Amara - II
di
ALTer
genere
masturbazione
II
Tantissima gente aveva scelto la carriera ecclesiastica a seguito dei più disparati avvenimenti: una misteriosa apparizione di un santo, se non dello stesso Salvatore, una vocazione divina o, molto più spesso, a seguito di un tragico incidente, la perdita di qualcuno o, ancora più spesso, al culmine di una costatazione introspettiva che aveva come preambolo o come epitaffio “A questo punto mi faccio suora/prete”
Sebbene quindi il triste incidente con la sedia potesse spingere numerose menti ad abbracciare futuri più tranquilli tra le fila ecclesiastiche, l’idea non scalfì minimamente il muro di autocommiserazione eretto in anni di scuola da Amara.
La settimana successiva passò all’insegna del dolore pelvico. Dopo un giorno intero passato al letto, Amara si convinse di poter tornare a camminare, ma i dolori alla sua povera vagina continuarono per altri sei giorni. Sarebbe stato comico se le sue mestruazioni fossero tornate il settimo giorno, ma fortunatamente mancava ancora una settimana buona. A due mesi dall’accaduto, Amara aveva approcciato uno stile di vita più casto. Erano due mesi che Amara non si toccava. Le era capitato di strusciarsi inavvertitamente contro qualche oggetto, mentre leggeva un libro o mentre faceva i compiti la mano le era caduta lì in mezzo, ma in quei due mesi non vi era stata una singola volta in cui Amara si fosse veramente toccata. Quindi si sorprese non poco quando infradiciò sia la cyclette che il pavimento del garage.
Quello fu il suo primo squirt, la sua prima eiaculazione. Si allenava sullo strumento da quando, due mesi prima, aveva deciso di non voler uscire per un bel pezzo. Si era perciò fatta comprare una piccola cyclette che aveva poi piantato nel garage. Lì in mezzo, fra tutti gli oggetti che quell’accumulatore seriale di suo padre aveva stipato nel garage, ora c’erano Amara, la cyclette ed entrambe erano molto bagnate.
La potenza dell’orgasmo era stata così forte che Amara si era dovuta avvinghiare saldamente al manubrio della cyclette per non cadere e, mentre la sua vagina inondava prima le sue mutandine, poi i suoi pantaloni, poi il sellino e infine il pavimento, Amara piangeva. Più tardi avrebbe definito quelle lacrime, lacrime di gioia, ma semplicemente qualche anno dopo sarebbe arrivata alla conclusione che, durante l’orgasmo, il suo cervello implodeva. Cessava ogni attività più complessa dell’ansimare, tutti i muscoli venivano rilasciati e la sua mente veniva svuotata da qualsiasi pensiero estraneo all’orgasmo. In quei momenti esistevano solo lei e il suo orgasmo.
Mentre pian piano il corpo di Amara si riprendeva anche la sua mente tornava lentamente a riacquistare le funzioni supplementari che aveva abbandonato poco prima. Non si stupì poi molto di quel lago, sapeva dello squirt. Ciò che veramente stupì Amara fu la totale mancanza di vergogna per ciò che era successo. Avrebbe dovuto vergognarsi per il pavimento, per i liquidi, specialmente ora che riusciva a distinguere anche l’odore di piscio, vergognarsi per non essere riuscita a controllare il proprio corpo. Ma invece le piaceva. Oh se le piaceva. Adorava quell’odore, adorava sentirsi le mutandine così bagnate. Il rigolo di secrezione che le colava tra le gambe era stato abbastanza per far salire una nuova ondata di lussuria. Ma dovette dare un freno alla sua ebollizione, sia perché le faceva male la vagina, sia perché doveva pulire tutto quel macello.
Dopo due mesi di astinenza, il desiderio sessuale di Amara si era risvegliato in tutta la sua prepotenza. Perso il grande limite infantile, dato dalla verginità, Amara scoprì tutto un nuovo mondo per darsi piacere. Dopo aver usato le dita iniziò anche a usare altri oggetti: una penna, poi un pennarello, poi il tappo di un bagnoschiuma, poi il manico di un ombrello. La sessualità di Amara stava esplodendo con la stessa potenza dei propri orgasmi. E lei non se ne vergognava affatto, anzi era entusiasta di scoprire nuovi metodi per eccitarsi o nascondersi da qualche parte per potersi toccare.
Al quinto superiore, con due anni di ritardo a causa dei continui cambi di istituto, Amara si apprestava all’esame di stato. Aveva superato gli scritti e mancavano meno di ventiquattro ore al proprio appello orale. Quel pomeriggio, dopo aver ripassato per tutta la mattinata e oltre, nessun pensiero riusciva ad insinuarsi nella mente di Amara e perciò decise che le ore 16:00 fossero le più adatte per uscire in piazza e prendersi un caffè.
Nella sua piccola cittadina in riva al mare c’era un’immensità di persone che passeggiavano tranquille godendosi la compagnia e la brezza del mare. Era un bellissimo pomeriggio di giugno. Dove abitava Amara doveva farsi una mezzoretta a piedi per raggiungere la riviera e poi avrebbe dovuto rifarsi ben più di una mezz’ora, in salita, per tornare a casa. In piazza invece c’erano ancora i resti del paese vecchio e la piazza si affacciava su un piccolo rialzo che offriva una visuale mozzafiato.
Ad Amara non interessava lo spettacolo offerto dai colori del primo pomeriggio, era più interessata a godersi un caffè, seduta sulle scomode sedie di metallo del bar della piazza, nel silenzio e nell’afa di quel pomeriggio. Si mise quindi un lungo scamiciato rosa che le arrivava a metà delle cosce. Lo scamiciato era sì leggero ma non vi si poteva guardare attraverso e sebbene la malizia di Amara le stesse suggerendo la folle idea di non mettersi l’intimo, la ragazza la ignorò con un movimento della testa e si mise mutandine e reggiseno bianchi.
Amara sedeva fuori al bar sulla sedia di metallo, davanti a un tavolino di plastica. L’ombrellone di plastica posizionato al centro del tavolino offriva poco aiuto nei confronti del caldo sole estivo, ma Amara, con il suo vestito leggero e i capelli corti stava meravigliosamente. Attorno a lei c’era un gran numero di persone. La piazza era un via vai di gente: chi sedeva a un tavolino gustandosi un aperitivo e chi passeggiava tranquillo e faceva qualche foto o qualche storia con il cellulare. Amara si stava gustando il caffè con calma. Voleva farlo durare fin più del necessario.
Faceva spesso così e non solo con il caffè. Le piaceva prolungare certi piaceri fin quanto le fosse possibile. E mentre pensava ai piaceri e soppesava quanto ancora poteva far durare la permanenza del caffè in quella piccola tazzina, il suo sguardo si posò su un ragazzo del tavolo accanto. Era seduto lì, di spalle, con altre tre persone. Era carino, con i capelli biondi e le spalle larghe. Con una mano stava gesticolando in direzione degli amici e con l’altra reggeva una sigaretta che ogni tanto si portava alla bocca.
Era molto carino e Amara continuò a fissarlo per un altro minuto buono che a lei parve su per giù un anno. Lo fissava così intensamente che non si rese affatto conto che l’amico di lui, un ragazzo di appena diciotto anni ma con una barbetta fulva che mascherava con arte la sua giovane età, aveva notato lo sguardo di Amara sul biondo.
Così, inaspettatamente come un colpo di pistola, il biondo si girò verso Amara, incontrando i suoi occhi. Quale preambolo migliore per iniziare una storia d’amore sbocciata all’inizio dell’estate? Quante dolci parole potrebbero incorniciare questo incontro?
Ma ovviamente “Hai-hai mica una si-sigaretta?” erano le uniche parole riuscite a rantolare fuori dalla secca gola di Amara. Si è già detto che Amara era stata graziata dalla maledizione della pubertà, non aveva sofferto le mille turbe di ogni generazione di adolescenti, fin da quando gli uomini vestivano di pelli e dormivano nelle grotte. E Amara si piaceva, le piaceva il suo corpo snello, le lunghe gambe slanciate, il sedere tondo e morbido, il seno né troppo piccolo ne cadente. Si radeva anche spesso, lasciandosi giusto qualche peletto biondo sul monte di Venere. Un corpo normale, coronato da un volto normale, con grandi occhi verdi normali e una bocca normale. In effetti l’idea che Amara si piacesse era più legata al fatto che fosse grata che almeno il suo corpo non fosse motivo di ulteriori prese in giro. Bastava il nome per rovinare anni di scuola.
Quindi, il fatto che Amara si piacesse non portava in alcun modo alla possibilità che Amara potesse avere anche solo una seppur minima parvenza di autostima. Tutt’altro, Amara era convinta delle proprie praticamente nulle capacità come ragazza ammaliatrice, del tutto inconsapevole delle mille doti e armi di cui ogni donna dispone per schiavizzare il più ascetico degli uomini.
Il biondo le sorrise come si sorride a un bambino idiota e le porse la sigaretta, poi si voltò e tornò agli amici. Non era passata neanche per l’anticamera del cervello di Amara che quella era la medesima sigaretta che stava fumando lui, che lì, su quel mozzicone arancione, vi erano state le labbra di quel bel biondo. No, nella testa di Amara c’era solo l’imbarazzo per la grande figura di merda scampata al costo di una figura di merda più moderata.
“E adesso che faccio? Si chiese” Aveva fumato una volta sola prima di allora. Il suo piano aveva preso forma quando aveva visto le sue compagne in secondo superiore accendersi una sigaretta e passarsela a trenino durante l’ora di educazione fisica. Magari se avesse iniziato a fumare non sarebbe stata solo Amara come la vita. Era andata al tabacchino più lontano da casa sua, aveva comprato un pacchetto di Camel e se ne era accesa una. I successivi quindici minuti passati tra le lacrime e la tosse le erano costate circa sei euro volati nel cestino fuori al tabacchino.
Nei prossimi atti si parlerà più a lungo e più a fondo delle numerose e stravaganti idee avute da Amara per migliorare il suo stato sociale tra le compagne ma adesso stiamo parlando di un pomeriggio di giugno al bar.
La sigaretta era lì nella sua mano destra, impugnata come una matita. Il mozzicone era in procinto di cadere nella tazzina del caffè ma Amara se ne accorse giusto in tempo. Ora, l’essere umano è una creatura particolarmente intelligente ma è non propriamente dedito a sfruttare questa intelligenza nel migliore dei modi. Poniamo ad esempio che con la mano stiamo tenendo un oggetto sospeso sopra un altro oggetto, come in questo caso Amara sta tenendo la sigaretta sopra al caffè. Dalla sigaretta sta per staccarsi un mozzicone di cenere che guasterebbe irrimediabilmente il caffè, seppur ormai freddo. Tutti gli esseri umani sono portati in questo frangente a spostare la sigaretta, ma in quale direzione? Seppur consci che lo spazio attorno a noi sia composto da ben tre dimensioni (lunghezza, larghezza e altezza) e consapevoli che la tazzina da caffè è larga non più di due dita, qualsiasi essere umano avrebbe spostato quella sigaretta nella stessa direzione in cui la spostò Amara.
Così, Amara si portò la sigaretta a sé, allontanandola di fatto dalla tazzina da caffè. Il mozzicone ovviamente si staccò ma non cadde nella tazza, cadde bensì verso il pavimento ma fu intercettato dal lungo abito rosa di Amara, che senza opporre alcuna resistenza si bucò come fosse fatto d’aria e il mozzicone andò a posarsi nell’interno coscia di Amara.
Amara sentì prima una punta di freddo glaciale lì dove era caduto il mozzicone e, in meno di un secondo, quel freddo si trasformò in bruciore. Allora accadde qualcosa. Anziché un rantolo di dolore o un gridolino, Amara emise un piccolo soffocato gemito.
Amara non era estranea al dolore ma quella volta, in quel pomeriggio afoso in piazza, Amara provò un lungo, potente brivido che le partì dal clitoride, si espanse passando per le sue labbra, risalì verso l’ano e percorse tutta la schiena come una lama fredda che ne incideva la carne. Appena raggiunse la nuca, sentì la pelle d’oca sulle spalle, i peli del collo che le si rizzavano e il brivido che affondava nel cervello.
In meno di un secondo, Amara era passata dal non sentire affatto caldo ad essere lei stessa un’emanazione del termine calore. Ma si era accorta di aver emesso un verso inconfondibile, un gemito che persino in quella piazza affollata sarebbe risultato come una sirena di allarme in una notte solitaria. Tutti si sarebbero girati, ognuno a suo tempo, per vedere la ragazza in abito rosa che aveva emesso un gemito di piacere così soffocato ma anche così intenso. Quindi ad Amara venne in mente di dover inscenare subito uno stratagemma.
L’unico oggetto che aveva davanti a sé era quella tazzina di caffè ormai freddo. “Beh ormai è anche finito” e con questo pensiero, urtò immediatamente la tazzina, in modo che quel poco di caffè rimasto le rovinasse addosso.
Quello che Amara non aveva messo in conto era come avrebbe reagito il suo corpo, che si era eccitato non poco con un singolo piccolo mozzicone su una coscia, a contatto con un liquido freddo nella più calda delle giornate di quell’estate. Quando la cameriera fece capolino da dentro al locale, sopraggiunta al seguito di uno dei gridolini meno convincenti al mondo, trovò la piccola Amara tremante come una foglia.
“Oh!” esclamò “Signorina le porto subito un panno bagnato”
Amara non fece un verso. La testa china a osservare il tavolo. Le nocche delle mani saldamente aggrappate al tavolino stavano diventando sempre più bianche.
Fortuna che la cameriera avrebbe portato un panno bagnato, sennò come avrebbe potuto spiegare tutto quel bagnato sulla sua sedia?
Mentre la cameriera, una donna di trent’anni e qualcosina di più con i capelli legati in una coda di cavallo, le passava sbrigativamente la mano con il panno umido su e tra le gambe, parlando di quanto fosse un peccato che quel bel vestitino rosa si fosse rovinato, Amara pensava invece che era un bene essere già venuta prima che qualcuno le passasse un panno bagnato a pochi centimetri dalla fica.
Tantissima gente aveva scelto la carriera ecclesiastica a seguito dei più disparati avvenimenti: una misteriosa apparizione di un santo, se non dello stesso Salvatore, una vocazione divina o, molto più spesso, a seguito di un tragico incidente, la perdita di qualcuno o, ancora più spesso, al culmine di una costatazione introspettiva che aveva come preambolo o come epitaffio “A questo punto mi faccio suora/prete”
Sebbene quindi il triste incidente con la sedia potesse spingere numerose menti ad abbracciare futuri più tranquilli tra le fila ecclesiastiche, l’idea non scalfì minimamente il muro di autocommiserazione eretto in anni di scuola da Amara.
La settimana successiva passò all’insegna del dolore pelvico. Dopo un giorno intero passato al letto, Amara si convinse di poter tornare a camminare, ma i dolori alla sua povera vagina continuarono per altri sei giorni. Sarebbe stato comico se le sue mestruazioni fossero tornate il settimo giorno, ma fortunatamente mancava ancora una settimana buona. A due mesi dall’accaduto, Amara aveva approcciato uno stile di vita più casto. Erano due mesi che Amara non si toccava. Le era capitato di strusciarsi inavvertitamente contro qualche oggetto, mentre leggeva un libro o mentre faceva i compiti la mano le era caduta lì in mezzo, ma in quei due mesi non vi era stata una singola volta in cui Amara si fosse veramente toccata. Quindi si sorprese non poco quando infradiciò sia la cyclette che il pavimento del garage.
Quello fu il suo primo squirt, la sua prima eiaculazione. Si allenava sullo strumento da quando, due mesi prima, aveva deciso di non voler uscire per un bel pezzo. Si era perciò fatta comprare una piccola cyclette che aveva poi piantato nel garage. Lì in mezzo, fra tutti gli oggetti che quell’accumulatore seriale di suo padre aveva stipato nel garage, ora c’erano Amara, la cyclette ed entrambe erano molto bagnate.
La potenza dell’orgasmo era stata così forte che Amara si era dovuta avvinghiare saldamente al manubrio della cyclette per non cadere e, mentre la sua vagina inondava prima le sue mutandine, poi i suoi pantaloni, poi il sellino e infine il pavimento, Amara piangeva. Più tardi avrebbe definito quelle lacrime, lacrime di gioia, ma semplicemente qualche anno dopo sarebbe arrivata alla conclusione che, durante l’orgasmo, il suo cervello implodeva. Cessava ogni attività più complessa dell’ansimare, tutti i muscoli venivano rilasciati e la sua mente veniva svuotata da qualsiasi pensiero estraneo all’orgasmo. In quei momenti esistevano solo lei e il suo orgasmo.
Mentre pian piano il corpo di Amara si riprendeva anche la sua mente tornava lentamente a riacquistare le funzioni supplementari che aveva abbandonato poco prima. Non si stupì poi molto di quel lago, sapeva dello squirt. Ciò che veramente stupì Amara fu la totale mancanza di vergogna per ciò che era successo. Avrebbe dovuto vergognarsi per il pavimento, per i liquidi, specialmente ora che riusciva a distinguere anche l’odore di piscio, vergognarsi per non essere riuscita a controllare il proprio corpo. Ma invece le piaceva. Oh se le piaceva. Adorava quell’odore, adorava sentirsi le mutandine così bagnate. Il rigolo di secrezione che le colava tra le gambe era stato abbastanza per far salire una nuova ondata di lussuria. Ma dovette dare un freno alla sua ebollizione, sia perché le faceva male la vagina, sia perché doveva pulire tutto quel macello.
Dopo due mesi di astinenza, il desiderio sessuale di Amara si era risvegliato in tutta la sua prepotenza. Perso il grande limite infantile, dato dalla verginità, Amara scoprì tutto un nuovo mondo per darsi piacere. Dopo aver usato le dita iniziò anche a usare altri oggetti: una penna, poi un pennarello, poi il tappo di un bagnoschiuma, poi il manico di un ombrello. La sessualità di Amara stava esplodendo con la stessa potenza dei propri orgasmi. E lei non se ne vergognava affatto, anzi era entusiasta di scoprire nuovi metodi per eccitarsi o nascondersi da qualche parte per potersi toccare.
Al quinto superiore, con due anni di ritardo a causa dei continui cambi di istituto, Amara si apprestava all’esame di stato. Aveva superato gli scritti e mancavano meno di ventiquattro ore al proprio appello orale. Quel pomeriggio, dopo aver ripassato per tutta la mattinata e oltre, nessun pensiero riusciva ad insinuarsi nella mente di Amara e perciò decise che le ore 16:00 fossero le più adatte per uscire in piazza e prendersi un caffè.
Nella sua piccola cittadina in riva al mare c’era un’immensità di persone che passeggiavano tranquille godendosi la compagnia e la brezza del mare. Era un bellissimo pomeriggio di giugno. Dove abitava Amara doveva farsi una mezzoretta a piedi per raggiungere la riviera e poi avrebbe dovuto rifarsi ben più di una mezz’ora, in salita, per tornare a casa. In piazza invece c’erano ancora i resti del paese vecchio e la piazza si affacciava su un piccolo rialzo che offriva una visuale mozzafiato.
Ad Amara non interessava lo spettacolo offerto dai colori del primo pomeriggio, era più interessata a godersi un caffè, seduta sulle scomode sedie di metallo del bar della piazza, nel silenzio e nell’afa di quel pomeriggio. Si mise quindi un lungo scamiciato rosa che le arrivava a metà delle cosce. Lo scamiciato era sì leggero ma non vi si poteva guardare attraverso e sebbene la malizia di Amara le stesse suggerendo la folle idea di non mettersi l’intimo, la ragazza la ignorò con un movimento della testa e si mise mutandine e reggiseno bianchi.
Amara sedeva fuori al bar sulla sedia di metallo, davanti a un tavolino di plastica. L’ombrellone di plastica posizionato al centro del tavolino offriva poco aiuto nei confronti del caldo sole estivo, ma Amara, con il suo vestito leggero e i capelli corti stava meravigliosamente. Attorno a lei c’era un gran numero di persone. La piazza era un via vai di gente: chi sedeva a un tavolino gustandosi un aperitivo e chi passeggiava tranquillo e faceva qualche foto o qualche storia con il cellulare. Amara si stava gustando il caffè con calma. Voleva farlo durare fin più del necessario.
Faceva spesso così e non solo con il caffè. Le piaceva prolungare certi piaceri fin quanto le fosse possibile. E mentre pensava ai piaceri e soppesava quanto ancora poteva far durare la permanenza del caffè in quella piccola tazzina, il suo sguardo si posò su un ragazzo del tavolo accanto. Era seduto lì, di spalle, con altre tre persone. Era carino, con i capelli biondi e le spalle larghe. Con una mano stava gesticolando in direzione degli amici e con l’altra reggeva una sigaretta che ogni tanto si portava alla bocca.
Era molto carino e Amara continuò a fissarlo per un altro minuto buono che a lei parve su per giù un anno. Lo fissava così intensamente che non si rese affatto conto che l’amico di lui, un ragazzo di appena diciotto anni ma con una barbetta fulva che mascherava con arte la sua giovane età, aveva notato lo sguardo di Amara sul biondo.
Così, inaspettatamente come un colpo di pistola, il biondo si girò verso Amara, incontrando i suoi occhi. Quale preambolo migliore per iniziare una storia d’amore sbocciata all’inizio dell’estate? Quante dolci parole potrebbero incorniciare questo incontro?
Ma ovviamente “Hai-hai mica una si-sigaretta?” erano le uniche parole riuscite a rantolare fuori dalla secca gola di Amara. Si è già detto che Amara era stata graziata dalla maledizione della pubertà, non aveva sofferto le mille turbe di ogni generazione di adolescenti, fin da quando gli uomini vestivano di pelli e dormivano nelle grotte. E Amara si piaceva, le piaceva il suo corpo snello, le lunghe gambe slanciate, il sedere tondo e morbido, il seno né troppo piccolo ne cadente. Si radeva anche spesso, lasciandosi giusto qualche peletto biondo sul monte di Venere. Un corpo normale, coronato da un volto normale, con grandi occhi verdi normali e una bocca normale. In effetti l’idea che Amara si piacesse era più legata al fatto che fosse grata che almeno il suo corpo non fosse motivo di ulteriori prese in giro. Bastava il nome per rovinare anni di scuola.
Quindi, il fatto che Amara si piacesse non portava in alcun modo alla possibilità che Amara potesse avere anche solo una seppur minima parvenza di autostima. Tutt’altro, Amara era convinta delle proprie praticamente nulle capacità come ragazza ammaliatrice, del tutto inconsapevole delle mille doti e armi di cui ogni donna dispone per schiavizzare il più ascetico degli uomini.
Il biondo le sorrise come si sorride a un bambino idiota e le porse la sigaretta, poi si voltò e tornò agli amici. Non era passata neanche per l’anticamera del cervello di Amara che quella era la medesima sigaretta che stava fumando lui, che lì, su quel mozzicone arancione, vi erano state le labbra di quel bel biondo. No, nella testa di Amara c’era solo l’imbarazzo per la grande figura di merda scampata al costo di una figura di merda più moderata.
“E adesso che faccio? Si chiese” Aveva fumato una volta sola prima di allora. Il suo piano aveva preso forma quando aveva visto le sue compagne in secondo superiore accendersi una sigaretta e passarsela a trenino durante l’ora di educazione fisica. Magari se avesse iniziato a fumare non sarebbe stata solo Amara come la vita. Era andata al tabacchino più lontano da casa sua, aveva comprato un pacchetto di Camel e se ne era accesa una. I successivi quindici minuti passati tra le lacrime e la tosse le erano costate circa sei euro volati nel cestino fuori al tabacchino.
Nei prossimi atti si parlerà più a lungo e più a fondo delle numerose e stravaganti idee avute da Amara per migliorare il suo stato sociale tra le compagne ma adesso stiamo parlando di un pomeriggio di giugno al bar.
La sigaretta era lì nella sua mano destra, impugnata come una matita. Il mozzicone era in procinto di cadere nella tazzina del caffè ma Amara se ne accorse giusto in tempo. Ora, l’essere umano è una creatura particolarmente intelligente ma è non propriamente dedito a sfruttare questa intelligenza nel migliore dei modi. Poniamo ad esempio che con la mano stiamo tenendo un oggetto sospeso sopra un altro oggetto, come in questo caso Amara sta tenendo la sigaretta sopra al caffè. Dalla sigaretta sta per staccarsi un mozzicone di cenere che guasterebbe irrimediabilmente il caffè, seppur ormai freddo. Tutti gli esseri umani sono portati in questo frangente a spostare la sigaretta, ma in quale direzione? Seppur consci che lo spazio attorno a noi sia composto da ben tre dimensioni (lunghezza, larghezza e altezza) e consapevoli che la tazzina da caffè è larga non più di due dita, qualsiasi essere umano avrebbe spostato quella sigaretta nella stessa direzione in cui la spostò Amara.
Così, Amara si portò la sigaretta a sé, allontanandola di fatto dalla tazzina da caffè. Il mozzicone ovviamente si staccò ma non cadde nella tazza, cadde bensì verso il pavimento ma fu intercettato dal lungo abito rosa di Amara, che senza opporre alcuna resistenza si bucò come fosse fatto d’aria e il mozzicone andò a posarsi nell’interno coscia di Amara.
Amara sentì prima una punta di freddo glaciale lì dove era caduto il mozzicone e, in meno di un secondo, quel freddo si trasformò in bruciore. Allora accadde qualcosa. Anziché un rantolo di dolore o un gridolino, Amara emise un piccolo soffocato gemito.
Amara non era estranea al dolore ma quella volta, in quel pomeriggio afoso in piazza, Amara provò un lungo, potente brivido che le partì dal clitoride, si espanse passando per le sue labbra, risalì verso l’ano e percorse tutta la schiena come una lama fredda che ne incideva la carne. Appena raggiunse la nuca, sentì la pelle d’oca sulle spalle, i peli del collo che le si rizzavano e il brivido che affondava nel cervello.
In meno di un secondo, Amara era passata dal non sentire affatto caldo ad essere lei stessa un’emanazione del termine calore. Ma si era accorta di aver emesso un verso inconfondibile, un gemito che persino in quella piazza affollata sarebbe risultato come una sirena di allarme in una notte solitaria. Tutti si sarebbero girati, ognuno a suo tempo, per vedere la ragazza in abito rosa che aveva emesso un gemito di piacere così soffocato ma anche così intenso. Quindi ad Amara venne in mente di dover inscenare subito uno stratagemma.
L’unico oggetto che aveva davanti a sé era quella tazzina di caffè ormai freddo. “Beh ormai è anche finito” e con questo pensiero, urtò immediatamente la tazzina, in modo che quel poco di caffè rimasto le rovinasse addosso.
Quello che Amara non aveva messo in conto era come avrebbe reagito il suo corpo, che si era eccitato non poco con un singolo piccolo mozzicone su una coscia, a contatto con un liquido freddo nella più calda delle giornate di quell’estate. Quando la cameriera fece capolino da dentro al locale, sopraggiunta al seguito di uno dei gridolini meno convincenti al mondo, trovò la piccola Amara tremante come una foglia.
“Oh!” esclamò “Signorina le porto subito un panno bagnato”
Amara non fece un verso. La testa china a osservare il tavolo. Le nocche delle mani saldamente aggrappate al tavolino stavano diventando sempre più bianche.
Fortuna che la cameriera avrebbe portato un panno bagnato, sennò come avrebbe potuto spiegare tutto quel bagnato sulla sua sedia?
Mentre la cameriera, una donna di trent’anni e qualcosina di più con i capelli legati in una coda di cavallo, le passava sbrigativamente la mano con il panno umido su e tra le gambe, parlando di quanto fosse un peccato che quel bel vestitino rosa si fosse rovinato, Amara pensava invece che era un bene essere già venuta prima che qualcuno le passasse un panno bagnato a pochi centimetri dalla fica.
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