Che casino (capitolo 1)

di
genere
etero

Birra, pizza a domicilio, Netflix. Una sera tipica di quella che è diventata la mia routine. Dopo quattro anni di convivenza Giuliana ha deciso, tre mesi fa, di andare per un’altra strada. Le sue esatte parole sono state: non sono più felice. Così, lungi da me dall’essere responsabile dell’infelicità altrui, non mi sono opposto quando ha fatto le valigie e se n’è andata. Ho scoperto poi dopo che la sua felicità portava il nome di Alessandro, ma questo non cambiava le cose. Certo, avrei preferito me le dicesse subito non che me lo rivelasse la sua migliore amica dopo che me l’ero scopata. Ovviamente poi si sono parlate, la cosa è venuta fuori e l’orco sono diventato io perché mi sono permesso di scoparmi la sua migliore amica, non Giuliana che mi ha piantato le corna per più di sei mesi.
Ho avuto la nausea. Pensare di uscire, fare festa, conoscere altre persone, magari costruire una nuova relazione… tutte cose che mi davano la nausea. Ho preferito chiudermi nel mio mondo e sparire dalla vita sociale. Ho preso due gatti, Uno e Trino (l’ho chiamato così perché fa casino per tre) e la mia vita è diventata perfetta. Marco, il mio migliore amico, l’unico con cui mi sento e con cui saltuariamente mi bevo una birra, continua a ripetermi che dovrei prendermi un cane. Con un cane, sostiene, si rimorchia un sacco. Ci ho pensato. Troppo impegno, troppo sbattimento, non fa per me.
Birra, pizza a domicilio, Netflix.
Peaky Blinders.
Gran serie. Ve la consiglio. Davvero. Devo dire che Cillian Murphy non mi aveva mai convinto con quella faccia da… da Murphy. Eppure, in questa serie, ho imparato ad apprezzarlo. Così, proprio quando il nostro Thomas Shelby viene pestato da quel mafioso italiano il mio telefono si mette a suonare. Sono quasi le dieci. Butto l’occhio, un numero che non conosco. Penso a uno di quei maledettismi call center, ma è troppo tardi per loro. Per un attimo penso a chi diavolo possa essere, ma non mi viene in mente nessuno, a quest’ora. Metto in pausa e rispondo dubbioso.
«Sì?»
C’è un attimo di silenzio. Inizio a pensare a uno scherzo.
«Ehm… zio?»
Una voce femminile, giovane, che mi chiama zio. Mio fratello non ha figlie.
«Scusa, ma sei sicura di aver fatto il numero giusto?»
Sento esitazione dall’altra parte.
«Zio, sono Arianna.»
Boom. La mia vita si ferma. La figlia di mio cugino, quello che è andato a vivere a Roma dopo che si è sposato con la figlia di un carabiniere… o qualcosa del genere. L’ultimo volta che ci siamo sentiti, io e mio cugino intendo, deve essere stato qualcosa come quindici anni fa. Arianna era piccola, aveva tre… quattro… sei anni… non mi ricordo nemmeno più. Da allora quel ramo della famiglia è andato completamente perduto.
«Zio ti disturbo?»
Non so quanto tempo sia passato mentre ero perso a cercare di ricordare qualcosa di mio cugino e relativa famiglia. Sono sotto shock.
«Io… no, figurati. Oddio… Arianna?»
La sento ridacchiare.
«Sì zio, proprio io. Senti non ti volevo disturbare, se sei impegnato ti richiamo magari domani.»
Il mio cervello non connette, ci deve essere qualcosa che mi sta sfuggendo ma non riesco a capire cosa.
«No no, figurati, stavo guardando una serie.»
«Grande zio! Che cosa?»
È così che ci mettiamo a chiacchierare. Io le racconto dei Blinders e lei mi racconta della Casa di Carta (che per altro devo ancora vedere ma ormai me l’ha spoilerata tutta e, ve lo dico, l’assassino è il maggiordomo) e passiamo un’ora così, come se ci conoscessimo da sempre. La verità è che io non ho idea di chi sia sta santa ragazza. Diverse volte accenna al fatto che io abbia o meno una compagna o dei figli. Non le rispondo. Qualcosa non mi torna.
«Senti Ari, ma quanto sei cresciuta? Io non ti vedo da quando avevi… non lo so… quattro o cinque anni.»
«Un po’. Ho dato la maturità.»
«La maturità? Porco mondo! Sei una donna fatta allora!»
«Beh, sì, un po’…»
La sento titubare.
«E tuo padre come sta? Da quando si è trasferito ci siamo completamente persi di vista. E la mamma?»
«Oh, lui sta bene. Anche mamma sta bene. Ecco, credo che ti chiami domani.»
Questa rivelazione mi lascia perplesso.
«E mi hai chiamato per dirmi che mi avrebbe chiamato?»
Silenzio. Inizio a pensare che sia caduta la linea.
«Pronto?»
«Sì, ci sono. Sì beh… ecco… volevo anticiparti io quello che ti dirà lui domani.»
Ha cambiato tono di voce, non è più quello allegro e distratto di prima. Ora è tesa e in imbarazzo, lo percepisco chiaramente. Prendo un sorso di birra.
«Ok. Devo preoccuparmi? È successo qualcosa di grave?»
«No… non è successo niente di grave.»
«Pensi di parlare o devo venire lì e cavarti fuori le pinze con le tenaglie?»
«Sì, scusa. È che… un po’ mi vergogno…»
Sospiro. Cosa sta succedendo? Donne. Che pazienza.
«Ragazza mia, o mi dici che c’è che non va o non si conclude niente qua.»
«Hai ragione.»
Silenzio. Aspetto. La sento respirare a fondo.
«Senti zio, scusa se ti sembrerò sfacciata, ma non so come fare a dirtelo.»
«Vai. Spara a zero.»
Sospira di nuovo.
«Zio… puoi ospitarmi?»
Gelo. Penso di non aver capito bene.
«Cosa?»
«Ecco… lo sapevo… non avrei dovuto chiamarti… scusami…»
«Frena! Fai un respiro profondo. Dimmi che succede.»
«No dai fa nulla, lascia stare…»
«Adesso ti fermi, fai un bel respiro profondo e mi spieghi tutto quanto, ok?»
«Tanto non cambia, non avrei dovuto chiam…»
«La smetti?» la interrompo, «così non concludi nulla. Che succede? Hai litigato con tuo padre? Con tua madre? Qual è il problema?»
Ride. Nervosa.
«No no… niente di tutto questo. Il fatto è che verrei a fare l’università su da te e il tizio che mi doveva affittare la stanza ha avuto un non so che guaio e non me la può più dare e io non riesco a trovare un altro posto e non so come fare.»
Parla tutto d’un fiato, quasi fatico a starle dietro.
«L’università qui? Davvero?»
«Sì, voglio fare architettura e la sede che c’è da te è la più quotata.»
«Ah sì, lo so. Bene, mi fa molto piacere!»
Poi metto insieme i pezzi.
«E ma scusa, ma perché non l’hai detto subito? Perché non mi hai chiamato prima?»
«Io quasi nemmeno sapevo che esistessi…»
Non sapevo io che esistesse lei, figuriamoci il contrario.
«Giusto. Hai ragione.»
«Papà ti ha tirato fuori oggi a pranzo. Ne abbiamo parlato tutto il pomeriggio e ci chiedevamo se tu avessi modo di aiutarmi…»
Mi passo una mano tra i capelli. Una stanza ce l’ho, ma è letteralmente vuota. Sarebbe dovuta essere quella del pargolo con la mia ex.
«E tra quanto ne avresti bisogno?»
«Le lezioni iniziano tra un mese.»
«Diciamo che non è impossibile.»
«Davvero?»
La sento esplodere di gioia. Mi strappa un sorriso.
«Sì, ma è vuota, andrebbe arredata del tutto.»
«E a te darebbe molto fastidio?»
«No, non credo sia un problema. Posso mandarti le foto e le misure e vediamo come arredarla insieme se vuoi.»
«Davvero?»
«Direi di sì. Io non la uso e se mi prometti che non organizzi festini universitari in casa non credo sia un problema.»
«Ti adoro zio, sei un grande!»
«Ma figurati…»
«Ovviamente papà ti pagherebbe l’affitto.»
«Ma non dire fesserie, non voglio niente. Diciamo che ti sdebiterai facendo da mangiare, così magari la smetto di andare avanti a cibo spazzatura.»
«Oh sì zio, papà dice che sono bravissima a cucinare!»
«Allora affare fatto.»
«Grazie zio, grazie! Però non dire a papà che te l’ho detto, ok?»
«Questa conversazione non è mai avvenuta.»
«Sei il numero uno zio! Ti devo la vita!»
«Non essere sciocca, non mi devi niente.»
Da lì a poco la conversazione si chiude.
Solo dopo essermi steso nel letto mi rendo conto che sto accettando di avere una ventenne in casa come coinquilina.
A un tratto non sono più così convinto della mia decisione.
scritto il
2020-05-08
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