"Cosa penseranno i vicini?"
di
Raymond Oire
genere
voyeur
Raymond Oire
“Cosa penseranno i vicini?”
«Cosa penseranno i vicini!»
I vicini? Non me ne fregava un cazzo di quello che avrebbero pensato i vicini. Mi generavano solo un sordo fastidio, i nostri vicini, quelle personcine sospettose, fatte di finti sorrisi e frasi di circostanza, perennemente scocciati e impauriti, che passavano il loro tempo a maledirti nascosti al riparo dalla loro parte dello spioncino. Tutti i vicini ci spiavano addosso, quando uscivamo e quando rincasavamo. Inizialmente pensavo lo facessero per Anna, le sue belle gambe, e quelle minigonne, da cui le fette di culo saltavano fuori. Ma erano donne. Le nostre vicine ci spiavano, madri di famiglia, mammone, porcellone, tutte arrapate, ci spiavano sulle scale, a toccarci, a sbaciucchiarci, a farci i cazzi nostri. Ci spiavano quelle troie represse e il signor Rizzi, e poi, non appena eravamo spariti dal loro campo visivo, correvano dai loro mariti a narrare le nostre scempiaggini; nel caso del signor Rizzi, dal gatto.
«Lascia perdere i vicini, non c’è nessuno.»
Eravamo sul pianerottolo del mio appartamento, stavamo rientrando; dopocena; una piovosa primavera. L’occhio della signora G ci scrutava dal suo buchino, aprendosi e chiudendosi, poi rimanendo aperto, avido di sapere.
«Dai entriamo.» Disse Anna tentando di afferrarmi le chiavi.
Le tirai su; non ci arrivò.
«Hai freddo?» chiesi io.
«No.»
«E allora facciamolo qua.» e dicendolo la agguantai alla vita, stampandole un bacio.
Anna non sapeva che scuse accampare: «E se qualcuno ci vede?»
«Sono già tutti dentro, stasera non esce più nessuno!»
Probabilmente era vero. Quell’anno avevo cinque coinquilini; avevamo una maggiore intimità su quel pianerottolo a mattonelle nere e bianche.
Guardai il portone della signora G, l’occhio assetato si retrasse, poi tornò, il luccichio non lasciava dubbi.
Anna non avrebbe mai acconsentito. Si doveva prendere l’iniziativa.
Le accarezzai i capelli biondi, la spinsi contro il muro, tornai a baciarla.
Lei mi scostò appena, si guardò volpescamente attorno, non notò nulla di straordinario, lisciandomi le guance delicatamente tra i suoi palmi, tornò a baciarmi. Io presi a frugarle sotto il cappotto. Il suo bel corpo era per me, all’epoca, una felicità inesauribile. Non mi bastava mai percorrerlo tutto, quel corpo italiano. A dirla tutta ero un gran porco. Ancora lo sono. Con furia ci levammo i cappotti e li appoggiammo sulla ringhiera. Girai Anna col viso verso la porta della signora G e del signor G, senza sapere chi fosse il guardone. Le slacciai il bottone dei jeans aderenti, poi abbassai con calma la cerniera. L’occhio lampeggiava, come se si avvicinasse e si allontanasse, come se colui che dietro vi si nascondeva si stesse masturbando…il signor G che si faceva una sega!
Feci voltare Anna e le tirai giù i pantaloni sotto al culo, mostrando le sue stupende natiche ovali; le strinsi con dolcezza. Anna intanto me l’aveva tirato fuori, e con la mano lo menava; era già bello duro. Lo feci vedere allo spettatore e agguantandola, viso a viso, stavo per spingerglielo dentro, quando lei mi saltò addosso e allora dovetti sorreggerla. Con forsennata rapidità, Anna guidò in mio uccello dentro e io glielo spinsi più su che potevo, come un gancio, un rampino.
Anna emise un lungo gemito. La sbattei contro la parete, da diminuirne il peso e perforarla meglio. Trovare la posizione fu un vero problema: lo spazio era assai ristretto, dietro avevamo la ringhiera, quindi una voragine, quindi la porta dei coniugi G, che ora si gustavano un primo piano sul mio fondoschiena nudo che con sommo sforzo affondava e affondava. Anna era alta quanto me, magra e con un bel fisico, ma non un peso piuma. Ed io volevo al tempo stesso farla godere, trarne piacere, e trasmettere un po’ di quella felicità al nostro guardone. Per dargli un buon angolo, lì, all’impiedi, facevo una gran fatica, oltreché, non completamente libero dai vestiti, stavo scomodo. Allora mi ricordai di una tecnica che avevo già messo in pratica una volta a diciassette anni, nel cesso d’un treno, con la mia fidanzata del tempo.
Così: venendo indietro, ruotando appena, feci appoggiare i piedi di Anna alla curva della ringhiera alle nostre spalle, nel caso del treno erano appoggiati al finestrino, e reggendola per i fianchi e con l’uccello, con le sue braccia buttate attorno al mio collo e la sua testa alla mia spalla, bilanciandosi verso di me, io riuscivo a scoparla affondo, lei ansimava salendo e scendendo come una pazza, e il guardone ci vedeva di profilo, potendosi gustare la scena come meglio credeva. Per Dio che altruista!
Clop! Clop! Clop! Ad Anna piaceva proprio da pazzi. Le sue labbra scivolano lungo il mio collo; per non strillare lo mordevano. Clop! Flop! Flop! Ad un certo punto la feci smontare. Anna si passò il dorso della mano sulla fronte, sbuffando e mettendosi direttamente a pecora, guardandomi vogliosa, mentre scodinzolava col culo, in un modo, che ancora oggi lo rende uno dei miei attimi preferiti. Aprendole la camicetta, tirai fuori le tette, l’accarezzai sulla schiena, fino alle natiche. Anna aveva una seconda abbondante, ma certe volte parevano più piccole, e altre, come questa, si avvicinavano a una terza. La mia mano destra salì dalle cosce al suo sedere. Glielo buttai dentro. Partii selvaggio. Anna si reggeva alla ringhiera. Il suo viso arrapato e le sue tette sballottanti puntavano dritti verso lo spioncino. Chissà come si masturbavano i signori G! Tanto ero in erezione che credevo di scoppiare. Tanto la scopavo forte, guardando con occhi cattivi in quel buchino.
Anna si mordeva le labbra per non urlare. Sbatteva qua e là la testa, impazziva.
Tre quattro cinque spinte più violente, poi m’immobilizzai, svuotandomi dentro di lei, le crollai sulla schiena, il viso tra i capelli.
Poi lo tirai fuori: «Guarda Anna!» urlai, «qualcuno ci spia dallo spioncino!»
Anna accorgendosene di scatto si coprì il seno. L’occhio terrorizzato si retrasse.
Anna mi guardò ancor più terrorizzata: «Oh cazzo, cosa penseranno i vicini?»
@OireRaymond
“Cosa penseranno i vicini?”
«Cosa penseranno i vicini!»
I vicini? Non me ne fregava un cazzo di quello che avrebbero pensato i vicini. Mi generavano solo un sordo fastidio, i nostri vicini, quelle personcine sospettose, fatte di finti sorrisi e frasi di circostanza, perennemente scocciati e impauriti, che passavano il loro tempo a maledirti nascosti al riparo dalla loro parte dello spioncino. Tutti i vicini ci spiavano addosso, quando uscivamo e quando rincasavamo. Inizialmente pensavo lo facessero per Anna, le sue belle gambe, e quelle minigonne, da cui le fette di culo saltavano fuori. Ma erano donne. Le nostre vicine ci spiavano, madri di famiglia, mammone, porcellone, tutte arrapate, ci spiavano sulle scale, a toccarci, a sbaciucchiarci, a farci i cazzi nostri. Ci spiavano quelle troie represse e il signor Rizzi, e poi, non appena eravamo spariti dal loro campo visivo, correvano dai loro mariti a narrare le nostre scempiaggini; nel caso del signor Rizzi, dal gatto.
«Lascia perdere i vicini, non c’è nessuno.»
Eravamo sul pianerottolo del mio appartamento, stavamo rientrando; dopocena; una piovosa primavera. L’occhio della signora G ci scrutava dal suo buchino, aprendosi e chiudendosi, poi rimanendo aperto, avido di sapere.
«Dai entriamo.» Disse Anna tentando di afferrarmi le chiavi.
Le tirai su; non ci arrivò.
«Hai freddo?» chiesi io.
«No.»
«E allora facciamolo qua.» e dicendolo la agguantai alla vita, stampandole un bacio.
Anna non sapeva che scuse accampare: «E se qualcuno ci vede?»
«Sono già tutti dentro, stasera non esce più nessuno!»
Probabilmente era vero. Quell’anno avevo cinque coinquilini; avevamo una maggiore intimità su quel pianerottolo a mattonelle nere e bianche.
Guardai il portone della signora G, l’occhio assetato si retrasse, poi tornò, il luccichio non lasciava dubbi.
Anna non avrebbe mai acconsentito. Si doveva prendere l’iniziativa.
Le accarezzai i capelli biondi, la spinsi contro il muro, tornai a baciarla.
Lei mi scostò appena, si guardò volpescamente attorno, non notò nulla di straordinario, lisciandomi le guance delicatamente tra i suoi palmi, tornò a baciarmi. Io presi a frugarle sotto il cappotto. Il suo bel corpo era per me, all’epoca, una felicità inesauribile. Non mi bastava mai percorrerlo tutto, quel corpo italiano. A dirla tutta ero un gran porco. Ancora lo sono. Con furia ci levammo i cappotti e li appoggiammo sulla ringhiera. Girai Anna col viso verso la porta della signora G e del signor G, senza sapere chi fosse il guardone. Le slacciai il bottone dei jeans aderenti, poi abbassai con calma la cerniera. L’occhio lampeggiava, come se si avvicinasse e si allontanasse, come se colui che dietro vi si nascondeva si stesse masturbando…il signor G che si faceva una sega!
Feci voltare Anna e le tirai giù i pantaloni sotto al culo, mostrando le sue stupende natiche ovali; le strinsi con dolcezza. Anna intanto me l’aveva tirato fuori, e con la mano lo menava; era già bello duro. Lo feci vedere allo spettatore e agguantandola, viso a viso, stavo per spingerglielo dentro, quando lei mi saltò addosso e allora dovetti sorreggerla. Con forsennata rapidità, Anna guidò in mio uccello dentro e io glielo spinsi più su che potevo, come un gancio, un rampino.
Anna emise un lungo gemito. La sbattei contro la parete, da diminuirne il peso e perforarla meglio. Trovare la posizione fu un vero problema: lo spazio era assai ristretto, dietro avevamo la ringhiera, quindi una voragine, quindi la porta dei coniugi G, che ora si gustavano un primo piano sul mio fondoschiena nudo che con sommo sforzo affondava e affondava. Anna era alta quanto me, magra e con un bel fisico, ma non un peso piuma. Ed io volevo al tempo stesso farla godere, trarne piacere, e trasmettere un po’ di quella felicità al nostro guardone. Per dargli un buon angolo, lì, all’impiedi, facevo una gran fatica, oltreché, non completamente libero dai vestiti, stavo scomodo. Allora mi ricordai di una tecnica che avevo già messo in pratica una volta a diciassette anni, nel cesso d’un treno, con la mia fidanzata del tempo.
Così: venendo indietro, ruotando appena, feci appoggiare i piedi di Anna alla curva della ringhiera alle nostre spalle, nel caso del treno erano appoggiati al finestrino, e reggendola per i fianchi e con l’uccello, con le sue braccia buttate attorno al mio collo e la sua testa alla mia spalla, bilanciandosi verso di me, io riuscivo a scoparla affondo, lei ansimava salendo e scendendo come una pazza, e il guardone ci vedeva di profilo, potendosi gustare la scena come meglio credeva. Per Dio che altruista!
Clop! Clop! Clop! Ad Anna piaceva proprio da pazzi. Le sue labbra scivolano lungo il mio collo; per non strillare lo mordevano. Clop! Flop! Flop! Ad un certo punto la feci smontare. Anna si passò il dorso della mano sulla fronte, sbuffando e mettendosi direttamente a pecora, guardandomi vogliosa, mentre scodinzolava col culo, in un modo, che ancora oggi lo rende uno dei miei attimi preferiti. Aprendole la camicetta, tirai fuori le tette, l’accarezzai sulla schiena, fino alle natiche. Anna aveva una seconda abbondante, ma certe volte parevano più piccole, e altre, come questa, si avvicinavano a una terza. La mia mano destra salì dalle cosce al suo sedere. Glielo buttai dentro. Partii selvaggio. Anna si reggeva alla ringhiera. Il suo viso arrapato e le sue tette sballottanti puntavano dritti verso lo spioncino. Chissà come si masturbavano i signori G! Tanto ero in erezione che credevo di scoppiare. Tanto la scopavo forte, guardando con occhi cattivi in quel buchino.
Anna si mordeva le labbra per non urlare. Sbatteva qua e là la testa, impazziva.
Tre quattro cinque spinte più violente, poi m’immobilizzai, svuotandomi dentro di lei, le crollai sulla schiena, il viso tra i capelli.
Poi lo tirai fuori: «Guarda Anna!» urlai, «qualcuno ci spia dallo spioncino!»
Anna accorgendosene di scatto si coprì il seno. L’occhio terrorizzato si retrasse.
Anna mi guardò ancor più terrorizzata: «Oh cazzo, cosa penseranno i vicini?»
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