Mi fa piacere che l’iniziativa si stia rivelando un successo. Che stai facendo?»
«Sono al banco per la raccolta delle firme. Tu?»
«Dipingo. Ho iniziato il tuo ritratto. Ho scelto la foto in cui indossi la tutina rossa e siedi sul panchettino di legno.»
«Lo immaginavo. Mauro, ti sento mogio. Ti ho chiamato poco fa ma il tuo cellulare dava occupato.»
«Mi stava telefonando Linda.»
A Silvia una vampa incendiò il viso. “Ecco chi doveva chiamare la civetta! Che diavolo voleva?»
«Rinnova l’arredo del salotto e mi ha chiesto se le nature morte fossero soggetti adatti a mobilia classica.»
«E vorrebbe i tuoi quadri.»
«Sì ma le ho risposto che non li ho di quel tema e nemmeno ho tempo da dedicarle.»
«Vorrei ben dire! Immagino si sia proposta di venire a Sanfabiano per vedere i tuoi dipinti e tu abbia acconsentito.»
«Silvia che dovevo dirle?»
«Cribbio è più lesta Linda a trovare pretesti che i gatti a ficcarsi nei buchi. Quella, altro che nature morte vuole! Poco fa mi ha riferito che ha rotto col suo ragazzo e ora prova con te.»
«Silvia non esagerare.»
«Non esagerare un corno! Per questo hai la voce strana?»
«Linda non c’entra.»
«Allora ammetti che c’è qualcosa. Mauro dimmi che cos’hai.»
«Te lo dico stasera.»
«Nient’affatto! O me lo dici subito o pianto tutto e vengo a casa tua.»
«Silvia quello che è successo non ha importanza.»
«Non credi tocchi alla sottoscritta decidere se l’abbia? Mauro, dim…» Silvia si guardò attorno e abbassò la voce. «Dimmelo subito», sibilò.
«È venuta a trovarmi Rossana.»
A lei parve che un formicaio si fosse sostituito alla radice dei capelli. «Te l’avevo detto che sarebbe accaduto. Che cosa voleva?»
«Puoi immaginarlo ma è stato meglio così. Le ho detto che è finita. Alla fine avrei dovuto farlo.»
Col cuore in gola lei si tenne la bocca dello stomaco. «Mauro è la verità?»
«È la verità Silvia.»
«Ti senti di volerle ancora bene?»
«Se la vedo, un po’, sì.»
«Più di un po’, vero, Mauro?»
«Sì. I sentimenti non si spengono con un soffio come le candele. Non posso raccontarti una bugia.»
«Mauro non farmi qualche scherzo da prete eh?»
«Mi ha ridato la fedina.»
«Stasera portamela. Voglio accertarmene.»
«Soltanto per dimostrarti che me l’ha ridata ma non voglio che tu la esibisca come bottino di guerra.»
«Non metto oggetti d’oro. In ogni caso non farei mai una cosa del genere.»
«Ora ti senti più tranquilla?»
«Insomma. Che cosa ne farai dell’anello?»
«Lo nasconderò da qualche parte per tentare di tenerlo lontano dalle grinfie di mia sorella. Cinque minuti dopo che Rossana se l’era tolto, Manuela lo aveva già adocchiato e lo cercherà come un segugio.»
«A Rossana dovresti ridargliela la fedina», rispose Silvia facendosi prendere da un impulso di nobiltà d’animo.
«Infatti ho insistito che la tenesse. Mi ha risposto che ci avrebbe sofferto troppo.»
«È naturale. Ora ti devo lasciare. «Fabrizio mi fa il segno delle forbici. Ciao.»
«Salutamelo. Ci vediamo stasera e stai tranquilla.»
«Proverò.» In quel momento lei si sentì picchiettare su una spalla.
«Silvia temevo di dover prendere una seggiola.»
«Scusami Fabry, stavo telefonando a Mauro.»
«Che palle con questo Mauro», sbuffò Fabrizio prendendola sottobraccio. «Gli operatori televisivi ci hanno suggerito che il servizio sarebbe più incisivo se l’intervista potesse essere accompagnata da riprese del luogo perciò dobbiamo recarci in Valcorniola. Dovresti venire anche tu.»
«Fabry sono tornata da Sanfabiano stamattina alle tre e mezzo.»
«La tua immagine starebbe come la ciliegina sulla torta nel servizio. Non possiamo perdere quest’occasione. Sono le undici meno dieci. Saremmo tornati per l’una e mezzo, se partissimo subito.
«Fabry, non ho i capelli in ordine, dovrei rifarmi il trucco.»
«Un po’ selvaggia sei ancora più bella.»
«Andrà a finire che mi buscherò una brontolata con i fiocchi dai miei.»
«Me ne assumerò la colpa.»
Silvia rimase ancora un po’ titubante, poi acconsentì ma disse a Fabrizio di attendere un minuto perché doveva chiarire una faccenda con Linda. Chiamò l’amica in disparte e il suo sguardo si fece tagliente. «Linda, ascoltami bene», la avvisò con un tono deciso, «sei una ragazza generosa e voglio rimanerti amica ma la pazienza è un tipo d’insalata che non cresce nel mio orto, perciò non ti avviserò un’altra volta: stai lontana da Mauro e non telefonargli più.»
«Io telefono a chi mi pare», reagì lei piantandosi di fronte a Silvia con il mento alto in segno di sfida. «Come ti permetti di dare ordini? E fammi vedere lo scontrino se hai comprato Mauro al supermercato.»
Solo il buon senso impedì a Silvia di passare alle vie di fatto. «Ascolta Linda», le rispose indirizzandole uno sguardo gelido «non mi va di trovare frasi sciocche da contrapporre alle tue. Aggiungo: dovrai farmelo vedere tu lo scontrino di acquisto dei cerotti che dovrai metterti in testa, se ti azzarderai a entrare a gamba tesa tra me e Mauro. Ci siamo intesi? Passo e chiudo!»
Un periodico evento imbarazzante
Si erano piazzati sul lastrone sovrastante la cateratta del Rio Maestro. Un cameraman riprendeva Fabrizio mentre un collega lo intervistava quando si addensò un’ombra di preoccupazione sul volto di Silvia. Si stava scostando dall’equipe degli operatori, quando Fabrizio le fece cenno di avvicinarsi. «I giornalisti intendono farti ancora qualche domanda.»
«Livio, devo andare. Telefono a Mauro che venga a prendermi.»
«Benissimo, così intervisteranno anche lui.»
«Non verrà fin quassù», lo avvisò lei discendendo la viottola.
«Silvia che ti prende?»
«Fabry, non posso attendere. Ti spiegherò. Scusatemi.»
«Signorina, lo so di non essere in fico come il mio collega ma non può far mancare la sua immagine alla mia televisione», si raccomandò un giornalista.
Dopo un cenno di saluto, Silvia attese che la vegetazione si frapponesse tra lei e i gruppi televisivi per attivare il cellulare. «Mauro?»
«Ciao Silvia.»
«Sono in Valcorniola. I giornalisti ci hanno chiesto d’accompagnarceli per intervistarci e fare riprese del luogo. Ascolta: dipingi ancora?»
«Sono sul dondolo a leggere il giornale. Aspetto che mia madre mi chiami per il pranzo.»
«Devi venire a prendermi. Sto discendendo verso la strada che porta al vecchio mulino.
«Vengo subito. Silvia ti sento irrequieta.»
Per quell’innato pudore che le donne avvertono se c’è da parlare di quel problema, lei rimase impacciata un istante. Poi gli bisbigliò: «Mi sta venendo il ciclo. Sono stata sempre regolare ma stavolta ho avuto un anticipo. Credo che l’agitazione di questi giorni mi abbia scombussolato il metabolismo. E proprio stamattina mi sono messa i pantaloni chiari, cribbio! Ti rendi conto se si fossero macchiati davanti a quella gente? C’è tua sorella?»
«È andata a raccogliere il radicchio sull’orto.»
«Corri a chiederle gli assorbenti e un paio di mutandine.»
Mauro si precipitò in cerca della sorella e gli chiese, con un tono agitato: «Manu ho bisogno dei tuoi assorbenti e un paio di mutandine.»
«Diamine, Mauro, hai cambiato sesso?»
«Quale sesso d’Egitto! Sono per Silvia. È in Valcorniola.»
«Sola?»
«No che non è sola. Te lo spiego strada facendo. Sbrigati a prendere quegli affari. Vado a togliere la macchina dal garage.»
Manuela corse trafelata in casa. Incrociò sua madre che le chiese il motivo di tutta quella fretta.
«Te lo spiego quando torniamo. Mauro mi sta aspettando. Dobbiamo andare in Valcorniola.»
«In Valcorniola? Stavo per buttare giù la pasta.»
«Buttala appena ci vedi tornare e apparecchia anche per Silvia.»
«Per Silvia? Ora che le faccio da mangiare?”
Armonia familiare
Silvia e Mauro, dopo avere pranzato frettolosamente, erano tornati in città. Alle sedici e mezzo, dopo aver evitato il rimbrotto con qualche moina, Silvia si era ritirata per prepararsi ad andare a Villa Belvedere. Quand’era ricomparsa indossava pantaloni di colore marrone chiaro e una T-shirt rosa confetto. Suo padre e Mauro stavano conversando in soggiorno.
«Ciao babbino.» Gli schioccò un bacio sulla calvizie. «Tra un paio d’ore sarò di ritorno. Ti consegno Mauro ma non annoiarlo raccontandogli dei tempi in cui facevi il rivoluzionario e di quella volta che, col tuo gruppo, telasti a gambe levate dalla sede del movimento studentesco inseguito da una squadra di studenti di destra.»
«Silvia non cercare di schivare che ti rammenti quanto sarebbe meglio se passassi qualche ora in più con tua madre.»
«Pure tu.»
«Non ci sto abbastanza? Non mi muovo di casa dopo il lavoro e in negozio la vedo da mattina a sera.»
«Babbo, in quel modo si sta insieme ma è come se non ci vedessimo. Intendevo tu e lei: soli. Te capì paparino, come dite a Milan?» Silvia si chinò per baciare ancora la pelata del padre.
A Mauro quel momento d’affetto tra genitore e figlia parve così intimo che si sentì arrossire.
«Fila via, ruffiana. Te vedet minga cuma l’è imbarazzad ul tò murus?»
Silvia si avviò alla porta lasciandosi dietro un’invisibile bruma di malizia e mistero. «Ciao nonna. Ciao Ma.»
«Spiegami un po’ Silvia», la richiamò il padre «cusa l’è la storia che saremmo scappati dalla sede del movimento studentesco, inseguiti da una squadra di studenti di destra?»
«Babbo l’avrai raccontata cento volte.»
«Allora la rammenti male perché non è andata così. Sai Mauro? Quel giorno accade che…»
A Silvia brillavano gli occhi mentre scendeva le scale. Con l’espediente di raccomandarsi che non esagerasse, aveva attizzato il cane alla salita. Le sembrava di vederlo il suo babbino tutto preso a mettere a fuoco persino i dettagli degli eventi perché, se si presentava l’occasione di rievocare il suo turbolento passato, con persone confidenti, s’immedesimava talmente nei ricordi che sembrava riviverli. Ed era sicura che Mauro lo avrebbe ascoltato volentieri. Sua madre, soltanto dopo una buona mezzora di cronache, avrebbe loro servito il tè, soffermandosi giusto per rivolgere un sorriso a entrambi. Poi suo padre avrebbe sfogliato l’album con le foto di quand’era ragazzo e fatto vedere a Mauro la raccolta dei suoi trentatré giri con le canzoni rivoluzionarie: “Addio Lugano Bella” e “Contessa”, emblemi canori del proletariato in lotta. Gli avrebbe confidato che quei canti li conoscevano solo gli studenti e qualche docente di sinistra. Trovare un operaio che ne sapesse mezza strofa, sarebbe stato come cercare l’ago nel pagliaio. Gli avrebbe poi fatto vedere la collana completa delle opere di Bertrand Russell, e spiegato il motivo per il quale riteneva quel filosofo uno dei più grandi della storia contemporanea. “Russell aveva il genio d’esporre concetti complicati con espressioni comprensibili a tutti: questo contraddistingue i talenti dagli scribacchini che, per sembrare colti, attorcigliano le frasi come i canestrai avviticchiano i giunchi”.
Infine si sarebbe proposto per una sfida a scacchi. Il pensiero che gli uomini della sua vita conversassero e prendessero confidenza, le fece sembrare più leggera perfino la stanchezza.
Al ritorno vedere la sua famiglia riunita, a Silvia suscitò sensazioni d’armonia. Drillo le balzò in braccio per leccarle il viso. In un angolo del soggiorno, Lorenzo ascoltava musica con gli auricolari. Patrizia e Sergio erano seduti sul divano e guardavano la televisione tenendo il volume basso. Nonna Martina faceva rumore di pentole in cucina e sua madre le diceva: «Mamma, stai buona per piasè, ghe pensi mi.»
I suoi due uomini si fronteggiavano sulla scacchiera. Suo padre si trovava con l’esercito decimato, mancante di tre pedoni, un alfiere, un cavallo e della regina.
Riccardo cercò di contrastare l’attacco che Mauro aveva sferrato al suo re. Si massaggiò il mento, indeciso su quale mossa fare. «Mauro, è proprio vero che hai imparato stasera a giocare a scacchi?»
«Babbo, sposta la torre a difesa del cavallo», gli suggerì Silvia provando tenerezza nel vedere il genitore a mal partito «altrimenti Mauro te lo mangia, poi ti mette il re sotto scacco.»
«Silvia, taci», la rimproverò Mauro. «Ho sudato sette camicie per trovarmi in vantaggio.»
Lei gli scompigliò i capelli facendogli occhietto. «Un aiuto bisogna darglielo ai vecchietti che cominciano ad avere i neuroni arrugginiti.»
«Quale vecchietto d’Egitto!» controbatté il padre. «Quella mossa l’avevo vista. Stavo invece considerando di fare questa.»
«Bravo babbo, così Mauro ti mangia l’altra torre e ti mette sotto scacco il re, ugualmente.»
Riccardo si grattò la pelata e concentrò l’attenzione sulla scacchiera per tentare di rimediare la difficile situazione.
Silvia li lasciò alle loro strategie, raggiunse la zona notte ma subito ne uscì correndo. Si tenne allo stipite della porta per contrastare l’energia centrifuga; entrò in cucina strisciando le scarpe sul pavimento. I suoi capelli frustarono l’aria. Schioccò un bacio a nonna e mamma. Poi tornò indietro con la solita esuberante energia, lanciando a Mauro un rapido sorriso.
Tolti gli auricolari, Lorenzo si rivolse al padre con una delle sue fulminanti battute. «Babbo, Silvia è in pieno tornado ormonale. Mi sa che ti toccherà essere sulla via di diventare nonno, ancor prima che abbia finito di dare gli esami.»
Mancava poco alle ventidue quando le Colombo terminarono di riordinare casa. Un tocco di rossetto, un po’ di fondo tinta per celare la stanchezza e Silvia aveva ripreso un aspetto vispo.
«Babbo noi andiamo a fare un giretto.»
«Intendi uscire un’altra volta?»
«Facciamo quattro passi qui attorno.»
«Cerca di farli durare fino alle tre di notte i quattro passi», esclamò Tiziana uscendo dalla cucina con un canovaccio in mano. «Domattina hai da stirare una montagna di panni.»
«Mamma non faremo tardi», promise Silvia strattonando Mauro per sollecitarlo ad alzarsi.
«Mauro mi rivolgo a te: rincasate presto», si raccomandò Tiziana. «Glielo lo vedo dagli occhi che Silvia è stanca.»
«Signora stia tranquilla. Tra un’ora sarà a letto.»
Sul primo pianerottolo Silvia lo abbracciò fin quasi a togliergli il respiro. «Andiamo a fare un giretto in macchina?»
«Finiremmo per fare tardi invece avresti bisogno di dormire dieci ore filate. Lo vedo che ogni tanto ti sostieni le reni. Rimarremo in macchina nel cortile.»
«Mauro, in cortile non possia… rincaseremo presto.» Silvia rinunciò a insistere quando lo vide fare il gesto di risalire le scale. «Uffa d’accordo.»
Tenerezze
Con i finestrini semiaperti, per far uscire il fumo dall’abitacolo, avevano piazzato l’auto nell’angolo meno illuminato.
«Quante sigarette hai fumato, oggi?»
«È la prima, giuro.» Silvia aspirò la sigaretta e soffiò il fumo fuori del finestrino. Poi trasse dalla borsetta un foglio di quaderno sul quale era scritto qualcosa alla maniera di una poesia. «Mauro rammenti che mi ero ripromessa di scrivere una poesia quando mi hai descritto la Valcorniola settembrina?»
«Sul serio l’hai scritta?»
«Certo eccola qui.»
Mauro fece il gesto di prendere il foglio che gli porgeva, ma sentì che insisteva a stringerlo tra le dita. «Beh, che ti prende? Non vuoi più che legga?»
«Mauro mi vergogno. È la prima poes… insomma è la prima impressione che scrivo. Prometti che non gonfierai le guance per trattenerti dal ridere?»
«Perché mai?» rispose Mauro strattonando il foglio perché lo lasciasse.
SETTEMBRE
Presagio di un’estate morente,
Sono le more avvizzite sui rovi,
I cinnorodi di rosa canina e
Le corniole, divenuti vermigli.
Ma un acquazzone spegne la polvere
Dell’arida terra.
Il vento che si è insinuato nella fratta,
Diffonde per l’aria fragranze muscose.
Odori pungenti di limo e aromi d’erba
Mi carezzano il volto.
Anche da uno stelo,
Disseccato sotto il sole d’agosto,
Che l’inverno decomporrà,
Settembre fa fiutare la vita.
Silvia colombo
«Silvia, è…»
«Una schifezza vuoi dire?»
«Quale schifezza! Mi piace moltissimo.»
«Mauro dici sul serio o vuoi soltanto compiacermi?»
«Affatto. Lo direi pure se l’avesse scritta un’altra ragazza.»
«Linda per esempio, eh?» ribatté Silvia rivolgendogli un’occhiataccia. «Preferisco che giudichi “schifezza” il mio scritto piuttosto di pensare che tu possa rivolgere i complimenti a un’altra.»
«Silvia il mio è stato soltanto un modo per farti capire che mi piace per davvero.»
«Non portevi usare un’altra espressione?»
«Mi è uscita spontanea, in buona fede, e ti dico pure che l’ode potrebbe essere migliorata perché contiene qualche lungaggine.»
«L’hai chiamata “ode”?» rispose lei fissandolo con un’espressione stupita.
«Certo! Oddio, che non sia stata scritta da Ungaretti si nota ma è pur sempre un componimento lirico. Hai una penna?» Mauro la vide affrettarsi a rovistare sulla borsetta.
«Eccola!» Silvia, ammutolita, rimase a osservare Mauro togliere parole e fare freccette sullo scritto per orientarsi a spostare espressioni, ricomporre ciò che era rimasto sull’altra parte del foglio. Poi porgerle la pagina.
SETTEMBRE
Presagio di un’estate morente,
Sono le more avvizzite sui rovi
E le corniole divenute vermiglie.
Un acquazzone spegne la polvere
Dell’arida terra,
Il vento s’insinua nella fratta,
Diffonde fragranze
Di limo e aromi d’erba.
Settembre, solatio e mite,
Fa eco al sole d’agosto,
Indugia nell’attesa
Che la pioggia d’ottobre
Lieviti la terra
E culli il suolo
Per il sonno d’inverno
Nel silenzio mutevole
Dei colori.
Silvia Colombo
«Mauro che cosa potrei dirti, se non quanto mi stia incantando il tuo ingegno?» disse Silvia stringendogli il viso tra le mani.
«Il merito è tuo poetessa. L’essenza c’era già nella lirica. Io non ho fatto altro che seguire ciò che mi propongo prima di iniziare un quadro: dipingere l’essenziale. Stai scoprendo una vocazione che mai avresti pensato di avere.»
«Anche questo è merito tuo e della Valcorniola», rispose Silvia poggiandogli il capo sulla spalla. Rimase silenziosa a percepire la vita di Mauro attraverso il leggero movimento che il respiro trasmetteva al suo corpo. Poi gli domandò se fosse riuscito a dare scacco matto a suo padre.»
«Ho sbagliato di proposito una mossa e mi sono proposto per la rivincita.»
«Da vero gentleman. Ci sarebbe rimasto troppo male. Poi di che cosa avete parlato?»
«Di Bertrand Russell. Mi ha spiegato il motivo per cui considera quel filosofo il più grande del ventesimo secolo.»
«Russell aveva il genio d’esporre concetti complicati con espressioni comprensibili a tutti. Questa facoltà contraddistingue i talenti dagli scribacchini che, per sembrare colti, attorcigliano le frasi come i canestrai avviticchiano i giunchi», lo anticipò Silvia.
«Non hai tralasciato una sola parola della sua descrizione.»
«Figurati, le espressioni di mio padre le conosco a memoria.»
«Tua madre ci ha servito il tè ma la prima tazza l’ha portata a tua nonna Martina. Mi ha bisbigliato in un orecchio che si sarebbe impermalita se non l’avesse fatto.»
Mauro sentì che cercava di rilassarsi tra le sue braccia. «Sai Silvia? Da come si esprimeva tuo padre, intuivo che coglieva una sorta di prolungamento dei suoi ideali nel tuo impegno ecologista. Suppongo sia un modo per mantenere ancora vivi i suoi sogni giovanili. Tiene alcune foto, nelle quali sei ripresa accanto a manifesti contro la distruzione delle foreste tropicali, assieme alle sue del periodo in cui militava nel movimento studentesco.»
Cribbio! Ecco perché non riuscivo più di trovarle. Domani…»
«Domani non dirgli niente. Lascialo col suo piccolo segreto.»
«Il mio babbino», disse Silvia con un’espressione dalla quale traspariva serenità «ancora tanto innamorato di mia madre che quando a desinare taglia il pane, le dà sempre la seconda fetta, prendendo per se la prima perché è quella che rimane più secca. Piccoli fatti, all’apparenza insignificanti ma che aiutano a capire grandi cose.»
«Non immagini quanto mi faccia piacere scoprire che pure tu sia un’osservatrice ma ora, Silvia, ti riporto in casa. «Hai l’aspetto stanco. A malapena tieni le palpebre aperte.»
Lei emise un ansito e sbadigliò. «Stanotte non sono riuscita a chiudere occhio. Non facevo che ripensare alla visita che ti ha fatto Rossana, alla telefonata di Linda, a noi sul dondolo, poi le mestruazioni e la paura di sporcarmi… cribbio che giornata!»
Mauro percepì il tiepido soffio delle sue narici. Le accarezzò i capelli e la cullò per aiutarla a scivolare nel sopore. S’impose di respirare adagio per timore di disturbarla. «Silvia devi andare a nanna.»
Lei fece un altro sbadiglio e gli strofinò il naso sul collo. «Vuoi sbarazzarti di me? In questi due giorni siamo rimasti tanto tempo assieme, da annoiarti?»
«Abbastanza.»
«Non lo credo. Mauro pensi che potremmo annoiarci, di stare assieme, un giorno?»
«Se riusciremo a sopportare i nostri piccoli difetti, no. Molte coppie cessano di comunicare perché uno non sopporta l’altro che biascica a tavola, che fa quel rumorino stuzzicandosi i denti o russa, o si dimentica di tirare l’acqua dello sciacquone. Sembrano banalità ma col passare degli anni queste insofferenze si mescolano alla monotonia delle abitudini, diventano ombre maligne e motivi per non sopportarsi più. Così i sentimenti muoiono tra battibecchi quotidiani che impoveriscono la necessità di confortarsi. Dopo l’attenuarsi dell’attrazione sessuale, è la consolazione reciproca a tenere unita una coppia. Penso che dovremmo sempre trovare spazio per parlare di queste cose.»
«Ciumbia come sei saggio.»
«Le Persone sagge non si fanno travolgere dalle passioni, invece io sono pazzo di te.»
«Che tono melodrammatico», disse Silvia sfiorandogli la punta del naso con le labbra.
«Esce meglio ciò che intendi comunicare se lo dici esageratamente. In ogni modo non cambiare posto agli oggetti del mio studio e avrai risolto metà problemi di convivenza.»
«Metti scarpe e calze fuori della porta di camera e non lasciare mai in disordine gli abiti.»
«L’amore lo faremo?»
«Tutte le sere.»
«Riuscirci è leggenda metropolitana, almeno per i maschi», la avvertì Mauro.
«Che dovrai tramutare in realtà», lo provocò Silvia.
«La faccenda mi preoccupa.»
«Sciocco, vedrai, ci coccoleremo anche da vecchi.»
«Che gioco hai organizzato per i tuoi amici down?»
«Nascondino. Si sono divertiti da matti ma Sofia, quella ragazzina di cui ti ho parlato, si divertiva però lo faceva con gli occhi lucidi perché nessuno era venuto a trovarla, tranne me. Quei ragazzi soffriranno anche d’insufficienza mentale ma i sentimenti li hanno. Altroché se li hanno! Facevo in modo fosse lei a stanarmi per prima. Rideva ma continuava a guardare i parenti degli altri bambini e non mi rimaneva che asciugarle il mento dalla saliva. Poi le assistenti hanno organizzato uno spuntino e sono rimasta con lei per farla mangiare. M’imitava ogni volta che masticavo una tartina e se restavo a bocca ferma, cessava di masticare anche lei. Ricominciava quando anch’io lo rifacevo e ci mettevamo a ridere. Poi mi ha detto perché non mi fossi ancora fidanzata. Le ho risposto che lo ero ma lei ha ribattuto che non ci credeva perché non avevo l’anello all’anulare sinistro.»
«Ora ho un motivo in più per regalartelo, altrimenti Sofia penserà che non esista.»
«Non di valore. Ho scelto di non portare gioielli. È dannoso per l’ambiente cercare oro e pietre preziose. Mi basta una fedina da bigiotteria.»
«Bruna come sei, un rubino al dito ti starebbe meravigliosamente.»
«Mauro non tentarmi come ha fatto tuo padre con la spalla di maiale. Ah, dimenticavo, stamattina Gigi mi ha riferito che ti avrebbe telefonato per informarti che i combattimenti d’animali li fanno davvero in quel posto chiamato Carbonaia. Loro hanno deciso d’andarci. Tu, però, mica ci vai.»
«Ormai ho promesso.»
«Mauro, temo che accada qualcosa.»
«La videocamera di Stefano sarà sicuramente provvista di zoom. Rimarremo distanti. In ogni caso se quella gente si dovesse accorgere della nostra presenza, ci scambierebbe per agenti forestali e scapperebbero.»
«Non è detto. In ogni caso se ci vai, vengo anch’io.»
«Silvia ragiona: se succedesse qualcosa?»
«Allora lo ammetti che potrebbero esserci complicazioni.»
«Ti buscheresti una brontolata se chiedessi a tua madre d’assentarti dal lavoro.»
«Le dico che Sofia si è ammalata e che devo andare a trovarla.»
«Gli altri non saranno d’accordo di portarti appresso.»
«Mi sono chiarita con loro. Avrei avvisato Livio e Fabrizio se non mi avessero accettato.»
«Saresti giunta a questo punto?»
«Sì, e senza indugi e rimorsi perciò rassegnativi alla mia compagnia.»
LIBRO SECONDO
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
La radura
Avevano lasciato le auto sullo spiazzo di un deposito degli attrezzi per la manutenzione viaria presso la provinciale che conduceva a Solignano in una zona sovrastante Carbonaia. Indossavano jeans pesanti, camicie a maniche lunghe e scarpe sportive da marcia. Era stato Dino che aveva suggerito quell’abbigliamento per non graffiarsi.
Il caldo era opprimente e la fitta macchia d’erica li obbligava ad avanzare in fila indiana. Poiché non c’era traccia di sentiero, dovevano procedere usando le roncole, a turno, per aprirsi un varco. A Silvia avevano lasciato la mansione di portare lo zaino con scorte d’acqua e merende.
All’inizio Gigi era riuscito a orientarsi ma, scesi più in basso, aveva perso la direzione, cosicché si erano dovuti fermare in una radura così stretta da avvertire l’odore acre della loro traspirazione.
«Gigi tiraci fuori da questa macchia», lo esortò Stefano sollevandosi sulla punta delle scarpe per tentare di scorgere la cresta dei poggi.
«Dovrei orizzontarmi con la conformazione delle colline ma non posso arrampicarmi in un arbusto d’erica.»
«Proviamo a far salire qualcuno in groppa a un altro», propose Mauro.
Gigi e Dino guardarono Stefano.
«Lo immaginavo.»
«Sei il più robusto. Sarà Silvia a sederti sulle spalle. È alta e più leggera di noi.»
«Ci mancava dovesse essere pure lei», borbottò Stefano.
«Che hai detto?» gli domandò Gigi.
«Niente, proviamo.» Stefano si chinò per consentire a Silvia di salirgli in groppa. Fece una smorfia e strinse i denti. «Ragazzi, aiutatemi ad alzarmi o mi verrà l’ernia del disco.» Le afferrò saldamente i polsi per aiutarla a trovare l’equilibrio e sistemò i piedi sul terreno. Percepì il grembo caldo dell’amica attraverso i jeans e gli sovvenne un rimpianto amaro come fiele. Nondimeno riuscì a tirare fuori una battuta spiritosa. «Accidenti a te Dino. Dicevi che era più leggera di noi.»
«Silvia, riesci a vederlo un cornicione di roccia sul poggio opposto a questo?»
«Sì, Gigi, è laggiù.»
«Bene. La radura si trova sotto la roccia.»
«Silvia rimani col braccio teso nella direzione del costone», le suggerì Dino. Aprì un varco di un paio di metri nella direttrice indicata dalla mano. «Ora puoi scendere.»
Tornarono ad avanzare mantenendo il sole alla destra. Più avanti s’imbatterono in una fratta di ginepri. Tentarono di aggirarla sperando di ritrovare il passaggio che Gigi e Stefano avevano imboccato giorni prima. Poi decisero di avanzare, dritti, aprendosi un varco a colpi di roncola.
«Stefano dovrei appiopparti una multa», brontolò Dino dopo aver visto il compagno assestare un fendente alla sterpaglia. «Hai mozzato la cima di un pino silvestre.»
«Non ho fatto apposta. Nemmeno mi ero accorto che ci fosse.»
«Ragazzi io non dovrei esserci», si lamentò Dino.
«Danesi, smettila di fare il ravveduto», sbuffò Gigi. «Non sei venuto a espletare la tua attività di guardia ecologica ma partecipi a un’escursione con un gruppo d’amici. Ora muovi le chiappe che la sete mi ammazza.»
Seguitarono a menare di roncola fino a che, improvvisamente, si ritrovarono nella radura.
Distesero camicie e pantaloni al sole e si sederono al riparo dell’esigua ombra che gli arbusti proiettavano su un margine dello spiazzo.
Silvia fu costretta a mettersi discosta voltando loro le spalle perché si era tolto anche il reggiseno talmente era intriso di sudore, cosicché si prestò a battute maliziose.
«Silvia non immagini quanta malinconia provi a vederti sola», disse Gigi. «Siedi con noi e immagina di essere su una spiaggia. Le spiagge dell’adriatico sono piene di donne senza reggiseno. Il tuo pudore è solo un blocco mentale.»
«Che rimarrà tale, furbetto. Qui non siamo a Rimini.»
«Mauro ti concede il permesso», fece eco Dino.
Lui, che nemmeno aveva aperto bocca, diede un leggero pugno sulla spalla dell’amico ostentando mancanza di turbamento.
Stefano, col vago timore che lei accettasse e fosse costretto a vedere quel che aveva perduto, rimase taciturno.
La separazione non durò molto perché gli indumenti si asciugarono rapidamente. Perlustrarono la radura a palmo a palmo. Spuntoni d’arbusto sporgevano qua e là, segno evidente che lo spiazzo era stato creato artificialmente. Rinvennero ciuffi di pelo e piume. Su una nicchia del prato erano accatastate ramaglie. Sotto di esse il terreno appariva scavato recentemente.
«Sembra abbiano sepolto qualcosa», suppose Dino. «Accertiamocene.»
Mentre gli altri rimuovevano la terra, con la costola delle roncole, Stefano filmava. Incontrarono qualcosa di molle.
«Silvia voltati!» le intimò Dino. Fece cenno a Mauro d’allontanarla.
«Voglio vedere invece.»
«Allontanati!» insisté l’amico. Poco dopo disseppellirono la testa della carogna di un cane, in avanzato stato di putrefazione. Ricoprirono stando attenti di celare lo scavo così come lo avevano trovato.
L’attesa
«Quella gente dovrebbe giungere tra mezz’ora se venisse all’orario indicato dal tizio della telefonata», suppose Dino. Si guardò attorno per verificare se ci fossero luoghi adatti a nascondersi. «Dove potremmo metterci?»
Gigi gli indicò il cornicione di roccia. «Su quella sporgenza c’è spazio più che sufficiente per rimanere sdraiati.»
«Sembra un ottimo posto d’osservazione ma c’è da rompersi l’osso del collo a salirci e saremmo in trappola se ci scoprissero lassù», fece osservare Dino.
«Possiamo andarci meglio di quanto sembri e c’è una via di fuga. Seguitemi», li sollecitò Gigi.
Discesero qualche metro il ruscello e imboccarono un viottolo che s’inerpicava sulla costa. Aveva ragione il Gori a sostenere che non era difficoltoso salire. L’erta era addolcita da un continuo serpeggiare del sentiero e da costole di pietra che fungevano da gradini naturali.
Giunsero su un terrazzamento tanto spazioso da ospitare un bivacco di molte persone. L’orlo del cornicione si allungava con una tale regolarità di rientri e sporgenze, da apparire come un’enorme sega sepolta, con i denti affioranti dal ventre del colle. Il lastrone, inclinato dalla parte del poggio, sembrava fatto apposta per sdraiarvisi senza pericolo di precipitare. Il sentiero seguitava oltre e si perdeva tra la macchia. Da lassù potevano spaziare tutta la valletta. Dappertutto, una coltre d’erica non concedeva spazio alla vegetazione d’alto fusto.
I cinque amici trovarono un po’ d’ombra accostandosi ad alcuni ginepri casualmente cresciuti così allineati da sembrare piantati apposta.
«Ragazzi potremmo fare merenda mentre aspettiamo», propose Dino.
«Ho più voglia di bere che di mangiare», commentò Gigi. «Mi ha preso un’arsura che se mi mettessi, a bocca aperta, sotto le cascate Niagara, prosciugherei l’Ontario. «Quante bottiglie abbiamo?» domandò.
«Due da un litro e mezzo», rispose Silvia «e cinque lattine di birra.»
«Berla calda è come ingollare piscia di vacca», si lamentò Gigi.
«Hai provato?» gli domandò Dino mentre toglieva dal cartoccio la sua merenda.
«Non fare lo spiritoso guardia ecologica del Kaiser.» Facendo risalire grosse bolle d’aria nella bottiglia, Gigi iniziò a bere avidamente.
«Ehi ci siamo anche noi!» brontolò Stefano.
«Ragazzi solo un altro sorso.»
«Prova a far merenda che ti passa», gli propose Mauro.
«Col prosciutto nostrano?»
«Il sale aiuta l’organismo a trattenere i liquidi.»
«Ma ti rivolta dall’arsione.»
Silvia, sull’orlo del pianto, si sforzava di sorridere alle loro battute ma seguitava a fissare, mogia, le sue fette di pane dalle quali fuoriusciva uno spicchio di frittata infarcita con sottilette.
«Silvia, ti avevamo avvertito di non guardare», le rimproverò Dino.
Fu come se quel monito le sgretolasse la fragile diga del contegno. Una lacrima le rigò il viso. Si alzò di scatto e, per l’imbarazzo di farsi vedere piangere, si allontanò seguita da Mauro.
«Cercate di tornare entro un tempo ragionevole se volete ritrovare le vostre merende, perché qualcuno ha messo gli occhi su quelle imbottiture di frittata e spalla», li avvisò Gigi ma l’interesse per come si muoveva Silvia, soverchiò il suo piacere di mangiare. Cessò di masticare e la seguì, a bocca semiaperta, come se quell’ancheggiare fosse madre di tutte le visioni ineffabili. La seguì fino a che la vegetazione gliela nascose alla vista. «Ragazzi, che gran bella figliola!» esclamò. Stefano, ho saputo dal Bizza che la corteggiavi da un pezzo.»
Lui fece un cenno d’assenso. Pensò che forse gli sarebbe giovato confidarsi un po’. «Ma è comparso Mauro», disse con un tono di scalognata fatalità «e Silvia gli è cascata tra le braccia come una pera cotta. Ragazzi, credetemi: è dura pensare che in questo momento ci sia un altro a consolarla.» Strappò la linguetta di una lattina di birra e sorseggiò. «Non è così schifosa», commentò.
«Insomma ci hai perso un anno senza farci un tubo e da ultimo t’è toccato contare i noccioli», insisté Gigi mettendoci un pizzico di quel compiacimento che prendeva l’animo di chi bramava qualcosa impossibile da avere e che era sfuggita anche ad altri.
Stefano annuì greve.
«Stefano», gli suggerì Dino «saresti un coglione se continuassi a farti il sangue amaro. Trovati un’altra ragazza.»
«Come no! Vado in discoteca, rimorchio la prima che ci sta e liquido tutto con una scopata? Non è così semplice dimenticare una persona col sistema del chiodo che ne schiaccia un altro, non col mio carattere.»
«Stefano, io la penso come te», insisté Gigi porgendogli una mela. «Vedersi soffiare una gnocca come Silvia è una faccenda che non si scorda facilmente.»
Approfittando di un istante durante il quale Stefano rimase a meditare con occhio vago, Dino affibbiò una gomitata al Gori perché smettesse di rigirargli il coltello nella piaga.
La telefonata di Fabrizio
Silvia e Mauro erano tornati da poco quando uscirono le note di “Maramao perché sei morto” da una tasca della camicia di Stefano.
«Stefano?»
«È Fabrizio», bisbigliò lui attivando il vivavoce del cellulare. Aspettandosi una lavata di capo, anticipò l’amico con una frase scherzosa. «Sì, sono io. Parlo col geometra, architetto, ingegnere, Ridolfi Fabrizio?»
«Ascoltami bene Stefano: sono stato informato di tutto.»
«Chi te l’ha riferito?»
«Una persona che ha più sale in zucca di voi. Ora passami Silvia: subito! Silvia, le battaglie animaliste si fanno ma questo non significa che dobbiamo comportarci con avventatezza. Quella è gente pericolosa.»
«Fabry, ho cercato di persuaderli a rinunciare ma non mi hanno dato retta.»
«Avevo giudicato Mauro una persona saggia. Come ha potuto essere tanto incosciente da imbarcarsi in un’impresa così idiota e portarti appresso?»
«Aveva dato la parola ed io mi sono imposta per convincerli ad accettarmi.»
«Avresti dovuto avvertirmi, invece.»
«Non sono una spia.»
«Ripassami Stefano. Stefano, quella gente è arrivata?»
«No ma se l’informazione fosse vera, dovrebbe giungere tra non molto.»
«Sareste ancora in tempo ad andarvene.»
«Neanche a parlarne. Ormai il dado è tratto.»
«Senti un po’ Giulio Cesare del cazzo…»
Fu la volta di Stefano prendere un tono deciso. «Fabrizio, lo capisci che c’è capitata una possibilità unica per filmare quella gente? Cadesse il mondo, li riprenderò e non obbligo gli altri a rimanere.»
«Testone, rimarranno anche loro se non te ne andrai. Tenetevi almeno nascosti.»
«Siamo su una specie di terrazzamento roccioso, sopra lo spiazzo nel quale organizzano i combattimenti.»
«Sdraiatevi, mimetizzatevi e mi raccomando: non fate gesti azzardati qualsiasi cosa vediate. Avvertitemi se doveste trovarvi in difficoltà.»
«D’accordo.»
«D’accordo un cazzo!» esclamò Fabrizio spegnendo bruscamente.
«Stefano», lo esortò Silvia «Fabrizio ha ragione. Dovremmo andarcene.» Come avesse parlato al vento, lo vide addentare la mela e masticare con rabbia.
«Io rimango.»
«Dobbiamo andarcene tutti!» ripeté lei, accorata.
«Proprio tu consigli d’andarcene?» reagì Stefano fissandola dritto negli occhi. «Ti disperi per un riccio arrotato a Montelignano, frigni per quel cane sotterrato laggiù e ora che ci capita l’occasione d’avere prove filmate contro la ciurmaglia che fa sbranare gli animali tra loro, ti tiri indietro? Sei tutta una contraddizione.» Fece una pausa e mirò a ferire con crudo risentimento. «Lo so perché sei voluta venire. T’interessa l’incolumità di Mauro, altro che amore per gli animali!» Con un gesto brusco gli indicò il viottolo che portava alla radura. «Vattene assieme a lui, animalista fasulla.»
Quelle parole colpirono Silvia come una frustata. «È magnifico, non è vero, dare questo tuo bello spettacolo di coraggio davanti a loro?» rispose volgendo gli occhi verso Gigi e Dino. «Ora, che mi hai umiliato ti senti meglio?» aggiunse tornando a fissarlo con uno sguardo colmo di biasimo.
Immusonito Stefano affondò ancora i denti sulla mela.
«Stefano lo sai che cosa penso? Vuoi sfogare il tuo malumore in quest’avventura e fare il superuomo perché non mi sono fidanzata con te!»
Indignato, lui tornò a fissarla. «Che accidenti vai dicendo Silvia?»
«La verità! Ti facevo più maturo.»
«Io più seria!» Stefano non evitò il manrovescio di si Silvia sebbene si fosse accorto che lo stesse per colpire.
Seguirono istanti di silenzio durante i quali avvertirono soltanto il fruscio della vegetazione per la vivace brezza che si era alzata.
«Dio mio, Stefano», disse Silvia portandosi una mano alla fronte «scusami.»
«Scusami tu», le rispose lui riuscendo a fissare quelle iridi che somigliavano a gocciole di pece.
«Stefano, lo so che cosa provi ma cerca di rimanermi amico o dovrò rinunciare a frequentare il circolo per evitarti la mia presenza. Lo capisci?»
Lui annuì chinando il capo.
Silvia gli prese la mano e la tenne tra le sue stringendola forte. Rivolse lo sguardo a Mauro come per chiedergli di capire il gesto.
Ipocondrie del Bizza
Le ombre si erano allungate e il caldo torrido allentava la morsa; un vispo venticello muoveva i ginepri e i sottili rami delle ginestre.
I cinque amici ingannavano il tempo raccontandosi di buffi fatti, come del tizio quarantenne che per gelosia aveva percosso la sua convivente ottantasettenne, o quella volta che a Gigi qualcuno aveva rubato il sellino della bicicletta.
«Sentite che cosa combinò Fabrizio, al Bizza, qualche anno fa», disse Stefano. «Gli fece credere che stesse male e lui timoroso com’è delle malattie… insomma quella volta Fabrizio esagerò perché mancò poco che ad Arturo prendesse davvero un infarto.
«Sentiamola», disse Dino «tanto temo non si vedrà anima viva.»
«Il Bizza», cominciò raccontare Stefano «dopo cena, va sempre a fare una passeggiata di un paio di chilometri per favorire la digestione, attivare la circolazione e tenere sotto controllo colesterolo e trigliceridi. Conoscendo la sua abitudine, Fabrizio e alcuni conoscenti comuni si appostarono sulle strade che lui era solito fare. Il primo a parlarci fu un certo Corrado che, in compagnia di un’altra persona, finse d’uscire da un bar proprio mentre lui passava.
“Ciao Bizzarri.”
“Ehi là Corrado.”
“Vai a cena?”
“Già fatto. Chi vuol viver sano e lesto, mangi poco e ceni presto ma tu, piuttosto, che ci fai da queste parti? Solitamente non sconfini dal tuo rione.”
“Mi trovo qui per caso. Ho incontrato questo mio conoscente e gli ho offerto il caffè. Posso offrire qualcosa anche a te?”
“Non bevo mai dopo cena ma dimmi: il soprabito che ho accorciato a tua moglie, come le sta?”
“Perfetto.” Corrado si fece serio e lo fissò. “Ti senti bene Arturo?”
“Diamine, certo che sto bene! Perché?”
“Sei pallido ma forse è l’effetto dei lampioni”
“Sicuramente sarà la luce artificiale a rendermi pallido perché mi sento proprio in forma», rispose Arturo «anzi di solito avverto qualche doloretto al ginocchio destro ma stasera nemmeno quello mi fa male. E poi la faccio sempre chiara come acqua di sorgente e chi piscia chiaro va in culo al medico.”
“Sono contento per te. Ora ti saluto Bizza e buona passeggiata.”
“Ciao Corrado, stammi bene e rammenta “chi vuol vivere sano e lesto, mangi poco e ceni presto”.
«Più avanti», seguitò Stefano «il Bizza avvertì il rombo di un motorino alle spalle. Un certo Fiorenzo lo affiancò accostandosi al marciapiede.»
“Ciao Arturo come ti butta?”
“Puzzolente. Non potresti spegnere quel cazzo di diavoleria inquinante che hai sotto il sedere?”
“Certo scusami.” Preoccupato l’amico si mise a fissarlo.“Arturo che ti è preso?”
“Perché”
“Sei pallido come la polpa di un ravanello sbucciato.”
«Al Bizza iniziarono a tremare le gambe. Sì diresse frettolosamente verso casa ma Fabrizio sbucò da una cantonata procedendo spedito come fosse in ritardo a un appuntamento. Per rendere l’incontro casuale lasciò che fosse Arturo a riconoscerlo.»
“Ciao Fabry dove fuggi?”
“Bizza ti chiedo scusa ma non posso trattenermi. Sono già in ritard… Santo Cielo, che hai fatto? Sei pallido come un morto.”
“Fabrizi, non mi sento bene per nulla…”
“Vuoi che ti accompagni a casa? Ho posteggiato qui vicino.”
“E il tuo appuntamento?”
“Di fronte ad un amico che ha bisogno? M’importa assai.”
«Insomma, ragazzi, il Bizza era in pieno attacco di panico quando Fabrizio lo scese all’uscio di casa. Vedendoselo comparire davanti, cereo come una candela, sua moglie telefonò al centodiciotto. Rimase all’ospedale una settimana per accertamenti.»
«E dopo?» chiese Mauro.
«Sua moglie fece il diavolo a quattro, quando seppe che tutto aveva avuto origine da uno scherzo di Fabrizio. Trascorsero mesi, prima che consentisse al marito di tornare a frequentare il circolo. Dovette rimandarcelo per lo sfinimento di essere subissata da raccomandazioni, proverbi, avvertimenti e consigli.» Fabrizio evitò di ripetere scherzi pesanti, da quella volta. Lo scorso primo aprile s’è limitato a mandare la sua segretaria al distributore per comprare due flaconi di “strongpush”, un additivo da mettere sul serbatoio dell’auto, che consentiva di triplicare il chilometraggio per ogni litro di benz… »
Dino lo interruppe portandosi un dito al naso. «Ascoltate!»
«Sembrano fuoristrada. Forse ci siamo.» Stefano tagliò alcune ramaglie, le mise sull’orlo del cornicione per formare un riparo mascherante e si sdraiarono bocconi.
Orrore
Per i cinque ragazzi, acquattati sul lastrone, iniziò una trepida attesa. Trascorse un quarto d’ora prima che riuscissero a scorgere le fronde d’erica muoversi in direzione della radura.
Un uomo sui trent’anni raggiunse lo spiazzo. Indossava pantaloni e panciotto grigioverdi. Posò alcuni strani oggetti e rientrò nella macchia. Passò qualche istante prima che sbucassero altri individui. Alcuni tenevano al guinzaglio corto altrettanti cani di grossa taglia, ai quali era stata messa la museruola. Gli animali furono legati alla base d’alcuni arbusti, quindi incappucciati con neri bacucchi.
Appostato tra Gigi e Silvia, Stefano iniziò a filmare per riprendere il volto degli individui che discutevano al centro della radura. «Silvia», le disse sottovoce «guarda, c’è il Boria, il figlio del proprietario dell’albergo Astor. Gira voce che stia dilapidando il patrimonio familiare col gioco d’azzardo.»
«Sua moglie è nostra cliente», disse Silvia, sbalordita. «È una signora così a modo. Come riesce a convivere con una persona tanto crudele?»
«Sicuramente è all’oscuro di tutto.»
Intanto i cani latravano e scuotevano la testa per tentare di liberarsi del copricapo.
Due uomini rientrarono tra la vegetazione ma l’individuo riconosciuto come il Boria rimase assieme a un tipo tracagnotto. Infilarono robusti guanti da lavoro, tubolari di stoffa imbottita sugli avambracci e iniziarono a sferzare i lombi dei loro animali con cinghie di cuoio. L’uomo della videocamera iniziò a filmare la scena guardandosi dal riprendere il volto dei complici. I cani reagirono con ringhi e uggiolii di dolore. I due individui trascinarono le bestie in mezzo allo spiazzo. Le sferzarono ancora perché si caricassero di maggiore aggressività, quindi tolsero i cappucci e le liberarono.
Col tartufo arricciato e le zanne scoperte, i due animali si azzuffarono.
Il cane più robusto era un molosso dal pelo fulvo e il muso nerastro; l’altro, un pitt-bull anch’esso dal colore scuro, aveva una corporatura minore rispetto all’avversario ma possedeva mascelle poderose.
Il pitt-bull si avventò alla gola del molosso che evitò di essere azzannato con un rapido scarto, quindi contrattaccò addentando l’avversario sulla groppa. Una chiazza rossa macchiò il manto del pitt-bull che reagì mordendo il molosso al labbro superiore.
Il molosso, addentato su una parte dolorosissima del corpo, emise un guaito ma la sua mole lo aiutò a liberarsi dell’avversario con un poderoso scuotimento che gli provocò una profonda lacerazione. Grondante sangue azzannò il pitt-bull sulla parte superiore del collo. La sua presa fu così salda che, scotendo il muso per sbranare, sballottò l’avversario come fosse di pezza.
I due cani continuavano a dilaniarsi, aizzati dagli aguzzini.
Impietriti, Dino e Gigi fissavano il massacro.
Con la nausea alla bocca dello stomaco, Stefano seguitava a filmare.
Mauro sosteneva la fronte di Silvia che vomitava, inginocchiata sulla parte più bassa del cornicione.
Rigettata l’albicocca, Silvia non ebbe più nulla da rimettere. Dalla bocca non le usciva che un filo d’acidi gastrici ma i rigurgiti continuavano a provocarle violente compressioni dello stomaco.
«Mauro, vai a prendere dell’acqua e versamela sul capo», riuscì a dirgli. L’improvvisa sensazione di frescura le fece trarre un profondo respiro e, mentre si ripuliva la bocca con la manica della camicia, un furore incontenibile le infiammò la mente. Balzò in piedi e corse verso l’imbocco della viottola che scendeva al rivo.
I forestali e la fuga dei balordi
«Dividiamoci. I forestali ci hanno scoperto», urlò uno degli scommettitori clandestini.
Fumo e fiamme si sollevarono in punti diversi della macchia e un uomo si precipitò sul prato, gesticolando.
A Stefano furono chiare le manovre: i due figuri, rientrati nella macchia, fungevano da pali pronti ad appiccare il fuoco agli sterpi per creare un diversivo qualora fossero stati scoperti. Con la coda dell’occhio vide Silvia imboccare il viottolo e Mauro correrle appresso. Consegnò la videocamera ai compagni, raccomandò loro di non muoversi e si lanciò all’inseguimento ma Gigi e Dino, infilate roncole e videocamera nello zaino, si precipitarono a seguirlo.
«I forestali, altroché se avevano preso sul serio la telefonata! Volevano cogliere quella gente sul fatto ma il diversivo del fuoco li ha colti di sorpresa.»
Precipitandosi giù per il sentiero, Gigi saltò una sporgenza rocciosa. «Dino, risparmia il fiato e corri.»
L’incendio
Un agente dei forestali sbucò sullo spiazzo brandendo un bastone ma nel tentativo di separare gli animali perse l’equilibrio e cadde malamente.
Ci fu un concitato vocio a valle della macchia in fiamme. «Rossi, avvisa il comando e i pompieri. Ispettore, ispettore! Rossetti, hai visto l’ispettore?»
«Ha aggirato il fuoco per raggiungere la radura.»
«Cristo Santo, rischierà di rimanere circondato dalle fiamme. Tentiamo di raggiungerlo.»
«Non ce la faremo. L’incendio si sta propagando troppo in fret…» Interrotta da violenti colpi di tosse, all’agente la voce morì in gola.
La macchia si stava trasformando in un rogo.
Con il volto contratto in uno spasmo di dolore, il forestale si trascinò verso il bastone per prepararsi a respingere l’assalto del molosso ma la bestia aveva esaurito il suo furore aggressivo. Mollata la gola dell’avversario, guardava l’agente come per chiedergli aiuto. Dal suo labbro lacerato un filo di bava rossastra colava sull’erba.
Il pitt-bull giaceva a terra esanime, la gola squarciata.
Accortosi che il forestale non poteva inseguirlo, l’uomo rimasto liberò il suo cane e provò a strattonarlo ma la bestia, atterrita, si oppose puntando le zampe.
Nel momento in cui Stefano superava Mauro, Silvia balzò oltre la mota del fosso, irruppe sullo spiazzo, raccolse il randello e si scagliò contro l’uomo.
Il tizio intravide una massa piombargli addosso. L’urto fu così violento che lo fece cadere bocconi.
Rapida come un felino, Silvia s’inginocchiò sulla sua schiena e gli passò il bastone sotto la gola.
Per quell’innata fedele affezione della sua razza anche ai padroni più aguzzini, il cane si apprestò ad aggredirla.
Inchiodato al suolo dall’orrore della morte imminente, l’aguzzino aveva serrato gli occhi.
Silvia premette il bastone contro il pomo d’Adamo dell’uomo. Lo sentì emettere un grido strozzato. Un baleno di padronanza le impedì d’imprimere lo strappo verso l’alto e spezzargli il collo. Si sentì afferrare per le ascelle e scaraventare di lato.
Stefano strappò il legno dalle mani di Silvia e si apprestò a usarlo per parare l’attacco della bestia ma l’animale corse a infilarsi nella macchia. Si avvicinò con cautela all’altro cane per slegarlo. La bestia si fece liberare senza dar segni aggressivi e scappò.
Tremante Silvia si gettò tra le braccia di Mauro. «Stavo per ucciderlo.»
«No, Silvia, non stavi per uccidere nessuno. Calmati.»
«Ragazzi», urlò Stefano «dobbiamo andarcene o rimarremo intrappolati dal fuoco.»
Le fiamme, alimentate dalla brezza, avevano preso un fronte ampio e crepitavano a ridosso della radura.
Dino riconobbe i gradi dell’agente. «Ispettore, lo aiuto a rimettersi in piedi?»
«Vuoi di dove sbucate?»
«Ci farà le domande al comando. Ora dobbiamo filare se non vogliamo abbrustolire. Ce la fa a camminare?»
«Non credo di farcela.»
Gigi e Dino lo aiutarono a sollevarsi reggendolo per le ascelle.
L’agente appoggiò il piede sul terreno ma una fitta lancinante gli salì al cervello.
Il fuoco aggrediva la vegetazione ai lati della radura.
«Ispettore ci passi le braccia attorno alle spalle e provi a camminare.»
Il forestale mosse un passo ma un’altra fitta gli fece stringere i denti. «Ho qualcosa di fratturato al piede, lasciatemi qui.» La tensione nervosa lo sottoponeva a una profusa sudorazione. Sulla sua divisa si formavano chiazze scure.
Per contrasto con la drammatica situazione, la macchia in fiamme sapeva di buono. Quella fragranza di legna bruciata faceva pensare all’intimità della vigilia natalizia passata al canto del focolare.
«Invece verrà con noi, ispettore.»
«Vi rallenterò. Non ce la farete.»
«Cammini a gamba zoppa o come cazzo le pare, ma qui, lei, non ci rimane. Gigi, Dino, fategli da stampelle. Forza, proviamo ad allontanarci.»
Fecero qualche passo e compresero quanto la fuga sarebbe stata esasperatamente lenta.
L’ispettore suggerì di prendere su per il fosso. «La vegetazione è meno fitta nell’alveo», disse.
«E il cane ferito?» chiese Silvia.
«Le metta un guinzaglio e provi a farlo camminare ma se non riuscisse a seguirci dovrei abbatterlo.»
Cominciarono a risalire il letto del rivo. Dietro, il fuoco invadeva la radura attraversata da lucertole e topi in cerca di scampo. Le vampe avvolsero la carogna del pitt-bull e presero l’aire su per il viottolo che portava al cornicione.
Cenere e residui di vegetali carbonizzati cadevano sui fuggiaschi ma, nonostante la brezza spingesse il fuoco nella direzione di fuga, la colonna riuscì a guadagnare terreno.
Stefano roteava la roncola per aprire un varco, precedendo tutti. «Dobbiamo avvisare i vigili del fuoco. Silvia, chiamali.»
«Non preoccupatevi. Lo avranno già fatto i miei colleghi», disse l’ispettore.
Silvia guardò il cane proseguire barcollando. «Ragazzi, telefono a Livio e lo avverto che ci vengano incontro con i soccorsi.»
«Digli di raggiungere il chilometro diciotto della provinciale che porta al Passo della Torraccia e che… lascia stare lo faccio io.» Stefano premette nervosamente i tasti del cellulare. «Livio?»
«Stefano, vigliacca boia, Fabrizio mi ha detto tutto. Siete partiti di testa?»
«Per le rampogne ci sarà tempo. Abbiamo il fuoco appresso, stiamo trasportando un agente della forestale con un piede probabilmente fratturato, e con noi c’è un cane malconcio. Ci occorrono un’ambulanza e un veterinario.»
«In quale posto dobbiamo venire e cercarvi razza di sconsiderati?»
«Raggiungete il cartello del chilometro “diciotto” sulla provinciale che porta al Passo della Torraccia. Duecento metri più avanti c’è un deposito degli attrezzi per la manutenzione viaria. Le nostre macchine sono posteggiate sul parcheggio antistante. Ora stiamo risalendo un fosso.»
«D’accordo. Tenete i cellulari accesi.»
Il gruppo dovette superare un tratto in cui, fuoriuscendo dal terreno, enormi lastroni comprimevano il ruscello in un’angusta fenditura. Più su masse di rovi assediavano l’alveo così dappresso che i sarmenti, sporgenti da entrambe le sponde, giungevano ad aggrovigliarsi. I tralci erano così cedevoli che Stefano doveva strapparli con le mani, graffiandosele a sangue.
Meno resistente di Dino, Gigi chiese di fermarsi per riprendere fiato.
Il fumo aveva formato una cappa grigiastra talmente densa da oscurare il sole ma all’interno dell’alveo era possibile respirare ancora.
L’agente ansimò, tossì e scosse il capo. «Ragazzi, lo conosco questo posto. Tra poco la pendenza del fosso aumenterà. Dovete lasciarmi. È l’unica cosa ragionevole che possiate fare.»
«Faremo quel che potremo, fino all’ultimo», gli disse Stefano rivolgendo un’incitante occhiata ai compagni.»
«Gigi lo sostituisco io», disse Mauro. «Dino, te la senti di sostenerlo ancora?»
«Per ora, sì.»
«Silvia vai ad aiutare Stefano. Il cane e lo zaino, passali a Gigi.»
«Sbrighiamoci!» li incitò Stefano. Si voltò indietro, vide che la bruma di calore faceva sembrare il pendio della collina come un miraggio vacillante. «Il fuoco guadagna terreno!»
Per infondere speranza al forestale, Mauro si sforzò di sorridergli, si fece mettere il braccio di traverso le spalle e serrò la mano alla sua.
Le asperità si facevano più difficili a mano a mano che avanzavano. I macigni costringevano Mauro e Dino a sorreggere l’agente in modo che rimanesse con ambedue i piedi sollevati. Era un procedere estenuante. Intanto il fronte dell’incendio si era fatto così vicino da poterne avvertire le vampe.
Volute grigiastre di fumo oscuravano la luce solare, si avvitavano sollevandosi dalle fiamme e invadevano l’alveo obbligando i fuggitivi a tossire.
Stefano vedeva l’ombra della paura sui volti dei compagni. Scorse un arbusto d’erica avvampare. Il senso di colpa che provava, per averli coinvolti in quella sciagurata avventura, gli infondeva tanta energia da menare la roncola con impeto furibondo. Si fece aiutare a caricarsi il forestale sulle spalle e comandò agli altri di andare avanti per aprire il varco. Affrontarono un tratto d’alveo, fatto di pietra levigata, ricoperto di un sottile strato di mucillagine che rallentò ancora di più il loro avanzare.
L’agente notò che, più salivano, più il rigagnolo si arricchiva d’acqua. «Ragazzi, forse ho trovato l’unica soluzione. Ascoltatemi: tra poco troveremo una briglia. L’acqua ha scavato un avvallamento lì sotto. Mettetemi nella gora e scappate.»
Qualche focolaio li stava sopravanzando. Davanti a loro c’era rimasta un’esigua striscia di macchia che non ardeva, ma il fronte del fuoco si stava congiungendo.
«Eccola, la vedo!» gridò l’agente. «È quella costruzione in cemento che sembra un muretto rialzato ai lati.» Sollevò gli occhi al cielo. “Dio fa che nella gora ci sia acqua sufficiente a coprirmi sotto la cascatella” Larga un paio di metri, e con l’acqua alta una quarantina di centimetri nel punto più profondo, la pozza c’era.
«Rotolatevi nell’acqua e buttatemi dentro, presto!»
«Per respirare come farà? Le occorrerebbe una cannuccia», disse Dino.
«Mi arrangerò in qualche modo. Sbrigatevi a bagnarvi e correte. Più su c’è una cascatella artificiale come questa. Superatela e risalite l’alveo fino a che troverete una stradina di servizio. Dovrete seguirla dal lato in salita. Vi porterà sulla provinciale. Ora bagnatevi e scappate.»
I ragazzi rimasero dubbiosi se abbandonarlo.
«Cristo, scappate!» urlò il forestale.
Si rotolarono nella gora, posarono l’agente nell’acqua, bagnarono il cane, lo issarono oltre la briglia e si aiutarono a superarla. Avanzarono badando solo a non ferirsi gli occhi. L’impeto col quale Stefano si buttava tra l’intrico dei vegetali, era furioso. Lingue di fiamma si alzavano davanti a loro. Il fumo acre che sollevava frammenti di foglie annerite, come sciami di brune farfalle, li costringeva a procedere a capo basso orientandosi seguendo il rigagnolo. Raggiunsero un tratto d’alveo libero dai rovi. Per una ventina di metri procedettero quasi a passo di corsa. Poi la vegetazione tornò a intricarsi. Dietro, il fuoco aveva aggredito la vegetazione attorno alla briglia. Davanti a loro focolai si stavano unendo.
Stefano si fermò per valutare la situazione, sollevò il pesante cane e si lanciò nello stretto spiraglio tra due ali di fiamma. Superò il focolaio sollevando faville.
Gli altri lo seguirono e riuscirono ad allontanarsi dal rogo.
La bestia si adagiò sul ruscello, sfinita. A valle del suo corpo l’acqua si colorava di rosa.
Silvia si chinò per cercare di rianimare il cane ma l’unica cosa che potesse fare era di massaggiarle il corpo con energia.
Mauro si avvicinò a lei tossendo. Aveva il viso sporco di vegetali inceneriti e gli occhi mezzi chiusi. «Silvia, dobbiamo andare», le disse ansimando. «Il cane sta morendo. Non possiamo fare più niente.»
«Non voglio lasciarlo qui.»
Stefano irruppe tra i due, prese la bestia in braccio e incitò gli amici. «Forza, scappiamo o faremo la fine della pancetta affumicata.»
Avvistarono la seconda briglia. Superarono anche quell’ostacolo e riuscirono ad allontanarsi dal mantello del fumo. Via, via che risalivano il rivo si faceva più ricco d’acqua fino a che dovettero procedere sguazzando.
Giunsero in vista della pista. Il guado s’incuneava tra la vegetazione della proda, s’immergeva nel torrentello, poi proseguiva risalendo l’altra sponda. La percorsero per qualche centinai di metri prima di lasciarsi cadere, stremati, sotto un olmo.
«… ci dirigiamo verso il luogo che ci avete indicato. Siamo preceduti da due campagnole della forestale e un’ambulanza. Come state?»
«Sfiniti ma bene», rispose Stefano. «Gigi ha una lieve scottatura sul collo e i capelli un po’ strinati.»
«Il forestale?»
«Lo abbiamo portato con noi finché s’è potuto, poi… »
Livio rimase col fiato sospeso.
«… ci ha ordinato di metterlo in una pozza quando ha capito che rischiavamo di essere raggiunti dalle fiamme se insistevamo a portarcelo appresso.»
C’era acqua a sufficienza per coprirlo?»
«Sì se rimaneva rannicchiato.»
«Allora ci sono molte speranze che sia riuscito a cavarsela», disse Livio, rinfrancato. «La sterpaglia avvampa ma l’incendio dura poco. Ora ti faccio telefonare dai forestali. Informali sul loro collega e descrivi il luogo in cui vi trovate, ah, aspetta, ti passo Fabrizio.»
«Stefano?»
«Ciao Fabry.»
«Ciao un cazzo! Vi prendo a calci compresa Silvia, quando vi trovo.»
«Non avrai avvertito i suoi genitori, spero.»
«No razza d’incoscienti. Passo e chiudo.»
I cinque amici decisero di andare incontro ai soccorsi dividendosi la fatica di trasportare l’animale. Finalmente udirono il rombo dei motori.
A Mauro, che per ultimo era toccato reggere il cane, sentirsi liberare dal pesante fardello, provocò un brusco allentamento della tensione. La campagna prese a ruotare come fosse salito su una giostra, sentì i piedi perdere consistenza col terreno e vacillò. L’ultima cosa che vide, prima di riprendere i sensi sull’ambulanza, fu Silvia che gli tendeva le braccia nel tentativo di sostenerlo.
CAPITOLO QUINDICESIMO
Le ali della famiglia
Quando Silvia e Mauro rincasarono, dopo essere stati accompagnati all’ospedale per una visita di controllo, Riccardo che solitamente si esprimeva con pacatezza perfino durante i rimproveri, quella volta alzò la voce e sciorinò loro una dura ramanzina nonostante fossero conciati da far paura. «Ragazzi, aprite bene le orecchie: considero i sentimenti importanti quanto il cibo e non ho dubbi che vi amiate, quindi non vi ostacolerò, ma azzardatevi a fare un’altra bravata come quella di oggi e se vorrete seguitare a incontrarvi non avverrà in questa casa. Intesi?»
Nonna Martina assentiva al rimbrotto. Tiziana rintuzzava i lucciconi, Patrizia e Lorenzo assistevano alla brontolata stando perfino attenti a muovere le suole delle scarpe.
«Sono stato chiaro giovanotto?»
Mauro aveva gli occhi tanto irritati dal fumo, da doverli tenere socchiusi. Esausto e pallido, scostò le braccia dai fianchi e annuì, tossì, poi parlò a voce fioca. «Ha ragione signor Riccardo. È colpa mia signora Tiziana. Scusatemi. Si avviò all’ingresso a passi fiacchi.
Silvia, avvilita, lo guardava senza sapere che fare.
«Mauro, ostrega, dov’è che vai?»
«Torno a Sanfabiano.»
«Così conciato?» Riccardo lo raggiunse e gli impedì di aprire la porta. «Fa minga il pirla né? Telefona ai tuoi per avvertirli che rimani a dormire da noi. Hanno chiamato parecchie volte per sapere dove ti fossi ficcato.»
Intimorito da quegli occhi chiari scoccanti fulmini, lui gli rispose ansando: «Signor Riccardo…»
«Signor Riccardo un’ostrega! Telefona!»
«Ho… ho perso il cellulare.»
«Oh’Ssignur, chiama da qui no? Lo spinse verso il telefono fisso e gli allungò la cornetta. «Cerca di non far prendere un colpo a tua madre. Ti spiegherai domani.»
Mauro compose il numero con la mano tremante. «Mamma?»
«Mauro, Santo Cielo, è dalle due che manchi da casa. Tuo padre ha un diavolo per capello. Il tuo telefonino dava libero ma non rispondevi. Abbiamo provato a chiamarti a casa di Silvia ma non c’eravate. Erano preoccupati anche i suoi genitori.»
«Mamma, ascolta…»
«Hai la voce fioca. Da dove telefoni?»
«Da casa di Silvia. Siamo andati a fare una gita ma ho avuto un guasto alla macchina e di sabato pomeriggio è stato un problema trovare un meccanico disposto ad aggiustarla. In ogni modo non era niente di grave.»
«Perché non rispondevi al cellulare?»
«L’avevo lasciato in macchina. Siamo scesi parecchie volte per cercare l’officina. Mamma, mi fermo a dormire a casa di Silvia.»
«Mauro me la stai raccontando giusta?» Nadia avvertì il figlio tossire. «Cos’è questa tosse? Mauro, Santa Vergine, sei stato coinvolto in un incidente?»
La fronte del figlio s’imperlò di sudore per la tensione d’improvvisare. «No, non preocc… » Cercò di soffocare un colpo di tosse senza riuscirci, poi si vide togliere di mano la cornetta.
«Signora Nadia?»
«Lei chi è signora?»
«Sono Tiziana, la mamma di Silvia. Mauro è davvero in casa nostra. I miei figli gli hanno chiesto di rimanere a cena. Poi intendono organizzare una sfida a monopoli e di sicuro faranno le ore piccole. Rimarrà a dormire da noi.» Le proferì una battuta scherzosa per tranquillizzarla. «Stasera, signora Nadia, le abbiamo sequestrato il figlio.»
«Signora Tiziana», disse lei sentendo l’ansia attenuarsi «se avesse dell’aspirina gliela faccia prendere perché, di sicuro, Mauro ha viaggiato col climatizzatore troppo alto, poi ha sudato per cercare il meccanico.»
«Mi farò premura di dargliela di persona, non si preoccupi. Ci farebbe piacere se veniste a trovarci.»
«Sarebbe un dovere se Silvia e Mauro dovessero rimanere insieme.»
«Sono convinta che ci contenderemo i nipoti.»
«Lo spero. Silvia è un tesoro di ragazza. Signora Tiziana, gliene siamo grati. Ora ci sentiamo più sereni e mi raccomando: l’aspirina.»
Tiziana riagganciò la cornetta e il suo sorriso scomparve. «Andate a farvi la doccia! Mauro, consegna i tuoi abiti a Lorenzo dopo che ti sarai spogliato, perché sono da buttare. Riccardo, dovresti andare in negozio a prendergli qualcosa della sua taglia.»
«Grazie mamma.» Compunta, Silvia si avvicinò per baciarla ma Tiziana si ritrasse di un passo.
«Grazie un corno. Vai a fare la doccia e dopo fila a letto, incosciente!»
Tenerezza paterna
Movendosi adagio, perché i figlioli avevano sviluppato in Tiziana la capacità di dormire solo con la parte della mente non destinata alla percezione dei rumori, Riccardo riuscì ad alzarsi senza fare scricchiolare il letto. Avvertì il respiro lento e nasale della moglie. Sul quadrante della sveglia le lancette fluorescenti segnavano le due e venti. Calzò le ciabatte, brancolò per cercare la vestaglia da camera e urtò la poltroncina. Il silenzio della notte ingigantì il rumore. Attese immobile di udire il fruscio delle lenzuola. Non gli pervennero rumori. Annaspò per trovare la maniglia della porta ma non poté impedire che cigolasse. “Accidenti, sono anni che mi riprometto di metterci un po’ d’olio.”
Tiziana rimase immobile, gli occhi aperti e gli orecchi tesi.
Riccardo si soffermò presso la camera degli ospiti e accostò l’orecchio alla porta. Avvertì il leggero russare di Mauro. Notò un chiarore filtrare dalla porta della camera di Silvia. Tre tocchi. «Silvia?» mormorò.
«Entra, Babbo.» Silvia giaceva supina, le braccia sollevate e le mani tra il capo e il cuscino a sostenersi la nuca. Ricompose la giacchetta del pigiama e si sollevò a sedere sul letto.
«Immaginavo non saresti riuscita a dormire. Come ti senti Calimero?»
«Ho la gola che pare me l’abbiano raschiata con la carta vetrata. E mi bruciano gli occhi.»
«Ti vado a prendere il collirio?»
«L’ho già messo due volte.»
«Un po’ di latte caldo?»
«Sì babbo.»
Poco dopo Riccardo tornò dalla figlia con un bicchierone di latte fumante, si accomodò sul bordo del letto sorridendole compassato. «Ci ho messo tre cucchiaini di miele. Ti farà bene alla gola. Attenta che scotta.»
«Babbo, l’ho fatta arrabbiare molto la mamma?» gli domandò Silvia cercandogli la mano.
Riccardo annuì indirizzandole uno sguardo burbero che non riuscì a reggere a lungo. «Sono venuto alla chetichella per non svegliarla ma non credo d’avergliela fatta.»
«Babbo, ascolta: ho cercato di convincerli a rinunciare ma non hanno voluto sentire ragioni. Mauro aveva promesso che li avrebbe accompagnati e non se l’è sentita di fare la figura di quello che si tirava indietro.»
“Ne so qualcosa, Calimero.”
«Ci sono andata per badare che non gli accadesse nulla.»
«E per poco non morivate tutti.»
«Lo so ma ora ti voglio confidare che credo d’aver fatto una cosa giusta. Mi sentivo più viva in quel momento che quando mi costringo a fare la voce gentile per convincere qualche piattola di cliente a comprare.»
«Saremmo morti di crepacuore se ti fosse successo qualcosa di grave.»
Lei distolse gli occhi dal padre. Rimase pensosa, come se la sua mente si fosse distaccata dalla drammatica vicenda. «Babbo che cos’è l’amore?» gli domandò tornando a fissarlo.
«Calimero, perché mi fai questa domanda proprio adesso?»
«Semplice: sono innamorata.»
«Credo che nessuno sappia che cosa sia se non perché faccia avvertire un’istintiva attrazione verso un’altra persona e il bisogno di rimanere soli a condividere il fascino di un tramonto o ascoltare una canzone: consolarsi l’un l’altro. L’amore è comunanza d’intenti, richiamo per reciproci odori, misteriose empatie, condivisione dell’esistenza.»
«Babbo ti piace Mauro?»
«Che sia un bravo ragazzo, ne sono convinto.»
«Mi sentirei morire se lo perdessi.»
«Ecco che cos’è l’amore, Silvia.»
«Immagino quanto abbia sofferto Rossana, l’ex fidanzata di Mauro, quando lui ha fatto la sua scelta.»
«Mi hai accennato che litigavano continuamente. Lasciarsi è stata una fortuna perché, per loro, probabilmente, non sarebbe bastato contemplare un tramonto assieme, per vivere una serena vita di coppia.»
«Forse non avrebbero litigato più se si fossero sposati», arguì Silvia. «La signora Merini, quella che ci fa mettere i suoi due bassotti nello stanzino delle pulizie, quando viene a fare acquisti, mi ha raccontato che lei e suo marito litigavano in continuazione prima di sposarsi. Poi tutto è filato liscio: nemmeno un’alzata di voce in quindici anni di matrimonio. Me l’ha rivelato lei stessa. «Già», rispose il padre facendo spallucce «per mettere al mondo quattro figli l’intesa deve essere stata molto forte. Probabilmente convivere sotto il medesimo tetto e condividere ogni minuto della loro vita, ha fatto loro capire quante cose avessero in comune. Sono gli enigmi dell’esistenza, Silvia: l’eccezione a conferma della regola, per ora.»
Lo sguardo di Silvia si tramutò in un punto interrogativo. Guardò il soffitto come per far intendere al genitore che gli avrebbe fatto un’altra domanda, forse un po’ indiscreta. «Babbo, perché hai terminato con l’espressione “per ora”? Che cosa volevi farmi presentire?»
«L’ho usata?» rispose Riccardo mostrando stupore.
«Babbo non fare il nesci.»
«Ah, sì, l’ho detta», ammise lui battendo ripetutamente le palpebre. «Silvia, il percorso dell’esistenza è come un’arteria stradale nella quale è possibile trovare molte deviazioni. Bisogna stare accorti, tenere sempre la barra dritta e se uno sbanda…» Riccardo ebbe un momento d’esitazione.
«Se uno sbanda?» lo incalzò Silvia.
«Occorre sperare che l’altro abbia il buon senso d’aiutare la persona amata a rimettere in carreggiata la propria esistenza e sperare che funzioni.»
«Babbo, questa tua riflessione mi suona strana», sondò Silvia scrutando il padre.
«Era soltanto una considerazione generica.»
Come se il buon senso glielo avesse suggerito, Silvia non insisté. Rimase assorta, lo sguardo a vagare sulla cornice di gesso che decorava il soffitto. «Babbo, noi commercianti siamo la fanteria del sistema capitalistico?»
«Perché dici questo, adesso?»
«Riflettevo su tante cose prima che venissi. Tu hai creduto a un sistema sociale più giusto.»
«Ci speravo quando immaginavo tuo nonno cadere dall’impalcatura malandata di quel cantiere maledetto. Negli anni 70 la passione della gioventù mi faceva apparire a portata di mano il cambiamento radicale della società. Invece il sistema del libero mercato ha dimostrato di perpetuarsi come la fenice. Qualche giorno fa ho letto una barzelletta che ironizzava sull’illusione che vivevamo. Sul bagnasciuga di una spiaggia d’Acapulco, il figlioletto di un ricco imprenditore dice al padre, immerso nell’oceano fino al collo: “Papà, perché ridi?”
“Penso a quei sessantottini che dicevano: il capitalismo ha ormai l’acqua alla gola.»
Silvia fissò il padre con un’espressione adorante e colse un disincantato sorrisetto sulle sue labbra.
«Ci facevamo propugnatori del libero pensiero contro ogni dogma», continuò Riccardo. «Credevamo possibile un mondo nel quale gerarchie e ingiustizie potessero essere descritte nei libri di storia come retaggio del passato, invece molti contestatori di allora costituiscono la gerarchia attuale. Nemmeno c’è da biasimarli perché questo sistema assorbe tutto. Ora vuoi che ti spieghi un paradosso Silvia?»
«Quale?»
«Se il mondo avesse subito un capovolgimento, avremmo dovuto imporre le idee d’uguaglianza con la tirannia e l’ostracismo per ostacolare la natura umana che rimarrà sempre individualista. Ora ti svelo un’altra cosa, Silvia: in noi c’era già il seme delle costrizioni che avremmo potuto imporre alla gente se fossimo riusciti ad abbattere il capitalismo. Ci obbligavamo a un comportamento duro, come se il buon rivoluzionario non dovesse esprimere sentimenti di tenerezza. Rammento un certo Salvatore, figlio d’emigrati meridionali, al quale non importava osannare Mao e la rivoluzione culturale. Era un po’ malinconico, amava le poesie di Leopardi perché descrivevano sensazioni intime. Un giorno mi fece leggere alcuni pensieri con cui esprimeva la gioia che aveva provato ad accarezzare un agnello, ma per non essere tacciato di fiacchezza intellettuale volle che gli promettessi di non rivelare ai compagni che cosa scrivesse.»
«Non leggevate poesie d’amore?»
«Forse in privato ma nessuno degli organizzatori di riunioni si sarebbe azzardato a venire in assemblea con un volume di poesie di quel genere. Era difficile vedere una coppia teneramente abbracciata e non ridevamo quasi mai. Eravamo, accigliati, con barba incolta e reprimevamo le carezze come se rappresentassero la manifestazione di un decadente retaggio borghese. Portavo tua madre in luoghi in cui difficilmente potevamo essere visti da qualche compagno, quando volevamo farci le coccole, perché il sentimentalismo era considerato una romanticheria che indeboliva le aspirazioni collettive rivoluzionarie. A differenza degli attivisti impegnati, parecchi altri studenti approfittavano di quei momenti per andare in camporella, come si dice al nord, invece di partecipare alle assemblee o a sfilare nei cortei. I poeti, Silvia, piacevano, ma erano letti per lo più quelli che affrontavano questioni sociali o che avevano scritto: “Come potevamo noi cantare, con il piede straniero sopra il cuore, tra i morti abbandonati nelle piazze, sull’erba dura di ghiaccio.” Oppure: “Potranno tagliare tutti i fiori ma non fermeranno la primavera”. Belle espressioni che ricordavano momenti terribili di storia recente o idee di speranza analoghe a quelle che avrebbero scritto altre persone soggiogate da noi se fossimo riusciti a divenire “liberatori”. Contraddizioni, nient’altro che paradossi: rivoluzioni messicane che nulla hanno sovvertito. Silvia, è enormemente difficile rovesciare l’economia degli stati, capovolgere la cultura, le abitudini della gente e trasformare le società da oppressive a socialmente libertarie, perché tutto ciò implica reprimere l’egocentrismo. I primi cristiani erano animati da una fede fondata sulla fratellanza, la bontà e volevano mutare il dispotismo dell’impero romano in un mondo di pace ma hanno dominato con una tirannia più spietata dei loro predecessori, pagani e persecutori, dopo aver preso le redini del potere. In ogni caso i moti degli anni sessanta e settanta favorirono conquiste sociali come il divorzio, lo statuto dei lavoratori e le nuove leggi sul diritto di famiglia che hanno liquidato il patriarcato. Purtroppo questi progressi saranno rosicchiati da questo sistema economico basato sull’esaltazione del profitto e delle speculazioni borsistiche. L’economia mondiale sarà gestita da finanzieri speculatori che giocheranno con le economie delle nazioni come noi, da bambini, giocavamo a batti muro con le figurine dei calciatori. I trafficoni di miliardi torneranno a rubare il tempo della vita e il lavoro diverrà sempre più precario. La democrazia sarà sempre più limitata, perché essa è monca, se si manifesta soltanto con il parlamentarismo; diviene compiuta solo garantendo un lavoro dignitoso a tutti. Ora dubito sia stato un bene l’implosione dell’Unione Sovietica. Purché fossimo rossi pure noi, criticavamo quella forma di socialismo perché lo giudicavamo oppressivo. Forse avremmo dovuto riflettere di più su ciò che disse a suo tempo, il giornalista Indro Montanelli. Pur anticomunista che fosse, sostenne che il socialismo sovietico ebbe il grande merito di avere abolito le classi sociali. Questo sarebbe dovuto bastare per insegnarci qualcosa perché la soppressione dei ceti era stata la conquista popolare più importante di tutta la storia dell’umanità, finita alle ortiche con l’accusa che l’uguaglianza appiattiva tutto e deprimeva le capacità umane imprenditoriali. Invece era il primo passo verso una società veramente libera ed egualitaria. L’errore dell’URSS è stato quello di non aver saputo trasformare gradualmente la loro economia, accettando ciò che di positivo c’era nel libero mercato ma impedendone gli eccessi: un grande errore, Silvia, tanto grave che è costato l’impedimento dell’evoluzione di un processo socialista democratico in molte nazioni del mondo. Ora, senza lo scudo sovietico, temo che nel futuro gli stati il cui sottosuolo si rivelerà ricco di risorse energetiche, saranno oggetto d’aggressioni armate e rivolte pilotate, magari motivate per abbattere i dittatori. Dovremo attenderci tragedie immani, menzogne per giustificare guerre di occupazione e conflitti religiosi come causa o pretesto. Forse nemmeno le torri gemelle sarebbero “crollate” se ci fosse stata ancora l’URSS. È complicato il mondo, Silvia e gli eventi si concatenano alimentandosi a vicenda: il battito di ali di una farfalla in Messico, può scatenare un uragano nelle Filippine. Silvia annuì greve. «Ciumbia, babbo, come t’infervori quando parli di certi argomenti, ma non lo sei altrettanto quando concedi a me e Patrizia metà stipendio rispetto ai nostri dipendenti», lo punzecchiò.
«Sentitela questa!» ribatté il padre. «Non ti bastano seicento euro mensili, un’assicurazione aggiuntiva ai contributi IMPS, tutti gli abiti che ti servono gratis, mangiare bere e dormire? Sai a quanti euro ammonta lo stipendio che ci facciamo io e tua madre? Zero tondo! Quello che ci serve lo preleviamo dal deposito comune.»
«Babbino non farmi quella faccia burbera. L’ho detto per stuzzicare la tua reazione. Sai quanto ti stimi. Sei sempre stato il mio modello di vita.»
«Temeraria di una figliola», ribatté Riccardo. Avvertì un fremito di tenerezza quando sentì lo schiocco del bacio di Silvia in fronte.
«Babbo, Mauro sostiene che tu veda una sorta di continuazione dei tuoi ideali nel mio impegno ecologista.»
«A questo non avevo pensato. Sì, credo che tu abbia ragione.»
«Ora, babbo, ti chiedo una cosa che spesso mi fa pensare: noi, intendo noi come famiglia, siamo egoisti?»
«Tutti i viventi lo sono. Getta i semi a un passero e anche se gliene darai molti di più rispetto a quelli che gli occorrerebbero per sfamarsi, vedrai che cercherà di mettere in fuga qualsiasi altro uccello che si avvicinasse per beccarli.»
«Il passero se ne va quando è sazio e lascia il posto agli altri, invece l’uomo non lo è mai.»
«Hai concentrato i miei lunghi ragionamenti in un’espressione sola.»
«Babbo che senso ha la vita?»
«Diamine che raffica di domande stasera!»
«Questa te la faccio perché ho rischiato di perderla.»
«In parecchi si sono lambiccati per dare un significato all’esistenza ma non lo troveranno perché la vita non ha senso, se non per riprodurci. Quell’intelligenza che ci ha fatto immaginare l’esistenza degli dei o ci ha condotto all’invenzione del Personal Computer, non ci rende dissimili dai moscerini perché l’universo seguiterà a rigenerarsi in cicli perenni e noi non rimarremo che un minuscolo ingranaggio di un insieme smisurato, forse persino destinati a ripetere ciò che abbiamo fatto fino al più insignificante dettaglio. Perciò facciamo le cose giuste in questa vita perché non avremo altre occasioni.»
«Nel senso che se io rompo un bicchiere in questa vita», desunse la figlia Silvia «sarò destinata a romperlo in eterno? E l’incendio al quale siamo scampati si ripeterà su tutte le Terre che verranno, salvandoci sempre per il rotto della cuffia?»
A Riccardo piaceva entrare in certi argomenti con quella figliola e conversare sulle congetture dei misteri universali perché lei lo ascoltava con una tale attenzione da dargli la sensazione che la sua mente assorbisse come una spugna. «Sì, intendevo questo, ma è soltanto una teoria, perciò non prenderla come oro colato perché nessuno sarà mai in grado di dire come stiano realmente le cose. La scienza scopre un tassello di verità? Ebbene da questo tassello si moltiplicano altre incognite e forse è giusto sia così. L’universo non avrebbe più motivo di perpetuarsi, se scoprissimo la verità assoluta. Tuttavia la teoria delle ripetizioni mi piace particolarmente perché spinge ad agire nella direzione del bene. In quanto all’esistenza possiamo indirizzarla verso un percorso positivo se facciamo rimanere accesi i sentimenti e la fiaccola dell’attesa per il conseguimento di uno scopo. Sta qui il segreto della serenità e il vero senso della vita: sentirsi necessari. Nel mio caso il senso della vita è di amare e proteggere la mia famiglia, tenerla unita e mantenere solida l’azienda, assicurare il futuro per voi e lo stipendio ai nostri collaboratori. Adesso ti confido un’altra cosa Silvia: temo che tra una decina di anni l’Europa intera subirà una profonda crisi economica e dovremmo mettercela tutta per salvare il nostro lavoro. Intanto continua a leggere molto perché una persona che legge è superiore.
«Babbo le tue riflessioni sono sagge ma l’umanità si comporta come uno sciame di locuste che mangia il mondo. Arturo, quel nostro socio chiacchierone, sarà un ficcanaso ma in parecchie cose ha ragione. Sostiene che il crollo delle torri gemelle abbia rappresentato il giro di boa della civiltà e i successivi decenni saranno il canto del cigno dell’umanità e non avremmo provocato l’estinzione di tante specie viventi se non fossimo esistiti.»
Riccardo annuì. «Abbiamo perduto la virtù di saperci adeguare alle leggi della natura ed essa si riprenderà quel che noi le abbiamo depredato, ma non pensarci troppo o ti parrà inutile quel poco che fai.»
«Un consiglio simile me l’ha dato anche Mauro.»
Silvia, abbine rispetto perché quel ragazzo è d’indole buona. Siete entrambi intelligenti ma tu possiedi la personalità più forte. Non avere l’arroganza di abusarne. Ogni mente è un universo che ha necessità di possedere il suo spazio per interpretare il mondo. Confronta le tue idee con le sue e ti sentirai arricchita. Capisci quel che intendo dire?»
«Sì babbo non immagini il piacere che mi faccia sapere che già ti senti di apprezzarlo perché Mauro è un ragazzo sensibile, forse anche un po’ gracile. Dovrò proteggerlo.»
«Senza dominarlo, ti ripeto. Lo so che ne saresti capace. La natura ti ha dato tutto per riuscirci e spero che possa usare la tua personalità anche per aiutare i tuoi fratelli a mantenere salda l’azienda perché temo che tra una decina di anni l’economia europea subirà una crisi profonda e l’Italia sarà il fanalino di coda.»
Silvia annuì, sorseggiò il latte, fece per parlare ma esitò.
«Calimero che cosa c’è?» la sollecitò il padre.
«Oggi stavo per uccidere un uomo.» Silvia temette di avere provocato un terremoto nell’animo del genitore ma notò che la stava guardando senza turbamento. «Babbo, vedere quei poveri animali massacrarsi, era uno strazio. Ho raggiunto la radura e mi sono buttata addosso a un uomo con tutta la rabbia che provavo. È caduto bocconi, mi sono inginocchiata sulla sua schiena e gli ho premuto un bastone contro il pomo d’Adamo. Sarebbe bastato uno strattone per ucciderlo, ma il pensiero che avesse moglie e figli m’è balenato nella mente prima che lo facessi. Avevo allentato la presa quando Stefano è intervenuto per impedirmelo.»
«Non lo avresti comunque fatto se lui non fosse intervenuto.»
«No ma il desiderio di ucciderlo m’è ribollito dentro.»
«Niente “ma”. Quell’istante di ragione ha fatto una differenza infinita. Calimero, ti ha giovato confidarmi quell’episodio perché se te lo fossi tenuto dentro, aspettando che il tempo lo cancellasse dalla tua mente, ti avrebbe roso come un tarlo.»
Silvia respirò profonda, come per liberarsi dai residui di un intenso travaglio mentale. Si sentì rincuorata dalla grande mano del padre che gli accarezzava i capelli. «Babbo, mi abbracci?» Sentì la veste da camera del padre emanare un buon odore di essenza naturale alla lavanda. Sua madre ne metteva sempre negli armadi per evitare che gli abiti prendessero il sentore del rinchiuso. Si sentì prendere da quel groppo alla gola che presagiva il pianto. Si sforzò di cacciare indietro le lacrime trattenendo il battito delle ciglia. Il decennio che ormai la divideva dalla fine dell’infanzia, le sembrò non fosse trascorso.
Riccardo strinse la figlia al petto, avvertì le sue fattezze di donna matura e gli venne di rammentarla con le gambette zampettanti, tenute a ranocchietta e il sorriso che già le traspariva dagli occhi dopo che Tiziana le aveva cambiato i pannolini. «Non raccontarglielo alla mamma quel fatto. Me lo prometti?»
«Sì Babbo.»
«Ora prova a dormire.»
«Non credo di riuscirci stasera.»
«Troveremo il rimedio.» Riccardo si recò a prendere il flacone di sedativo che teneva nel suo studiolo. Aveva preso un po’ di quelle gocce dopo la morte dei suoceri, periodo in cui, pure le vendite erano calate. L’atto più corretto sarebbe stato quello di licenziare l’ultima arrivata: Morena Valdes, un’extracomunitaria ecuadoregna. Fortunatamente la crisi era rientrata e del sedativo n’era avanzato più di mezza boccetta.
«Babbo, sei andato a vedere se Mauro dorme?»
«Come un macigno e russa pure.»
«Oh cribbio!»
Risero in sordina.
«Rimani finché le gocce non faranno effetto?»
«Certo.»
Quell’intimità fece rammentare a Silvia quando il babbo la faceva addormentare narrandole di boschi abitati da creature meravigliose, che costruivano le loro dimore con diamanti, smeraldi e rubini, di pianeti con due soli in cui mai si faceva notte, ma la fiaba che preferiva era quella di Brunella e l’uccellino verzellino. «Babbo, rammenti quando mi rifiutavo di dormire se prima non mi avevi raccontato la novella di Brunella e l’uccellino verzellino?»
«Eri una birba.»
«Me la racconti?»
«Silvia hai vent’anni.»
«Che importa? Così le gocce mi faranno effetto più rapidamente.»
«Nel frattempo sarò io a perdere il sonno.»
La figlia agitò le gambe, proprio come faceva da bambina quando lui, cadente per il sonno, si sentiva scrollare perché terminasse la fiaba. «Dai babbo! M’immedesimavo tanto in Brunella che mi pareva d’essere lei.»
«Mettiti giù però.»
Silvia si sdraiò supina, tenendo sempre ben stretta la mano del padre.
«C’era una volta una graziosa contadinella di nome Margherita, ma aveva gli occhi così neri e i capelli tanto bruni che le genti del contado la chiamavano Brunella. La sua famiglia era molto povera e non possedeva specchi, così Brunella, civettuola come tutte le giovinette, l’unico modo che aveva per rimirarsi e pettinarsi, era di specchiarsi sull’acqua limpida di una piccola sorgente, ai margini del bosco. Un bel mattino di fine agosto, tiepido e soleggiato, stava pettinando la sua lunga chioma bruna,quando….» Riccardo osservò le palpebre della figlia divenire pesanti, la stretta della sua mano allentarsi. Si soffermò ancora un po’ per accertarsi che respirasse senza affanno. Poi spense la luce.
Segreti
«Silvia non riusciva a prendere sonno?» si preoccupò Tiziana.
“Mi pareva impossibile che dormissi. Le ho portato un bicchiere di latte e un po’ di gocce, quelle che mi aveva prescritto il dottore.»
Ora, con la famiglia tutta in casa e ognuno sul suo letto, Tiziana si sentiva rincuorata. «Rico, sei andato a vedere se Mauro dorme?»
«Tossisce un po’ ma va tutto bene.» Riccardo accarezzò la moglie sul collo, nei punti in cui la pelle incominciava a incresparsi, ma la ragazza dallo sguardo dolce e risoluto insieme, e le iridi così brune che quasi si fondevano con le pupille, c’era ancora. «Rammenti il giorno che ti tolsi da sotto l’idrante della celere?»
Lo credo bene. Stavo per affogare. Poi quante ce ne hai fatte passare a me e a tua madre.»
«Vi ho ripagato con gli interessi però.»
«Vieni qua rivoluzionario.» Se lo portò al seno e gli accarezzò la calvizie che seguitava a conquistare nuovi territori. «Che cosa gridavate contro i padroni? Ah sì: “Una risata vi seppellirà.” Volevate battere il capitalismo con urla e colla per manifesti. In quanto a ridere… beh avevate sempre la faccia tetra. Il colmo è che sei diventato pure proprietario di un’azienda.»
«Rammento, come fosse ieri, quando ci nascondemmo in quel magazzino di granaglie. “Questa me la faccio” pensai mentre battevi i denti», rispose Riccardo.
«Sentitelo quali scopi aveva il contestatore.» Tiziana accarezzò il viso al marito e gli sussurrò. «Rico lo tolgo il pigiama?»
Riccardo annuì respirandole sul collo. Accarezzò i seni ancora prosperosi, baciò quei capezzoli poppati davvero perché, dopo il parto, a Tiziana veniva tanto latte da provocarle fitte al petto. Erano stati i momenti più intimi della loro vita di coppia.
«Avresti avuto i figlioli da quella stilista se non fossi venuta a Milano.»
«Non era il tipo da farsi una famiglia.»
«Come diamine facevi a stare con lei? Era così magra che pareva anoressica e il suo fiato era puzzolente per il fumo di sigaretta già di mattina presto.»
«Non riuscivo a vedere sbocco per noi. A malapena potevo permettermi una cinquecento usata. Per comprare di che vestirmi e non chiedere i soldi a mia madre, andavo a fare il lavapiatti da un pizzaiolo. Poi quando la conobbi, sì insomma, si dava da fare per trovarmi un lavoro. Tizzy, eravamo così distanti.»
«Dovevi venire da me. Te l’ho proposto tante di quelle volte...»
«Avevo il problema di lasciare mia madre sola, i tuoi non mi vedevano di buon occhio e poi c’era anche l’orgoglio.»
Lei gli accarezzò il viso cogliendo la ruvidità della barba di un giorno. «Non ho mai dubitato che dentro di te ci fosse un ragazzo in gamba. È questo che mi ha dato la forza di non mollare.»
«Tizzy le donne come te sono lo zucchero del mondo.»
«Rico non farmi perfetta.»
«Che vuoi dire?»
«Non so se faccio bene a confidartelo.»
«Sii sincera con te stessa e ciò che dirai sarà accolto con saggezza e tolleranza.»
Tiziana non poteva perdere l’occasione di quel momento per liberarsi da un senso di colpa che ancora le stava acquattato nell’animo. Di quell’episodio il tempo era riuscito soltanto a sfumare il rimorso che, quand’era più acuto, le aveva fatto provare la sensazione di sentirsi figura estranea alla sua famiglia. «Lo ricordi quel ragazzo con i capelli lunghi che frequentava il bar d’Orazio, una decina d’anni fa? Quello che faceva il ciclo-cross?»
«Certo. Veniva spesso in negozio a comprare qualcosa, specialmente se uscivo col furgone. Pensavo le piacesse una delle nostre collaboratrici, poi un dubbio cominciò a rodermi quando Orazio incominciò a comportarsi in modo strano: guardava me, poi lui come volesse farmi capire qualcosa. Un giorno tornai di proposito in negozio prima del previsto. Eravate nel settore dell’intimo uomo. Sopra il banco c’erano le scatole dei calzini e in mezzo le vostre mani che si stringevano.»
Tiziana avvertì una stretta allo stomaco.
«Sobbalzasti quando ti accorgesti della mia presenza. Prendesti un calzino, glielo avvolgesti sul pugno e fingesti di misurarglielo. Tentai di persuadermi che poteva essere stata un’impressione ciò che avevo visto ma eri arrossita troppo. Allora ripensai ai tuoi scatti nervosi che attribuivo alla stanchezza, ai problemi del negozio. La sera eri irritabile, rimproveravi i ragazzi per un nonnulla e con me eri scostante, come se ti dessi fastidio.»
Tiziana gli premette la fronte sul petto come se in quel modo potesse meglio sostenere la vergogna che affiorava.
«Così la bella mora che mi aveva tolto dalle grinfie dell’evve moscia, si era presa una sbandata per un ragazzo di vent’anni.»
«Ventitré.»
«Sai che differenza!» Riccardo fece seguire l’esclamazione da una domanda espressa con un tono calmo. Com’è cominciato?»
«Lo trovavo spesso al bar d’Orazio che leggeva articoli sportivi nei quotidiani. Un giorno, mentre tornavo, mi sono sentita chiamare. Era lui che mi riportava il metro a nastro. Forse mi era caduto di tasca per tirare fuori il borsello. Abbiamo cominciato a salutarci, scambiarci qualche parola e…» Senza guadare il marito Tiziana gli posò la mano sul viso. «Rico perché te lo sei tenuto dentro?»
«A che cosa sarebbe servita una scenata se non per rompere qualcosa tra noi, per sempre? Preferii affrontare la questione a modo mio. Il giorno dopo andai da Orazio, chiamai in disparte quel ragazzo e gli dissi che se si fosse azzardato a riavvicinarti gli avrei rifilato più calci di quante pedalate avrebbe dovuto dare per varcare l’alpe. Fortuna volle che non si fosse fatto più rivedere. Non era scontato che mollasse. Non immagini quanto abbia sofferto a vederti penare perché lui era scomparso. Perfino i tuoi genitori si erano accorti che qualcosa non girava per il verso giusto. Sperai con tutto me stesso che il tempo, come per tutti i dispiaceri della vita, facesse il galantuomo. Fortuna ha voluto che sia andata così. Con un po’ di saggezza e tanta pazienza ho salvato la mia famiglia.»
Tiziana respirò profondamente, si liberò dell’aria con un lungo sospiro e disse: «Rico, che cosa mi sarà preso?»
«Ciò che può capitare a tutti. Le infatuazioni sono moti dell’animo incontrollabili che s’insinuano tra le crepe dei sentimenti perché volersi bene, lo diamo per scontato ma l’abitudine incancrenisce la vita di coppia col passare degli anni, e confiniamo il sesso nel ripostiglio della scopa, fino a ritornare a essere quasi estranei. Forse quel che ti è accaduto è dipeso pure da me perché le persone mandano segnali quando vivono certe esperienze ed io ero così preso dai problemi della ditta che avevo cessato di prestarti attenzione come avrei dovuto. La colpa non è mai tutta da una parte.»
Tiziana aveva le lacrime agli occhi quando sollevò lo sguardo.
«Rico, a quel ragazzo io non ho tenuto soltanto la mano…»
«Basta così Tizzy.»
«Dio mio, perdonami.»
«Non scomodare Dio e metti in pace te stessa. Io ti ho scusato dieci anni fa perché quando ricevi tanto bene da una persona, non puoi condannarla se commette uno sbaglio. Riccardo le fece scivolare la mano nella conca dei glutei e glieli accarezzò con tenerezza.
«Rico forse il coraggio confessartelo m’è venuto perché Silvia è ancora tra noi.»
«È possibile. Adesso dove sei Tizzy?»
«Qui con te.»
«Soltanto questo conta.»
Quella sera Tiziana, con la mente che pareva si fosse distesa sopra una nuvola, giunse all’orgasmo che il suo Rico aveva appena iniziato a sciogliersi dentro di lei.
Acquerello familiare
Mauro fu destato da un sordo malessere alle articolazioni, come lo avessero rinchiuso in una botte e fatto rotolare giù per una scarpata. Avvertì la necessità di andare in bagno. Urtò un piccolo oggetto per cercare l’interruttore della lampada da comodino. Rimase disorientato nel vedere mobilia non familiare. Dovette mettere a fuoco la mente per capire dove si trovasse. Si alzò a sedere sul letto. Notò un tappetino arabescato e, appena fuori esso, tre frammenti di terracotta. Che scalogna! L’oggetto sarebbe finito sullo scendiletto senza frantumarsi se ci fosse caduto sopra. Si sentì prendere da quel disagio che si avverte quando capita di rompere qualcosa in casa d’altri. Congiunse i cocci, li premette affinché rimanessero connessi e poggiò la statuetta sul comodino. Raffigurava un nanerottolo. Una piccola sveglia digitale segnava le tre e trentacinque. Reprimendo lo stimolo di tossire si diresse verso la porta. La lasciò aperta perché la luce gli consentisse di orientarsi senza accendere quella del corridoio e procedette con circospezione per evitare rumori. Tornò in camera e vegliò più di un’ora per pensare come giustificare la rottura della statuetta. Infine scivolò in un sonno agitato.
Battibecchi quotidiani
Un clangore destò Tiziana. Sua suocera armeggiava con le pentole ed era meglio controllare quel che combinasse. Corse in cucina col pigiama ancora addosso e raccolse un coperchio.«Mamma, che stavi cercando?»
«Non trovo lo sbucciapatate.»
«È nel cassetto delle posate.»
«Già porcu diavul bèstia! Tiziana si è ammaccato il coperchio?»
«Non preoccuparti e siediti. Sarò da te tra un po’.» Tiziana tornò nella zona notte e si fermò in ascolto alle porte delle camere. Dischiuse quella di Silvia e accese la luce, un istante. La vide dormire profondamente. Da quella degli ospiti gli giunsero ripetuti colpi di tosse. Bussò. Tre tocchi leggeri. «Mauro?» Aprì di uno spiraglio. Scorse che si agitava nel sonno. Si affrettò a tornare in camera, si vestì di fretta e scosse il marito. «Rico svegliati.»
Lui emise un grugnito di protesta, aprì un solo occhio e si stiracchiò. «Se ghè Tizzy?»
«Mauro dorme ancora ma continua a tossire.»
«Lo credo bene, il fumo che è stato costretto a respirare non era un balsamo.» Riccardo tornò a coricarsi in un fianco ma Tiziana aprì la persiana per sollecitarlo ad alzarsi.
«Tirati su Rico. Mauro tossisce troppo insistentemente.»
«Nadia non preoccuparti. All’ospedale l’hanno visitato. Chiameremo anche il nostro medico per farti stare più tranquilla, e rimarrà a pranzo da noi. Lo accompagnerò a casa oggi pomeriggio. Silvia guiderà la sua macchina. Di quel che è successo, è meglio parlarne con i suoi genitori.» Per dimostrargli quanto poco si preoccupasse, le insinuò la mano sotto la gonna.
Lei si sottrasse al marito, gli diede un buffetto e si attardò a sistemare la biancheria in un cassetto del canterano per accertarsi che cominciasse a vestirsi. Raggiunse la camera di Silvia e trovò la figlia desta. «Tesoro, come stai?»
«Un po’ intontita.» Silvia provò un piacevole brivido nel sentire la mano fresca della mamma poggiarsi sulla sua fronte.
«Ti brucia ancora la gola?»
«Un po’ ma meno di ieri. Mamma sei ancora arrabbiata?»
Tiziana la fissò accigliata, addolcendo poi il cipiglio con un bacetto sulla fronte. «Mi hai fatto prendere un bello spavento, birbona. Non riprovarci più se ci tieni alla mia vita.»
«Stanotte hai ruzzolato col tuo Rico?» le disse Silvia facendole un sorrisetto malizioso.
Tiziana non trovò di meglio che sistemarle il letto per darsi un contegno. «Figuriamoci se ti sfugge qualcosa.»
«Lo avete fatto per la gioia di avermi ancora con voi. Lo so.»
«Incosciente.»
«Mamma ti voglio bene. Mauro s’è già alzato?»
«Credo dorma ancora. Tossisce molto. Mi preoccupa un po’.»
«Cribbio! Ora gli preparo la colazione.»
«Ci penso io. Rimani ancora un po’ a letto.»
«Non sono ammalata.»
«Ubbidisci e non andare a destarlo intesi? Lascia che riposi ancora. Tra poco il babbo chiamerà Enrico per farlo visitare anche da lui. Mauro rimarrà a pranzo con noi e lo accompagnerete a casa tu e il babbo, oggi pomeriggio.»
Silvia provò a fare iuh, uuh, ma riuscì a emettere soltanto un suono fioco.
Più tardi Tiziana rientrò in camera di Silvia con un vassoio colmo di fette biscottate e una ciotola di caffellatte. Rimase a farle compagnia fino a che non le giunse il vocio di Patrizia e Lorenzo che bisticciavano.
«Ragazzi, che state combinando?»
«Uffa, mamma, ogni domenica mattina mi tocca andare a prendere il giornale. Mai una volta che ci vadano Patrizia o Silvia.»
«Ho da preparare l’impasto per i crostini e la macedonia», replicò la sorella «e devo mettere in ordine la mia stanza.»
Lorenzo si frugò in tasca per accertarsi di non avere lasciato in camera la chiave del suo privatissimo cassetto, quello in cui le sorelle avrebbero fatto carte false per darci una sbirciata.
«Anche la mia?»
«Soltanto a una condizione: tira fuori i cantucci.»
«I cantucci?»
«Sì i cantucci e non fare quella faccia Lory. Lo so che li hai nascosti. Non è la prima volta che li sgraffigni.»
«Ragazzi smettetela», intervenne Tiziana «non passa un giorno senza che letichiate.»
«Mamma Lorenzo ha lasciato le briciole dentro la busta dei cantucci», protestò Patrizia.
Lorenzo allargò le braccia ostentando un’espressione innocente. «Patry anch’io ho trovato la busta vuota. Che trovassi un graffio lungo così sulla mia motoretta se non fosse la verità.»
«Patrizia, stavolta ha ragione tuo fratello. Ne ho portato un po’ a Silvia e gli altri li ho messi da parte per Mauro», rispose la madre. «Lorenzo, fai una corsa in pasticceria a prendere qualche brioche.»
«Ti pareva.»
«Devi uscire in ogni caso per comprare il giornale al babbo.»
«Mamma tu le aggiusti sempre.»
«Lorenzo, ubbidisci!»
«Uffa mamma!»
«Vieni in soggiorno.»
Poco dopo Lorenzo si avviava all’uscio fischiettando, segno evidente che qualcosa aveva intascato. «Mamma, suggerisci a Patrizia di fare colazione con pane integrale, latte doppiamente scremato e allungato con parecchia acqua o tra un paio di mesi le toccherà usare due seggiole per sedersi.»
«Lori, esci o ti rompo il manico della scopa sul capo» gridò la sorella.
Riccardo, che si radeva tenendo la porta del bagno socchiusa, ridacchiò per la vitalità che regnava in casa. Aveva sempre considerato come una sorta di sinfonia i battibecchi dei figlioli, anche se, talvolta, doveva fare la voce grossa per riportare ordine. Cominciò a canticchiare una vecchia canzone di Celentano. “«E da un pugno chiuso una carezza nascerà, ra, ra, ra, ra… » Con la coda dell’occhio vide la porta aprirsi e comparire Mauro, pallido e scarmigliato.
«Signor Riccardo, le chiedo scusa. Pensavo che il bagno fosse libero.» Il pigiama di Lorenzo, largo di spalle e lungo di maniche, completava l’impressione che dava della cattiva cera.
«Maestro Falaschi come ti senti?»
«Come fossi finito sotto un treno», gli rispose rauco.
«Vieni. Ho finito. Mia moglie ti sta preparando la colazione.»
«Silvia?»
«È ancora in camera sua. Tra poco verrà il nostro medico di famiglia a visitarti e pranzerai con noi. Ti accompagneremo a casa oggi pomeriggio.»
«Vi ringrazio per la gentilezza ma ce la faccio a guidare.»
«Rimarrai qui, invece, e non discutere. Basta il mancamento di un attimo per far succedere l’irreparabile e poi intendo parlare con i tuoi genitori della faccenda nella quale vi siete ficcati.» Nell’uscire dal bagno lo colpì con un leggero pugno sulla spalla. «Avvisa i tuoi tra un po’, intesi?»
Tenero erotismo
Il medico si era appena accomiatato da casa Colombo, che Silvia bussò alla camera degli ospiti. «Mauro?»
«Entra Silvia.»
Lo trovò chino che stava allacciandosi un paio di scarpe sportive nuove di zecca. «Che cosa ti ha detto il dottore?»
«Dovrò riguardarmi per qualche giorno. Mi ha suggerito di fare gargarismi con la camomilla, prescritto uno sciroppo per la tosse e un collirio al cortisone per gli occhi. «Silvia mi sento le gambe di cencio.»
«Sei pallido infatti.»
«Tu come stai poetessa?»
«Bene a parte la fioca. Accipicchia mi hai pure chiamato poetessa.» Silvia gli sistemò premurosamente il colletto della maglietta. «S’intona con i tuoi occhi questo colore.»
Mauro non aggiunse altro per il timore di accentuare quella faccia da zombi che immaginava avere. «Grazie di tutto Silvia.»
«Cribbio ci mancherebbe, sei il mio ragazzo.»
Mauro non poté evitare di soffermare lo sguardo sulla T-shirt azzurra che aveva messo e le trasparenze che facevano intravedere il reggiseno.
Accortasene Silvia reclinò il capo con una mossa leziosa. «Stamattina ho messo un reggiseno di pizzo nero. Vuoi vedere com’è sexy?» Sollevò la maglietta, mise in mostra il reggiseno, poi trasse in basso una coppa mettendo in mostra una procace mammella che madre natura aveva modellato alla perfezione.
Lui diede una rapida occhiata alla porta socchiusa, poi le trasse in alto la coppa.
«Mauro l’ho messo per te.»
«Sì ma tu stavi andando oltre.»
«Cribbio sei o non sei il mio fidanzato?»
« Poteva entrare qualcuno dei tuoi…»
«Ho dato le spalle alla porta per poterlo fare.» Silvia fece spallucce e prese a sbaciucchiarlo incrociandogli le mani dietro il collo «Così ti va bene pudico?»
«Silvia devo rivelarti una cosa.»
«Non avrai da far saltare fuori un’altra spasimante, spero. Di là c’è una scopa nuova di zecca e il tuo stato malconcio non m’impedirà di usarla.»
«Stanotte…»
«Stanotte che cosa?»
«Ho ho rotto la statuetta. Quella sul comodino. Mi sono svegliato pensando fossi a casa mia e, insomma l’ho urtata per cercare l’interruttore della luce, però si può aggiustare. Basta un po’ di colla. Guarda non si è scheggiata. Ho rimesso assieme i pezzi e nemmeno sembra rotta.»
Silvia sorrise scotendo il capo. «Quanto sei sciocco. È un oggetto senza valore.»
«Mi è dispiaciuto lo stesso. Dall’espressione saggia sembra che rappresenti il nano Dotto. Vorrei portarla a casa per aggiustarla.»
«Se ti fa piacere ma ora non pensarci.»
«Tua madre è ancora arrabbiata?» le chiese Mauro.
«La burrasca è passata. Ti prepara il latte col miele e i cantucci.»
«Tuo padre mi ha invitato, anzi è meglio dire: mi ha imposto di rimanere a pranzo con voi.»
Gli occhi arrossati di Silvia brillarono. «Conosco già il programma. Oggi ti accompagneremo a casa noi, perciò abbiamo ancora diverse ore per stare insieme. Guiderò io la tua macchina.» Premurosa gli sistemò la maglia sulle spalle. «Sai Mauro? Se Shakespeare avesse concesso a Giulietta e Romeo genitori come i nostri, invece di suicidarsi, avrebbero generato otto figli come Brunella e l’uccellino verzellino.
«Come chi?»
«Sono i protagonisti di una fiaba che mi raccontava mio padre. Brunella era una contadinella bella ma povera e Verzellino un principe tramutato in uccellino da un sortilegio. Ti ho già fatto capire come sia andata a finire.» Silvia rise fioca, gli afferrò la mano con un gesto deciso e lo trasse verso la porta. «Dai, vieni. Faccio un bel bricco di camomilla. Faremo gargarismi e impacchi sugli occhi.»
Rose rosse
I Falaschi avevano appreso la vicenda con moderata apprensione perché se in un fatto drammatico nulla di tragico accadeva, la mente coglieva sollievo più che apprensione. Le famiglie avevano invece esaminato quali implicazioni la vicenda potesse avere perché i figlioli sarebbero stati convocati in tribunale come testi chiave, e quando si era chiamati a deporre per atti criminosi, nasceva la preoccupazione di minacce e ritorsioni. Sulla strada del ritorno, Silvia era divenuta inquieta.
«Silvia cos’è che hai?»
«Babbo a Mauro voglio un tale bene che mi fa stare quasi male.»
«Lo sai che non mi ero accorto», le disse il padre dandole un buffetto sul naso.
«Quella tosse non vuole passargli.»
«Va là che non muore. Tra un paio di giorni si sarà rimesso.» Riccardo vide la figlia frugare nella borsetta e trarne il cellulare. «Silvia, che stai facendo?»
«Gli telefono.»
«O’Ssantambroes! Non lo vedi da dieci minuti.» Riccardo tolse l’aggeggio dalla mano di Silvia e le lanciò un’occhiata severa. «Silvia non esagerare o questo coso te lo butto dal finestrino, e che diamine, per un po’ di tosse.»
«Babbo ho la sensazione che… non so come spiegartelo. Ho troppo di tutto. Sono una bella ragazza, sana, ho una famiglia agiata e stupenda, ho trovato un ragazzo al quale voglio un bene dell’anima, ieri ci siamo salvati per il rotto della cuffia e…»
«E adesso non può arrivare che il peggio. È questo che pensi?»
«Sì. Sono tanto felice da sentirmi minacciata.»
«Oh, porca vacca cusa l’è questo fatalismo? L’amore ti ha rincretinito?»
La figlia si agitò sul sedile, poi si mise a guardare fuori del finestrino.
«Silvia?» Vedendola pensierosa, Riccardo le diede un colpetto sul braccio. «Silvia, mi ascolti?»
Inquieta lei frugò nella borsetta e tolse una sigaretta dal pacchetto.»
«È proprio la medicina giusta per lenire la gola irritata» la redarguì il padre. «Metti via quella robaccia e smettila di essere così apprensiva. Sei sempre stata di una logica cristallina. Una delle prime cose che ti ho insegnato è di mettere la ragione innanzi a tutto. In questo caso il buon senso dovrebbe suggerirti che le vicende brutte, a non cercarle come avete fatto voi, non capitano spesso. Se vuoi il conforto delle statistic… testa di rapa!»
«Scusami Babbo. Mi sono fatta prendere da un momentaccio. Sono proprio una testa di rapa.»
«Non dicevo a te Silvia. Quell’imbecille ha tagliato la curva in un modo che c’è mancato poco ci venisse addosso. Cribbio la vita l’è propi nient. Telefona a Mauro.» A Riccardo parve sbalorditiva la velocità con la quale Silvia selezionò il numero.
«Mauro?»
«Silvia vi è successo qualcosa?»
«Ti ho chiamato per sapere come stessi.»
«Nella mia strada non s’è ancora dissolto il fumo di scarico della vostra auto. Sto come poco fa.»
«Volevo sentirti. Non ti fa piacere?»
«Certo però non devi essere così apprensiva.»
«Mauro ho voglia d’abbracciarti e strizzarti. Domattina ti penserò quando i miei gerani saranno ancora bagnati di rugiada.»
Suo padre sollevò gli occhi al parasole. Cribbio com’è fantastica la gioventù.”
«Silvia», le disse Mauro «non t’imbarazza dirmi queste cose con tuo padre vicino?»
«Perché dovrebbe? Forse sarà un po’ geloso. Mauro stasera torno a trovarti.»
Riccardo si sorresse la fronte.
«Rimarrai a casa tua invece», la rimproverò Mauro.
«Non sono stanca.»
«Silvia fai come ti ho detto. Ti telefono dopo cena.»
«Allora vengo martedì sera.»
«Scordatelo. Di sera non verrai più. Non mi va che torni a casa, di notte. Verrai la domenica mattina e tornerai per l’ora di cena, oppure il sabato sera e dormirai da noi. Vengo io da te giovedì sera.»
«Perché non martedì?»
«Ho una partita d’allenamento.»
«Ti strapazzerai. Il dottore ti ha consigliato di stare riguardato.»
«Il portiere non deve correre.»
«Lo so ma… accidenti al torneo!»
«Ci hai ripensato?»
«Sì. Sono troppo egoista?»
«Siete tutte così.»
«Ah Mauro? Il cellulare nuovo te lo regalo io. Mi penserai stasera prima d’addormentarti?»
«Spero di ricordarmelo.»
«Sentitelo quant’è stronzetto. Il mio spirito lascerà il corpo e verrà a tirarti le coperte se non lo farai.»
Riccardo scosse ancora il capo e rallentò per agevolare un veicolo che lo sorpassava.
Un quarto d’ora dopo, a Silvia l’attacco acuto di mal d’amore era passato e quando, raggiunta la periferia cittadina, il padre aveva voltato a destra piuttosto che imboccare la via di casa più corta, aveva esclamato: «Babbo di qua si va al cimitero.»
«È l’unico posto in cui i fiorai siano aperti nei giorni festivi. Riusciremo a trovare qualche rosa?»
«Penso di sì.» Silvia domandò poi al padre con un’aria sbalordita: «Vuoi comprare delle rose? Chi è la destinataria?»
«Tua madre.»
«Io trasecolo. Alla mamma hai dimostrato amore in mille modi ma non con i fiori, che io ricordi.» Fissandolo, si portò una mano al petto. «Babbino mi sta venendo il batticuore. Non aspetteremo un fratellino.»
«No, Calimero, credo di no.»
«Oh, cribbio, questa poi! Le rose rosse. Me la vedo la faccia della tua Tizzy. Mettici anche il bigliettino.»
«Adesso non esagerare.»
«Te lo suggerisco io che cosa devi scriverci perché sei sempre stato un disastro per le dediche. Un pensiero di quelli semplici. Ah ecco: “Tizzy vorrei essere un’ape se tu fossi un fiore: Il tuo Rico.” Silvia schioccò un sonoro bacio sulla guancia del padre bisbigliandogli in un orecchio quanto fosse divenuto rosso.
«Silvia sei una lenza patentata.»
«E tu sei un padre straordinario e voglio un gran bene a tutti. Per questo mi prendono i brutti pensieri.»
«Adesso non ricominciare né?» Riccardo si fermò a uno stop e si rivolse ancora alla figlia. «Vanno bene due dozzine di rose?»
Silvia lo fissò con uno sguardo indagatore. «Due dozzine? Babbo, è successo qualcosa che non mi vuoi rivelare?»
«Non è successo niente. È solo un pensiero che la mamma si merita.»
«Questa non me la canti giusta, sai?»
Ricordi
A cena, mentre i figlioli desinavano silenziosi, Tiziana aveva rivolto teneri sguardi al marito e tenuto a bada le lacrime aiutando la suocera a tagliare la sua porzione di carne.
Commossa per l’insolita tenerezza tra i genitori, Patrizia aveva insistito che mamma raggiungesse il babbo in soggiorno. Poi si era messa a sparecchiare assieme a Silvia. Persino Lorenzo aveva spazzato meticolosamente la cucina senza battibeccare con le sorelle, il che aveva del miracoloso.
Distraendola, i fratelli Colombo erano persino riusciti a far sì che pure nonna Martina rimanesse in cucina a guardare lo spettacolo di varietà sul televisore di servizio.
Accoccolata sul divano, accanto al marito che, ostentando indifferenza al suo rimuginare, rileggeva distrattamente “I PRINCIPI DELLA MATEMATICA” di Bertrand Russell, Tiziana fissò il vaso di cristallo nel quale aveva collocato le rose. Non riuscì a impedire che le tornasse alla mente quel mattino di fine marzo, quando, tra i veicoli che intasavano il parcheggio di periferia, fece salire in macchina il giovane atleta e si era concessa a lui ritardando l’appuntamento con la parrucchiera. Le riapparve il luogo di suburbio, in cui il ragazzo le aveva indicato d’inoltrarsi, disseminato di profilattici utilizzati e fazzoletti igienici raggrinzati d’umori rinsecchiti. Si rivide nella mezz’ora di amplesso affrettato, di baci convulsi, mentre il cigolio che proveniva dalla poltrona di quell’auto, dove suo marito si era seduto innumerevoli volte, accresceva la percezione dell’inganno. Poi era giunta la sferzata di piacere, aspra come la consapevolezza del tradimento. Rifletté sull’insidia dell’infatuazione che ignorava il senso della ragione, annientava sentimenti che sembravano indistruttibili e distruggeva tutto ciò che si era costruito in una vita d’impegno e fatiche: famiglia, azienda, tutto. E il centro del suo letto coniugale, quei pochi centimetri che la dividevano da Riccardo, si era trasformato in un deserto sconfinato. Il suo Rico era svanito negli occhi grigi, un po’ malinconici di quel ragazzo, nei suoi capelli lunghi che aveva stretto negli istanti dell’orgasmo.
Quanta angoscia aveva provato per la scomparsa del suo giovane amante. Poi a mano a mano che la memoria velava il ricordo della sua figura, il rimorso nei confronti del marito si era fatto sempre più amaro. Il mattino si destava spossata, come se il sonno si fosse accanito a malmenare il suo inconscio anziché darle riposo.
Il ragazzo non lo aveva più veduto. Si domandò quale sensazione, ora, potesse provare se lo avesse rincontrato. Ebbe un tremito.
Congetture
Lorenzo si avviò alla porta d’ingresso con passi tanto felpati da somigliare al gatto Silvestro in caccia del canarino. Fece cenno a Patrizia di raggiungerlo. «Patry, che sta succedendo?»
«Lory, ne so quanto te.»
«Stavo pensan… Patry, mettiamoci fuori dell’uscio.
Lorenzo e Patrizia uscirono alla chetichella e si misero a parlottare sul pianerottolo, bisbigliando come due ladri che discutevano sul modo migliore di forzare una porta.
«Temo che ci ritroveremo tra i piedi un altro fratello. La mamma può ancora?» le domandò Lorenzo.
«In teoria sì, ma dopo tutti questi anni è difficile che mamma attenda un bambino.»
«Patry io l’ho buttata lì?»
Lei espresse la sua perplessità stringendosi il labbro inferiore tra le dita, poi disse al fratello: «Può darsi aspettino qualche conferma. In ogni modo o c’è un marmocchio in arrivo o è una faccenda parecchio strana. Parlane con Silvia.»
«Certo. Ciao Lory e non fare tardi», si raccomandò Patrizia avvertendo una folata di affetto per il fratello. Tornata in cucina, socchiuse la porta e rimase a sbirciare dallo spiraglio. Vide i genitori baciarsi con trasporto. Si tenne il cuore e raggiunse la sorella che metteva in ordine l’acquaio. «Silvia, babbo e mamma amoreggiano come ventenni», disse a bassa voce. «Vieni a vedere.»
Lei sbirciò i genitori sgranando gli occhi. Tornò dalla sorella con un’espressione stupita. «Cribbio comincio a pensare che… niente. Mi pare impossibile.»
«Dimmelo Silvia!» la sollecitò la sorella.
«Parla adagio. Non vorrei che la nonna sentisse: ancora avverte l’erba crescere. Mi viene il dubbio che il babbo abbia combinato alla mamma qualcosa che odora di tresca extrafamiliare.»
«Ho Madonna, pensi che l’abbia tradita?»
«Mah!» esclamò Silvia dubbiosa.
Com’è possibile? Non lo immagino il babbo tradirla e poi li avremmo visti adirati.»
«Avranno fatto di tutto per nascondercelo.» Silvia vide la sorella portarsi le mani al viso, gli occhi che tradivano timore. «Patry, la mia è soltanto una supposizione», rispose Silvia per tranquillizzarla. «Forse manifestano così la loro gioia di avermi ancora tra i piedi.»
«Se invece fosse vera la tua supposizione? Silvia mi tremano le gambe. Morirei se il babbo e la mamma si separassero.»
«Sciocca lei lo avrebbe perdonato se il babbo si fosse concesso una scappatella. E a volte succede addirittura che i sentimenti si rinfocolino, dopo.»
«Solo a volte», disse Patrizia col patema d’animo, «solo a volte», ripeté con un bisbiglio.
Incuriosita di sentirle parlottare, nonna Martina chiese loro: «Patrizia, Silvia, cusa l’è che l’ghè da ciciarà inscì tant? Cià chi, sedas visin a mi.»
«Ora veniamo nonna.»
«Silvia vado a chiedere se vogliono il gelato.» Patrizia si mosse quasi in punta di piedi per andare in soggiorno.
«Il gelato? Un cicinin anca par mi, né?»
«A te lo preparo io nonnina», le disse Silvia coprendo la minuta figura con la massa dei suoi capelli.
«Abbondante, né?»
«Nonna sei una sagoma.»
«Una sagoma vegia Calimero.»
«Vegia un corno. Riesci ancora a leggere senza occhiali. Mangia meno e passerai i cent’anni.»
«Mi ghe provi. Adesso preparami il gelato che vado di là nella mia poltroncina di vimini.»
«Stasera rimaniamo in cucina nonna. Di là, la mamma e il babbo si fanno le coccole.»
«Bèstia che amore.»
«Mamma posso venire?» domandò Patrizia riguardosa.
Tiziana si voltò verso la figlia che esitava ad approssimarsi. «Se puoi venire? Patry che stai dicendo?»
La Figlia notò che due bottoni centrali della camicetta di sua madre erano fuori dell’occhiello. «Lo… lo volete il gelato?»
«Sì certo, vengo a prenderlo.»
«No, mamma, stai comoda ve lo porto io.» Patrizia stava tornando in cucina quando si sentì chiamare dalla madre.
«Patry vieni qua.»
Patrizia, sotto la carezza della mamma, il viso se lo sentì bruciare come quando aveva permesso al suo ragazzo, per la prima volta, di tenerle la mano sotto la gonna in quell’angolo di galleria del cinema Astra. “Accidenti, l’abbiamo, scampata bella e mi sa che la cosa è successa di fresco.”
In cronaca
A Silvia squillò il cellulare verso le ventitré. Livio la informò che molti giornalisti, avendo saputo che gli “angeli custodi” del forestale appartenevano al comitato ecologista contro la costruzione della diga in Valcorniola, avevano chiesto un incontro. Era pertanto urgente organizzare un’altra conferenza stampa.
«Quando?»
«Domattina alle dieci, nella nostra sede.»
«Cribbio, Livio, non posso. Ho da stirare un monte di panni. Busco una brontolata da mia madre.»
«Le parlerò io. Ora scolta: i giornalisti manderanno in onda il servizio nei telegiornali di domani sera e siccome la vostra impresa è divenuta notizia di cronaca nazionale, dobbiamo approfittarne per sollevare ancora la questione della diga. Domattina non potrò esserci ma verranno Fabrizio e Stefano. Ci saranno anche Luigi e Dino. Lo avverti tu Mauro? Contribuirebbe a completare le nostre dichiarazioni.»
«Preferirei non venisse. Ha una brutta faringite e deve riguardarsi.»
«Anche tu sei ancora un po’ fioca.»
«Sto bene non preoccuparti Fabry.»
«Il Bizza mi ha riferito che Stefano ha adottato il cane che avete salvato. Gli ha messo nome Gengis.»
«Non potevi darmi una notizia migliore, Fabry. Grazie per avermi informato.»
«Ora passami tua madre, Silvia.»
L’indomani i telegiornali nazionali diffusero la notizia che un gruppo di giovani ecologisti aveva salvato un ispettore del Corpo Forestale dello Stato, sottraendolo alle fiamme. L’incendio era stato appiccato da balordi sorpresi dagli agenti a svolgere un combattimento tra animali. L’evento era stato descritto nei particolari attraverso le interviste fatte ai ragazzi, i quali avevano raccontato di essersi celati nei paraggi per raccogliere prove e denunciare il fatto. I notiziari evidenziavano che gli ambientalisti appartenevano a un comitato che si batteva per impedire la costruzione di una diga. Una delle reti televisive, già recatasi in Valcorniola, aveva concesso agli ecologisti ampio spazio di parola per realizzare un servizio che sarebbe stato inserito in un programma di seconda serata, dedicato alle emergenze ambientali.
CAPITOLO SEDICESIMO
Passione
Martedì sera, poco prima che i Colombo cenassero, Silvia indispettita dal comportamento del fratello si rivolse alla madre. «Mamma, Lorenzo continua e prendermi in giro. Vai a dirgli di smettere o è la volta buona che le prende.»
«Dov’è?»
«Nel suo bagno a pettinarsi.»
Tiziana si armò di santa pazienza e raggiunse il figlio. «Lorenzo, che cosa hai detto a Silvia?»
«Niente», rispose lui assumendo un’espressione come di chi cadeva dalle nuvole.
«Bugiardo!» reagì Silvia lanciandogli un’occhiata indispettita.
«Lorenzo dimmelo subito», insisté Tiziana.
«Le ho spiegato che il suo cervello sta producendo una droga naturale che si chiama dopamina e che da effetti simili alla cocaina. La dopamina le ha messo in iperfunzione la ghiandola dell’ipofisi che sta producendo ossitocina, la quale ha scatenato in lei un tornado d’ormoni che provoca un incontenibile desiderio di scop… di fare l’amore.»
«Lorenzo smettila di fare lo spiritoso.»
«Mamma è materia di studio. L’ha spiegato il professore di scienze in classe. Il desiderio sessuale è conseguenza di un processo chimico senza il quale la vita si estinguerebbe. Gli ormoni inviperiscono per perpetuare le specie di tutti gli animali e gli umani non sfuggono a queste regole.»
«A me lo hai detto per canzonarmi», reagì Silvia scrutando il fratello in cagnesco.
«E va bene mamma, la canzonavo ma caz… cavoli, non fa altro che parlare di Mauro: Mauro qua, Mauro là, Mauro sotto, Mauro sopra. Porca miseria è una nenia asfissiante. Mi ha fatto un paio di palle che non le reggo più.»
«Lorenzo piantala!» lo redarguì Tiziana indirizzandogli uno sguardo severo.
Lui conosceva bene la grinta con la quale la madre lo aveva fissato. Segnalava il rischio che avrebbe corso se avesse superato quel ciglio. C’era da perderci quindici giorni di mance extra, fuori dello stipendietto mensile.
«D’accordo mamma.»
«Chiedile scusa. Subito.»
«Scusami Silvia.»
«Ora datevi un bacetto.»
Silvia sfiorò la guancia al fratello e gli sussurrò all’orecchio: «Lory sei un grandissimo stronzo.»
Lui ridacchiò e ricambiò il bacio sotto gli occhi indulgenti della madre.
«Ora, Silvia, vai ad aiutare Patrizia a sparecchiare.»
Giunse dal soggiorno il trillo del telefono fisso.
«Vado io a rispondere.» Silvia scattò così repentina che la madre dovette spostarsi per non essere travolta.
«Mamma, che ti avevo detto?» ridacchiò Lorenzo. «Calimero sta producendo dopamina a fiaschi.»
«Pronto?»
Rispose una voce maschile dal timbro giovane. «Famiglia Colombo?»
«Sì?»
«Buonasera signora. Desidererei parlare con Silvia.» Il tono della persona era ponderato e gentile.
«Sono io. Mi dica.»
«Credo che la gente sincera dovrebbe aiutarsi sempre.»
«Lei chi è?» sollecitò Silvia irrigidendosi.
«Una persona alla quale non piacciono i furbi che giocano con i sentimenti degli altri e vanno in giro per il paese a vantarsene.»
Seguì un momento di pausa che a Silvia parve un’eternità.
«Lei si è messa con un ragazzo di Sanfabiano che si chiama Mauro Falaschi?»
«Mi sono messa?» reagì Silvia avvertendo le gambe farsi molli. «Mauro è il mio fidanzato.» Le giunse un sogghigno. Poi l’interlocutore passò a darle del tu e la sua voce assunse un tono sarcastico. «Dove credi che sia il tuo “fidanzato”?»
A Silvia la risposta morì in gola.
«Avanti rispondi! Dove credi che sia?» ripeté la voce facendosi tagliente.
«Allo stadio. Ha una partita d’allenamento.»
La voce assunse un tono commiserante. «Silvia non è così. Stasera non ci sono partite d’allenamento. Il Raffa è con Rossana, la sua ragazza di sempre. Mauro ti prende in giro. Dietro l’apparenza di bravo ragazzo è un filone che neanche immagini.»
Per la tensione nervosa Silvia replicò attorcigliandosi il filo serpentino del telefono all’indice. «Non è vero. Lei è un impostore.»
«Ti capisco Silvia. Recati allo stadio di Sanfabiano se non mi credi. Faresti in tempo a vedere un po’ di partita se ci fosse. Buona sera.» L’uomo interruppe la telefonata con un risolino beffardo.
Intento a guardare la televisione, Riccardo sentì il pavimento del soggiorno vibrare sotto falcate di corsa. Si voltò e vide Silvia irrompere nella zona notte, uscirne dopo pochi istanti con giubbino, borsetta e correre verso l’ingresso.
«Dov’é che vai?» le domandò il padre.
Sbattendola lei chiuse la porta senza rispondergli e si precipitò per le scale.
«Riccardo che sta succedendo?» disse Tiziana affacciandosi nel soggiorno.
«Mi ghe capisi un’ostrega. Fattelo spiegare da Patrizia.»
«Patry che cosa succede?»
«Silvia ha risposto al telefono e una persona le ha parlato di Mauro. La voce mi è parsa di un tipo giovane.»
Tiziana si portò una mano al cuore. «Non gli sarà successo qualcosa di grave.»
«No mamma. Mi è sembrato di capire che Mauro frequenti ancora la sua ex fidanzata e che stasera sia andato da lei con la scusa della partita di calcio.»
«Lorenzo corri da tua sorella, sbrigati!»
Lui, che già sentiva odore di mancia, volò giù per le scale. Il cielo, striato di cirri rossastri, gli illuminò il volto di sfumature sanguigne. Si piazzò in mezzo al passaggio del cortile e fu abbagliato dai fari dell’auto di Silvia.
«Lorenzo spostati», gli intimò lei sporgendo il capo dal finestrino.
«Dove intendi andare?»
«Non sono cose che ti riguardino.»
Cautamente lui si accostò al muso della macchina.
«Levati Lorenzo!»
Il fratello non aveva mai visto il volto di Silvia così contratto. «D’accordo, mi tolgo, ma lascia che ti dica una cosa.» Lorenzo si approssimò allo sportello facendo scivolare la mano lungo il cofano.
«Lory spicciati non ho tempo da perdere.»
Lui afferrò la maniglia della portiera e guizzò in macchina.»
«Scendi Lory!»
«Ti sei bevuta il cervello?» le gridò il fratello togliendole bruscamente la mano dal cambio.
La sorella si portò le mani al viso e scoppiò a piangere.
Silvia dimmi che t’è successo. Si tratta di Mauro?»
«Lory scendi per piacere», ripeté Silvia accorata. «Devo andare a Sanfabiano per accertarmi di una cosa.»
Vengo con te.»
«Non preoccuparti. Posso andarci sola.»
«Neanche per sogno. Dammi il telefonino, avverto la mamma.»
Silvia, che guidava sempre prudente, diede un bel daffare a Lorenzo per impedirle di calcare il piede sull’acceleratore e quando giunsero alla periferia di Sanfabiano, accostarono per chiedere a un uomo: «Signore, per cortesia, la strada per lo stadio?»
«Continuate per duecento metri, voltate a sinistra al semaforo e proseguite dritti per mezzo chilometro. Vi ritroverete sul posteggio del campo sportivo.»
«Lo sa se stasera c’è una partita d’allenamento?»
«Signorina non saprei che dirle. A me il calcio è uno sport che non piace.»
«Grazie lo stesso. Buonasera.»
«Silvia hai una sfiga! In tutta Sanfabiano ci saranno dieci uomini ai quali il calcio non interessa e tu hai beccato uno di quelli.»
«Lory mi dai un bel coraggio. Laggiù c’è un bar. Vai a informarti.»
«Si fa prima ad arrivare allo stadio. Vuoi scommettere che trovi Mauro a giocare?»
«Ti do la mia paga mensile per dieci anni, se hai ragione.»
«Mi accontento di venti euro che mi sento già in tasca perché Mauro sta parando palloni a rotta di collo. Quel tizio della telefonata era soltanto un pezzo di merda invidioso che ti ha condito un brutto scherzo.» Le strizzò l’occhio per tenerla su di morale.
«Le faccio un muso così a quella Rossana», disse Silvia come se non avesse ascoltato «non c’è altro modo per farle capire che Mauro è mio, mio!»
«Dovresti farlo a lui il muso», obbiettò Lorenzo «se fosse vero.»
«No a Mauro no! Lui non ha colpa. Sono convinta che lei sia ritornata a cercarlo e lo abbia tentato. Giuro che quattro manrovesci non glieli toglie nessuno.»
«Porca zozza come ti riduce l’amore. Vero Iddio, rimango single.»
Lory mi scappa la pipì.»
“Ti pareva! Fermati e vai dietro quel muretto. Baderò che non arrivi gente.»
Poco dopo giunsero su un ampio viale fiancheggiato da un muro di cemento. Dall’altro lato un accesso portava in un vasto posteggio quasi vuoto.
“Che stronzo!” pensò Lorenzo. «Silvia siamo arrivati. Quello è il muro di cinta dello stadio. Eccola là una colonna di riflettori.»
«Lory è tutto spento», sospirò lei accostando l’auto al cordolo del marciapiede. «Forse è cominciato l’intervallo?»
«Silvia, di regola non li spengono i riflettori durante l’intervallo. Non c’è proprio nessuno a giocare. Non vedi che il posteggio è quasi vuoto?»
Lei fu presa da un senso di sconforto da obbligarla a rimanere col fiato sospeso. Posò il braccio sul volante e vi poggiò la fronte.
«Se si azzarda a rimettere piede in casa nostra», ringhiò Lorenzo posando la mano sul capo di sua sorella «lo riaccompagno a Sanfabiano a calci in culo. Calimero andiamocene a casa.»
L’indomani sera, a cena, in casa Falaschi
«Mamma», chiese Mauro «mi andrebbe un po’ di formaggio.»
«C’è il grana padano. Tu ne vuoi Luciano?»
«Ci fosse del pecorino.»
«Credo ne sia rimasto uno spicchio. Mauro», disse Nadia rivolgendosi al figlio mentre apriva il frigorifero «oggi ha telefonato Manuela. Vorrebbe che invitassimo Silvia, a pranzo, domenica prossima.»
«La chiamo e glielo chiedo. Babbo uso il tuo cellulare.» Mauro chiuse l’uscio di camera e compose il numero. «Ciao Silvia.»
«Vigliacco!»
L’insulto fu così inaspettato che lui accennò un risolino di sorpresa. «Silvia che ti prende?»
«Non voglio più vederti, né sentirti. Che ingenua sono stata, cribbio! Spero di riuscire a scordarmi d’averti conosciuto.»
La telefonata s’interruppe bruscamente.
Mauro insisté a chiamarla inutilmente. Sbigottito, si lasciò cadere sul letto. Avvertiva uno smarrimento così acuto che gli appannava il senso della riflessione. Non sapeva che fare. Nemmeno si sentiva il coraggio di tornare in cucina.
«Luciano, Mauro è in camera sua da quasi mezz’ora», disse Nadia agitandosi sulla sedia. «Vado a chiamarlo.»
«Aspetta ancora un po’. Potrebbero dirsi cose che… lo sai com’è no?»
Cinque minuti dopo Nadia si accostò alla porta di camera del figlio. Origliò per accertarsi che fosse ancora al telefono. Non avvertì parlottare. Picchiettò sulla porta. «Mauro vieni a finire di cenare.»
«Non mi va.»
“Gesù! Mauro ti senti bene?»
«Sì ma voglio rimanere qui.»
“Vuole stare lì? Dio santo, ma che… posso entrare?» Nadia vide il figlio supino sul letto con un braccio a coprirsi gli occhi. Gli strinse il polso per sollevarglielo.
Mauro fece una debole resistenza. Poi lasciò che la madre lo guardasse.
«Mauro!» Nadia lo vide con gli occhi bagnati di lacrime. «Dio mio che ti è preso?»
Imbarazzato lui si voltò verso la finestra. «Mamma per piacere lasciami solo.»
«Se non mi dici che cosa ti è successo, non esco.»
Lui scoprì quanto fosse imbarazzante guardare sua madre e piangere, a ventisei anni. Nascose gli occhi sotto i pugni. «Silvia mi ha incolpato di essere un vigliacco. Non vuole rivedermi.»
«Che cosa le hai combinato? Mauro, guardami, ti sei rivisto con Rossana?»
«No mamma te lo giuro!»
«Dammi il numero di Silvia.»
«Tiene il telefonino spento.»
«La chiamerò sul fisso.»
Poco dopo Nadia riconobbe la voce della madre di Silvia. «Buona sera signora Tiziana. Sono Nadia la mamma di Mauro.»
Il buon senso suggerì a Tiziana di essere laconica ma garbata. «Buona sera signora Nadia.»
«Signora Tiziana, mi scusi se la disturbo: desidererei sapere che cosa sia successo tra Silvia e Mauro.»
«Non credo debba aggiungere altro. Mia figlia ha già parlato con lui.»
«Signora Tiziana, Silvia ha dato del vigliacco a Mauro senza spiegargli il motivo.»
«Suo figlio conosce fin troppo bene quale sia.»
«Lui mi ha giurato che non ha fatto alcun torto a Silvia. Signora Tiziana, per piacere, mi faccia almeno parlare con sua figlia: un minuto.»
«Signora Nadia, la prego non insista. Sono fin troppo amareggiata. Avevamo giudicato Mauro un ragazzo di cui fidarsi, evidentemente ci sbagliavamo. Le faccio le mie scuse ma sono costretta a riattaccare. Mi perdoni. Buonasera.»
Qualche istante dopo Nadia spalancò la porta di camera del figlio. «Mauro, tirati su. Andiamo a casa di Silvia.»
Tormento e gioia
«Glielo cambio io quel viso da santarellino, se si azzarda a rifarsi vivo.»
«Lorenzo tu non farai niente. Patrizia vai a chiamare tua sorella e dille di venire a mangiare almeno la frutta.» Tiziana emise un sospiro ansioso. «Ci voleva anche questa Riccardo.»
Suo marito sbucciava una pera e osservava, con aria scettica, le strisce di buccia cadere sul piatto. «Questa storia non mi convince. Mauro m’ispira fiducia a pelle. Può darsi si tratti di una malignità.»
«Lo pensavo anch’io Babbo», disse Lorenzo «ma quando ho visto lo stadio vuoto…»
«In ogni caso Silvia e mamma sono state troppo precipitose», convenne Luciano. «Avrebbero dovuto dare a Mauro e sua madre il tempo di spiegarsi.» Si rivolse alla moglie e aggiunse con un tono energico. «Tiziana mi scoccherebbe telefonare a Mauro per ascoltare anche la sua campana ma sarei costretto a farlo io se non lo faceste voi. Volete risparmiarmela, per piacere, questa seccante telefonata?»
«Mamma Calimero non vuol venire», disse Patrizia rientrando in quel momento.
«Ci vado io. Tu, intanto, sparecchia.» Tiziana si avviò verso la camera della figlia reggendo un piatto con una fetta di torta e una banana sbucciata.
Silvia era prona sul letto, aveva gli occhi lucidi e lo sguardo assorto; col gomito del braccio, premuto sul cuscino, si sosteneva il capo.
«Silvia prova a mangiare qualcosa.»
«Mamma non mi va. Mi sento chiudere lo stomaco.»
«Non farmi stare in pensiero. È da ieri che digiuni.»
«Non puoi capire come mi senta.»
«Percorsi quattrocento chilometri, da sola, per andare a recuperare il babbo e credi non ti capisca? Mangia Silvia.»
Lei spezzò il dolce e masticò di malavoglia. Poi ebbe un guizzo d’orgoglio. «Glielo faccio vedere io a quella. Non gli sarà rimasto un solo capello in testa quando avrò finito di strapparglieli.»
«Ora cerca di mangiare.» Tiziana accarezzò la figlia e aggiunse: «Forse siamo state troppo impulsive.»
Silvia interruppe la masticazione di botto. «Che vuoi dire mamma?»
«Avremmo dovuto dare a Mauro e sua madre la possibilità di spiegarsi. Il babbo è convinto che in questa faccenda ci sia qualcosa che non torni. Sostiene che possa trattarsi di una malignità.»
«Tutto torna, invece», replicò Silvia. «Allo stadio non c’era nessuno, proprio come mi aveva detto quel tizio!» Subito dopo Silvia ammorbidì il tono e chiese alla madre: «Tu, mamma, la pensi come il babbo?»
Tiziana assunse un’espressione perplessa. «Silvia non so che cosa risponderti. Dopo che avrai mangiato, telefoneremo a Mauro.»
«Lo facciamo subito?»
«Dopo che avrai mangiato la torta.»
Silvia stava masticando il boccone di malavoglia quando il campanello del portone esterno suonò.»
«Mamma è lui.»
«Silvia rimani qui.»
La figlia fece per seguirla ma lei le rivolse un’occhiata grintosa. «Silvia non farmi arrabbiare, intesi?»
In quel momento giunse Patrizia. «Mamma giù al portone c’è una signora. Mi ha detto di essere la mamma di Mauro. Le ho chiesto d’attendere. Che devo fare?»
«Aprile presto!» Tiziana raggiunse la cucina per dare sollecite disposizioni. «Spostatevi tutti in soggiorno. Voglio che la mamma di Mauro conosca tutta la famiglia.»
«Uffa Babbo, convinci la mamma a farmi rimanere in cucina a vedere la televisione. Stasera rifanno Alien e di là dovremmo tenere la televisione spenta. E poi ho già capito come finirà questa faccenda: Silvia e Mauro si metteranno in macchina, in un canto del cortile, a scambiarsi fiaschi di saliva. Pomiciare è proprio uno schifo se ci pensi a mente fredda.» Lorenzo fece linguaccia disgustata e aggiunse: «Babbo me li scuci cinque euro se ci azzecco?»
Cordialità ritrovata
Riccardo fu il solo a porgere la mano all’ospite.
Tiziana si mostrò cortese, solo quanto il dovere dell’ospitalità imponesse. «Signora Nadia si accomodi.»
A differenza di quel che aveva temuto, Nadia non si sentiva tesa e disse senza esitare: «Mauro ha preferito attendere in macchina perché si vergognava a salire. Ora, per favore, siate così cortesi da spiegarmi che cosa sia successo perché, per rispondergli in quel modo, vostra figlia deve avere pensato che Mauro gliel’abbia combinato grossa ma lui mi ha giurato di non averle fatto alcun torto.»
«Silvia», incominciò a spiegarle Nadia «ha ricevuto la telefonata di un ragazzo. La avvertiva che Mauro aveva ricominciato a frequentare la sua ex fidanzata e che si era recato a trovarla anche ieri sera adducendo la scusa di andare a giocare al pallone.»
«Ma si è assentato giusto il tempo per andare e tornare dallo stadio. La partita è stata rimandata per un guasto all’impianto elettrico dei riflettori. Si è messo a lavorare sul ritratto di Silvia.
Avvertirono uno scalpiccio e videro Silvia correre verso la porta d’ingresso.
«Cerca di cadere per le scale e romperti una gamba», le gridò dietro il padre.
Tiziana si sentì sollevata. «Signora Nadia ora tutto è chiaro perché quando il ragazzo della telefonata ha chiesto a Silvia se sapeva dove fosse Mauro, e lei gli ha risposto “alla partita d’allenamento” lui gli ha riferito che non c’era nessun allenamento e che Mauro era con la sua ragazza di sempre. Silvia e suo fratello sono venuti a Sanfabiano per accertarsene ed hanno trovato lo stadio vuoto e l’illuminazione spenta.»
«Prima di tornare a casa non potevano passare da noi?» disse Nadia.
«Signora Nadia, Silvia si sentiva ingannata, come avrebbe potuto?»
Lei annuì e scosse il capo. «Dio Santo quanti guasti può combinare l’invidia. E nei paesi è peggio che in città. Insomma quello o quelli hanno approfittato dell’inconveniente elettrico per far apparire vera una menzogna. È stato qualche suo compagno di gioco. Chi altro sennò? Le pere non cadono mai lontano dall’albero.»
«Signora Nadia non può essere stata la sua ex ragazza a organizzare la telefonata per vendicarsi?»
«Il rancore gioca brutti scherzi ma non credo che Rossana possa essere arrivata a tanto. Avrebbe dovuto sapere del guasto all’illuminazione dello stadio, convincere un suo amico ad aiutarla e fare in modo che Silvia giungesse a Sanfabiano tenendo conto degli orari della partita. È improbabile che abbia potuto organizzare una rivalsa così complicata. Signora mi spiace che il nostro primo incontro sia avvenuto per un fatto così increscioso.»
«Non pensiamoci più», rispose Tiziana stringendole la mano. «Le piacciono i cantucci col vinsanto?»
«Sì ma non si deve disturbare. »
«Quale disturbo? E poi bisognerà farli stare un po’ insieme, no? Ora telefoni a suo marito, lo rassicuri che abbiamo chiarito l’equivoco e che ritarderete un po’.»
Euforia
Mauro era tornato in città l’indomani pomeriggio per un colloquio presso l’ufficio provinciale dei forestali che redigevano un esposto contro gli organizzatori del combattimento tra gli animali, cosicché era rimasto a cena in casa Colombo. Avevano appena iniziato a cenare, quando si era alzato un ventaccio da rovesciare gli ombrelli, poi acqua a catinelle per un buon quarto d’ora. Più tardi era giunto Sergio per accompagnare Patrizia al cinema. A loro si era accodato Lorenzo per fare un salto al JOLLYBAR ma senza evitare che il padre gli rammentasse come le ventitré e quarantacinque fosse orario invalicabile. Nonna Martina, con Drillo acciambellato a scaldarle il grembo, si era accomodata in soggiorno nella sua poltroncina di bambù a guardare la televisione. Tiziana con Mauro e Silvia col padre avevano fatto coppia per sfidarsi a scopone scientifico.
Tiziana era bravissima a scopone. Riusciva a ricordarsi le carte ed era difficile che perdesse una partita, sempre che non le trovasse tutte scartine. Nell’intervallo tra una mano e l’altra si rivolse alla figlia. «Ve la sentireste di mandare avanti il negozio per qualche giorno?»
Preoccupata, Silvia si portò una mano al petto. «Perché?»
Tiziana fece piedino al marito per chiedergli soccorso.
«Io e mamma vorremmo prenderci qualche giorno di vacanza.»
«Cribbio chissà che cosa mi credevo.»
«Allora?»
«Certo che ce la sentiamo, così potrete togliervi la voglia di strusciarvi senza averci tra i piedi perché sono quattro giorni che…» S’interruppe e li scrutò riducendo i suoi occhi a due fessure indagatrici. «Ci volete spiegare che cosa vi succede?»
«Niente. Alza le carte Silvia.»
«Non mi convincete», insisté lei. «Sai Mauro? Hanno ricominciato ad amoreggiare come fidanzatini. Nemmeno noi ci facciamo tante coccole.»
«Calimero, tocca a te aprire la mano», tagliò corto il padre.
«Babbo scoprirò il mistero. Ora non distrarti perché se la mamma sapesse nuotare come gioca a scopone, sarebbe campionessa olimpionica di stile libero.» Silvia aprì la partita scrutando Mauro per intuire quale carta avrebbe calato, poi chiese ai genitori con una mossa vezzosa. «Quando intendereste farla questa lunettina di miele?»
«Tra una decina di giorni prima che Morena Valdes vada in maternità. Avremmo pensato di partire il sabato sera e tornare il giovedì successivo, così mancheremmo nei giorni meno impegnativi.»
«Dove andreste?»
«Al mare, non molto distante. In meno di tre ore ci siamo.»
«Cribbio mi sa che tra nove mesi la mia eredità sarà ridotta di un quar… no il tre, babbo!»
«Scopa!» esclamò Tiziana. «E stai zitta, lucano-lombarda che a questo gioco se pol minga ciciarà.»
Qualche giorno dopo all’emporio
«Signora Fernanda», spiegò Silvia ad una cliente «le federe di quella marca costano quasi la metà rispetto a queste ma la consistenza e la morbidezza del tessuto sono inferiori“Accidenti che piattola”.
«Ha ragione Silvia. Mi garba di più anche il motivo floreale.
«Sono colori tenui, signora Fernanda.»
«Rimango indecisa tra queste due tonalità. Dammi un consiglio Silvia. Ho fatto dipingere le pareti di camera con un colore rosa confetto. Prima le avevo color panna. Mio marito avrebbe voluto rifarle dello stesso colore ma le tonalità rosa sono più intime. Lo dicono anche gli psicologi.»
«Che cacchio m’importa degli psicologi. Ha ragione signora Fernanda, anch’io le consiglio questa tonalità.»
«Però mi piace di più l’altro motivo. Non le avete con quel disegno e questa tonalità?»
«Purtroppo no.»
«Potreste ordinarle?»
«Mamma mia non la sopporto più. Possiamo chiedere ma credo che le facciano solo così.»
«Seguirò il tuo suggerimento Silvia, altrimenti rischio d’aspettare e non trovarle né in un modo né nell’altro. Mi raccomando col prezzo.»
«Le faccio il quindici per cento di sconto.»
«Quanto andrebbero a costare?»
Silvia glielo disse.
«Rimangono carucce.»
«Questa è carica di soldi e spacca il centesimo ogni volta. Signora non possiamo fare meglio.»
«Tornerò ai saldi.»
Silvia stava spiegando alla cliente che le federe non erano capi particolarmente soggetti alla moda e che non sarebbero state messe in saldo, quando le suonò il telefonino. Chiese a una commessa di servire la cliente facendole lo sconto del 20% e si scostò.
«Silvia?»
«Ciao Livio. Che avrà da dirmi a quest’ora?»
Lui le parlò con un tono eccitato e frettoloso. «Sono a scuola. È appena suonata la campanella dell’intervallo. Li hai letti i giornali stamattina?»
«Non ne ho avuto il tempo.»
«Ascolta: “È stato sospeso il progetto per la costruzione del bacino idrico artificiale in Valcorniola, nel comune di Sanfabiano. Fonti governative hanno comunicato che sarà istituita una commissione d’esperti per redigere un’approfondita indagine ambientale” Seguono i primi commenti.
Silvia fece uno strillo così acuto che commessa e cliente sussultarono.»
«Silvia», si scusò Livio «devo lasciarti. Voglio telefonare a Fabrizio.»
«Sì certo. Ciao.»
«Ah, che ne diresti se stasera andassimo, tutti, a mangiare la pizza al Gatto Nero per festeggiare la notizia?»
«Venerdì al Gatto Nero? Perché non facciamo domani sera?»
«Sto scoprendo una Silvia superstiziosa?»
«Soltanto perché domani sera potrà venire anche Mauro.»
«D’accordo facciamo per domani sera, così avremo tempo per invitare più gente.»
«Ciao Livio. Cribbio, devo ancora comprare il cellulare a Mauro. Annalisa, avverti mia madre. Mi assento per mezz’ora.»
La capricciosa
«Moderiamo l’entusiasmo gente. Per il momento è solo una sospensione del progetto», precisò Fabrizio.
«E tu che volevi andartene», soggiunse Livio rivolgendosi a Mauro «invece ti sei fatto pure la fidanzata.»
«Oddio», commentò Fabrizio «non è un gran che ma in mancanza di meglio.» Guardò il soffitto con l’aria da gnorri rimediando uno sberleffo da Silvia.
Quella sera lei aveva raccolto i capelli in una lunga treccia e messo jeans di un blu classico, abbinati a una camicetta color crema. Al collo portava un cordoncino di caucciù dal quale ciondolava un minuscolo koala. Sulle labbra aveva un tocco di rossetto porpora. Era di una semplicità folgorante.
Franco si alzò, batté la mano sul tavolo per attirare l’attenzione dei presenti e chiese un attimo di silenzio. «È da vent’anni», iniziò a dire «che contribuisco a salvare un po’ di verde. Purtroppo ho sempre trovato poche persone disposte a condividere veramente quest’impegno perché la difesa dell’ambiente non potrà mai essere delegata a mestieranti della politica. Soltanto volontari che abbiano il coraggio di esporsi all’impopolarità, alle querele e qualche volta anche alle intimidazioni, possono farlo.»
Arturo che, per non perdere virgola della conversazione, si era seduto tra Livio e Fabrizio esclamò: «Ben detto Franco e voglio completare il tuo intervento ricordando come qualche “ecologista per caso”, come quel fasullo di Giannino Bucciarini, tanto per non fare i nomi cognomi, abbia cambiato orizzonti dopo essersi poltronato. Ognuno è libero delle proprie scelte ma che lui non si senta la coscienza pulita, si nota da come scantoni se ti vede in tempo. «Una sera», seguitò il Bizza tanto infervorato da spruzzare pioggerelle salivari che costrinsero i vicini a stendere tovaglioli sulle stoviglie, «non ha potuto evitare d’incrociarmi, perché appena ho scorto che s’infilava in un vicolo secondario, mi sono precipitato verso l’altro sbocco piazzandomi al centro della strada, senza dargli via di fuga. Gli ho rammentato dei tempi in cui ci battevamo contro le escavazioni selvagge, come a lui piaceva chiamarle. Poi gli ho spiattellato in faccia quanto fosse stato fasullo a dimostrare rigore ecologico, viceversa celasse tanta pericolosità quanto il percolato scolato da una discarica di rifiuti tossici e nocivi.» Arturo scosse il capo in un gesto di disprezzo e aggiunse: «Nel latte si conoscono meglio le mosche. Ah quant’è vero questo detto. Ora il Bucciarini va in giro con quattro o cinque giornali sottobraccio per tirarsela. Persino il tono della sua voce è divenuto e untuoso.» Arturo fece una smorfia di disgusto e giudicò: «Certi tipi mangerebbero l’uovo in culo alla gallina pur di mettere le chiappe su una poltrona. Il mondo della politica somiglia sempre più ai campi della val d’Oronzo.»
«Che cosa succede nei capi della val d’Oronzo?» gli domandò Mauro, incuriosito.
«Se ci pianti un chicco di grano, nasce uno stronzo», rispose il Bizza suscitando una sganasciante risata. «Ah come sto bene, ora che mi sono tolto una bulletta dalla scarpa», concluse con un prolungato sospiro liberatorio. Si sentì rifilare tre pacche sulla schiena.
«Ben detto Arturo», lo elogiò Fabrizio.
Sentendosi sostenuto, gli occhi del Bizza si spalancarono come quelli di un barbagianni che avevano appena avvistato un topo. «Sì, certo, Fabrizio ma è bene sappiate un’altra cosa: per me la FNEI è l’ultima spiaggia e se mi accorgo che tra noi si annida un “bacato” come quel Bucciarini, vi mando affanculo tutti. Scusami Franco se ti ho interrotto.»
L’amico gli rivolse un sorriso e proseguì: «Voglio esprimere un ringraziamento a Livio e Fabrizio perché se la FNEI è un’associazione attiva, lo dobbiamo a loro e se abbiamo costituito un comitato che ci ha unito, anche questo è merito loro e…»
«Basta con le sviolinate», lo interruppe Fabrizio.
«Ragazzi», disse Gigi «qualcuno vada a chiedere se abbiano portato le pizze a cuocere dalle parti di Posillipo.»
«Intanto», riprese Arturo «vorrei anche rammentarvi che…»
«Bizza, se permetti, aggiungo io una cosa», lo interruppe Fabrizio alzandosi in piedi.
«Poiché so quel che dirai», replicò Arturo «ne approfitto per andare in bagno.»
«No ora ascolti», gli impose Fabrizio premendogli una mano sulla spalla.
«Dovevi farmi terminare perché…»
«Bizza tua moglie deve essere una santa donna per non averti ancora scaraventato dalla finestra.»
«Alla faccia del vino che ha preso d’aceto, senti chi parla!»
«Per piacere Arturo», insisté Fabrizio.
«E va bene, prendi la parola ma sii stringato.»
Fabrizio assunse un atteggiamento riflessivo e incominciò a dire: «Stavolta abbiamo colto un risultato buono e forse l’avventata impresa dei nostri cinque “eroi”, che sono entrati in cronaca nazionale, ha giocato a nostro vantaggio.»
«Se nei prossimi anni il bilancio dello Stato farà acqua», terminò Livio «e il governo sarà costretto a diminuire le spese per le opere pubbliche, speriamo che tra i tagli ci siano anche i fondi per costruire la diga sul Rio Maestro. Dobbiamo augurarci anche questo.»
«Più di tutti è andata bene a Mauro», s’intromise ancora Arturo, «con una sola fava ha preso due piccioni: ha salvato la Valcorniola e s’è fidanzato con la più bella figl…»
«Accidenti a tè Bizza», mormorò Fabrizio rifilandogli una gomitata sulle costole, «non parlare così di Mauro e Silvia, se c’è Stefano, o ti taglio quella linguaccia.»
«Mica ho urlato.»
«Con quel tono da raganella che hai non c’è bisogno che urli.»
«Scusate. Vorrei dire qualcosa anch’io», intervenne Mauro. «Sarò di poche parole perché non sono un oratore e vi confesso che ho più dimestichezza col pennello che con la lingua.»
Esplose una risata corale.
Accortosi dell’involontaria frase a doppio senso, Mauro si portò la mano agli occhi.
«Con le donne bisogna essere specialisti in entrambi i modi. Sentiamo Silvia che ha da dire in proposito», chiese Gigi.
Imbarazzata, lei si sarebbe nascosta sotto il tavolo.
«Facciamolo terminare», disse Livio battendo ancora le mani.
«Voglio ringraziarvi per ciò che avete fatto.»
«Che avete? Avresti dovuto dire “abbiamo”», precisò Livio rivolgendodogli uno sguardo di stima. «Ci hai avvertito in tempo e hai fatto un servizio fotografico da vero professionista.»
«Gente tra poco arrivano le pizze», avvertì Ezio.
«Grazie Livio», gli rispose Mauro «ma non credo di meritarmi tanto.»
«Nel senso di avere azzeccato quaterna e cinquina?» proferì Gigi, malizioso.
«Architetto», disse il Bizza polemico «perché non vai a dare una gomitata anche a Gigi?»
«Voglio inoltre che sappiate», continuò Mauro «che Stefano si è battuto come un leone per portarci fuori da quell’inferno in cui eravamo capitati. Senza di lui non saremmo usciti vivi.»
Stefano, imbarazzato, fissava il suo tovagliolo.
«Grazie Stefano, è una fortuna avere un amico come te», terminò Mauro rivolgendogli uno sguardo riconoscente.
«Per Stefano», propose Gigi «hip, hip, hip?»
Silvia avvertì il dovere di andare ad abbracciare l’amico. Guardò Mauro che le fece un cenno d’assenso. Forzò la mano sotto il mento di Stefano per costringerlo a sollevare e guardarla negli occhi. Posò le labbra sulle sue.
Due camerieri servirono le pizze a tutti tranne che a Silvia.
«Stasera niente farciture con la ciccia», commentò il Bizza. «Ci stava proprio fare un fioretto.» Fissò il piatto vuoto dell’amica. «Silvia si sono scordati di te?»
«Forse pensano che sia a dieta», rispose lei nel tentativo di celare il disagio con quella fiacca battuta.
Fabrizio, che la sua pizza non l’aveva ancora toccata, fece il gesto di versarle della birra.
«Fabry mi verrebbero le vertigini se la bevessi a stomaco vuoto.»
Entrò nella saletta il proprietario della pizzeria, un tipo corpulento col viso somigliate alla mappa stradale di una carta geografica, tanto era intersecato da venule di colore rosso violaceo. Poggiò la mano sulla spalla di Livio e gli disse: «Scusami se vi ho sistemato un po’ stretti ma di là avevano prenotato da una settimana.»
«Gastone non preoccuparti», rispose Livio dandogli un buffetto sulla pancia «e se accetti un consiglio d’amico cerca di perdere una trentina di chili o rischi un croccolone.»
«Le statistiche rilevano», s’intromise il Bizza «che ogni dieci chili in soprappeso, le probabilità d’infarto aument…»
«Gastone vi siete scordati della signorina?» disse Fabrizio sovrapponendosi alla voce di Arturo per impedirgli di aprire una conferenza sulle coronarie.
«Ora chiedo al cameriere. Vincenzo, la signorina quando la servite?»
«La capricciosa con doppia farcitura di prosciutto, salsiccia e funghetti, non era ancora cotta», rispose l’inserviente. Un paio di minuti e la serviamo.
Silvia rimase di stucco. «Fabry», le chiese stupita «avevamo ordinato margherite per tutti. Perché mi portano una capricciosa con prosciutto e salsiccia?»
«Una capricciosa?» disse lui assumendo l’espressione di chi cadeva dalle nuvole.
«Sì la capricciosa!»
«Il cameriere ha detto proprio così», confermò Arturo fissando l’amica con gli occhi sgranati per la sorpresa.
In quell’istante un cameriere posò sotto gli occhi di Silvia un disco che emanava fragranza, sprigionata dall’abbondante porzione di prosciutto cotto e dai pezzetti di salsiccia semisommersi nella fusa mozzarella.
Quelli che conoscevano le sue abitudini vegetariane rimasero esterrefatti.
Sentendosi giudicata come una sorta di fedifraga, Silvia non sapeva come muoversi. Di fronte e lei Fabrizio faceva lo gnorri ma aveva un comportamento fin troppo serio perché lei non capisse l’antifona. Lo scherzo, però, era stato così ben congegnato che si sentiva bloccata in una bolla d’imbarazzo ma a farla scoppiare ci pensò il Bizza domandandole: «Silvia, accidenti che repentina inversione a U! L’amore ti ha fatto diventare carnivora?»
Lo sguardo di Silvia divenne puntuto. Scalciò indietro la sedia per avere spazio nel movimento, sfilò una scarpa, si sporse sul tavolo per colpire Fabrizio che evitò di essere colpito abbassandosi fino a incastrarsi nello spazio tra il tavolo e il corpo d’Arturo, cosicché lei finì per colpire la fronte dell’innocente Bizza. Incollerita, tolse l’altra scarpa e aggirò il tavolo.
Raggiunta la porta della saletta, Fabrizio avvertì la scarpa centrarlo sulla schiena. Tra due ali di clienti, che osservavano imbambolati, imboccò l’uscita e prese a correre a piedi nudi lungo il marciapiede con Silvia alle calcagna. Raggiunto da una grandinata di percosse, si fece scudo con le braccia. Infine fu costretto a bloccarla.
«Fabrizio lasciami!»
«Silvia, stai buona o finiremo per farci male.»
Sei un grandissimo stronzo.»
«Ti ho fatto uno scherzo ben architettato, ammettilo.»
Cribbio non sei mica normale», rispose lei scotendo il capo.
«Marcel Proust ha scritto che per rendere sopportabile la realtà siamo costretti a coltivare in noi qualche pazzia.»
«Il tuo orto in cui coltivi follie è più grande di un aeroporto» gli rispose Silvia arrabbiata.
“Pure quella d’amarti. Accidenti che scarpata hai appioppato sulla fronte del Bizza.»
«Sarebbe colpa tua se lo avessi ferito», lo rimproverò lei.
«Impossibile con una scarpa di gomma e tela. Arturo ha il capo più duro delle pigne verdi.» La mano con la quale Fabrizio le sfiorò il viso gli parve si elettrizzasse.
Tornata nel ristorante Silvia si rincuorò nel vedere che soltanto alcune abrasioni superficiali segnavano la fronte del Bizza. Gli accarezzò il punto sul quale lo aveva colpito. «Scusami Arturo, avverto il cameriere che ti porti disinfettante e ghiaccio.»
«Lascia andare Silvia non è necessario.» Il Bizza ammiccò a Fabrizio che stava scambiando la sua pizza con quella di lei e soggiunse: «O lo sopportiamo così com’è o toccherebbe eliminarlo fisicamente.»
Sostituite le pizze, Fabrizio tagliò una larga fetta della capricciosa, la ripiegò in due parti perché trattenesse la farcitura e socchiuse gli occhi gustando il boccone. Per l’ennesima volta avvertì la musichetta di un cellulare. “E poi ci battiamo contro l’elettrosmog: che ambientalisti del cazzo.”
Passeggiata romantica
Usciti dalla pizzeria, i più decisero di fare tappa in un disco-bar poco distante.
«Venite anche voi?» domandò Linda a Silvia. «Per una volta tanto staremo in compagnia tutti assieme.»
«Linda lo sai che non sopporto il frastuono.»
«La Lanterna Gialla è un locale simpatico. Suonano anche motivi degli anni sessanta e settanta. Non tengono alto il volume. Mauro cerca di convincerla», insisté Linda.
«Linda non insistere. Non mi va di richiudermi ancora», ribadì Silvia. «Fabrizio mi ha fatto così incavolare che m’è venuto pure il mal di testa.»
«Allora ciao.» Linda fece un gesto di saluto a Mauro e trotterellò per raggiungere gli altri.
«Silvia vuoi che torniamo a casa tua a prendere un’aspirina?»
«Quale aspirina! Linda non ti avrebbe spiccicato gli occhi di dosso si li avessimo seguiti. Hai notato che il gesto di saluto l’ha rivolto soltanto te?»
«Non ci ho fatto caso.»
«Io sì! Il diavolo nasconde le astuzie nei dettagli. Rammentalo piccoletto?»
«Non sono piccoletto ma tu una spilungona. In ogni caso potrei accettare la corte di Linda, se non mi ritenessi alla tua… altezza.»
«I tuoi minuti sarebbero contati se accadesse», reagì lei mordicchiargli il lobo dell’orecchio.
Imboccarono un viale alberato e proseguirono, silenziosi, per qualche decina di passi. Poi Silvia disse che aveva necessità di accontentare un bisognino.»
«Torniamo in pizzeria?»
«Non mi scappa la pipì. Mi sentirei in paradiso se ora fumassi una sigaretta.»
«D’accordo accendila ma la devi smettere. Mi domando che ci troverete.»
«Cominci per darti un contegno da adulti, poi rimani fregato», rispose Silvia. Aspirò avidamente il fumo chiudendo gli occhi come se quell’atto le moltiplicasse l’appagamento.
«Scommetto che hai iniziato a fumare nei bagni di ragioneria durante la ricreazione.»
«Come lo sai?»
«Capirai! Avevo novantacinque probabilità su cento di azzeccarci.»
Tenendo la sigaretta tra le labbra, Silvia trasse dalla borsetta un cellulare nuovo. «Ti piace questo modello? È ultraleggero ed ha un sacco di funzioni.»
«Ti sarà costato un occhio. Ti ringrazio.»
Silvia lasciò che lo maneggiasse un po’, prima di chiedergli: «Sai Mauro? In casa mia continua ad aleggiare il gran mistero.»
«Ti riferisci al ritorno di fiamma dei tuoi?»
«Li ho trovati a sbaciucchiarsi in magazzino come due fidanzatini che amoreggiano di nascosto. Ti rendi conto? A raccontarla chi ci crederebbe?»
«Forse manifestano così la gioia di averti ancora con loro.»
«Forse ma c’è qualcos’altro», rifletté Silvia dubbiosa. «Dapprima ho creduto fosse mio padre a essersi permesso una scappatella ma è mia madre che a volte lo guarda con rammarico. Mauro non riesco a immaginarla mia madre con l’amante. E dove l’avrebbe trovato il tempo per farselo? È tutta famiglia e negozio.»
«Silvia non sarà la tua immaginazione?»
«Mauro, temo che madre si sia permessa una scappatella. Forse non riuscirò mai a sapere quando sia successo ma ne sono convinta.»
«Ora si fanno le coccole, quindi che sia stato tuo padre o tua madre ad avere combinato qualcosa, si sarebbero perdonati. Non credi sia meglio che tu smetta di indagare? Lasciali ai loro segreti.» Mauro la vide annuire senza tanta convinzione.
«La curiosità mi rode ma ti darò retta. A non indagare non si rischia di perdere quell’alone di stima che ti fa sembrare i genitori esempi di perfezione.»
«Hai fatto una saggia riflessione. Io penso a Fabrizio invece.»
«È strambo eh?»
«Non mi riferivo a quello. Credo che per te avverta qualcosa di più della simpatia.»
«Perché lo pensi?»
«Per gli scherzi che ti fa.»
«Fabrizio è così di carattere», minimizzò Silvia facendo spallucce. «Ah, domani andremo a pulire la casa di Montelignano.»
«Mia sorella ne sarà dispiaciuta. Mi aveva chiesto di invitarti a pranzo.»
«Ringraziala. Sarà per un’altra volta.»
«Vengo a trovarti lassù?»
«È meglio di no. Con te vicino non riuscirei a combinare niente e mia madre lavorerebbe il doppio. Non voglio si strapazzi. Da un po’ di tempo soffre di dolori cervicali.»
«Ne approfitterò per terminare il tuo ritratto. Suppongo passerete anche le ferie a Montelignano.»
«Ci andranno i miei con nonna Martina. Io avrei una mezza idea di andare al mare.» Fece una lunga tirata e gli soffiò il fumo sul viso. «Mauro, ce li facciamo dieci giorni di spiaggia? I proprietari dell’albergo in cui ho passato le vacanze con Patrizia e Sergio sono persone simpatiche. Mi preparano manicaretti vegetariani e la cucina è casalinga.»
«Silvia, dammi quel pizzicotto. Voglio essere certo di non sognare.»
«Lo riserverò per quando ti vedrò sbirciare il sedere delle altre. Ho un’altra proposta da farti: potremmo organizzare quella scampagnata in Valcorniola che c’eravamo ripromessi. Ti va, Mauro, di andarci domenica a otto?»
«Ottima idea. Festeggeremo la buona notizia sul futuro di quel vallone alla casa di Pansecco. Silvia non mi pare vero che la mia valle non sarà sommersa.»
«Non cantiamo vittoria. C’è stato soltanto un rinvio.»
«Invece lo sento che la diga non sarà costruita. Ora c’è una fata dai capelli bruni a proteggerla.»
«Soprattutto la volontà di Fabrizio», obiettò Silvia.
«Già. È stato davvero in gamba il tuo spasimante segreto.»
«Smettila gelosone.»
«Senti chi parla.»
«Non ti fa piacere che lo sia?»
«Ma sì! E vuoi che ti confidi una cosa, Silvia? Quando al mare ti alzerai dal lettino, girandomi le spalle, prova a voltarti di scatto. Non mi coglierai a guardare il sedere di un’altra ma il tuo.»
«Mamma mia ti piaccio di brutto, allora.»
«Non molto.»
«Cribbio quant’è stronzo sto ragazzo.»
Si abbracciarono per darsi un bacio sulla bocca, poi seguitarono a conversare.
«Faremo pranzo e cena vicino alla fontanella», propose Silvia. «Ora le giornate sono così lunghe. Alle cibarie penserà la tua fatina dai capelli bruni.»
«Domenica a otto i tuoi genitori andranno al mare. Ti toccherà lasciare soli fratelli e nonna.»
«Sono grandi e vaccinati. Non hanno bisogno della tata. Patrizia inviterà sicuramente Sergio. Lui starebbe sempre in mezzo ai tegami. È migliore di mia madre a cucinare.»
«Allora vada per la scampagnata. Ora dipingerò la mia valle con animo più sereno e porterò alla mostra una decina di quadri dedicati al Rio Maestro.»
«Mauro ti spiacerebbe chiedermi “Silvia, vuoi venire anche tu?”
«Vuoi venire anche tu, Silvia?»
«Sentitelo come l’ha detto. Stai certo che da solo non vai, furbino.»
«Rimarrò fuori qualche settimana. I tuoi non ti concederanno il permesso di stare lontano dal negozio per tanto tempo», si divertì Mauro a provocarla.
«Mi prenderò le ferie in quel periodo.» Subito dopo Silvia fece la vocina imbronciata. «Mauro non vuoi che venga?»
«Credo che dovrò essere io a stare attento ai lumaconi che ti strisceranno intorno.»
«A me basta il mio chiocciolo.»
«Spero di seguitare a bastarti.»
«Scemo!» esclamò Silvia passandogli un braccio attorno alle spalle.
«Ti sei fatta il fidanzato più basso per tenerlo così?»
«Non ricominciare con la faccenda dell’altezza, eh?»
«Devo solo farci l’abitudine. Non capita a tutti di fidanzarsi con una fi...»
«Perché ti sei interrotto? Che intendevi dire?»
«Che mi sono fidanzato con una figliola stupenda.»
Silvia si soffermò e lo guardò maliziosa. «Bugiardo. Dai che volevi dirmi?»
«Lo sai che è una parolaccia.»
«Dimmelo in un orecchio.» Lei si abbassò di lato per consentirgli d’arrivarci senza che dovesse sollevarsi sulla punta delle scarpe.
Bisbigliandola per ammorbidirla della sua volgarità, Mauro pronunciò la parola.
Silvia percepì un brivido, un languore prenderle lo stomaco. Gli strinse il viso tra le mani e gli cercò la bocca. Sulla strada il rombo di un’auto che si fermava.
«Carabinieri! Atti osceni in luogo pubblico. Favoriscano i documenti, per favore.»
Impacciati, Silvia e Mauro si ricomposero.
Col gomito appoggiato al finestrino della sua auto, videro Fabrizio che esponeva la sua faccia da impunito zuzzurellone. Livio gli sedeva accanto e il suo sorriso si stava tramutando in un faticoso tentativo di trattenere una sganasciante risata. Dietro sedevano Franco e Monica che si limitarono a contenuti risolini.
«Scusate se vi ho costretto a riemergere dagli abissi della passione senza il supporto della camera di decompressione», proferì Fabrizio dando un leggero colpetto di gas.
A Silvia montò un impeto di rabbia. «Fabrizio è mai possibile che tu rincretinisca ogni giorno di più? Livio, ti sei messo pure tu a dargli spago?»
«È stato lui che ha voluto fermarsi. Io non c’entro», rispose lui con un’aria innocente.
L’auto scattò in avanti. Monica e Franco li salutarono dal lunotto posteriore.
«Fabrizio sta esagerando cribbio», sbottò Silvia. E proprio di qui doveva passare?»
«Silvia, lascia andare, se perdeste Fabrizio chiudereste bottega.»
«Ma questo è il terzo scherzo che mi fa in pochi giorni!»
«Come te lo devo far capire che è innamorato di te?»
CAPITOLO DICIASSETTESIMO
Ritorno in Valcorniola
Bardati di zaini, frigo portatile, poltroncine da regista e l’occorrente per il disegno, Silvia e Mauro s’incamminarono su per la Valcorniola. Giunti in un punto in cui si poteva scorgere il torrente, lui le fece notare quanto fossero levigate alcune rocce.
«Sembrano groppe di pecorelle che brucano», commentò Silvia.
«Ci indicano che il Rio Maestro passava di lì, un tempo. Suppongo ci siano voluti migliaia di anni perché l’acqua li modellasse così. La natura è uno scultore impareggiabile.»
«Non mi ero accorta che ci fossero, la volta scorsa.»
«Eri tutta presa a studiarmi», rispose lui dandole un colpetto d’anca.
«Non mi spiccicavi gli occhi dal seno, cribbio.»
Mauro assunse un’espressione di colpevole ammissione. Poi fece lo sguardo da duro. «Se avessi lasciato i miei istinti a briglia sciolta, ti avrei scaraventato a terra, ti sarei saltato addosso. Non l’ho fatto perché il mio selfcontrol frenava l’aggressività primordiale.»
«Quale selfcontrol! Eri così emozionato che sono convinta ti tremassero anche le gambe quando t’incalzavo con le domande.»
«Lo ammetto, nemmeno riuscivo a chiederti se fossi fidanzata.» Mauro eluse l’imbarazzante argomento chiedendole se avesse messo del piombo nel frigo.
«C’è il necessario per pranzo e cena: pane, panzanella, insalata di riso, formaggi, prosciutto per te, uova sode e un vasetto di marmellata. Ho portato anche una bottiglia di vino bianco, due lattine di tè e frutta. Ah, ci sono anche due ciotole di dolce al mascarpone.»
«Addirittura?»
«Con l’aria fina che c’è quassù, vedrai quanto mangeremo.»
«Non temi di perdere la linea?»
«Ti garberei ancora se succedesse?»
«Forse che sì, forse che no.»
«Sce-mo!»
Più avanti Mauro si soffermò per osservare qualcosa ai lati della stradicciola. «Silvia, guarda che cosa c’è vicino a quel rovo.»
«Ciumbia è un serpentello!» esclamò lei. Posò gli oggetti, si avvicinò cautamente alla bestiola che strisciava lentamente tra i fili d’erba e le foglie rugginose. «Muoio dalla voglia di toccarla però mi fa un po’ senso. È una serpe velenosa?»
«Macché! Forza fifona. Toccala.»
«Prova tu per primo.»
«La furbina vuole usarmi come cavia.»
«Parla adagio o la spaventi. Passami la videocamera, poi afferrala. Ti riprendo.»
L’animaletto tentò di scivolare tra le dita di Mauro ciondolando la testolina verso il terreno.
Eccitata Silvia fece alcune riprese ravvicinate. «Che bestiola carina. Mauro, passamela e riprendimi.» Avvicinò la mano con prudenza ma si ritrasse. «Mi fa impressione.» Riuscì a sfiorarla. «È fredda.»
«Lo credo bene, è un rettile. Tienilo delicatamente vicino alla testa, altrimenti potrebbe perdere la coda.»
«Perché?»
«Non è una serpe ma un orbettino. Gli orbettini appartengono alla famiglia delle lucertole e lasciano la coda all’aggressore se si sentono minacciati come fanno le loro cugine.»
Esitante Silvia strinse la bestiola tra l’indice e il pollice. «Mauro ci sono riuscita. È una creaturina bellissima.»
Di un colore ocra metallico, la lucertola aveva una striscia scura sul dorso che correva fino alla coda e altre meno evidenti sui fianchi. La minuscola testa era fornita di occhi neri, piccolissimi. L’addome era liscio e di un bruno bluastro. Saettava fuori della bocca la lingua biforcuta.
«Ferma così. Lascia che si attorcigli al polso e non aver paura. Sto riprendendoti.»
«I miei strabuzzeranno gli occhi quando vedranno il filmato. Perché si chiama orbettino?»
«Probabilmente il nome deriva dai suoi occhi minuscoli. Una volta c’era la credenza che fosse una serpe velenosa, invece è innocua.»
«Poverina.»
«Poverina non direi. È una predatrice di vermi, lumache e striscia nelle tane per mangiare i topolini appena nati», disse Mauro continuando a filmare.
«Allora sei birbona.» Silvia posò la lucertola sull’erba. La guardò strisciare fino a che, rasentando un peduncolo nel quale era attaccato un grosso insetto, scomparve tra i vegetali. «Mauro, ho scoperto una mantide religiosa. È la prima volta che ne vedo una, dal vero. Sembra un essere alieno. Lo sapevi che ha un comportamento sessuale del tutto particolare?»
«Spero che non ti venga in mente di emularla.»
«Sciocco io ti mangerei dai baci. Ehi, guarda che bella farfalla. È quasi completamente nera con strisce bianche.»
«Credo si chiami Camilla.»
«Che nome simpatico. La riprendiamo?»
«Silvia, se ci mettessimo a riprendere ogni animaletto non arriveremmo più. Ci dedicheremo al naturalismo un’altra volta. Ora sbrighiamoci.»
Sostarono sulla cateratta, fecero un’altra tappa sul pianoro e scesero a Ca’ Pansecco.
Sulla radura l’erba si era fatta alta e gli steli incominciavano ad assumere tonalità giallastre. Presso il ponticello erano sbocciati rosolacci. A somiglianza d’occhi le finestrelle conferivano alla catapecchia di Pansecco le sembianze di una marmotta accovacciata. Il cielo accarezzava la collina come un amante premuroso e il sole faceva vibrare l’aria sopra le sterpaglie delle balze abbandonate.
«Mauro mi sento inebriata», disse Silvia lasciandosi andare a un lungo sbadiglio.
«Lo credo bene, sei così alta che l’aria è rarefatta lassù dove respiri e la mancanza d’ossigeno provoca euforia.»
«Spiritoso non mi hai fatto ridere.»
«Non sei abituata al troppo ossigeno. Respira lentamente. Ti gioverà. Intanto falcio l’erba.»
«Con che cosa?» chiese Silvia.
«Col falcetto. Avevo previsto che avremmo dovuto farlo.» Mauro tolse l’attrezzo dallo zaino, lo liberò dalla custodia e rivolse gli occhi al cielo per accertarsi dell’arco che avrebbe compiuto il sole. Poi si chinò per falciare l’erba in un punto in cui, secondo i suoi calcoli, sarebbe caduta l’ombra di un’acacia verso l’una quando avrebbero pranzato.
«Tagli anche i fiori?» gli chiese Silvia.
«Non posso evitarlo.» Margherite e convolvoli caddero alla prima falciata.
«Mauro, i fiori no.»
«Silvia, porca miseria, non potremmo stendere bene la tovaglia se non liberassi un piccolo spiazzo.»
«Potremmo metterci il plaid. È più pesante.»
«Hai portato pure quello?»
«Per prendere il sole e fare un sonnellino no?»
«Non riusciresti a stenderlo lo stesso.»
«Allora vai là a falciare l’erba. I fiori sono più radi.»
«In questo punto ombreggerà quando pranzeremo.»
«Come fai a esserne sicuro?»
«Silvia, cocchina, lo so.»
«Allora mi volto. Non voglio assistere allo scempio.»
Percezioni
Prima di pranzare avevano fatto un’escursione nei dintorni, spingendosi fin dentro la casupola. Poi, con un po’ di timore che l’impiantito cedesse sotto i loro passi, erano entrati in quella che era stata la cucina, muovendosi adagio come se il luogo imponesse riguardo.
A un tratto, Mauro, che si era approssimato a un acquaio ricavato da un blocco di pietra, ebbe la sensazione di avvertire qualcosa. «Silvia che qui dentro aleggi lo spirito di chi ci ha vissuto? M’è parso di sentire una voce di donna che diceva “Settimio hai governato le galline?”»
«Non crederai ai fantasmi», rispose lei mostrandogli un sorrisetto incredulo. «Gli spiriti non esistono. La tua è soltanto suggestione e poi vagherebbero di notte.» Gli indicò la finestrella per fargli notare quanta luce ci fosse fuori.
«Se in questa casa errassero spettri anomali? Mia zia, quand’ero bambino, mi raccontava che i fantasmi sono spiriti che, a differenza di quelli dei film horror, sono benigni e rimangono racchiusi in un luogo nel quale hanno passato un’esistenza felice, come insetti nell’ambra.»
«È un’interpretazione originale», rispose Silvia «ma non capisco come la moglie di Cecco possa avere vissuto felicemente in una bicocca come questa.»
«Forse la felicità ha molte sfaccettature», commentò Mauro guardandosi attorno con fare circospetto.
«Mamma mia quanto sei fifone. Dammi la mano.»
Un grande camino occupava quasi tutta una parete e faceva sembrare la stanza più piccola di quel che fosse. Sul frontale d’arenaria della cappa era scolpita una data in modo rudimentale: 1898.
«Mauro questa casa ha più di un secolo. La immagini quanta miseria deve avere patito la gente che abitava qui?»
«E noi ce la prendiamo se il tecnico non corre a ripararci il guasto al televisore o se abbiamo il computer che fa le bizze» le rispose indicandole due pietre squadrate, servite da alari e annerite da chissà quanti fuochi. «Te l’immagini, Silvia, quanti fagioli abbiano bollito tra quei sassi?»
«Mauro mi chiedo come avranno potuto Pansecco e sua moglie a trovare l’intimità per mettere al mondo tanti figli? C’è soltanto un’altra stanzetta come questa.»
«Forse lo facevano a notte fonda.»
«Forse andavano sui campi», immaginò Silvia.
«Oppure nella stalla, al buio», suppose Mauro. «A quei tempi c’era molta pudicizia tra la povera gente. Concepivano dieci figli senza avere mai visto i loro sessi.»
Si approssimarono alla finestrella. Sul davanzale d’arenaria, sfaldato dalle gelate, il sole del mezzogiorno era abbagliante. Il riverbero della parete rocciosa li costrinse a socchiudere gli occhi.
«Mauro, guarda, da qui si vedono il ponticello, la nostra roba, la fontanella.» Silvia si strinse contro lo stipite per fargli spazio. Notò con quanto incanto lui la osservasse. «Che cosa c’è?»
«Su una scala da uno a dieci, per stabilire la bellezza, ti darei undici.»
«Addirittura? Non ti sarai preso una cotta per me.»
«È una tua impressione.»
«Bugiardo moriresti di crepacuore se ti lasciassi.»
Rimasero a guancia a guancia, a osservare il quadretto di campagna circoscritto dalla piccola apertura sul mondo. La luce di giugno inondava le cose e formava velature di tenue foschia che sfumava il verde intenso dei boschi.
Silvia si sporse dal parapetto ed ebbe un’esclamazione di stupore. «Mauro l’albero che cresce qui sotto è carico di bacche.»
«Lo credo è in gelso e questo è il periodo in cui le sue bacche maturano.»
«Ciumbia è la prima volta che vedo more di gelso. Voglio assaggiarle», Silvia afferrò la mano di Mauro e lo sollecitò a seguirla.
Pervaso da un benessere più intenso di quello che avvertiva quando terminava un dipinto, che lo aveva soddisfatto, Mauro si appoggiò al muro della casupola e osservò Silvia mentre roteava le pupille per comunicargli quanto gusto provasse a riempirsi la bocca di quelle drupe dolcissime.
Il pic-nic
Le mani poggiate sul parapetto, Silvia era in piedi sul ponticello. Alcune ciocche di capelli le nascondevano una spalla e la prominenza del seno destro.
Seduto su una poltroncina, Mauro sottraeva al tempo i tratti di quel viso d’eterna ragazzina che Silvia aveva. Di tanto in tanto chiudeva gli occhi per rinnovare la concentrazione e provare fiotti d’emozione nel vederla ricomparire.
«Mauro?» lo chiamò Silvia per scuoterlo dal rapimento «vuoi risorgere dal mondo delle muse? Mi hai fatto sei disegni. È l’una e mezzo. Ho fame.»
«Ho finito. Vieni.»
«Cribbio mi hai parlato soltanto per dirmi: mettiti lì, stai ferma così, quella ciocca di capelli spostala di là. Ti allontani anche da me quando lavori.»
“Ti sembra” Mauro la cinse alla vita poggiandole il viso sullo stomaco. Glielo sentì brontolare.
«Quale ritratto mi regali?» chiese lei.
«Sono tutti tuoi.»
«Prendo solo questo.»
«Mi permetti di portare gli altri alla mostra?»
«Bandisci il singolare, furbino, e Abituati alla mia presenza.»
Lui lasciò cadere l’argomento e le fece notare il posto sul quale aveva falciato l’erba e con quanta precisione avesse azzeccato il punto d’ombra.
«Hai fatto una strage di fiori, però.»
«Taci ecologista fondamentalista.» Mauro aprì il coperchio del frigorifero ed esclamò: «Ecco perché pesava tanto. C’è di che sfamare un reggimento di soldati.»
«Scommetti un bacio che gli zaini saranno molto più leggeri al ritorno?» lo sfidò Silvia.
«Rischierò l’indigestione per averne due. Quest’insalata di riso manda un profumo delizioso. Vedo che nel condimento hai messo dadetti di prosciutto cotto.»
«Quella è tua carnivoro.»
«Dentro quest’altro recipiente che cosa c’è? Ah, le uova sode. E qui? Accidenti, la panzanella! Dentro questa busta?»
«Mauro prendi soltanto quel che vuoi mangiare e chiudi il frigo.»
«Che ne dici di cominciare con la panzanella e lasciare l’insalata di riso per cena?»
«Come preferisci.»
Si accosciarono alla pellerossa e utilizzarono le poltroncine per posarvi buste e cartocci. Affondarono le forchette sulla panzanella e si sorrisero a bocca piena.
«È davvero buona. Silvia vuoi vedere che mi toccherà sposarti.»
«Non avevi ancora deciso?»
«Stavo soppesando l’idea.»
Lei avvicinò il contenitore alla bocca per impedire che le briciole di panzanella cadessero dalla forchetta, lo guardò sottecchi. Poi volle pareggiare la battuta esclamando: «Anch’io!» Alla reazione immusonita di Mauro, aggiunse: «Quel che è detto è reso. Mi passi l’olio?»
Seguitarono a pranzare punzecchiandosi. Risero per la mosca che insisteva a posarsi sulla fronte di Mauro e la formica risucchiata dal mascarpone di Silvia. Per tentare di salvarla lei aveva rigirato il dolce parecchie volte. Infine era riuscita a trovarla ma era stecchita.
Più tardi si erano sdraiati sul plaid per prendere il sole. Il processo della digestione, l’effetto narcotizzante dell’aria fina, l’ipnotico chioccolio del fontanile e l’ovattato gorgoglio del rio, avevano fatto loro da ninna nanna.
Carnalità e riflessioni
Silvia sì destò sotto un cielo striato di cirri. Il sole, calato dietro la parete rocciosa, li aveva lasciati all’ombra. Ebbe un fugace brivido di freddo. Si sentì pervasa da un tale senso di pace che le sembrava non avvertire corporeità e percepire il mondo soltanto con la mente. Immaginò che il cielo la risucchiasse scomponendola in particelle. Colse quanto il vivere volesse significare assaporare l’istante, sentirsi pietra, albero, cielo, acqua, erba. Vide una farfalla dalle ali rossastre svolazzare sul bordo del laghetto, poi posarsi su una spalletta del ponticello. Da qualche parte aveva letto che le farfalle vivessero pochi giorni ma avevano la capacità di distinguere toni di colore superiori all’occhio umano. Cercò d’immedesimarsi nella farfalla, percepire il tempo scorrere più lento per compensare la sua breve vita e immaginarsi di vedere il mondo coloratissimo. Si chiese se Mauro cogliesse sensazioni simili quando dipingeva. Un pappo le atterrò sul ventre, una bava di vento lo trasportò lontano. Si stiracchiò e si voltò sul fianco. Mauro dormiva supino. Rannicchiò le gambe in posizione fetale, le mani tra le cosce, le ginocchia a sfiorargli il fianco. Non riuscì a reprimere il desiderio di accarezzarlo.
Gli sfiorò il torace, seguì la linea dello sterno fino al punto in cui le costole lasciavano spazio alla cavità dello stomaco. Non toccava un uomo vigoroso ma ciò che la attraeva di quel corpo era la sua quasi gracilità. Gli prese una mano, se la portò alle labbra per baciarla sul palmo. La ripose sul plaid e riprese ad accarezzargli il corpo, la pelle dell’addome, tiepida e morbida. Gli poggiò la guancia sul petto badando di non premere troppo la testa per non recargli disturbo alla respirazione. Aveva letto che i giovani maschi dormivano col pene eretto. Rimase incerta se ubbidire al pudore o cedere alla tentazione di curiosare. Doveva sollevare un lembo dei boxer. La sensazione che quel gesto fosse più indecoroso che verificare col tatto, la fece esitare ma la desiderio di sapere, vedere, finì per sovrastare il timore per l’imbarazzo che avrebbe provato se Mauro l’avesse sorpresa. Chiuse gli occhi e lasciò che le sue dita scivolassero sui boxer. Senti il pene pieno e pulsante. “Cacchio il mio Mauro ha tutto a posto.” Gli venne di pensare alla strategia che la natura aveva ideato affinché gli esseri viventi si riproducessero e il privilegio concesso ai soli umani, dotandoli di coscienza e tatto per trarre non solo un intenso piacere fisico ma anche mentale. Quale astuzia! Si domandò se il compenso alla sofferenza per la consapevolezza della morte non fosse quello. A volte, prima di addormentarsi, tentava d’immaginarsi come il suo Drillo percepisse il mondo. Già come pensava il suo cane? Era per esso una fortuna o una malasorte non poter argomentare in modo razionale? Osservò gli alberi, l’erba, i muri ancora assolati della casa di Pansecco e i balestrucci fendere l’aria. Guardò il frigorifero portatile, i due cellulari posati su una poltroncina. Provò meraviglia al pensiero che la banale appendice accarezzata, unita alla suo orifizio, fossero generatrici degli occhi e della mente con cui l’universo osservava se stesso, interrogandosi sulla propria esistenza. Avvertiva che c’era qualcosa di sbalorditivo in questo e che gli esseri viventi facessero parte di uno smisurato respiro universale generante fine e completezza. Era questo il pensiero che più d’ogni altro si avvicinava al concetto di Dio?
Cessò di accarezzare il suo uomo. Rimase ad osservarlo dormire ma con un desiderio sottilmente carnale di tornare a sfiorargli la pelle, accarezzarla, lambirla ma desisteva di proposito, per rendere più bello il momento in cui lo avrebbe toccato nuovamente. Quale raffinato erotismo stava impossessandosi della sua mente? Immaginò di avere dita dal tocco leggero come ali di libellula. Tornò a sfiorarlo. Le sue dita scivolarono, leggere, sulla peluria delle sopracciglia. Con l’indice gli seguì il contorno delle labbra, glielo fece scorrere sul collo, lo roteò con delicatezza, attorno alla rotonda aureola del piccolo capezzolo sinistro. Gli posò il palmo sullo stomaco, poi scese fino sentire l’elastico dei boxer. Allungò le dita sopra la stoffa. Sentì ancora il pene eretto. Fece un mentale risolino.
«Allora è proprio vero.» Da qualche parte aveva letto che i giovani maschi, in buona salute, dormivano col pene in erezione. Lo guardò sul viso per studiare la sua reazione. Lo vide dormire serenamente, le labbra leggermente dischiuse. Strinse il pollice e l’indice all’altezza del glande. Sentì un impulso sotto le dita. Il pene di Mauro era divenuto più teso. Si fermò quando vide Mauro voltare il viso verso di lei. Non s’era svegliato. Si sentiva eccitata. Osò. Iniziò lentamente ad infilare la mano sotto l’elastico dei boxer. Sfiorò il glande coi polpastrelli. Mauro si mosse ancora. Ritirò la mano rapidamente: col batticuore. Pensò che avrebbe veramente provato disagio se lui si fosse svegliato e l’avesse sorpresa ad accarezzargli il pene. Rimase ferma, la mano posata sull’addome ad osservargli, attenta, le iridi che si muovevano sotto le palpebre, come sognasse. Furtiva infilò ancora le dita sotto i boxer. Esitò «Che cavolo t’importa se si sveglia?Meglio di così come vorresti farlo destare?» Fece scivolare tutta la mano sotto l’indumento. Lo sentì caldo e pulsante. Chiuse le palpebre mentre lo stringeva. Fece qualche movimento avanti e indietro, poi si fermò. Il glande le apparve come una grossa ciliegia tiepida. «Cribbio mi sto bagnando...»
Allungò le dita fino ai testicoli ed avvertì che il pene continuava a prolungarsi in profondità nel pube. «Ciumbia è proprio come spiegava l’inserto!» Provò a scoprire un punto che era descritto come particolarmente sensibile. Spinse l’indice nella radice del pene e la frizionò. Subito avvertì un vigoroso impulso d’erezione. Sorrise eccitata e sorpresa. Era sicura che Mauro provasse un intenso piacere. «Chissà se sognerà che…»
Il boxer non aveva chiusure lampo e non c’erano coppiette di passaggio, stavolta. Abbassò l’indumento con circospezione e fin dove la posizione di Mauro che dormiva supino, le consentiva. Strinse l’asta con delicatezza e si preparò ad accogliere i tiepidi zampilli tra le dita. No non tra le dita. La linfa della conoscenza non avrebbe permesso si sprecasse in due banali fazzolettini di carta con i quali gli avrebbe ripulito l’addome. Le venne di considerare quella dispersione come una profanazione. Un altro proposito sorse in lei, audace. Lasciò che la sua istintiva sensualità corresse a briglia sciolta. «Carpe diem amore!» Appoggiò il volto sull’addome di Mauro. A pochi centimetri dalle sue labbra il glande emise una goccia di umore trasparente…
Le prime quattro note ripetute della quinta sinfonia di Bheetoven ruppero l’incanto. Era la suoneria del suo cellulare. «Cacchio no!» Tirò l’indumento a coprire il pene di Mauro e s’alzò ravviandosi i capelli con uno scatto nervoso.
«Silvia?» La voce del padre era risentita.
«Ciao babbino.»
«Non dovevi chiamarci a mezzogiorno?»
«Cribbio scusami. Mauro mi stava ritraendo e il tempo è volato. Rico dov’è la tua Tizzy?»
«Cosa? C’è disturbo. Non ti sen…»
«Dov’è la mamma?»
«Sul suo lettino. Legge una ri… sta. Mauro?»
«Fa un pisolino. Lo vuoi salutare? Vado a svegliarlo.»
«No, lascialo dormire. Dopo ocio né?»
«State attenti voi, piuttosto, a non ritornare in tre.»
«Ti dis… be.»
«Che cosa hai detto? È andata via la voce.»
«Ti dispiacerebbe.»
«No, babbo, no.»
«La mamma mi fa cenno che vuo… larti. Ciao Calimero.»
«Silvia?»
«Ciao mammona.»
«Lo hai preso il repellente per gli insetti?»
“Cribbio me ne sono scordata. Sì, certo.»
«Spalmatevelo addosso, spesso. Una nostra cli…nte ha dovuto ricoverarsi in ospedale per la puntura di un cal…brone, la settimana scorsa.»
«Non preoccuparti, ce ne siamo cosparsi tanto che rimarremmo intossicati se provassimo a darci un bacio.»
«Vi siete organiz… ati in modo che la nonna non res… mai sola in casa?»
«È stata la prima cosa cui abbiamo pensato.»
«Sergio è venuto a preparare il pranzo?»
«Non ero ancora partita per Sanfabiano che era già intorno ai fornelli. S’è messo a fare il sugo per la pastasciutta e ha portato una faraona da mettere in forno.»
«Patrizia come stava stamattina? Prima che partis… le doleva un dente.»
«Mamma nemmeno sono ventiquattro ore che manchi da casa. Non essere così apprensiva.»
«Ora le telefono. Allora, mi raccomando, tra un po’ rimettetevi il re… llente.»
«D’accordo. Ciao, mammona. Un bacio, ciao.»
Silvia rilassò le spalle. Osservò Mauro dormire ancora. Tornò a coricarsi al suo fianco e distese la mano sul suo stomaco allargando le dita come per impedire che l’aria la derubasse del tepore che emanava. I momenti di sensuale erotismo che avevano preso la sua mente, erano svaniti. Ritrasse in alto i boxer e lasciò che il mormorio dell’acqua le facesse immaginare la sua vita di coppia, scorrere quieta come il Rio Maestro d’estate, che serpeggiava tra sterpi e minuscoli greti, all’ombra delle acacie. Che sensazione di pace vederlo sonnecchiare con le labbra distese in un ineffabile accenno di sorriso. Strappò una foglia di gramigna e un’estremità gliela fece scorrere sulla guancia. Lo vide reagire come per cacciare un insetto. Insisté fino a che non lo costrinse a destarsi. Con un divertito risolino gli fece vedere il filo d’erba col quale l’aveva solleticato.
«Ah ecco chi era la zanzara. Canaglia vieni qua.» Mauro vide gli occhi di Silvia rilucenti di tenerezza; gli infondevano il desiderio di rilasciarsi tra le sue braccia.
«Benvenuto nel mondo dei meno. Avresti seguitato a dormire fino a notte fonda se la zanzaraccia non ti avesse svegliato.»
«Temo sia stato l’effetto della panzanella. Di solito mi ritorna un po’ alla gola ma non questa.»
«Il segreto è metterci poca cipolla. Sentimi l’alito?» Silvia gli espirò a pochi centimetri dal naso.
Con una smorfia Mauro allontanò il capo sventolando l’aria.
«Non è vero che ho l’alito cattivo. Ora mi baci.»
«Nnnzzz!»
«Silvia s’inginocchiò su di lui imprigionandogli i polsi.»
Mauro osservò quelle labbra incredibilmente ben disegnate che a Silvia pervadevano il volto di un’espressione sensuale e protettiva. «Sai Silvia? Ho fatto un sogno coloratissimo. Ero su una radura che costeggiava un fiume molto più ampio di questo. Qua e là crescevano grandi alberi che proiettavano l’ombra su un’erba di un verde così trasparente da sembrare cristallo. Il fiume era tanto limpido da poterne scorgere i fondali, quasi come non ci fosse acqua. C’erano molti pesci che andavano nella stessa direzione. Provavo sensazioni fisiche piacevolissime.
«I sogni sono ombre di pensieri che si manifestano per fare emergere timori, rievocare il vissuto o interpretare il futuro», disse Silvia. «Forse pensavi a questo luogo e il sogno l’ha idealizzato. I pesci che andavano nella stessa direzione potevano simboleggiare la nostra vita di coppia. Vogliamo darglielo questo significato?»
«A un tratto», seguitò Mauro «il cielo si è oscurato, come volesse scatenarsi un temporale e le gradevoli sensazioni fisiche che provavo sono svanite..»
«Il temporale era soltanto la sottoscritta che ti disturbava col filo d’erba», gli spiegò lei.
«Però quel sogno mi ha lasciato qualcosa di freddo alla bocca dello stomaco. Era cominciato così bene», si lagnò Mauro.
«Mauro smettila di vederci le fatalità. Le mie apprensioni ti hanno contagiato?» Silvia gli diede un buffetto sullo stomaco sorridendogli. «Ah, poco prima ti svegliassi ho ricevuto una telefonata dai i miei. Riuscivo a capirli a malapena. I cellulari hanno poco campo in questa conca. Mia madre mi ha fatto le solite raccomandazioni e mio padre mi ha rimproverato di non averli chiamati a mezzogiorno.»
«Chi ti distraeva?»
«Indovina?»
«Porca miseria», disse Mauro «mi sento il glande bagnato»
«Lo credo bene», rispose lei «hai dormito sempre col pene eretto. L’ho notato sai, che il rigonfiamento che avevi sotto i boxer.» Gli fece scorrere la mano sul torace, Notò che i peli più lunghi gli crescevano attorno alle aureole, mentre il petto era quasi glabro. «Cacchio come sei villoso.»
«Spiritosa. I peli lunghi sono soltanto trentasei.»
«Non li avrai contati per davvero.»
«Sono così pochi che devo tenerli sotto controllo.»
«Ora verifico. Uno, due, tre… undici… diciotto… ventitré… ventinove… trentaquattro… quarantacinque… cinquantuno. O ti sei sbagliato a contarli o te ne sono cresciuti altri quindici.»
«Può darsi che da quando ti ho conosciuto il mio organismo abbia accresciuto la produzione di testosterone.»
«Il testosterone li fa cadere, semmai.»
«I capelli non i peli.»
«Mi stai buggerando, come diceva mio nonno.» Silvia gli scompigliò i capelli e gli schioccò un bacio sulla fronte. «Ti va il tè?»
«Buon’idea. Vado a prenderlo.»
«No te ne stai qui, buono.»
Mauro osservò la pelle ambrata del suo ventre piatto contrastare col bikini color panna. Le afferrò il polso e provò l’impulso di tirarla giù. Quando torni?»
«Scemo, lo zaino dista quattro metri. Non mi dissolvo non preoccuparti.»
A malincuore lui lasciò che il braccio gli ricadesse sul plaid a peso morto. «Mamma mia come rimbambisce l’amore.» Gli giunse il compiaciuto risolino di Silvia mentre si avvicinava agli zaini.
Curvarono la cannuccia e risero degli sforzi che si obbligavano a fare per bere rimanendo supini.
Silvia seguì il movimento di un batuffolo di nube. Lo vide sfilacciarsi, poi dissolversi. Non le era mai capitato di osservare quel fenomeno. «Mauro, ogni tanto mi chiedo se l’esistenza abbia un senso.»
«Perché ti sei posta questa domanda?» le chiese lui.
«Ho appena visto una nube svanire e m’è venuto di pensare quanto l’esistenza somigli alle nuvole e il tempo sia un’astrazione. Se dovessi figurare il tempo, che cosa dipingeresti.»
Mauro ci pensò poi disse: «Due velieri, uno che fila col vento in poppa, l’altro con le vele afflosciate da una calma piatta, ma in modo che le navi si compenetrino e non si riesca a distinguere l’una dall’altra.»
«Cacchio mi sono fidanzata un talento dell’immaginazione. Difenderò ciò che ho conquistato con le unghie e con i denti», specificò Silvia fissandolo con un’espressione stupefatta. «Rammenti l’usignolo venuto a farci visita quando eravamo sul dondolo? Che melodia triste era il suo cinguettio. Vivo l’amore per te come se il mio animo si fosse trasformato in un usignolo. Canta di gioia ma è un canto triste. Mi sento meravigliosamente bene perché averti accanto, è felicità e armonia assieme ma anche nostalgia per il vissuto appena trascorso. Mauro, le nostre vite scorrono sul filo di un presente che se volessimo spiegarlo usando il concetto di tempo, lo dovremmo considerare troppo esteso se lo quantificassimo in un miliardesimo di secondo. Il tempo non esiste se non come costrutto che offra un riferimento con cui dare significato al mondo e organizzare la vita. I tuoi velieri che si compenetrano ne danno l’unica immaginazione visiva possibile. Com’è effimera l’esistenza! Ciò che ti ho detto fa ormai parte del nostro trascorso e ciò che sto dicendo si trasforma in passato. Marco Aurelio sosteneva che la vita è un punto, ciò che ha da venire non ci appartiene ancora e il trascorso non è più nostro. Non ci resta che accettarne la provvisorietà con la consapevolezza che la morte sia utile alla natura.»
Provocando un gorgoglio nel contenitore, lui terminò di aspirare il tè. «Accidenti che riflessioni profonde. Se io sono un talento dell’immaginazione, tu sei una filosofa della fisicità. Non sei credente Silvia?»
«Da che cosa lo hai dedotto?»
«Traspare dalle tue riflessioni.»
«Rifiuto i dogmi», rispose lei «e la fede implica attenersi a una verità indiscutibile ed eterna. Io, invece, sono convinta che tutto sia relativo.
«Avverto l’ispirazione di tuo padre in ciò che sostieni», rispose Mauro.
«Lo ascolto molto», ammise Silvia «e lui sostiene che non può esserci libero arbitrio senza che il pensiero logico sopravvenga quello mistico dei dogmi. Sono certa che la gente abbia bisogno di credere in una vita ultraterrena per esorcizzare la morte e rimettersi alla speranza che un’entità individuale sopravviva, protetta da un Creatore misericordioso. È l’uomo ossessionato dalla morte che ha creato Dio.» Silvia rimase pensosa, come volesse riflettere sulle sue considerazioni, poi gli chiese: «Tu, Mauro, credi?» Lo vide annuire, quindi risponderle con un’argomentazione curiosa a dir poco.
«Soltanto un Dio poteva dotare gli uomini di sostegni perfetti per inforcare gli occhiali.»
«Ti riferisci a forma e posizione di naso e orecchie?»
«Proprio così.»
«È una considerazione tua o lo sostiene qualche teologo?»
«Lo dice sempre Semenza, il calzolaio di Sanfabiano. È tanto miope che difficilmente avrebbe potuto trovare un lavoro. Così si è messo a fare il ciabattino e gli occhiali sono per lui importanti al pari del cuoio e della colla. Per questo considera la forma del naso e delle orecchie un dono divino.»
Silvia rise così di gusto che le venne da lacrimare. «Mauro, sei troppo forte. Ora dammi la tua versione seria.»
«Se ci fosse il nulla, oltre la morte, la vita di ogni essere vivente sarebbe una perdita di tempo...»
Silvia aggrottò la fronte come se l’espressione che Mauro si accingeva a completare la colpisse particolarmente.
«…e la fede è l’unica speranza contro l’angoscia», seguitò Mauro «che attanaglia l’uomo se riflette sulla sua pochezza e percepisce effimera l’esistenza. Chi crede in Dio non avverte l’angoscia del nulla pensando che, dopo la sua morte, la gente seguiterà a respirare, vedere il sole, i colori, amarsi o coltivare rose perché torneremo, tutti, a coltivare rose, quando risorgeremo alla fine dei tempi. Il cristianesimo è resurrezione della carne. Deve esserci, Silvia, una volontà universale. La nostra capacità di riflettere su tutto ciò che è pensabile non può essere dovuta al caso.»
«Non credo sia così Mauro», confutò Silvia «perché non può esserci progetto in un universo che ripete in eterno se stesso e l’uomo, in questo ciclo, è altrettanto importante quanto un granello di polvere che un acquazzone stacca dalla montagna e si perde nell’acqua limacciosa. Tuttavia mi consolo pensando che nemmeno un solo atomo del nostro corpo andrà disperso e concorrerà a rigenerare le stelle. Anche un’atea ha il suo conforto. Il Bizza ha ragione a sostenere che tutto contribuisce a formare un perenne impianto di riciclaggio. Il cosmo non è stato creato ma è sempre esistito. Non credo alla teoria del big bang. In natura nulla si crea né si distrugge. Lo insegna anche il primo principio della fisica che studi a scuola.»
«Silvia hai mai qualche dubbio sulle tue convinzioni materialiste?»
Lei fissò quel ragazzo che, se non per gli occhi da acuto osservatore, aveva un aspetto ordinario ma le aveva talmente addolcito l’animo da farle sembrare d’avere un barattolo di miele al posto del cuore. «C’è chi sostiene che siano gli imbecilli ad avere la certezza su tutto, mentre i pensanti hanno dubbi. Mauro io non sono un genio ma nemmeno cretina, tuttavia, ti ripeto, ho la convinzione che il Creatore sia una congettura della mente come esorcizzante dell’ignoto.» Silvia non aggiunse altro. Rifletté sulla diversità delle loro opinioni ed ebbe la certezza che le differenze li avrebbero aiutati a compenetrarsi, proprio come i due velieri. Pensò al suggerimento di suo padre. “Hai il temperamento più forte di Mauro ma non avere l’arroganza di dimostrarglielo e non tentare di assoggettargli il pensiero.” Ogni mente ha necessità di possedere il suo spazio per interpretare il mondo. Confronta le tue idee con le sue e finirai per sentirti arricchita.” «Mauro ti piacciono le ciliegie?»
«Hai portato pure quelle?»
«Sono duroni, bei grossi. Li vado a prendere.»
Le ponderazioni di Silvia sugli enigmi dell’esistenza e la repentinità con la quale tornava alla materialità del quotidiano, a Mauro parvero stupefacenti. La seguì mentre raggiungeva gli zaini. Le spalle tornite e la sinuosa levigatezza dei glutei di Silvia gli provocarono un fremito.
Tenendo la ciliegia con le labbra, Silvia glie la passava in bocca. Attendeva che Mauro sputasse il nocciolo per dargliene un’altra. «Mi pare di essere una rondine che imbocca il suo pulcino.»
«Sei una maliarda tentatrice guidata da un demone relativista.»
«Tutto è relativo», rispose Silvia. «Se una tegola cadesse da un tetto ma nessuno la vedesse non sarebbe caduta. Gli eventi richiedono testimonianza perché possano essere considerati avvenuti.»
«Allora, Silvia, l’universo esiste perché lo vediamo?»
«Proprio così. Tutto esiste o è stato se qualcuno lo ha visto o lo rammenta, perciò è stata la vita a creare l’universo e non il contrario. Poni che noi fossimo la proiezione letteraria dell’immaginazione di un romanziere. «Saremmo il frutto della sua fantasia e se il libro fosse poi letto da migliaia di persone…»
«Silvia, dove intendi arrivare con questa filza di congetture?» la interruppe Mauro.
«A farti ragionare su un concetto: chi non è ricordato o non è stato visto non lascia memoria, nel senso che se una persona realmente vissuta fosse morta e nessuno l’avesse ricordata non sarebbe vissuta. Invece noi, personaggi inventati, saremmo esistiti perché ci rammenterebbero in molti. Renzo e Lucia, purché siano personaggi di fantasia, sono esistiti perché saranno sempre rammentati, così Ulisse, Ettore, Achille e questo vale per tutto ciò che ci circonda. Poi…»
«Poi?» la incalzò Mauro.
«C’è pure chi sostiene», seguitò Mauro «che gli eventi accaduti tornino a succedersi, negli universi che verranno, fin nel minimo dettaglio. Facciamo quindi che le azioni e le scelte di questa vita siano giuste perché saremmo destinati a compierlo in eterno se commettessimo uno sbaglio.»
Allora ti do un bacetto su una tetta perché non credo sia un’azione sbagliata e non mi dispiacerebbe si ripetesse all’infinito, così do pure al nostro immaginario romanziere lo spunto per un passaggio osé.» Mauro le abbassò una coppa del reggiseno e accostò le labbra al turgido capezzolo.
«Sentitelo che cosa ha escogitato per popparmi il seno», gli bisbigliò Silvia, gli occhi colmi di dolcezza. Lo osservò con uno sguardo materno. «Mauro in questo luogo umile ma più solenne di una cattedrale, prometto che sarò tua moglie.»
Staccando le labbra dal capezzolo, lui le rispose in modo vago: «Ancora non so se vorrò essere tuo marito.»
«Mentitore! Moriresti di crepacuore se non ti sposassi.»
«Silvia sei una strega materialista» le rispose lui. «Sono convinto di dover andare a cercare mia moglie sotto quei ruderi lassù, a ogni plenilunio, strattonarti per riportarti a casa ed evitare che continui a ballare il sabba assieme alle tue compagne.» Mauro sentì la risata di Silvia risuonare cristallina.
«Ti va di fare il bagno con quella strega della tua ragazza?»
«Questo è un torrente che viene dall’Alpe. Rimane freddo fino ad agosto.»
«Il sole batte ancora sull’acqua. Tirati su pigrone.» Silvia cercò di spronarlo sorreggendolo per le ascelle.
«Ho tossito anche stanotte.»
«Allora riguardati. Io però mi butto.»
«Silvia, dammi retta, non andare.»
Lei mise in acqua la punta di un alluce ma lo ritirò rattrappendolo. «È freddina ma è la prima impressione.» Silvia s’immerse fino alle caviglie e rabbrividì.
«Bagnerai i capelli!»
«Li asciugherò sul ponticello.»
«Bagnati almeno spalle e braccia, prima di… » Lo spaglio interruppe l’esortazione. Poi uno strillo.
Silvia si precipitò a guadagnare la riva sollevando comicamente i piedi dall’acqua. «Brrr, mica è fredda: è ghiacciata», disse dirigendosi verso gli zaini.
«Testona, ti sta bene. Hai anche bagnato il costume per nulla.»
Silvia tolse dal suo zaino un asciugamano da spiaggia e usò un lembo per asciugarsi alcune ciocche, poi lo fermò sul petto alla stregua di un pareo. Sfilò il costume, mise i pezzi sullo schienale di una poltroncina, quindi ricominciò a rovistare nello zaino.
«Che cosa cerchi?»
«Ho portato due bottigliette di brandy, come digestivo per stasera.» Silvia bevve a piccoli sorsi, poi fece a Mauro il gesto di porgergliela. «Facciamo metà ciascuno?»
«Sto bene così, grazie.»
«Io dico che berrai.»
«Vuoi costringermi come hai fatto poco fa?»
«Stavolta neanche ti tocco», disse lei lasciando che l’asciugamano cadesse ai suoi piedi.
Mauro rimase attonito, a osservare con quanta leggerezza si muovesse quella ragazzona che sfiorava il metro e ottanta. I seni, solcati dai fiumi blu delle vene che sfumavano sotto la pelle dorata, si ergevano come coni di vulcani gemelli. Cinti dalle areole color rosa antico, i capezzoli, puntavano al cielo. Alcune ciocche bagnate di capelli le celavano parte del volto conferendole un aspetto di selvaggia sensualità. Chiuse gli occhi per immaginarla compiere gli ultimi passi verso di lui, avvertì che gli stringeva i fianchi con le caviglie. Tornò a guardarla. Lo sovrastava, prepotente e onnipossente gli apparve il vello bruno. Allungò il braccio per prendere la bottiglietta ma lei ritrasse la mano. La voce gli vibrò di un sottile tremito. «Silvia vuoi farmi morire?» Cercò d’afferrare la bottiglietta ma lei fu più lesta a sollevarla.
«Hai detto che non volevi bere? Ora sono io a negartelo.»
Lui tornò ad assumere un’aria imbronciata e volse lo sguardo all’erba.
Silvia si mise prona. Provò a voltargli il viso per accertarsi che non fingesse ma lui resistette. «Te la sei presa? Mauro non fare il permaloso. Era soltanto un gioco.»
Lui aprì un occhio e strinse le labbra per trattenersi dal ridere.
«Furfante, lo sapevo che fingevi.» Gli avvicinò la bottiglietta alle labbra. «Ora, bevi.»
Mauro sorseggiò forzatamente e tossì dopo un goffo tentativo di fermarla. «Silvia, fammi alzare. Così mi va di traverso.»
Per tutta risposta lei gli mise la mano sotto la nuca per sostenergli il capo. «Devi bere così.»
Mauro fissò Silva, affascinato. I lineamenti ereditati dall’adolescenza erano scoparsi e le labbra apparivano tumide e provocanti. Le sfiorò il viso con la punta delle dita, come per timore di consumarla. I seni, prossimi alle sue labbra, gli procurarono una sensazione di struggimento. Poi il sapore dei capezzoli si mescolò a quello del brandy. La sentì fare un respiro mozzo e rilassarsi. «Oh amore», le sussurrò, il viso immerso tra le mammelle levigate come ciottoli del Rio Maestro «ti fan torto a dir che la tua dolcezza è amara, mentre il tuo frutto succulento è dolce come null’altro.»
«È tua?» domandò lei, stupita.
«D’anonimo, e non rammento dove e quando l’abbia letta.»
Col dorso delle dita lei gli sfiorò le tempie. Poi lo baciò con ardore.
«Silvia fammi riprendere fiato.»
«Mauro voglio fare l’amore.»
Lui riuscì a sussurrarle un sì col cuore che galoppava come quello di un leprotto rincorso dal cane.
«Prima devo andare a fare pipì»,disse Silvia. «Mi aspetti Mauro?»
«E chi scappa? Ma… dove vai?»
«Dove l’ho fatta la volta scorsa, dietro la siepe di biancospino.»
«Allora dovrò stare all’erta perché rimango a valle e non vorrei essere travolto dalla piena.» Mauro fece il gesto di ripararsi da uno scappellotto ma Silvia si limitò a scarmigliargli i capelli prima di allontanarsi tra gli steli d’erba che le giungevano alle ginocchia.
Fatalità
Mauro colse piacere persino d’essere rimasto solo. Tra poco si sarebbe chinata su di lui, dolce e passionale, materna e intelligente. Udì un fruscio d’erba, una carezza sulla fronte. Indugiò a guardarla, sospeso tra il desiderio di vederla e immaginarla. Sentì che lo chiamava.
«Mauro perché tieni gli occhi chiusi?»
«Per ritardare il momento di rivederti. Fai diventare emozionante anche l’attesa.»
«Non venirmi a dire che sei innamorato di me.»
«Non particolarmente.»
«Vuoi buscar… » Il volto di Silvia si contrasse in una smorfia di dolore. Emise un lamento.
«Silvia cos’hai?»
«Boh! Ho sentito come una scossa elettrica, sulla natica destra, mentre facevo pipì.» Silvia prese a frizionarsi energicamente la parte posteriore della coscia. «Mauro avverto bruciore.»
«Ti sarai chinata sull’ortica. Vai a bagnarti. L’acqua fresca lenirà l’irritazione.»
Silvia sentì le dita viscose. C’erano tracce vermiglie. «Cribbio, Mauro, sto sanguinando.»
«Ti ha punto una spina. Voltati e fammi vedere.»
Silvia sentì le dita di Mauro sfiorarle il punto dal quale s’irradiava la fitta. Lo vide precipitarsi verso il suo zaino, aprirlo e rovistare. «Mauro che cosa cerchi?»
«Mettiti bocconi e non muoverti.»
Lei si voltò per tentare di vedere il punto dal quale s’irradiava il dolore. Scorse un alone rosso violaceo. Avvertì una tumefazione. La paura le serrò la gola. Guardò Mauro che stava frugando nelle tasche esterne del suo zaino. Aveva il viso pallido e teso. «Mauro», strillò «che cosa mi è successo?»
“Devo rimanere calmo per non impaurirla o il cuore le batterà veloce e il veleno si spanderà.” La vide avvicinarsi strofinandosi la coscia.
«Mauro sento che mi sta diventando rigida la gamba.»
«Amore torna sul plaid e mettiti bocconi.»
Silvia lo guardò smarrita. «Mi hai chiamato amore! Cribbio la faccenda è grave. Non sono stata punta dall’ortica e neanche da una spina.»
«Giù, mettiti giù e rimani immobile.»
«Cribbio che ci fai con quel taglierino?»
Mauro si sforzò di parlarle con un tono rassicurante. «Solo un taglietto.» Riuscì perfino a sorriderle ma sentiva di avere una tensione rigida sulle labbra come se il sorriso che si sforzava di farle non gli appartenesse e la rassicurazione che le voleva trasmettere gli parve incerta e dolorosa.
«Oh mamma, lo immaginavo.» Una fitta di dolore le fece stringere i denti. «Devi farlo dal foro di un dente all’altro. Livio dice che si deve fare così se si è morsi da una vipera. Spremi la ferita e lascia scorrere il sangue.»
Mauro si concentrò sui due fori provocati dai denti dell’animale. Attorno ad essi ecchimosi e gonfiore si estendevano. Appoggiò la lama del taglierino sulla carne. Sentì il capo leggero e il corpo svuotarsi d’energia, le stesse sensazioni avvertite dopo aver passato il molosso ai soccorritori. “Dio, ti prego, non farmi svenire.” Strinse i denti e serrò la mano sul manico del trincetto.
«Che cretina sono stata a non guardare dove mettevo le chiappe», disse Silvia portando le mani a coprirsi gli occhi. Taglia, Mauro!»
Lui affondò la lama nella carne. Sulla pelle si formò una sottile linea rosata. Premette la ferita. Un rivolo vermiglio colò dalla coscia e macchiò l’erba. Scostò le ciocche di capelli che le coprivano il viso. Era pallida, le labbra esangui, la fronte imperlata di sudore, il respiro affannato. «Silvia come ti senti?»
«Mi fa un male terribile, avverto molto freddo.»
«Ti copro con il plaid. Ora stai immobile, chiamo l’unità d’emergenza di Sanfabiano.» Mauro provò a telefonare ma entrambi i cellulari non avevano campo. Ebbe un gesto di stizza. «Maledizione, non prendono.» Corse verso l’estremità del laghetto e riprovò. Oltrepassò il ponticello. Tentò ancora. Si affrettò a tornare. «Silvia, devo salire sul pianoro.»
«Mauro non lasciarmi», lo supplicò tendendole le mani.
Lui s’impose di non guardarla per timore di cedere alla commozione, s’infilò le scarpe e corse su per la viottola senza badare alle spine di rovo che lo graffiavano. Sul pianoro riprovò. Nemmeno lì c’era segnale. Imprecò di rabbia. Si precipitò giù per il sentiero. L’affanno gli serrava la gola. Giunto alla pineta, troppo tardi percepì il pericolo. Sentì gli scivolosi aghi sotto le carpe, un calcagno perdere la presa col terreno. Si lasciò rotolare per tentare di ridurre i danni dell’urto, le mani strette a protezione dei cellulari. Strisciò il capo sul terreno, balzò in piedi e compose il numero. Riconobbe la voce dell’infermiere. «Ugo, sono Mauro Fal… Falaschi.»
«Raffa, che cosa ti è successo?»
La… la mia ra… la mia rag… »
«Riprendi fiato e stai calmo.»
«La mia ragazza è stata morsicata da una vipera.»
«Oh porco diavolo! Dottor Vignani il Raffa mi sta dicendo che la sua ragazza è stata morsicata da una vipera.»
«Pronto Mauro? Dove l’ha morsicata?»
«Nella gamba destra, tra la coscia e la natica.»
«Sei sicuro che si tratti di un aspide?»
«Ci sono i segni dei denti veleniferi e in quel punto la gamba sta diventando livida e gonfia.»
«Praticale un’incisione tra un foro e l’altro se hai qualcosa che tagli. Devi fare scorrere il sangue senza succhiare la ferita.»
«L’ho già fatto.»
«Benissimo. Non le succederà niente. Stai tranquillo. Avverte sintomi?»
«Ora non saprei dirle. Mi sono allontanato perché non c’era campo nel punto in cui eravamo ma era pallida, aveva forti dolori alla gamba e sentiva freddo.»
«Dove vi trovate?»
«In Valcorniola presso la vecchia casa di Pansecco.»
«So dov’è. Pensi che l’ambulanza possa risalire la carrareccia?»
«È troppo accidentata, occorrerebbe un fuoristrada per arrivare almeno sino al pianoro.»
«Faremo di tutto per raggiungervi. Ora corri dalla tua ragazza e lavale immediatamente la ferita.
Silvia giaceva bocconi, un braccio a coprirsi gli occhi come per ripararsi dalla luce. Sollevò il capo nel sentirlo avvicinare. «Mauro, sei riuscito a telefonare?»
Vedere il pallore del suo viso, sul quale spiccavano labbra bluastre, Mauro si sentì serrare lo stomaco ma cercò di sorriderle. «Silvia tra poco saranno qui. Il dottore ha detto che non devi preoccuparti. Ora ti lavo la ferita.»
«Mauro hai il viso insanguinato.»
«Sono caduto. È soltanto un graffio.»
«Non mi pare solo un graffio…»
«Silvia non preoccuparti per me.» Le guardò la gamba. Notò che l’emorragia provocata dal taglio si era interrotta ma l’edema e l’ecchimosi si estendevano. La gola se la sentiva tanto arida da non riuscire a inghiottire. Iniziò a pulirle la ferita con un tovagliolo bagnato d’acqua minerale.
«Mauro non sento la gamba. Ho una sete terribile.»
Mauro corse a prendere un bicchiere. «Prova a bere amore.» Sostenendole il capo poggiò il bicchiere sulle sue labbra.
Silvia inghiottì con fatica, a piccoli sorsi. «Mauro perché mi sento così male?»
«Non lo so.» La sostenne di spalle per aiutarla a respirare.
«Cribbio che ci fosse la fregatura dietro tutta questa felicità, lo temevo. Questo significava la luce che svaniva nel tuo sogno.»
«Silvia cerca di resistere e rimanere calma, non pensare ad altro.»
«Mauro, rivestimi, non voglio che mi trovino nuda.»
Mauro lo fece alla meglio col pianto che gli velava la vista. Tornò a sostenerle le spalle piangendo sommesso. Le lacrime si mescolarono al sangue semi rappreso. Cominciava a domandarsi fino a che punto il cervello umano potesse sopportare la consapevolezza dell’impotenza, prima che si spezzasse come un elastico troppo teso.
«Mauro stai piangendo.»
«Sono gocce di sudore.»
«Sono lacrime invece.»
«Silvia mi sento impotente. Più di così non posso aiutarti.»
«Non disperare, ho la pellaccia dura. Ora vestiti anche tu ma prima vai a lavarti. Il sangue ti è colato dappertutto.»
«Ce la fai a respirare se ti metto giù?»
«Sì.»
Mauro corse a prendere uno zaino, glielo mise sotto la nuca perché tenesse il capo sollevato. Raggiunse la sponda e si chinò per lavarsi. Solo allora si rese conto che il sangue gli era colato fin sul torace. Sentì i margini di un taglio sulla tempia destra. Un furore sordo lo invase, infilò i jeans e si diresse verso il cespuglio di biancospino.
«Mauro?» La voce di Silvia s’indeboliva.
Dietro l’arbusto, tra gli steli d’erba, c’erano grosse lastre di pietra. Mauro prese a rimuoverle con furia. «Ti trovo, maledetta, ti trovo!», urlò con un tono tanto angosciato da trasformare il suo viso in una maschera grottesca.
Una coda tozza, grigia verdastra, spuntò da due pietre che facevano capanna.
«Ora voglio vedere dove cazzo vai a nasconderti.» Mauro scaraventò via le lastre. Un filo di saliva gli colava dalle labbra, sangue fresco gli rigava il volto e gocciava a terra.
L’aspide si mosse lento per nascondersi ma lui lo bloccò premendogli una scarpa sulla testa.
La vipera tentò di liberarsi attorcigliandosi su se stessa.
Sul volto di Mauro apparve un ghigno rabbioso. Aumentò la pressione della scarpa. «Non mi scappi bastarda!» Afferrò il rettile per la coda e lo sollevò tenendolo lontano dal corpo. «Mordi!» urlò. «Mordi prima che ti spiaccichi!»
Il rettile cercò d’attaccare ma aveva energie sufficienti solo per sollevare la testa di pochi centimetri.
Mauro sentì sulla spalla un leggero tocco, un bisbiglio.
«Mauro non farlo.» Silvia era accanto a lui, il volto esangue. Respirava a fatica e vacillava. «Non ucciderla. Non… non ha senso.»
«Sant’Iddio perché ti sei alzata?»
«Non farle del male. La colpa è mia. Si è sentita minacciata e si è difesa.»
Mauro si scostò da lei per avere spazio sufficiente a roteare la serpe e sbatterla contro una pietra.
«Mauro non far…» Un conato di vomito la costrinse a piegarsi.
Lui roteò l’animale e lo lanciò nella gora.
Il rettile nuotò tortuoso per guadagnare la sponda opposta.
Piegando le ginocchia per lo sforzo, Mauro la riportò sul plaid e le sedette alle spalle per sorreggerla.
A Silvia un altro conato contrasse il petto.
Mauro la aiutò a chinarsi perché vomitasse. «Silvia resisti.» Avvertiva che si stava accasciando.
Mauro non tenermi così. Non ti vedo.»
«Vuoi che ti metta giù?»
Lei annuì debolmente. Cercava di opporsi con tutte le sue forze a qualcosa che la risucchiava.
Mauro le posò il capo sulle gambe. La vide muovere faticosamente le labbra.
«Mauro sto morendo… »
La voce di Silvia si era fatta così debole che lui faticava a udirla persino nel silenzio di quel luogo. «Sciocchina non si muore per il morso di una vipera.»
«Non è vero. Si può morire anche per la puntura di un calabrone. Mauro tienimi la mano.»
«Te la tengo, guarda.» Mauro gliela sollevò per portarsela alle labbra. Era fredda. Baciò le dita violacee. Asciugava un filo di bava che le colava dalla bocca quando sentì il rombo di un motore. «Arrivano!» La esortò a resistere. Sentì il motore del veicolo spengersi, lassù sul pianoro. Pregò Dio che il dottore giungesse in tempo. “Padre Nostro che sei nei cieli…” Percepì le membra di Silvia perdere tensione, i muscoli del collo abbandonare il tono. Si accasciava tra le sue braccia. Le diede due buffetti sulle guance. «Silvia?» La scosse ripetutamente.
Lei riaprì gli occhi di una fessura ma un’apatia brumosa s’insinuava nelle sue membra offuscandole il pensiero. Si sentiva svanire in una dimensione nella quale incombeva una foschia cupa che risucchiava le percezioni. I sensi l’abbandonavano, come fossero aspirati da un immenso spazio vuoto, tenebroso, un mondo senza luce. «Sto cadendo.» Le parole che Silvia pronunciava perdevano consistenza. «Non sento più niente. Mauro perché vai via?»
Lui avvertiva un crampo allo stomaco come se a provocarglielo fosse stata la morsa di un fabbro. Un nodo alla gola gli impediva di inghiottire. «Silvia non vado via. Sono qui. Ti sto toccando.» Sostenendole la nuca, la baciò sulle labbra livide e fredde, le tenne la guancia accostata alla sua e le macchiò il viso di sangue. La allontanò un poco, vide che i moti espressivi la stavano abbandonando. Fu preso da una sferzata di disperazione. Insisté a scuoterla. «Stai desta, Silvia, per l’amor di Dio, stai desta!» Per seguitare a scuoterla dovette toglierle l’appoggio della mano sulla nuca. Vide il capo penzolare all’indietro, i capelli ciondolare sull’erba. «Silvia!» urlò con voce strozzata che saturò il vallone rimandandogli la coda della sua costernazione. Le posò l’orecchio sul petto, non riuscì a percepire il battito cardiaco. Gli sembrò che incupisse persino il fulgore del sole e sulla terra calasse un silenzio assoluto. La morte, vista così da vicino, le parve il più orribile incubo che potesse capitare a un uomo e ora gli piombava addosso come un’incudine che precipitasse su uno specchio in cui poco prima rifletteva la vita nel pieno del vigore. Si sentiva lacerare l’anima come se gliela strappassero dalla carne viva. Quale cinismo poteva architettare la morte. Si era avvicinata strisciando, mentre loro stavano per vivere momenti che avrebbero rammentato più di ogni altro: un giorno vissuto imprimendo nella memoria ogni gemito, ogni sospiro, ogni carezza del loro primo amplesso. Uno dei ragionamenti che aveva fatto Silvia, sugli enigmi dell’universo, gli tornò alla mente in tutta la sua orribile possibilità. … c’è pure chi sostiene che l’universo si espanda e si comprima in eterno, nell’identico modo, fino all’ultimo atomo, in successioni infinite e che gli eventi accaduti tornino a succedersi, nel minimo dettaglio, quindi facciamo che le azioni e le scelte di questa vita siano giuste perché questa volta è tutto ciò che abbiamo. Saremmo destinati a compierlo in eterno se commettessimo un errore.”
Sì non poteva esserci altra verità. L’universo era ordinato da uno schema perpetuo e la sola idea che lei dovesse essere condannata a morire infinite volte e lui a disperarsi eternamente, gli fece immaginare che quello fosse l’inferno. Fu proprio l’angoscia di crederci a infondergli la volontà di non arrendersi. Doveva agire come aveva appreso in un corso della Protezione Civile: premerle ritmicamente il torace per comprimere il cuore contro la spina dorsale. Riuscì ad acquistare freddezza: uno, due, tre, quattro, cinque! Uno, due, tre, quattro, cinque!» Le soffiò aria in bocca. «Uno, due, tre, quattro, cinque, uno, due, tre quattro, cinque.» Ancora gli soffiò aria in bocca. Notò qualche battito di ciglia sul volto di Silvia. «Uno, due, tre, quattro, cinque! Uno, due, tre… Udì uno scalpiccio sull’erba.
«Mauro continua così», disse il dottor Vignani. «Ugo, adrenalina, presto!»
CAPITOLO DICIOTTESIMO
Angoscia
Per due volte il professor Pagliai l’aveva incitata a riprendersi gridando, mentalmente, “forza Silvia, forza Silvia”, con lo stesso ritmo dei terminali dell’elettrostimolatore che la facevano sobbalzare e, per due volte, aveva sospirato di sollievo quando i monitor tornavano a tracciare il grafico del ritmo cardiaco sinusale.
Il sole, rosso come intinto nel cinabro, lambiva i tetti di periferia e illuminava di luce purpurea i volti tesi delle persone che gremivano la sala d’attesa del reparto di terapia intensiva.
Fabrizio provò a ingannare l’attesa osservando un crocefisso ligneo appeso a una parete della stanza. Gli occhi del Cristo avevano un’espressione triste, stranamente attenta. Tornò a ripercorrere i venti passi che dividevano la saletta d’attesa dal settore di terapia intensiva. Rilesse per l’ennesima volta l’avviso scritto su un foglio da fotocopie, appiccicato alla porta con quattro ritagli di nastro adesivo. “TASSATIVAMENTE NEGATO L’ACCESSO AL PERSONALE NON AUTORIZZATO”. Rientrò nella saletta e si approssimò al finestrone. Fuori c’era uno dei più bei tramonti che avesse visto. Gli fu naturale pensare che quella fantasmagoria di colori non potesse che essere presagio di eventi piacevoli invece, in quel palazzone rivestito d’innumerevoli piastrelle azzurre, c’erano medici che lottavano strenuamente affinché una ventenne potesse seguitare a vedere altri tramonti. Osservò i riflessi dei raggi sugli strati di nubi, bassi sull’orizzonte. Dipingevano una tavolozza di colori che variava dal giallo incandescente, al rosso purpureo con striature violacee. L’esistenza gli apparve come un’ombra senza alcun significato. “Che stronzata la vita” pensò con cupa ilarità.
Mauro aveva gli occhi persi sul pavimento. Una grossa benda, bordata di cerotto, gli copriva la tempia fino alla fronte. Il suo volto era di un pallore giallastro sul quale spiccavano occhiaie violacee. La sua maglietta era madida di sudore, il capo gli martellava e le minuscole rughe, ai lati degli occhi, si erano incavate. Era così snervato d’avere la sensazione che il suo animo fosse stato sostituito da una voragine. Gettò uno sguardo fuori della finestra. Fissò, smarrito, l’incendio del tramonto.
Livio era accanto a Franco Stefano; seguiva il disco solare scomparire dietro i tetti.
Lorenzo, contrito e dignitoso, era in piedi in un angolo. Monica, Linda e Arturo gli parlavano a bassa voce.
Nadia e Manuela stavano informando Patrizia di avere mandato persone fidate, in Valcorniola, a prendere gli oggetti dei ragazzi, quando il cellulare di Patrizia si animò.
«Patrizia ci sono novità?»
Nel sentire la voce del padre lei scoppiò in lacrime. «Babbo, Silvia è sempre grave. Non sappiamo altro.»
«Lorenzo dov’è?» chiese Riccardo, tentando di non farsi sentire preoccupato.
«Con noi.»
«La nonna?»
«È A casa. Con lei c’è Enrica.»
«Babbo speriamo che Silvia riesca a farcela.»
«Ne sono certo Patrizia. Saremo lì tra poco.»
Sorda disperazione
Il cielo assumeva il colore dell’ardesia. Si accesero i lampioni del viale che costeggiava l’ospedale.
Livio e Fabrizio presero sottobraccio Mauro e lo portarono fuori della saletta per tentare di distrarlo ma a lui Silvia traboccava da ogni angolo della mente e pensarla era un’angoscia che tutto trasformava in buccia. Gli sembrava divenuto un guscio vuoto persino l’amore per la sua famiglia. Giunsero presso il bar. Personale ospedaliero e visitatori affollavano il vasto atrio e i banchi del bar, conversando con pazienti svigoriti dalla chemioterapia o che avevano un solo dito fasciato, ma erano ombre che coglieva vagamente. Si passò la lingua sulle labbra secche. Pensò agli uomini che passavano la loro vita a parlare, mangiare, dormire, fare progetti, mettere al mondo figli, ideare il loro il futuro e fare grandi sacrifici per divenire proprietari di una casetta. Poi tutto andava a puttana per un evento più improbabile di una cinquina secca. E lui cos’era divenuto se non una pedina senza valore in quel vago gioco che era l’esistenza? Ora la vita, spogliata dalle illusioni dei sentimenti, del cibo e del sesso, gli appariva per quel che fosse: grottesca e assurda. Inganni il fare e il pensare. Che cos’era, in fin dei conti, l’uomo, con tutta la sua scienza-sapienza, se non una provvisoria creatura fatta per essere succhiata dalle zanzare? Silvia aveva ragione a sostenere che “dopo” non c’era niente. Un cazzo di niente. L’aldilà e il trascendente si reggevano sopra un mucchio di balordaggini.
Il ritratto che la raffigurava con la tutina rossa e gli occhi di bimba, bruni e pungenti come spilli, lo aveva terminato. Attendeva che il colore si asciugasse per donarglielo. Maledetti quei giorni che lo avevano fatto nuotare in un mare placido d’emozioni, invece covavano la tempesta per annegarcelo. Una volta, nel cortile di casa aveva visto il suo gatto acchiappare un topolino. Il micio si era trastullato con l’animaletto sollecitandolo a muoversi in un modo amorevolissimo; all’improvviso, affondando zanne e artigli sul suo corpicino, lo aveva dilaniato e sgranocchiato. Gli amici seguitavano a parlargli per distoglierlo dal mutismo ma le loro parole erano come acqua che cadeva in una vasca col buco di scolo aperto.
Spasmodica attesa
«Per il momento non ci sono aggravamenti ma la situazione di vostra figlia rimane gravissima. Tra poco potrà parlare col professor Pagliai, nel suo ufficio. È l’ultima porta all’inizio del corridoio. Ora vogliate scusarmi», disse l’infermiere allontanandosi frettolosamente.
Riccardo rientrò nella saletta sforzandosi di indirizzare a Patrizia e Lorenzo uno sguardo fiducioso.
Tiziana piangeva sommessa, come volesse tentare di dare dignitoso ritegno al dolore. Accarezzò la fronte bendata di Mauro.
«È colpa mia signora Tiziana», riuscì a dire Mauro. Si sentiva attanagliato da un senso di colpa sordo come una pietra. «Non sarebbe successo se Silvia non mi avesse conosciuto.» Il suono delle sue stesse parole gli parve lontano, come se qualcun altro si fosse impossessato della sua voce. La mente, come volesse rigirare il mestolo nel dolore, lo riportava incessantemente a rammentargli la prima volta che si erano recati in Valcorniola. “Mauro, posso tenerti per mano?”
Nadia guardava angustiata la chiazza di sudore che impregnava la maglietta sulla schiena e le ascelle di suo figlio. «Mauro, scostati dalla finestra. C’è corrente. Sei sudato.» Lo vide stringersi sulle spalle, il suo volto contrarsi in un’espressione di gelida apatia, lo sguardo vacuo. «Per l’amor del cielo, Mauro, scansati dalla finestra o prenderai un malanno.»
«Mamma lasciami stare», reagì lui con un tono che tagliò l’esortazione della madre come una rasoiata.
Luciano, diglielo tu di spostarsi», insisté Nadia rivolgendosi al marito.
«Mauro, tua madre ha ragione. Scostati dalla finestra.»
Lui si liberò bruscamente della mano del padre quando ne avvertì il tocco sul braccio. Si spostò mettendosi con le spalle addossate a una parete.
«Luciano torna a prendergli qualche maglietta asciutta e una maglia di lana per stanotte.»
«Sì, certo, Nadia. Si avvicinò ai genitori di Silvia per spiegare il motivo per il quale si sarebbe assentato.
«Santo Cielo no!» esclamò Tiziana. «Patrizia corri in negozio a prendere il necessario per Mauro.»
Giunsero i parenti di una persona coinvolta in un incidente stradale. La saletta divenne tanto affollata che l’aria si fece pesante nonostante la finestra aperta. Gli amici di Silvia preferirono uscire.
Mauro avvertì la necessità di urinare. Si fece largo tra la gente spostandola in modo brusco e s’incamminò sul corridoio. Udì la madre richiamarlo preoccupata.
«Mauro dove vai?»
«A cercare un maledetto bagno.» Presso un angolo si scontrò con un infermiere.
Sul volto dell’uomo si accese un accenno d’irritazione, subito cancellato dall’esperienza d’intuire se un visitatore fosse assente a causa dall’apprensione per qualche parente in gravi condizioni. Seguì un cortese pardon.
Quello degli uomini era occupato. Dalla parte opposta, in una rientranza del corridoio, un uomo anziano che reggeva una grossa busta dalla quale fuoriusciva la manica di un pigiama, stava telefonando. Due giovani donne si erano fermate a fumare accanto ad una finestra dischiusa.
«Lina speriamo che non ci brontolino.»
«Rita, sarebbe meglio che se ci appioppassero una multa, invece.»
«Di mille euro così prenderei la via di smettere. Mio marito c’è riuscito. Io, invece… » La donna fece una tirata nervosa e soggiunse: «Lo sai che mi tocca andare a fumare in giardino perché non vuole più sentire l’odore di sigaretta per casa?»
«Io sul terrazzo. Bisogna che provi con i cerotti alla nicotina. Roberta mi ha detto che con quelli c’è riuscita.»
«Tanto si muore lo stesso, Lina. Hai sentito di quella ragazza che hanno ricoverato per il morso di una vipera?»
«No. Quand’è successo?»
«Oggi dalle parti di Sanfabiano. Era andata col suo fidanzato a fare una scampagnata. Ha vent’anni. Ti rendi conto?»
«È grave?»
«In fin di vita. I rianimatori hanno usato il defibrillatore più volte per farle ripartire il cuore, e corre voce che non potrebbe passare la notte. È figlia dei proprietari CIEFFE, quella bella mora, alta, che serve spesso nel reparto del bianco.»
«Silvia. Mi ha servito più di una volta. Madonna mia che disgrazia.»
Mauro entrò nel bagno dal quale era uscito un visitatore esageratamente obeso. Considerare come l’uomo avesse potuto piegarsi per fare i suoi bisogni, in un ambiente tanto angusto, lo distrasse un poco. Pensò al motivo per cui, in un ospedale di nuova generazione come quello, i tecnici avessero scelto di fare bagni strettissimi e pianerottoli delle scale larghi quasi come campi da tennis. L’aria, lì dentro, nonostante avvertisse il rumore di una ventola, era appesantita dagli odori acri che l’uomo aveva lasciato. Nella tazza del water erano rimaste le striature degli escrementi che l’acqua non era riuscita a pulire del tutto.
Su una parete qualcuno aveva scritto una frase ironica. “Non si pretende che facciate sempre centro ma almeno qualche schizzo pisciatelo dentro”.
Mauro urinò trattenendo il respiro. Immaginò di tenere in alto un aquilone che perdeva quota. Cercò di capire il senso di quel pensiero slegato dalla logica del suo dramma e dello stesso atto della minzione, ma i tentativi rimasero sospesi come il filo che tentava di governare con l’immaginazione.
Trovò i genitori di Silvia che attendevano accanto ad una porta sulla quale spiccava la targhetta “STUDIO MEDICO”.
«Il professor Pagliai è entrato adesso», gli disse Riccardo. «L’infermiera ci ha chiesto di attendere. Entri anche tu, Mauro?» Tese le orecchie per intuire, dal minimo rumore, il segnale che la porta si sarebbe aperta.
Avvertendo il cigolio della maniglia che si abbassava, Tiziana trasalì.
«Accomodatevi », disse un’infermiera laconica.
Si sedettero presso una scrivania spartana, col ripiano di plastica bianca. Mauro rimase in piedi dietro di loro.
Il professor Pagliai, un uomo dagli occhi vigili e accorti, parlò col controllo di chi era avvezzo a parlare con persone prostrate. «Signori Colombo, ho il dovere di essere franco: Silvia rimane molto grave anche se, per il momento, le sue condizioni si sono stabilizzate. Il veleno dell’aspide ha provocato una reazione anomala del suo organismo e questo ha scatenato un’allergia.»
«Shock anafilattico?» chiese Riccardo.
Il dottore annuì, incrociò le mani e strinse le nocche delle dita.
Mauro notò l’infermiera abbassare lo sguardo e assumere un’espressione pessimista. Pensò alla morte come una sacca di tenebra, un’ombra dalle sembianze di un avvoltoio che ti spiava in ogni luogo, che ti ghermiva in ogni dove. Improvvise, le fiamme della macchia di Carbonaia gli riapparvero vivide e la sua mente lievitò l’idea che la Valcorniola dovesse essere punita. Avvertì una sensazione di calma improvvisa. “Silvia morirà, a vent’anni, infinite volte, per colpa tua, maledetto vallone, ma anche tu sarai destinato a bruciare in eterno.” Indietreggiò silenzioso e scivolò fuori dell’uscio.
«Purtroppo», seguitò a spiegare il medico «queste forme d’allergia sono subdole, però se Silvia superasse la notte, avremmo ottime speranze. Complicanze cerebrali non ce ne sarebbero perché il suo cuore ha sempre fibrillato pochi secondi. È il suo fidanzato quel ragazzo che è uscito?»
Riccardo si voltò indietro. «Sì. Mauro dove ti sei cacciato?»
«Abbiamo saputo che le ha praticato il massaggio cardiaco. È stato in gamba. Lo dobbiamo alla sua prontezza se possiamo ancora sperare.»
Mauro doveva uscire dall’ospedale senza essere scorto dai conoscenti. Imboccò il corridoio opposto a quello del pronto soccorso. Negli ospedali c’erano sempre uscite secondarie. S’infilò in un ascensore e premette un pulsante. Imboccò un altro passaggio che s’incurvava gradualmente impedendogli di vederne la fine; lo percorse accompagnato dal picchiettare delle sue scarpe. Finestre alte, il cui davanzale era un palmo sopra la sua testa, gli impedivano di vedere l’esterno. Aprì una porta che interrompeva il corridoio. Un angolo retto, poi un altro passaggio si allungava davanti a lui. Vide aprirsi una porta e uscirne un’inserviente carica di attrezzi per pulire i pavimenti.
«Che cosa ci fa, lei, nel seminterrato? È il tecnico delle caldaie?»
«Sto cercando il modo per uscire signora.»
«Come ha fatto a infilarsi in questo labirinto?» disse la donna scotendo il capo. «L’ingresso principale è distante. Le merita seguitare di qui ormai. Laggiù c’è un mio collega. Si faccia aprire l’uscita di servizio. La teniamo sempre chiusa perché non è la prima volta che malintenzionati s’intrufolano qui dentro. Hanno persino rubato decine di scatoloni colmi di pannoloni per anz… giovanotto si sente male? È smorto e ha gli occhi pesti. Non sarà un degente sottoposto a chemioterapia che vuole svignarsela, spero.»
«No signora non sono un paziente mi creda.»
«Allora si sbrighi a prendere una boccata d’aria o mi toccherà chiamare il pronto soccorso.»
Trepidazione
«Dio Santo, Luciano, perché Mauro continua a tenere il cellulare spento?» disse Nadia dopo avere ritentato di mettersi in contatto col figlio.
«È così confuso che nemmeno pensa di averlo inattivo», rispose il marito.»
«Dal bagno dovrebbe essere uscito, ormai. Dove può essere andato?»
«Sarà sceso nell’atrio a parlare con gli amici di Silvia.»
«Luciano, Mauro non è in sé. Questa vicenda l’ha sopraffatto. Meglio andare a cercarlo.»
«Vado io mamma», si propose Manuela.
Dal corridoio giunse un grido strozzato. Presso lo studio del professor Pagliai, una giovane donna era sorretta da più persone.
Affrante, Nadia e Tiziana si abbandonarono sulle sedie della sala d’attesa.
Manuela trovò gli amici di Silvia che parlottavano nell’atrio. «Notizie di Silvia», le chiese Livio.
«I suoi genitori hanno parlato col dottore. Purtroppo è ancora grave. Avete visto mio fratello?»
«Qui non è venuto. Pensavamo fosse con voi.»
«Dio mio dove può essere andato?» disse Manuela portandosi una mano al cuore.
«Stia tranquilla signorina. Mauro non si allontanerebbe dall’ospedale per nessuna ragione al mondo e l’avremmo visto se fosse uscito.»
«Questa non è la sola uscita», precisò Arturo. «Ce ne sono altre secondarie e Mauro potrebbe avere usato una di quelle se fosse voluto uscire senza essere notato.»
«Ho lasciato la borsetta in sala d’aspetto. Posso chiedervi un cellulare?» domandò Manuela.
«Signorina prenda il mio», si offrì il Bizza anticipando gli altri.
Il tremore alle mani impediva a Manuela di comporre il numero.
Arturo si prestò per aiutarla. «Lo tiene spento. Sapete dove abbia posteggiato la macchina?» chiese Arturo agli amici.
«Dalle parti di Viale Ariosto. Ho parcheggiato vicino alla sua.»
«Non saprei orientarmi», disse Manuela voltandosi verso il ragazzo che aveva parlato. Potrebbe farmi il favore di accompagnarmi?»
Il ragazzo fece cenno di seguirla e s’incamminò così spedito che lei fu costretta a trotterellare per starle dietro.
«Signorina se tagliassimo di qui faremmo più in fretta.»
«Grazie per esserti proposto. Puoi darmi del tu. Mi chiamo Manuela.»
«Io sono Stefano.»
«Tu sei il ragazzo che corteggiava Sil…» Colta all’improvviso Manuela non riuscì a terminare la frase. Lo guardò con occhi colmi di disagio.
Lui le fece un cenno d’assenso, seguito da un gesto che voleva significare “lascia perdere”. Rallentò per consentirle di seguirlo senza obbligarla a trotterellare. D’improvviso esclamò: «Diavolo, la macchina di tuo fratello era qui. Ne sono sicuro. Lì c’è la mia. Manuela dove pensi possa essere andato?»
«Forse si è diretto a casa ma temo abbia in mente qualcosa di brutto.»
«Hai la macchina?»
«Sono venuta con mio padre.»
«Ti porto io a Sanfabiano.»
«Stefano mi spiace che proprio tu debba prestarti ad aiutarmi.»
«Non pensarci. Forza, sali.»
«Stefano posso usare il tuo cellulare. Devo avvertire mio padre.» Qualche istante dopo Manuela componeva il numero di suo padre con mano tremante.
«Babbo?»
«Che cosa c’è Manuela?»
«Non abbiamo trovato la macchina di Mauro in nessun parcheggio dell’ospedale. Sto tornando a Sanfabiano per accertarmi che sia tornato a casa.»
«Avvertimi se non ci fosse.»
«Luciano che sta succedendo?» gli chiese la moglie.
«Mauro se n’è andato, forse è diretto a casa. Manuela sta tornando a Sanfabiano.»
Nadia sbiancò e Tiziana si prodigò per farle bere un sorso d’acqua.
Un atto disperato
Mauro entrò nella rimessa, cercò la canna che sua madre adoperava per innaffiare il giardino, ne tagliò un pezzo e si mise alla ricerca di recipienti. Trovò un contenitore vuoto di candeggina da due litri e una piccola tanica mezza piena d’acqua distillata. Versò per terra il liquido, infilò un’estremità della canna nel serbatoio dell’auto e succhiò per travasare benzina nei recipienti. Poi si diresse verso la Valcorniola. Usava le sue energie mentali per pensare che soltanto dalla vendetta potesse venirgli un po’ di sollievo. “Silvia morirà, a vent’anni, infinite volte, per colpa tua, maledetta Valcorniola ma anche tu sarai destinata a bruciare in eterno.”
Dalle finestre di casa non filtravano luci e l’auto di Mauro non era nel cortile. Manuela e Stefano si precipitarono nella rimessa. Furono investiti da un acre odore d’idrocarburo. Sull’impiantito videro la chiazza d’acqua e il pezzo di canna.
«Mauro ha tolto benzina dal serbatoio», disse Stefano. «C’è da pensare che voglia bruciare qualcosa.»
«La Valcorniola», disse Manuela tremante.
«Sai come si faccia ad arrivarci?»
Lei era rimasta talmente impietrita da non riuscire a memorizzare le parole di Stefano.
«Manuela, rispondimi, non c’è tempo da perdere. Conosci la strada per andare in Valcorniola?»
«Sì. Corro in casa a prendergli una maglia.»
«Non c’è tempo.»
Lei riuscì ad afferrare uno spolverino di suo padre prima che Stefano la strattonasse.
Mauro conosceva così bene la zona che la sua minuscola pila era sufficiente a tenerlo sul sentiero. Procedeva metodico, accompagnato dall’ansito del suo respiro, maledicendo Dio e tutti quelli che speravano nella sua misericordia. Si fermò sopra la cateratta. Nell’aria c’era fragranza di fragole selvatiche e l’acqua del torrente odorava di alghe novelle. Che cos’era quel sottile profumo che ora coglieva, predominante sugli altri, come volesse mantenere la sua unicità. Fiutò. Sì, era il profumo di Silvia che ancora pervadeva il vallone e che sarebbe rimasto lì, in eterno, dominando anche quello acre della cenere, dopo che lo avrebbe bruciato. Il rumore dell’acqua gli parve odioso. Quante volte, senza averglielo detto, gli era sovvenuto di immaginare che le insegnasse a dipingere la casupola di Pansecco, in autunno.
“Ora vela d’azzurro la parete in ombra”
“Perché Mauro?”
“Le parti in ombra richiamano sempre un po’ di colore del cielo. Ecco, così, con mano leggera. Ciumbia come sei brava. Questo quadretto sarà luminosissimo.” Forse, Silvia, non era mai esistita. L’affabilità di suo padre, la gentilezza di sua madre, la giovialità della sorella, la simpatia di nonna Martina, e Lorenzo, con le sue estroverse battute, erano stati un sogno.
Ora quel luogo che lei avrebbe voluto chiamare “Valle della Luce”, doveva essere divorato dalle fiamme e lo voleva osservare mentre ardeva fino a che non si fosse spenta l’ultima fiammella. Non c’era che da raggiungere il suo cuore: la fitta pineta. Strinse le dita attorno ai contenitori e riprese il cammino. Giunse in un punto in cui gli alberi lasciavano spazio al cielo. Gli parve che le stelle lo osservassero irridenti e crudeli, come buchi in una volta di velluto nero.
Ritorno dall’oblio
Nella mente di Silvia stavano riaffiorando le percezioni. Udì rumori di passi, frammenti di conversazioni. Dischiuse di uno spiraglio gli occhi appiccicosi; una luce che gli parve abbagliante la ferì. Intravide vaghe figure in movimento. Aveva qualcosa nelle narici; un grosso flacone era sorretto da un trespolo metallico. Un sottile condotto, che stillava gocce, penzolava da esso. Poi tutto divenne nebuloso e la materialità degli oggetti si dissolse in un sogno brumoso. Correva. Al suo fianco un cane perdeva sangue e il fuoco crepitava. C’erano fumo e lingue di fiamma. Un ragazzo cadde. Lo incitò ad alzarsi ma le parve che una barriera trasparente vanificasse i suoni. Il fuoco danzava sempre più vicino. Il ragazzo tossì piegandosi su se stesso. Tentò di allungare le braccia per aiutarlo ma era come se gli arti le fossero divenuti eterei. Lo sforzo di dare materialità alle membra la riportò a uno sprazzo di reale dimensione. Vide una figura familiare che la osservava con sofferente amorevolezza. «Ma… mamma…»
«Non sforzarti tesoro.»
Stefano
«Sì, gliela passo subito. È tuo padre Manuela. Non dirgli della benzina», le suggerì Stefano sottovoce.
«Manuela, lo avete trovato?»
Lei pensò di informarlo con una mezza bugia per non preoccuparlo ulteriormente.
«Ha lasciato un biglietto nella rimessa. Ha scritto che sarebbe andato su per il Fosso di Cecco a riflettere.»
«Temo voglia fare qualche stupidaggine, invece», bisbigliò Luciano sul cellulare perché Nadia non sentisse.
«Siamo sulla strada che porta al vecchio mulino di Pian degli Ulivi. Cercheremo di trovarlo prima possibile.»
«Appena lo troverete riferitegli che Silvia non è più in terapia intensiva. È stata trasferita in reparto.»
«Dio ti ringrazio. Come sta?»
«È confusa ma i medici ritengono che il peggio sia passato.»
Manuela lo interruppe concitata. «Babbo abbiamo trovato la macchina di Mauro! È posteggiata vicino alla viottola che porta in Valcorniola.»
«Fate presto!»
Stefano trasse dal cassetto della plancia una torcia elettrica e corsero su per la mulattiera ma i mezzi tacchi, la gonna e il terreno accidentato impedivano a Manuela di correre agevolmente. «Stefano non ce la faccio a starti dietro.»
«Dammi la mano.»
«È inutile ti rallenterei lo stesso. Continua tu.» Gli diede lo spolverino perché lo facesse indossare al fratello.
«Te la senti di rimanere sola?»
«L’unico terrore che ho è che mio fratello faccia una stupidaggine. Vai corri!» Le scarpe le facevano male. Se le tolse con rabbia, poi rimase immobile, gli occhi fissi verso la coltre di buio che aveva inghiottito Stefano. La notte alitava un respiro umido che le raffreddò la patina di sudore sulla schiena, provocandole un brivido. Percepiva sul petto i palpiti accelerati del cuore. Sopra il capo non aveva stelle. Scorse molte lucciole che disegnavano ricami luccicanti sull’aria. Sentì un debole stormire di fronde, un buon odore di bosco.
Stefano illuminò una piattaforma d’arenaria dalla quale proveniva il rumore d’acque cascanti. Mise le mani alla bocca a mo’ di megafono per chiamare Mauro ma l’idea che lui avrebbe potuto affrettarsi a mettere in atto i suoi propositi lo fece rinunciare. Tornò a procedere tenendo basso il fascio luminoso.
Mauro si addentrò nella pineta, raggiunse un punto un cui gli alberi erano più fitti e incastrò la pila sulla diramazione di un arbusto. Aprì la tanica e cominciò a spargere benzina sugli aghi.
Stefano intravide un barlume. Spense la pila e proseguì tentoni. Gli giunse l’odore acre dell’idrocarburo. Lasciò il sentiero e si addentrò nella pineta.
Mauro avvertì un crepitio d’aghi. Cessò di versare benzina e si mise in ascolto. Udì un altro scricchiolio, tolse la pila dalla forcella e la puntò nella direzione dei rumori. Sussultò nel vedere la sagoma di una persona alta e massiccia a pochi passi.
«Diamine», disse Stefano cercando di esprimersi con naturalezza «che posto stupendo. Meriterebbe che lo vedessi di giorno.» La luce della pila che Mauro puntava sul suo viso gli impediva di scorgerlo. «Puoi abbassare la luce?»
«Stefano come hai fatto a giungere fin qui?»
«Tua sorella mi ha accompagnato. Pensavi non fossimo capaci di intuire quel che ti frullava per il capo?»
«Non t’immischiare. Vattene!»
«Mauro vuoi togliermi quel cazzo di pila dagli occhi?»
«Stefano non muoverti. Dov’è mia sorella?»
«Ci attende più giù.» Stefano fece un altro passo ma l’intimazione di Mauro lacerò il silenzio.
«Ti ho detto di fermarti!»
«Ti abbiamo portato qualcosa da metterti addosso.» Stefano allungò il braccio per rendere più visibile lo spolverino e guadagnò terreno.
Mauro notò l’indumento. Era il grembiule che metteva suo padre per fare i lavori di casa.
«Stefano protrasse il discorso per distrarlo. «Vieni via, Mauro, dammi retta. Non vorrai che tua sorella rimanga al buio da sola.» Fece un altro cauto passo in avanti.
«Stefano, stai camminando sulla benzina.»
Stefano ora scorgeva la sagoma dell’amico. Sentiva il fiotto dell’idrocarburo che inzuppava il terreno. Guadagnò ancora spazio. Decise di accendere la pila e illuminò Mauro nel momento in cui gettava il contenitore vuoto. «Ha telefonato tuo padre. Silvia è stata trasferita in reparto.» Rabbrividì quando notò che cosa fosse il piccolo oggetto che Mauro stringeva in mano.
«Non è vero. Silvia è morta, morta e morirà in eterno, a vent’anni, perché l’universo si ripeterà sempre allo stesso modo fino all’ultimo atomo, fino al più banale fatto accaduto, perciò anche questa valle dovrà essere condannata a bruciare in eterno.»
«Mauro che accidenti stai dicendo?»
«L’unica verità Stefano.»
Dio mio è partito di testa. Silvia non è morta, credimi per l’amor del cielo.»
«Quale amor del cielo, quale Dio, Stefano. Non esiste un cazzo di niente!» Mauro poggiò il pollice sulla rotella dell’accendino, la ruotò facendo ardere la fiammella. Senza perdere di vista Stefano si chinò per raccogliere un pugno di aghi secchi. «Stefano, ti avverto per l’ultima volta: vattene!»
«Mauro, ragiona. Non vorrai bruciare veramente la tua valle! La battaglia per salvarla non l’abbiamo terminata.»
«Silvia è morta», ripeté lui con calma raggelante «che vada all’inferno l’ecologia, l’ambiente, lo sviluppo sostenibile: tutte puttanate. Tieni», seguitò allungandogli l’accendino «non credi che abbiamo un motivo in comune per distruggerlo? È per causa sua che Silvia ci ha lasciato entrambi e lo farà per tutti gli universi a venire. Appicca il fuoco a questi aghi e gettali lontano da noi. Avremo tempo per metterci in salvo. Sbrigati, ci godremo assieme il falò.»
«Mauro, questo luogo non c’entra niente.»
«Perché non dici che ti manca il fegato, vigliacco?»
«Ah, la pensi così? Saresti dovuto essere accanto a Silvia, stronzo, pezzo di merda, invece di venire quassù a fare una scemenza.»
Quelle parole, secche e urlate, fecero apparire un’ombra d’esitazione sul volto di Mauro.
Stefano fu lesto ad approfittarne. Gli tirò in faccia lo spolverino e si scagliò contro di lui a mani protese.
Avvinghiati, ruzzolarono per uno scoscendimento. Cadute a terra, le pile li illuminarono di sbieco.
Stefano gli fu sopra con un balzo. Bloccò la mano con la quale Mauro teneva l’accendino e lo costrinse a mollarlo. Si sentì raggiungere da un pugno sotto l’occhio destro nel momento in cui se lo metteva in tasca. La fiammata di dolore gli provocò un impulso di collera. Sollevò Mauro come un fuscello. «Vuoi la guerra?» urlò. Gli mollò un violento ceffone e si tenne pronto a parare la reazione ma l’amico si accasciò come una balla di stracci.
Mauro, le caviglie cinte con le braccia, poggiò il capo sulle ginocchia. Pianse sfregandosi i pugni sugli occhi come un bambino.
«Che razza d’amico ho trovato, cazzo!» esclamò Stefano sedendogli accanto. «Mi freghi la ragazza, rischiamo di finire arrosto entrambi e mi fai un occhio nero.» Per fargli avvertire la sua presenza, gli posò una mano sulle spalle e lasciò che si sfogasse a piangere. Lo aiutò a rimettersi in piedi, sfilarsi la maglietta e mettersi lo spolverino.
«Stefano, Silvia è stata davvero portata in camera?»
«E i medici pensano che sia fuori pericolo», aggiunse lui dandole tre colpetti sulla spalla. «Ora cerca di calmarti.» Stefano notò che l’amico zoppicava. «Ti sei fatto male?»
«Devo avere battuto il ginocchio cadendo.»
«Appoggiati a me. Aspetta, raccogliamo le taniche vuote. Che razza di ambientalisti saremmo se lasciassimo qui la plastica?»
Risveglio
Il chiarore proveniente dalla finestra ferì a Silvia gli occhi. Aveva la mente confusa, come se alla volontà di esprimersi, si opponesse una sorta di bruma grigiastra. Sentiva pulsare le tempie e le doleva il costato. Una fitta le attraversò il collo quando si sforzò di voltare il capo. Vide il volto di sua madre, segnato dalla stanchezza. «Mamma.»
«Sì amore?»
«Abbassa la tapparella. La luce m’infastidisce. Dov’è Mauro?» Silvia avvertiva le parole uscirle dalla bocca lente e strascicate.
«Seduto accanto a te. Ha il capo appoggiato sul letto. Si è assopito.» Le sollevò la mano perché lo toccasse.
Mauro avvertì una carezza fredda, incerta. Vide l’ombra delle dita. Rimase immobile a percepire la mano toccargli il viso, tastargli la garza. Voleva che lo vedesse sorridere. Ricacciò indietro le lacrime, sollevò il capo e abbozzò un sorriso. Il volto di Silvia era pallido, lo sguardo spento. Si alzò dalla sedia e si chinò per baciarle la fronte.
«Mauro, sei tutto ammaccato.»
«Tesoro mio non è niente.»
«Cribbio, dovevo ridurmi in fin di vita perché mi chiamassi, “tesoro mio.” Silvia vide sua madre soffiarsi il naso, gli occhi arrossati e cerchiati. «Mamma, ti ho rovinato la vacanza.»
«Che cosa vuoi che m’importi della vacanza.»
«Il babbo?»
«È andato in negozio quando ha visto che stavi riposando bene. Tra poco sarà qui con Patrizia.»
«Lorenzo?»
«È a casa con nonna.»
«La mia nonnina. E Drillo?»
«Silvia non sforzarti.»
«Mamma che giorno è?»
«Lunedì. Sono le sette e trenta di sera.»
«Cacchio ci son rimasta un bel po’ nel mondo dei più.»
Mauro tossì ripetutamente.
«Amore, ti ha ripreso la tosse?»
«Un po’.»
«Chiamalo un po’!» Silvia notò che indossava una maglia di lana con la cerniera sul davanti, di quelle che vendevano al negozio. «Mamma, stasera, Mauro, dovrà rimanere a casa nostra e voglio che dorma nel mio letto.»
«Sì ma ora non parlare più. Riposa.»
L’indomani Silvia aveva sofferto tanta di quella sete che nemmeno i flebo erano riusciti a lenire. I medici le avevano suggerito di coadiuvare la cura sorseggiando lentamente molta acqua ma era come se il liquido evaporasse prima di giungerle nello stomaco. Mercoledì mattina, Mauro le aveva telefonato per avvertirla che gli era salita la febbre e che, quella sera, sarebbe andato da lei se fosse riuscito a farla calare. Livio e Arturo si erano recati a farle visita nel primo pomeriggio. Verso le tre e mezzo era comparsa nonna Martina accompagnata dal figlio. Avevano conversato a bassa voce perché, sull’altro letto, assistita dalla madre, c’era una ragazza della sua stessa età, ricoverata per forti dolori addominali. Più tardi aveva telefonato a Villa Belvedere per avere notizie di Sofia e verso le cinque e mezzo aveva cenato: filini in brodo, purè di patate e mela cotta. Più tardi, vincendo le vertigini, si era alzata per andare in bagno a lavarsi e mettersi un po’ di fondotinta.
Poco dopo, preceduto da colpi di tosse, era giunto Mauro, pallido, che la fissò senza rivolgerle il ricciolo di un sorriso. L’aveva abbracciata con delicatezza, come temesse di romperla.
«Cribbio non sono diventata di vetro. Temi di baciarmi? La vipera non mi ha reso velenosa.» Lo baciò sulla bocca e gli sfiorò le lividure. Notò quanto avesse il volto smunto e come la fronte bendata e i segni bluastri sul viso gli conferissero un aspetto malconcio. «Cribbio, Mauro, mi sembri uno zombi. Mi sa che hai fatto un bel ruzzolone ma queste sembrano ditate.» Lo sentì rabbrividire. «Mauro, cos’hai?»
«Sento freddo, sono fiacco. Da ieri avverto fitte alle spalle.»
«Glielo hai detto ai tuoi di non stare bene?» Lo vide fare un cenno negativo. «Cribbio, Mauro, non saresti dovuto venire.»
«Volevo starti vicino.»
Silvia premette il campanello e di lì a poco giunse l’infermiere, un tipo corpacciuto e dallo sguardo gioviale.
«Chi ha chiamato?»
« Sono stata io Ottavio. Potrei avere il termometro per favore?»
«Ti senti di avere febbre Silvia?»
«È per il mio fidanzato.»
L’infermiere guardò il ragazzo e sul suo viso si accese un’espressione preoccupata. «Giovanotto, come si è ridotto così?»
«Ho fatto una brutta caduta.»
«Mi faccia sentire il polso: sì, marcia veloce. Le porto il termometro.»
Qualche minuto dopo, Mauro esclamò: «Silvia ho la febbre a trentanove e quattro.»
«Fammi vedere? Cacchio! Che abbiano messo il termometro a qualche paziente scordandosi di scuoterlo?» Silvia lo sbatté ripetutamente accertandosi che la linea rossa fosse scesa sotto i trentasette gradi. «Rimettilo?»
Qualche minuto dopo Mauro fissava la linea rossa giunta a trentanove e sette.»
Silvia premette ancora il campanello.
L’infermiere lesse la temperatura e considerò: «Porca vacca che cosa si sente?»
«Brividi, stanchezza, fitte alle spalle.»
«La faccio visitare.»
«La ringrazio ma appena torno a casa chiamerò il mio dottore.»
«Ottavio fallo visitare. Subito!» si oppose Silvia risoluta.
«Silvia non importa.»
«Mauro non fare lo sciocco. Hai la febbre quasi a quaranta.»
«Scusi se mi permetto», gli fece osservare la madre della compagna di stanza «la sua fidanzata fa bene a insistere. Lei ha proprio una brutta cera. Dovrebbe mettersi qualcosa addosso.»
«Mauro prendi la mia maglia di lana. È nell’armadietto.»
Lui fece per alzarsi ma un capogiro lo costrinse a poggiarsi sul letto.
«Si rimetta a sedere», disse la donna prestandosi a sostenerlo «gliela prendo io.»
Mauro si coprì la bocca tossendo ripetutamente. Il palmo della mano si bagnò d’espettorato nel quale erano visibili delle striature rossastre.
«Mauro che stai guardando?»
«Ho il palmo macchiato di sangue.»
«Che cosa? Prendi un fazzolettino e tossisci ancora.»
La carta si macchiò di vermiglio.
«Dio Mio Mauro!»
«Silvia non è niente. Di sicuro mi si è rotto un capillare per lo sforzo di tossire.»
Preoccupata lei si riattaccò al campanello.
«Buonasera. Sono il dottor Minucci.» Il medico era un tipo dall’aspetto d’eterno ragazzo, nondimeno occhiali e pizzo gli conferivano un’aria professionale. «Giovanotto, cosa c’è che non va?»
«Ho la febbre alta. Poco fa ho tossito e c’era sangue sul fazzoletto.»
Il dottore invitò Mauro a sdraiarsi sul lettino, poi gli disse che la sua ragazza aveva fatto prendere una bella strizza a tutti. «Un conto è perdere un paziente novantacinquenne un altro se si tratta di una ventenne e bella come lei per giunta. L’impegno massimo lo mettiamo per tutti ma è umano ragionare così. Sono stato informato che sei stato tu a praticargli per primo il massaggio cardiaco.»
Mauro annuì con un’aria quasi imbarazzata.
«Le hai salvato la vita», disse il medico posandogli lo stetoscopio sulle spalle. «Ora vedrai che in pochi giorni si rimetterà. Fai un respiro profondo, ancora, ancora. Ora controlliamo la pressione.»
«Allora dottore?»
«Hai deciso di rimanere vicino alla tua ragazza anche all’ospedale. Ti sei buscato la polmonite. Avvisa i tuoi genitori che rimarrai nostro ospite. Ti mando a fare una radiografia. Poi ti metteranno a letto.»
«Ottavio, il mio ragazzo?» chiese Silvia all’infermiere che si accingeva a fare un’iniezione alla paziente del letto accanto.»
«È stato ricoverato in medicina», le rispose l’infermiere
«Che cosa gli è preso?»
«Dovresti chiederlo al dottore.»
«Ottavio, dimmelo!»
«Polmonite.»
«Madonna Santa lo immaginavo.»
«Silvia ci sono gli antibiotici. Oggi la polmonite non è una malattia grave come una volta.»
Agitata lei gli indicò il contenitore della fleboclisi. «Staccami questa boccia. Vado a trovarlo.»
«Io non ti stacco un bel niente», reagì l’infermiere.
Silvia prese il telefonino e compose il numero di Mauro. «È libero ma non risponde.»
«Potrebbero averlo riportato in radiologia», la rassicurò l’infermiere. «Ora me ne interesso ma tu calmati.»
Silvia chiamò i genitori di Mauro. Le risposero che lui li aveva già informati e che si preparavano a partire. Poi telefonò a casa, quindi ai suoi amici. Venti minuti dopo si abbandonò, spossata, sul cuscino. “Cribbio non ce ne va più bene una.”
Durante la visita mattutina, oltre al professor Pagliai, c’erano un’infermiera e il dottor Minucci che prese a conversare con Silvia mentre il primario le sentiva il polso.
«Come sta la nostra ecologista?» Da tre giorni il Corriere non fa che interessarsi di lei, sa?»
«Meglio dottore. La sete è scomparsa e la gamba non mi fa più male. Il mio fidanzato?»
«Ah, quel ragazzo che ho visitato ieri sera? Non rammento come si chiami.»
«Mauro.»
«Silvia, se Mauro non dovesse farcela, lo rimpiazzerò io non sì preoccupi.»
«Dottore non scherzi», reagì lei tirandosi su con uno scatto repentino.
«Attenta signorina, questo è un Dongiovanni matricolato», la avvisò intono scherzoso il professor Pagliai. «Ora vediamo la gamba. Tiri giù i pantaloni del pigiamino.»
Silvia arrossì e si mise bocconi.
Il medico osservò la lividura che stava regredendo. «Beato il suo ragazzo», esclamò dandole un buffetto sulla natica. «E stia tranquilla. Le riconsegneremo Mauro rimesso a nuovo.» Il gruppo medico stava per uscire quando il primario le disse: «Silvia ho saputo che lei è vegetariana.»
«Sì perché?»
«C’è qualche problemino: dovrebbe sforzarsi di mangiare carne rossa per un po’. Il veleno dei rettili provoca anemia e una spintarella alle medicine gioverebbe.»
«Dottore posso andare a trovare il mio ragazzo?»
«Sì ma domani e solo per mezz’ora.»
«Stasera per un quarto d’ora?»
«T’impegnerai a mangiare carne?»
«Promesso.»
«Affare fatto ma solo dieci minuti.»
Un simpatico degente
Silvia si era sentita pervadere da un torpore così avvolgente da non riuscire a memorizzare quel che leggeva e la rivista le era caduta di mano.
Si appoggiava alla spalla di Nadia. Era come se vedesse la porta a due ante, che la divideva dal reparto degli uomini, attraverso le lenti di un cannocchiale messo al rovescio.
“Sbrigati, Silvia”, le ripeteva Nadia ma lei si sentiva le gambe gravi come macigni. Ad ogni passo era come se dovesse trarre i piedi da una melma risucchiante. Gli infermieri e i dottori andavano e venivano a frotte e assumevano un’espressione commiserante quando le passavano accanto. La fila di camere era infinita. Tutte con la porta spalancata. Ogni letto aveva il suo trespolo col sacchetto ciondolante dei flebo e sopra il letto, volti pallidi e scarniti di donne anziane che le lanciavano disperati sguardi d’aiuto. Nei loro occhi acquosi il desiderio di vivere si accendeva come fuoco di paglia. Ancora la voce di Nadia.
“Devo andare, Silvia, non posso più aspettarti.”
Vide correre a perdifiato, spalancare il divisorio e scomparire dietro di esso. Seguitò ad avanzare arrancando. Lo raggiunse e passò oltre. Si affannò a guardare a ogni porta aperta. Volti d’uomini e dolore. Vide Nadia dare pugni disperati a un letto vuoto e urlare: “L’hanno portato via, non lo rivedrò più, mai più! È' colpa tua, Silvia. Vattene! Fosse rimasto con Rossana, non gli sarebbe accaduto niente, niente!”
Un buffetto sul viso, l’ovattata voce di una giovane donna, si sentì scuotere.
«Signorina Silvia, si svegli.»
Aprì gli occhi, vide i volti di un’infermiera e della sua compagna di camera sopra il suo.
«Silvia mi hai fatto paura. Ti lamentavi, ti agitavi. Ho chiamato l’infermiera.»
Lei si tirò a sedere sul letto, ancora scombussolata.
«Signorina non è niente», la tranquillizzò l’infermiera «ha fatto solo un brutto sogno.»
«Quale sogno?» domandò Silvia stropicciandosi gli occhi. «Che ore sono?»
«A minuti porteremo la cena», rispose l’infermiera sorridendole.
Minestra di verdure, petto di pollo, carote lesse e mela cotta non erano stati sufficienti a saziarla, sicché aveva dato fondo a una confezione di wafer.
«Avresti mangiato l’ospedale se quattro giorni fa non fossi stata moribonda. «Come t’invidio Silvia», disse la sua compagna di camera. «Io non riesco a mandare giù un boccone.»
«Monica, sforzati di mangiare almeno la mela cotta.»
«Mi viene voglia di vomitare solo a guardarla. Temo mi trovino qualcosa di brutto. Quando me li faranno sapere gli esiti degli esami?»
«Non pensare agli esami. Ti vedo più colorita di ieri e domani starai ancora meglio.» Le rimise in ordine il letto e radunò le stoviglie. Poi le sedette accanto e si misero a conversare.
«Ha squillato il tuo cellulare mentre dormivi, ma riposavi così bene prima che iniziassi ad agitarti, che non ti ho voluto svegliare.»
«Di sicuro era il mio ragazzo», rispose Silvia. Prese il suo telefonino e compose il numero. «Mauro?»
«Silvia, ti ho chiamato più di un’ora fa ma non rispondevi. Ti hanno portato a ripetere qualche esame?»
«Macché, mi ero addormentata. Tu come stai?»
«Ho ancora febbre: trentotto e sette.»
«Accipicchia è ancora bella alta. Stasera vengo a trovarti.»
«Sei matta? Rimani a letto.»
«Ho il permesso del dottore. Mi ha concesso di stare con te dieci minuti ma dopo sai com’è, no?»
«È la verità?»
«Certo che è la verità. Cribbio, non vuoi che venga perché hai adocchiato qualche bella infermierina?»
«In camera mia ne gironzola un paio. Una è bionda e l’altra rossa naturale. La rossa ha le lentiggini che le fanno un visino simpaticissimo.»
«Le fanno un visino simpaticissimo», lo scimmiottò lei facendogli sentire uno sberleffo. «M’immagino come sarai affascinante col capo ammaccato e la febbre quasi a trentanove.»
«Eppure mi fanno certi sorrisetti, e quanta cortesia! Con una scusa o l’altra sono sempre intorno al mio letto. Chissà che a entrambe non venga la sindrome dell’infermiera.»
«La sindrome di cosa?»
«Dell’infermiera. Non capita di rado che le infermiere s’innamorino dei loro pazienti. La chiamano “sindrome dell’infermiera”. Non lo sapevi?»
«Tra poco te la do io la sindrome dell’infermiera.»
Quando Silvia si avventurò sul corridoio del reparto donne, le giunsero, dalle porte semiaperte delle camere, immagini tribolate di volti sconosciuti. L’umanità, spogliata dalla presunzione, succhiava stille di vita da boccette e sacchetti che sgocciolavano, in vena, liquidi trasparenti, lattei o di un saturo rosso scuro. Vide il braccio rinsecchito di una vecchia, che aveva nelle narici i tubicini dell’ossigeno, fuoriuscire dalle lenzuola e penzolare verso il pavimento. Quelle immagini non le rammentarono il brutto sogno ormai sfumato, ma il ricordo della sola volta che aveva viaggiato in treno, di notte. Il treno aveva fatto sosta nella stazione di una grande città. Accanto ad esso se n’era affiancato un altro. Come le era sembrato strano vedere le carrozze, con i finestrini illuminati, le facce anonime dei passeggeri e osservare quel preciso istante della loro vita. A un tratto le era parso che il treno attiguo avesse iniziato a muoversi ma era il suo che partiva. Era rimasta accanto al finestrino a osservare la città sfilare via, sempre più rapida, immaginando fosse essa a fuggire e non la sua carrozza. Una città che si portava appresso le insegne multicolori dei negozi, i rettangoli luminosi, delle mille finestre, che sembravano incollati sulle facciate dei palazzi, dove le persone vivevano ognuno la propria storia. Vite di cui spesso nessuno sapeva soltanto due pianerottoli più in basso. Aveva provato un tale senso di nullità che si era sentita mancare. La stessa sensazione che ora provava. Un capogiro la costrinse ad appoggiarsi alla parete. Si sforzò di procedere con naturalezza per timore che qualche infermiere la riaccompagnasse in camera. Udì una voce maschile alle sue spalle.
«Signorina, si appoggi a me.» Chi aveva parlato era un uomo in pigiama, piccoletto, sulla sessantina, con capelli canuti e sguardo guizzante. Teneva un giornale sottobraccio in un modo tanto stretto da dare l’impressione di temere che qualcuno se ne appropriasse.
«L’accompagno, signorina, se è diretta nel reparto dei maschi. Sembra non finiscano mai questi corridoi.»
«Ne approfitto se non le dispiace.»
«No di certo. Si appoggi alla mia spalla. “Me lo sentivo che dovevo andare a trovare l’Emilia. Schiatterebbe d’invidia se Umberto mi vedesse.” Il letto indebolisce ma basta riprendere un po’ d’aire e la fiacca passa. Bisogna dare tempo al sangue di innaffiare il cervello.» Notando che le labbra della ragazza si erano assottigliate in un sorriso, l’uomo tirò in dentro la pancetta e si mise a camminare sciolto come facesse una passeggiata di corso. «Lei è la ragazza morsicata dalla vipera.»
«Purtroppo.»
«Hanno messo il suo fidanzato alla “sette”.»
«Caspita, com’è informato.»
L’uomo fece un gesto di sufficienza, strisciò una babbuccia sul pavimento e aggiunse: «Qui dentro si sa tutto di tutti dopo un paio di giorni. Figuriamoci di lei che ne hanno parlato anche i giornali, signorina Silvia.»
«Sa addirittura il mio nome?»
«Pure quello del suo fidanzato: si chiama Mauro, è di Sanfabiano ed ha ventisei anni. Lei, invece, ne ha quasi venti.»
La simpatia di quell’uomo trasmise a Silvia un po’ d’energia. «A lei che cos’è capitato?»
«Boh! Ero al bar che giocavo una partita a tressette con gli amici e quando ho ripreso i sensi, l’ambulanza era quasi giunta all’ospedale. Sono quattro giorni che mi rivoltano come un calzino senza capirci un gran che. Aspetti, Silvia. Apro io.» Le tenne galantemente aperta un’anta dell’entrata che separava i reparti.
La camera “due” era spalancata.
Un uomo, pure lui sulla sessantina, che leggeva un quotidiano, sbirciò sopra gli occhialini da vista e raggiunse la porta. «Nando, accidenti che conquista hai fatto stasera.»
«Visto», rispose lui prendendo un andamento ancor più impettito.
«Signorina», domandò l’uomo «lei è la ragazza morsicata dalla vipera?»
«È lei», gli rispose Nando, gongolante. «Scusa Umberto ma andiamo di fretta.» Sollevò gli occhi a guardare Silvia. «È il mio compagno di camera», le disse sottovoce.
«Signorina Silvia, il suo fidanzato è alla “sette”», la informò l’uomo.
Nando si voltò e lo fulminò con un’occhiataccia. «Lo sappiamo!»
«Nando, somigli a Gongolo che accompagna Biancaneve», lo schernì il compagno.
“Ti venissero i calcoli sulla lingua.” Silvia, avrebbe visto il suo fidanzato la settimana prossima se ci fossimo fermati a dargli spago. Quello è un chiacchierone e uno scroccone matricolato. Il giornale che legge è il mio di ieri. Lui non compra mai giornali perché dice che sono pieni di panzane ma se mi assento, sono costretto a portare il mio appresso perché non lo mollerebbe fino a che non lo avesse letto da cima a fondo se riuscisse ad appropriarsene. Strapperebbe persino la pagina d’annunci di quelle donnine che… beh penso abbia capito di quali donnine si tratti. E poi è di una curiosità che… lei pensi: ieri mia moglie mi ha portato dei chibi.»
«Vuol dire kiwi?»
«Proprio quelli. Non mi garbano molto perché li trovo acidosi, però si dice che contengano molte vitamine e aiutino ad andare d’intestino. Insomma le stavo dicendo che mia moglie mi ha portato i chibi e lo sa, Silvia? Lui ha approfittato che fossi andato al bagno per sgraffignarmene uno.» Nando strusciò le ciabatte sull’impiantito. «Meno male che sarà dimesso domani. É stato ricoverato per disturbi urinari e pareva gli avessero trovato un tumore a un rene, poi hanno scoperto che ha il rene bitorzoluto ma più funzionante di quello normale.»
«Buon per lui.»
«Sì, certo e spero che il prossimo ospite non sia un moribondo. In ospedale può capitare di dover dividere la camera con chiunque, però un agonizzante ti fa cascare il morale sotto i piedi. Ah ecco, siamo alla sei. Nella prossima c’è il suo fidanzato. È sul letto accanto alla finestra. Il suo compagno è un tale che ha un problema polmonare e l’orologio che perde i colpi. C’è voce che fumi cinquanta sigarette il giorno, ma gli toccherà smettere se non vorrà tirare le cuoia in quattro e quattr’otto. La accompagno fino al letto del suo fidanzato, signorina Silvia?»
«Le vertigini mi sono passate. Signor Nando, non so come ringraziarla.»
«Sono io a ringraziare lei per avermi dato la possibilità di fare schiattare d’invidia il mio compagno di camera.»
Quel tessitore del destino
Rimasta sola, Silvia fu colta da una strana apprensione. La porta della “sette” era socchiusa. Dallo spiraglio l’ambiente le appariva buio. Aprì lentamente. Deboli lame di luce filtravano dalla tapparella abbassata. Sul letto più prossimo scorse la sagoma di una persona, udì un russare irregolare. Attese che gli occhi si abituassero alla penombra. «Mauro?» La voce le uscì incerta. «Mauro, ci sei?»
«Certo che ci sono. Col febbrone che ho dove pensavi fossi andato, in discoteca? Vieni.»
Silvia esitò ad avvicinarsi. «Mauro?» ripeté con un filo di voce.
«Calimero, sono qui, malandato ma ci sono.» Mauro accese la lampada del letto e allungò il braccio fuori delle coperte per prenderle la mano. «Brava, hai messo la maglia.» Si scostò per farle posto. «Siedi sul letto.»
«Sono felice, Mauro. Siamo all’ospedale, entrambi malconci ma non mi sono mai sentita così felice come in questo momento. Tu dimmi se sono normale.»
«Le persone normali non sono particolarmente interessanti.»
«Non riesci a trovarmelo un difettino?»
«Hai una personalità dominante. Credo che dovrò adeguarmi a vivere nella tua ombra.»
«Muchela che non è così, stupid.»
«Me l’ha detto tuo padre che hai un carattere forte ma a me va bene così.»
«Mi stai corteggiando?»
«Accetti?»
Silvia lo fissò con un piglio imbronciato. «N…sì, osservatore occhilunghi.»
«Silvia, mi stanno imbottendo d’antibiotici, però seguito a sentirmi sgangherato lo stesso.»
«Le medicine richiedono tempo per fare effetto. Domani ti scenderà ancora la febbre, vedrai, però scantoni se tocco l’argomento “sbirciare”, eh?»
«Mi metti in imbarazzo. Ti confesso che le gambe accavallate delle donne sono per me la visione più sensuale che ci possa essere. Le cosce, per lasciare galoppare l’immaginazione e moltiplicare il fascino che avvolge misteriosi lidi, non devono rimanere scoperte più di tanto.»
«Cribbio, quali raffinate fantasie erotiche cova questo ragazzaccio, anche con la febbre alta», rispose Silvia, dandogli un buffetto.
«Avrò ben diritto di suggerire alla mia ragazza quale sia il modo più seducente per accendere in me lussuriosi aneliti.»
«Sentitelo come l’ha detto con libidine poetica.»
«Preferiresti che queste sensazioni le confidassi a Linda?» la provocò Mauro affilando le labbra in un intrigante risolino.
«Smettila subito, o quelle due infermiere troveranno il tuo cadavere.» Silvia gli posò delicatamente la mano sulla fronte ed esclamò: «Mamma mia come scotti.» Lo coprì fino al collo obbligandolo a mettere sotto le lenzuola anche la mano con la quale lo accarezzava.
«Mia madre mi ha portato l’aspirina effervescente. «È nel cassetto del comodino. Sciogli una pastiglia in mezzo bicchiere d’acqua. Per qualche ora mi farà sentire meglio.» Mauro compresse il torace per non tossire. Tu come stai?»
«Bene. Ho perfino mangiato carne per rimettermi in forze. Me l’ha consigliato il dottore perché il veleno dei rettili provoca anemia. Ora, però, pensa tu a guarire.»
«Ci puoi scommettere. Abbiamo lasciato in sospeso qualcosa.»
Lei annuì con un risolino e posò la bocca sulla sua.
«Potrei infettarti se la polmonite fosse contagiosa.»
«Se non mi ha ammazzato la vipera…»
«Calimero, stai buona con la lingua. Il tuo amico ha preso ad agitarsi.»
«Non ci credo.»
«Non avrei nulla in contrario se volessi accertartene.»
Silvia mosse la mano sulla coperta e la fece scivolare fino a posargliela sulla zona pubica. «Cribbio, che maschiaccio.»
«La febbre scalda il sangue, lo fa circolare meglio e lì è tutto un groviglio di vene. Fare l’amore con la febbre accresce il piacere fisico.»
«Non dirmi che lo hai sperimentato con Rossana.»
«Certam…»
«Zitto o ti strangolo seduta stante.»
«Sei stata tu a domandarmelo.»
«Sstt, parliamo piano o desteremo il tuo compagno di camera. Meglio controllare che la pastiglia si sia sciolta. Tua madre te l’ha portato qualche fazzoletto di cotone?»
«Sono nel comodino, in una busta di plastica. A che ti servono?»
«Ne bagno uno e te lo appoggio sulla fronte.» Gli sollevò il capo per farlo bere a piccoli sorsi. Inumidì un fazzoletto e glielo distese sulla fronte.»
Mauro avvertì un brivido di freddo, poi di sollievo. «Silvia, ti sei accorta che non ci siamo ancora dichiarati? Vogliamo rimediare?»
«No, Mauro. Dimostrarcelo in ogni momento senza mai dircelo. Potrebbe portarci sfiga.»
«Hai una cultura agnostica ma sei superstiziosa. Non ti sembra che le due cose stridano?»
«Meglio aver paura che buscarne, diceva sempre mio nonno.»
Mauro si sforzò di non ridere per evitare di tossire. «Silvia, sono convinto che non mancherò di divertirmi sotto la tua ombra. Sei di una simpatia unica.»
«Rossana lo era meno?»
«Quanto avrei voluto si comportasse in modo da apparirmi sempre allegra.»
«Ti sei sforzato di non sospirare. Provi rimorso per averla lasciata?»
«Soltanto nostalgia per gesti, sguardi. Mi preparava la crema al cioccolato quando andavo a casa sua e me la serviva calda. Gli piaceva togliermi i puntini neri dalle spalle.»
«Che cosa sarebbe accaduto se lei avesse avuto un carattere gioviale e noi ci fossimo incontrati ugualmente?»
«Non lo so e non voglio pensarci.»
Il tono di Silvia perse amabilità. «Ti sento così mio che andrei a riprendermi i puntini neri che Rossana ti ha tolto. È più forte di me e non posso farci niente. Ignoravo di essere così.»
Rimasero pensosi fino a che avvertirono le lenzuola dell’altro letto frusciare.
L’uomo borbottò qualcosa, si voltò in un fianco e seguitò a dormire senza russare.»
«È finita la sinfonia.»
Tornarono a sorridersi sulle labbra.
La frescura che diffondeva il fazzoletto bagnato, ora procurava a Mauro sensazioni di benessere. «Con te che mi coccoli, potrei anche morire.»
«Così ti vengo appresso, scemo.»
«Staremo assieme anche nell’aldilà.»
«Non ci conterei molto fossi in te. Meglio rimanere al di qua il più a lungo possibile.»
«Miscredente di una materialista, rimani finché non mi addormento?»
«Ci puoi contare. Non vorrei che qualche infermierina venisse a farti il filo per davvero.»
Mauro si recò a far visita a Silvia il giorno precedente la dimissione di entrambi. Entrò in camera mentre lei mangiava una banana. La vide coprirsi la bocca per non spargere il frutto sulla stanza.
Per quell’improvviso scoppio di ridarella, Mauro si tastò il viso. «Silvia perché ridi? Ho qualche sbaffo in faccia?»
«No.»
«Ma no. Aspetta un attimo. Fammi inghiottire. Devo dirti una cosa che… forse lo sai già?»
«Che cosa dovrei sapere?»
«Sto per rivelarti chi sia il tuo futuro cognato.»
«Manuela non ha il ragazzo ed è intenzionata a non impegnarsi fino al termine degli studi. E oltre.»
«I propositi vanno a farsi friggere se si crede di avere trovato la persona giusta», ribatté lei.
«Chi sarebbe la persona giusta per mia sorella?»
«Stefano! Erano assieme quando sono venuti a farmi visita, prima che passassero da te.»
«Questo che vuol dire? Si saranno incontrati per caso», suppose Mauro.
«È stato un caso che si siano tenuti per mano e lei lo abbia preso sottobraccio quando sono usciti?»
«Hanno mantenuto un atteggiamento più che amichevole quando sono venuti a trovarmi.»
«È comprensibile che con te non abbiano voluto ancora manifestarsi. Usa un po’ di psicologia.»
«Chi se lo sarebbe aspettato», disse Mauro facendo il gesto di grattarsi il capo.
«A me pare giusto. Tu, a Stefano, hai preso la ragazza e lui s’è rifatto con tua sorella.»
«E non immagini il piacere che mi faccia.» Mauro accese il cellulare e iniziò a comporre il numero di casa.
«A chi telefoni?»
Invece di risponderle lui attivò il vivavoce e le strinse la mano per farle intendere che dovesse ascoltare. «Mamma?»
«Mauro come stai?»
«Bene. Ascolta: Manuela ha preso il pullman per venire a trovarmi?»
«Sì ma la riporterà a casa Stefano, il ragazzo che ti ha cercato in Valcorniola, quello che corteggiava Silvia. È venuto anche ieri sera a trovare tua sorella e sono usciti a cena. Te ne avremmo parlato appena fossi tornato. Siamo un po’ preoccupati. Manuela ha da terminare gli studi e non vorremmo che quel ragazzo la usasse come un chiodo che ne schiaccia un altro.»
«Può darsi che un po’ sia così, però è un bravo ragazzo. Te lo assicuro.»
«E mai dovremmo finire di dimostrargli riconoscenza.»
«Sarai meno preoccupata quando lo conoscerai meglio.»
La risposta della madre fu un “mah” titubante. «Ora telefono a Silvia.»
«Sono qui da lei. Te la passo.»
Fu così che Mauro dovette attendere l’esaurimento del credito.
CAPITOLO DICIANNOVESIMO
La casa dei nonni
Agosto era cominciato e i Colombo avevano chiuso per ferie. Tiziana e Riccardo, con nonna Martina, avrebbero trascorso le vacanze a Montelignano. I figlioli erano diretti verso altre mete: Silvia al mare e Patrizia in montagna con i rispettivi fidanzati. La maturità di Lorenzo era stata premiata con due settimane a Londra.
In casa c’era un gran daffare per le partenze. Tiziana sbrigava le faccende di malumore perché l’idea di avere i figlioli sparsi a destra e a manca, le metteva il patema addosso.
Tornata dagli acquisti Patrizia diede un bacio alla nonna che si adoperava a spezzettare la verdura per la cena. «Stai attenta a non tagliarti.»
«Patrizia fa minga la menagrama né?»
«La mamma?»
«È nello stanzino a stirare. Patrizia, la to ma’ l’è preoccuppada. Dighel un quai coss. Fammi questo piasè.»
«Lo so che cosa abbia ma che vado a dirle?» Patrizia si recò tuttavia dalla madre e cercò di prenderla alla larga. «Mamma, avresti dovuto vedere quanta gente c’era all’ipermercato, oggi. Sembrava Natale invece che agosto. Pare che nessuno sia andato in vacanza.»
«La vita s’è fatta cara con l’euro. C’è sempre meno gente che può permetterselo.»
«Sai mamma chi ho incontrato? Ti ricordi quella signora che… mamma, cos’hai?»
«Tiziana fece scivolare il ferro da stiro sulla camicia del marito con un gesto nervoso. «Niente Patry.»
«Mamma non stiamo lontani un anno.»
«Patry lo sai come sono fatta. E dopo quel che è successo a Silvia… glielo hai comprato il regalo?»
«Sì. È una collanina d’oro bianco con una farfalla intarsiata di brillantini. Speriamo la accetti. Dice sempre che distruggiamo l’ambiente per cercare i preziosi.»
«Vedrai che non la butta», le rispose la madre con un gesto di noncuranza.
«Dov’è?»
«In camera sua a prepararsi. Patry, volevo dirti…» Tiziana esitò come provasse imbarazzo. «Di questa cosa ne ho parlato col babbo e mi ha dato ragione.»
«Allora, mamma?»
«Aspetta un attimo. Non è facile dire certe cose: tua sorella e Mauro vorranno rimanere soli, dopo che avranno cenato. Preferiremmo non rimanessero in macchina, fuori, di notte. Hai sentito la notizia trasmessa oggi dai telegiornali, di quei fidanzati che sono stati aggrediti da un branco di balordi e ridotti in fin di vita? Oggigiorno questi fattacci accadono sempre più spesso. Saremmo più tranquilli se andassero a casa dei nonni.» Ora che aveva rotto il ghiaccio Tiziana procedeva con maggiore spigliatezza. «Dopo quel che tua sorella e Mauro hanno rischiato, ci mancherebbe che li aggredissero pure. Questo vale anche per te d’ora in poi. La chiave sai dov’è.»
Fu la volta della figlia a provare disagio. Si avviò alla porta inseguita dalla voce di sua madre che aveva preso a elencare una sequela di raccomandazioni.
«Rammentatevi di serrare tutto e chiudere il gas anche dalla manopola principale, quando tornate. Tenete sempre in funzione l’allarme. Avverti Silvia che domattina saremo a Montelignano verso l’una. Dille di acquistare il pranzo alla rosticceria di Giubbone: per noi lasagne al forno e faraona arrosto con patate. Lei sceglierà quel che vorrà.»
Silvia aveva indossato un abito cremisi aderente, corto sul ginocchio. Le scarpe, col tacco dieci, anch’esse rosse, s’abbinavano con le caviglie fasciate da calze scure a rete fitta e le conferivano un sobrio aspetto sexy. I capelli raccolti sulla nuca la facevano sembrare altissima. Si dava l’ultimo tocco di lucido alle labbra quando entrò sua sorella. Con la coda dell’occhio vide il pacchetto ma fece finta di non averlo notato. «Patry, come mi sta, dietro, quest’abito?»
«Cade a pennello.»
«Il tono di rossetto ti sembra troppo acceso?»
«Non per la sera e con quell’abito è perfetto.»
«Ti sembrano eccessivamente alti, i tacchi?»
«Ti stanno benissimo ma ti fanno troppo alta. Non lo metterai in imbarazzo?» Patrizia notò la sorella fare un risolino compiaciuto. «Dove andate a cena?»
«Al Michelangelo.»
«Caspita!»
«Per una volta si può fare, no?»
Malgrado Silvia si fosse abbassata, Patrizia dovette sollevarsi sulla punta dei piedi per darle un bacio sulla guancia. Poi le porse la confezione. «Auguri Calimero.»
«Lo apro?»
«Dovresti attendere domani.»
«Chi ci arriva? Cribbio, è una collanina d’oro bianco, e questa farfallina è tempestata di brillantini. Mi piace un sacco ma non dovevate. Per cercare i preziosi distruggiamo l’ambiente.»
«Lo immaginavo che avresti risposto così, ma domani compirai vent’anni. È il più bel compleanno della vita.»
«Sì, certo, però…»
«Non la metterai?»
«Ormai l’avete comprata. Mi aiuti ad agganciarla?» La catenina e il pendente spiccarono sulla pelle ambrata. «Ciumbia mi sta proprio bene. Grazie, Patry. Vai a dare un bacio alla mamma e al babbo, sennò mi sbafo il rossetto.»
«Ascolta, Silvia: Babbo e mamma preferirebbero andaste a casa dei nonni se dopo cena vorreste rimanere soli», le disse Patrizia porgendole un mazzetto di chiavi. «A me la mamma ha detto la stessa cosa. Non vogliono più che di notte… insomma, hai capito. Si raccomandano di tenere sempre in funzione l’allarme. Domani giungeranno a Montelignano verso l’una. Dovrai passare dalla rosticceria di Giubbone a perdere il Pranzo: lasagne al forno e faraona arrosto con patate per loro. Scegli tu quel che vorrai mangiare. Io Caly, non ci sarò. Stasera viene Sergio a prendermi. Porto a casa sua i bagagli. Rimarrò da lui per aiutarlo a preparare i suoi. Partiremo domattina alle tre e mezzo, perciò buon compleanno Silvia, e buone vacanze.»
«Ciao Patry. Divertiti.» Quando sua sorella fu uscita, Silvia osservò, sbalordita, il mazzetto di chiavi.
Mezz’ora dopo l’auto di Mauro si stava già movendo da casa Colombo quando Patrizia comparve sul portone. Reggeva una voluminosa busta. «Ve la manda la mamma. È per domattina. Ciao.»
C’erano due buste di latte da mezzo litro, una bottiglia d’acqua minerale, un barattolo di caffè liofilizzato, una confezione di fette biscottate e, in un cartoccio, due grosse porzioni di torta margherita.
Blu
Mentre Silvia, precedendolo, saliva la lunga rampa di gradini della casa dei nonni, Mauro ripensava al momento in cui era apparsa dalla zona notte con quell’abito fiammante. Il cuore gli aveva perso un battito. E che imbarazzo al ristorante. In altezza lo superava quasi di una testa e siccome, per raggiungere il loro posto, avevano dovuto seguire il cameriere, tra due ali di tavoli già gremiti di clienti, Silvia era stata costretta a rifilargli una gomitata per farlo decidere a darle il braccio. Ora che non aveva i lampadari di cristallo incombenti sul capo e non vedeva i camerieri che ostentavano galateo movendosi impettiti come avessero fatto il bagno nell’amido, si sentiva come lo avessero slegato. Le scale, con la pedata in cotto rosso e le stampe appese alle pareti, raffiguranti mestieri agresti, gli trasmisero sensazioni di quiete. Poi, come una sferzata, gli giunse un’immagine di terribile limpidità. Le premeva lo sterno per comprimerle il cuore contro la colonna vertebrale. Serrò gli occhi per tentare di cacciare il ricordo e inciampò in un gradino. Presa a dare impulso alle dita, perché stringessero il corrimano, la mente tagliò il filo della memoria e l’immagine si dissolse.
«Mauro che cosa ti succede?»
«Niente.» La goffa mimica del suo volto lo fece apparire agli occhi di Silvia, mille miglia lontano dall’angoscia.
Entrarono in una cucina ricavata da un vasto locale nel quale un salotto, arredato con mobili di bambù, era separato dal resto del locale con un divisorio ad arco. Un massiccio tavolo, contornato da robuste sedie impagliate, troneggiava al centro della cucina. Mobili semplici e funzionali spiccavano sulle pareti bianche, dalle quali pendevano pochi oggetti casalinghi di rame. Un caminetto ad angolo la cui cappa era bordata da travetti di quercia, e lo stesso frigorifero color del legno, contribuiva a dare all’ambiente un’essenzialità d’altri tempi.
Mauro posò la busta sul tavolo e si guardò attorno. C’è fresco e buon odore.»
«La frescura è dovuta ai muri spessi. Il buon odore è olio di gomito.» Silvia si chinò per infilare la spina che dava corrente al frigorifero e, nella disinvoltura del gesto, Mauro colse il compiacimento che provava, a muoversi da padrona.
«Passami la roba.» Silvia mise il latte in frigo e le altre cose in una capiente madia. Poi lo abbracciò e lo tenne stretto. Cribbio che voglia di strizzarti avevo. Rimasero abbracciati a lungo, senza baciarsi, senza scambiarsi una sola parola.
Era passata mezzanotte da un pezzo quando avevano terminato di unire i due lettini sui quali dormivano Silvia e Patrizia.
Silvia ripose con cura gli abiti di entrambi nell’armadio e spense la luce del lampadario per accendere quella più discreta del comodino. Ripiegò con ordine il lenzuolo superiore e distesero un ampio asciugamano sull’altro.
Seduto sul bordo del letto, Mauro reprimeva l’emozione. La pelle ambrata di Silvia, le calze autoreggenti, le mutandine e il reggiseno di pizzo nero, le immaginava come le ultime pennellate di un capolavoro. Minuscole perle di sudore gli bagnavano il labbro superiore. «Mi sforzo d’essere calmo ma ho il cuore in gola, Silvia.»
Lei rimase in piedi accanto a lui accarezzandogli il capo. «Pure io che ti credi?»
«Stasera è già domattina. Auguri per i tuoi vent’anni Calimero e spero che… » Mauro dovette fare una pausa per riprendere fiato. «Che tra altri vent’anni tu sia ancora accanto a me a farmi galoppare il cuore.» Inghiottì la sua emozione e aggiunse: «Che fatica ho fatto per dirtelo.» Le porse un minuscolo pacchetto avvolto con una carta, cremisi.
In un cofanetto amaranto, c’era un anello d’oro bianco con un rubino ovale, attorniato da brillanti.
Silvia rimase muta a osservare il gioiello.
«Scusami. Non ho mantenuto la promessa. Lo metterai?»
Commozione e vanità femminile sopraffecero i principi. Gli posò l’anello sul palmo sudato della mano e protese l’anulare sinistro perché fosse lui a infilarcelo. Chiuse gli occhi, sfiorò la fedina e la sua voce si fece tremula come le foglie dei pioppi alla brezza dei meriggi di luglio. «La bacerò ogni sera, prima d’addormentarmi e mi ricorderà, per sempre, che in Valcorniola le tue mani mi hanno abbracciato il cuore e ridato il sole.» Lo sovrastò con i suoi seni superbi e gli tenne il viso poggiato al ventre.
Alle dita di Silvia, che si muovevano leggere tra i suoi capelli, Mauro reagì fremendo. Si distesero sull’improvvisato lettone e le loro bocche si unirono alla ricerca dei più reconditi anfratti. Fu un bacio tenerissimo, e quando si separarono, sottile e trasparente, un filo di saliva congiunse ancora le loro labbra.
Fu Silvia a inginocchiarsi sopra di lui. «Vorrei avesse i tuoi occhi verdi, se accadesse.»
«E i tuoi capelli neri.»
Silvia, socchiuse gli occhi abbassando il bacino, le sue labbra si contrassero in uno spasmo di dolore, poi tornarono a distendersi. Il suo Mauro era tutto in lei. Reclinò il capo, sorrise ed emise un gridolino, libero dal pudore. Si abbassò per baciargli la punta del naso. «Cribbio, com’è bello.»
Per Mauro fu come immergersi nella sua tavolozza. Con le mani a sorreggerle i glutei, la guidò perché potessero muoversi di quel ritmo antico quanto l’uomo.
Prepotenti come il sorgere del sole, Silvia avvertì gli stimoli dell’orgasmo soltanto dopo pochi affondi. Si fermò e si distese al fianco di Mauro.»
«Che cosa c’è Calimero?»
«Stavo per provare piacere.»
«Perché non ti sei lasciata andare?»
«Pensavo fosse troppo presto.»
«Che cosa sei andata a pensare? La tua sensibilità è un dono bellissimo della natura. Anch’io ero per… cavoli non è facile arrivarci assieme.»
«Scusami ho sciupato l’attimo. Rossana, al mio confronto, era sicuramente più brava…»
«Silvia, smettila di fare paragoni.»
«Ecco, ti ho fatto anche arrabbiare.»
Mauro si sollevò su un gomito e la accarezzò per consolarla. «Non lo sono, stai tranquilla.»
«Invece sì. Ti sta tornando piccolo.»
«È naturale, ci siamo distratti.»
«Mauro, grazie per la pazienza.»
«Sciocchina, quale pazienza. Dobbiamo solo imparare ad affiatarci.»
«Rimango sotto per non darti la sensazione di dominarti?»
«Non me l’avresti data lo stesso ma ora smettila di porti domande e rilassati.» Mauro s’incantò a osservarne il viso, la massa dei capelli sparsi sul cuscino, lo sguardo languido, il petto accaldato, i seni tumidi sui quali spiccava il turgore dei capezzoli. Le tracce di sangue sulla folta peluria di Silvia, il suo pene tornato turgido e striato di vermiglio, lo fecero pensare alla storia del mondo. La baciò su entrambe le palpebre e s’immerse in lei movendosi piano ma il grembo ardente di Silvia gli annientò ogni volontà di resistere. Si fermò per non straripare.
«Mauro, non ce la fai a trattenerti?»
Lui non rispose. Le poggiò la fronte sui capelli e attese che si attenuasse lo stimolo dell’orgasmo.
«Amore non importa. Per me è stato bellissimo ugualmente. Lasciati andare.»
Mauro fece per ritrarsi ma lei glielo impedì premendogli le mani sui glutei.»
«Che cosa succede se stai dentro senza muoverti?»
«Niente…»
«Allora stacci.»
Mauro rimase immobile a respirare l’odore che Silvia emanava. Le premette il pube contro il monte di venere e sprofondò ancora in lei. Avvertendo che lo stimolo non si affacciava, aumentò la cadenza ma lo sentì arrivare, incontenibile come un’onda di piena. Rallentò fin quasi a fermarsi.
«Mauro lasciati andare. Non voglio che ti ammali un’altra volta. Stai sudando.»
Lui tentò di estraniarsi immaginando di essere in bottega a discutere con un cliente pignolo. L’ondata parve ritrarsi ma era come se lo attendesse dietro uno scoglio, sbellicante e burlona. Immaginò di trovarsi nell’anticamera del dentista ad attendere il suo turno; la pulsione arretrò e gli consentì di riprendere a muoversi. Dal respiro di Silvia, rapido e corto, capì quanto fosse prossima all’alba degli eventi, ma lo stimolo di cedere si fece traboccante. Serrò le labbra, immaginò di aver calpestato la cacca di un cane e doversi pulire la suola strofinandola su un ciuffo d’erba. Riuscì ancora a mettere un sacchetto di sabbia sull’argine, ma l’ardente intimità di Silvia gli spalancava l’effimero dell’eterno. Gli balenò un’ultima idea. Pensò di masticare prugne selvatiche acerbe. Cercò di materializzare il sapore aspro e allappante delle minuscole drupe, e quel figlio di puttana del suo cervello riassorbì lo stimolo.
Silvia avvertiva che l’acme stava per avvolgerla come le spire di una tromba d’aria. Si lasciò andare a un gemito prolungato e quando avvertì che Mauro stava per esplodere nel solco del suo piacere, gli artigliò la schiena. Intrecciandogli le gambe attorno alle reni, favorì la penetrazione spingendo in alto il bacino. Sentì che gli premeva la bocca sul collo per soffocare un grido. Percepì fiotti tiepidi dentro di lei: lampi di piacere fulgidi come i fuochi di Montelignano. Il balenio divenne luminescenza nella quale, membra e sensazioni si placarono, poi i fuochi si riaccesero fulgidi e variopinti come la tavolozza in cui Mauro preparava i colori. Gli gemette sulle labbra languidamente, teneramente, con struggente pienezza.
Mauro si adagiò su di lei, la fronte imperlate di sudore, il respiro che si calmava, il corpo rilassato.
Silvia fu pervasa da un’acuta percezione di possesso, come avesse raggiunto una meta d’importanza quasi mistica, che si elevava sul piacere fugace della carne. Gli accarezzò i capelli, appiccicati alle tempie. Voleva spiegargli quel che aveva provato ma senza trovare le parole.
I loro corpi emanavano l’odore sonante della giovinezza.
Silvia lo accarezzò dalle spalle ai glutei, come volesse accertarsi della sua consistenza. «Mauro?»
Con gli occhi che rilucevano d’amor proprio, lui sollevò il capo.
«Mamma mia, che roba!», esclamò Silvia «ho provato piacere due volte.» Sul suo volto si accese quell’inconfondibile radiosità emanata dalle giovani donne appagate che si sono donate alla persona amata.
Mauro tornò a baciarla sulle palpebre. Come gli piaceva poggiarle le labbra sugli occhi e sentirne la morbidezza! «Per resistere ho dovuto pensare di masticare prugne selvatiche acerbe.»
«Non dirai sul serio!»
«Altroché.»
«Sei proprio un’artista non c’è che dire.» Silvia roteò le pupille e aggiunse: «Ciumbia, fare l’amore è una faccenda complicata, però ci riproviamo a venire insieme?»
Mauro le strizzò l’occhio. Poi le disse bisbigliandoglielo nell’orecchio: «Ora come faccio a toglierlo? C’è un tepore.»
«Cribbio, è rimasto duro.»
Mauro riprese a muovere il bacino con una grinta da instancabile amatore.
Lei lo fissò con un piglio ammonente. Percepiva quanto fosse lei l’elemento dominante della coppia. «Drillo secondo, non sarebbe più saggio se ce ne stessimo sotto le lenzuola ad aspettare che ci asciughiamo dal sudore, poi andassimo a farci la doccia?»
Si erano passati la spugna sulla pelle e le cose di cui avevano conversato erano state motivo per scambiarsi maliziosi risolini. Tornati sul lettone improvvisato, l’effetto rilassante della doccia li aveva fatti scivolare nel sopore.
«Raffa, se la raccontassimo chi ci crederebbe che tu sia riuscito a trasformare la nostra prima volta in una favola perché hai pensato di masticare prugne selvatiche acerbe?»
«Non pensare che quest’espediente riesca sempre ma non me ne preoccupo perché sarò io a rischiare il secondo posto, spesso», disse Mauro incrociando le gambe alle sue.
«Ti dispiacerà?»
«Tantissimo.»
«Non è vero. La gioia ti trabocca dagli occhi.»
Mauro annuì avvertendo le brume del sonno avvolgerlo. «Silvia, non riesco a tenere gli occhi aperti.»
«Nemmeno io. Accosta il viso al mio e tienimi la mano.»
Percepivano il soffio delle loro narici.
«Mauro non ti scoprire. Quassù rinfresca di mattina presto. Buona notte.»
«Notte Calimero.»
Le comprimeva il torace ma era come se lo sterno le fosse diventato di marmo. Vide il faccione dell’ingegnere, i denti scoperti, serrati in un ghigno malevolo.
“Smettila, non vedi che è già morta? Scappa! L’acqua sta salendo e sommergerà tutto. Morirai anche tu.”
“Vattene! Sei solo un sogno.”
La voce stentorea dell’ingegnere saturava la valle. “Sei tu che vuoi capovolgere il vero col sogno. La realtà, invece, è questa: questa!”
“Figlio di puttana, non la lascerò qui.” Continuò a comprimerle lo sterno e soffiarle aria in bocca. “Respira, Silvia! Respira, respira, respira…”
L’ingegnere gli afferrò le braccia per impedirgli di continuare.
Lo ricacciò indietro e riprese a premerle il costato. “Respira, respira…” Gli parve di vedere una massa bruna, una forma ovale più chiara, udire una voce. “Respira, Silvia, respira, respira, resp…” Si sentì scuotere.
«Svegliati Mauro!» Silvia gli posò la mano sulla fronte madida. «Mi hai fatto prendere paura. Continuavi a ripetere: respira, respira.»
«Non riesco a dimenticarlo...»
«Avresti dovuto confidarti, perché non lo hai fatto?»
«Speravo mi passasse.»
«Prova a distogliere la mente come hai fatto con le prugne selvatiche.»
«È un’altra cosa. È un pensiero fisso che sta nascosto e mi aggredisce nel sonno. A volte anche se sono sveglio e quando meno me lo aspetto, come volesse rovinarmi gli istanti belli dei pensieri.»
Silvia gli fece poggiare il viso sul petto perché il cuore glielo sentisse palpitare. «Mauro, credo gioverebbe a entrambi tornare in Valcorniola. Dovremmo continuare a considerarla la nostra valle e cacciare i fantasmi. Me lo prometti?»
Nella luce discreta della lampada da comodino, gli occhi di Silvia apparvero a Mauro, bruni come i frutti di rovi maturi. «Ci andremo a raccogliere le more, appena torneremo dal mare, ma ti avverto», la avvisò mentre il cuore di Silvia gli rimandava nell’orecchio pulsazioni scandite con la regolarità di un cronometro: ti obbligherò a fartelo addosso se ti scappasse un bisognino.»
Silvia annuì accarezzandogli la fronte. «Ora cerchiamo di fare un altro pisolino.» Spense la luce. «Mauro, hai preparato la roba per il mare? Mauro?» Vide che aveva ripreso sonno sul suo petto. Lentamente, gli posò il capo sul cuscino. Prese un oggetto sferico dal comodino. Era la galla che aveva staccato dall’alberello, in Valcorniola. La strinse sul palmo. Fu pervasa da un profondo senso di pace. Rimase a osservare l’albore opalescente che filtrava dagli spiragli degli scuri. Nel silenzio del primo mattino, in quell’ora in cui la notte iniziava ad arrendersi al giorno e la realtà assumeva l’inconsistenza dell’illusione, le giungeva il rumore ovattato dell’intenso traffico sulla superstrada che costeggiava la valle.
EPILOGO
La gomma da masticare
«Quella non è la macchina di Stefano?»
Silvia cominciò a togliere i bagagli dalla bauliera dell’auto come non lo avesse sentito. «Mauro, sbrighiamoci, dobbiamo portare di sopra i bagagli e andare in spiaggia a prenotare l’ombrellone.»
«Ti ripeto che quella è l’auto di Stefano», insisté Mauro. «Colore e modello corrispondono, ha la sigla della nostra provincia e sul lunotto posteriore c’è il simbolo della FNEI.» Avvertì due mani femminili coprirgli gli occhi. «Silvia, ma che diav… Manuela!»
La sorella indossava calzoncini corti e una T-shirt bianca. «Volevamo farti una sorpresa.»
«Bugiarde e intriganti, ora capisco perché negli ultimi tempi quando vi telefonavate, Manuela spariva sempre in camera sua.»
«Abbiamo dovuto trovare questa soluzione», spiegò Manuela «altrimenti i nostri vecchi avrebbero fatto un sacco di storie. Invece con te…»
Mauro avvertì un tocco sulla schiena poi una voce maschile di sua conoscenza esclamare: «Ciao piromane.»
«Stefano, insomma non ti vuoi spiccicare da me?»
«Senti chi parla.»
«Scusateci ragazzi. Prima di pranzo vorremmo prenotare l’ombrellone», s’affrettò a dire Silvia.
«Già fatto», rispose Manuela. «È in terza fila accanto al nostro. Vi aiutiamo a portare i bagagli?»
Poco dopo Mauro fissò il letto matrimoniale con uno sguardo sbalordito. Sbirciò sua sorella che chiudeva lentamente la porta di camera, rivolgendogli un complice sguardo. «Silvia, ma…»
Lei aprì l’armadio e si mise verificare se le grucce fossero sufficienti per contenere il vestiario che si era portato. «Ma cosa?» gli chiese con un tono distratto.
«Non avevamo prenotato due camere singole?»
Lei passò un dito su un ripiano dell’armadio per accertarsi che non ci fosse polvere. «Per tua sorella e Stefano ho prenotato soltanto una settimana fa ed era rimasta libera solo questa, allora ho pensato fosse meglio dare le singole a loro. Stanno insieme da meno tempo di noi.»
«Sai che differenza.»
«Preferisci che Stefano vada a letto con tua sorella?»
«No, no, mi va bene così.» Mauro si distese sul lettone a braccia spalancate. «Calimero, vieni qua.»
«No, Mauro, ora no. Tra poco dobbiamo scendere per il pranzo e abbiamo ancora da sistemare il vestiario.»
«Silvia?» Mauro le fece cenno di coricarsi piegando l’indice verso di se. La sfiorò sulle protuberanze che i capezzoli formavano nella maglietta.
«Mauro, non tentarmi o saltiamo il pranzo.»
Lui, fissandola negli occhi, continuò maliziosamente a stuzzicarle i capezzoli. La vide socchiudere le palpebre e trarre un respiro profondo.
«Mauro, alziamoci o faremo notte.» Silvia si sottrasse alla carezza e lo trasse per sollecitarlo ad alzarsi.
Mentre lui si faceva sollevare dal letto simulando un’irresistibile fiacca, bussarono alla porta.
«Ragazzi, posso entrare?»
«Vieni, Manu.»
«Mauro, hai un rasoio usa e getta per Stefano?»
Il fratello aprì una borsa e prese a rovistare.
«Sai Silvia?» disse Manuela offrendole una gomma da masticare. «C’è Lara Paisani in concerto, stasera, allo stadio comunale. Ci andiamo.»
«Certo.»
«Ah, eccolo», disse Mauro.
Sua sorella si avvicinò per prendere il rasoio e vide strani oggetti nella borsa. Erano involucri di plastica e avevano un picciolo che sembrava una valvola per l’aria. «Cos’è quella roba?»
«Salvagente da braccio per adulti.»
Silvia si approssimò e domandò chi avrebbe dovuto metterli.
«Noi due.»
«Mauro, faremmo ridere tutta la spiaggia. Io so nuotare come un pesce.»
«Anch’io ma i crampi, i malori? Se fossi allergica anche alle sostanze urticanti delle meduse e ti paralizzassero? Ci vuol poco ad affogare.»
Le due ragazze scoppiarono a ridere ma Silvia rimase a bocca aperta dando segni di soffocamento.
Mauro le gridò che cosa avesse ma lei riuscì soltanto a indicargli la gola.»
«Mauro», disse Manuela concitata, «ci fa cenno che le è andata di traverso la gomma da masticare. Mettiamola a testa in giù e battiamole la schiena, presto!»
Fortuna volle che Silvia riuscisse a espellere il masticone. Con gli occhi sgranati, respirò profondamente, poi soggiunse: «Mauro, sarà meglio gonfiare quei cosi e controllare che non ci siano perdite. Non posso chiedere troppo alla galla. Qualche volta potrebbe non funzionare.»
«Quale galla?» domandò Mauro.
«Quella che ho colto la prima volta che ci siamo recati in Valcorniola.»
«Non dirmi che te la sei portata al mare!»
«Eccola qui!» esclamò Silvia traendola dall’astuccio dei cosmetici. L’avevo pure messa nello zaino quando siamo andati a fare il pic-nic. Credo sia un portentoso portafortuna.»
«Silvia non è da materialista convinta come lo sei tu credere a certe superstizioni.»
«Mauro, lo sai che cosa dice un vecchio proverbio? A tutto si può ipotizzare un’eccezione.»
«Questo proverbio non mi sembra d’averlo mai sentito», commentò Mauro.
«Lo credo bene perché l’ho ideato io, seduta stante.»
«Silvia sei unica!»
FINE
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