Amara - III
di
ALTer
genere
masturbazione
III
Il mondo è bello perché è vario. Uno dei modi di dire più onesti nell’innumerevole database di modi di dire lasciatoci dai nostri nonni. Ed è anche il più veritiero, basti pensare che il nostro cervello reagisce meglio, con più vivacità e, in alcuni casi, prova anche piacere quando elabora un’immagine complessa piena di colori e forme. Per fare un facile esempio, il nostro cervello è molto più eccitato nell’osservare le fronde di un albero che non un muro bianco. Quando però si inizia un dialogo con un giovane studente o studentessa in procinto di diplomarsi, pare che il nostro cervello si focalizzi su quell’enorme muro bianco al cui centro c’è sempre la stessa frase “Cosa pensi di fare dopo?”
È un argomento di cui non frega niente a nessuno, quanti studenti esistono al mondo? Quanti simultaneamente si diplomano ogni anno? E perché tutti dovranno subire questa domanda un numero compreso tra 2 e X, dove X è il numero di amici e parenti della vittima? Sì, vittime. Perché stiamo parlando proprio di vittime, perché chiunque chieda a uno studente del quinto superiore, con il profumo di eau de diplom nell’aria, “Cosa pensi di fare dopo?” sta facendo violenza psicologica.
Amara aveva subito questa violenza psicologica molto prima del quinto. Il “Cosa pensi di fare dopo?” era un argomento che tornava molto spesso a galla durante le varie estati prima del suo ventunesimo compleanno. Come scorie tossiche sotterrate in malo modo che riaffiorano sulla superficie del mare l’argomento spuntava tra una frittura di pesce, un analcolico all’ananas o tra le polpette al merluzzo della nonna. Buffo come in effetti questo argomento tornasse sempre a galla quando c’era del cibo sul tavolo.
Amara aveva col tempo maturato l’idea di entrare nel mondo del design, non per chissà quale motivo, ma in fondo poteva già vedersi proiettata anni nel futuro a progettare le sensuali forme della prima bambola gonfiabile senziente.
Due anni prima dell’arrivo del Covid in Italia, avendo una precisa prospettiva di studio, i genitori di Amara non si trovarono in disaccordo quando la iscrissero alla facoltà di Graphic Design, all’Accademia di Belle Arti di Macerata, nelle Marche. Non si trovarono nemmeno in disaccordo quando le fecero prendere in affitto un minuscolo monolocale nel centro storico, ma si trovarono un po’ meno d’accordo con lei quando Amara si propose di tornare a trovarli ogni fine settimana. La loro bambina passava già troppo tempo in casa da sola, era tempo che si facesse dei nuovi amici.
Amara che di farsi nuovi amici ne aveva perso completamente la forza fin dalla terza volta che aveva ripetuto il primo superiore, passò le prime due settimane in completa solitudine nel monolocale. Aveva scoperto che le materie avrebbero avuto inizio solo i primi di novembre. Essendo a inizio ottobre le attenzioni di Amara si focalizzarono sulla settimana di accoglienza che avrebbe avuto luogo una settimana prima dell’inizio delle lezioni.
Le due settimane passarono con estrema lentezza. Unico vantaggio ora Amara aveva una casa tutta per sé.
Passò i primi cinque giorni completamente nuda, con solo i calzini e sporadicamente l’asciugamano dopo ogni doccia per non ammalarsi. Mentre passava le giornate nuda nel suo piccolo monolocale si intratteneva con le dita e con qualsiasi utensile potesse avere sottomano. Ogni mattina si svegliava, si alzava nuda da sotto le coperte, andava a farsi una doccia, sotto la doccia si toccava felice, poi faceva colazione molto attenta a farsi cadere gocce di caffè caldo sul corpo nudo, leggeva un libro fino a ora di pranzo e mentre leggeva stava spesso sul letto con il cuscino tra le gambe, faceva pranzo, una toccatina fugace per aiutare la digestione, il pomeriggio di solito usciva a passeggiare per le vie della piccola città, sempre con i pantaloni e sempre senza intimo sotto, osservava la città in cerca di viste panoramiche, viuzze tradizionali con gli edifici così vicini li uni agli altri, locali illuminati e vecchi edifici in abbandono. Amara la piccola feticista, stava battendo il territorio di caccia. Tutti piccoli angoli bui, vie non illuminate, edifici abbandonati dove nascondersi e darsi tutto il piacere necessario.
Tornata a casa, si spogliava di nuovo e si divertiva un po’ prima di cena, cenava e andava a vedersi un film con il portatile economico che le avevano regalato i genitori, finché non le saliva di nuovo la voglia e abbandonava il film per passare a contenuti più lascivi. Lascivi quanto i suoi gemiti che accompagnavano tutta la sua giornata in casa. Amara era libera.
Il sesto giorno le tornarono e Amara tornò ai vestiti degli umani per evitare di subire un raffreddore mentre subiva i dolori della sua povera vagina. I dolori duravano solo un giorno, ma siccome nei successivi tre o cinque giorni non poteva tenersi allenata, tanto valeva rimanere vestita. Quella mattina si svegliò in pigiama, andò a sciacquarsi la faccia e poi si preparò la colazione. Mise la tazza sul tavolino della cucina ma decise che quella mattina voleva fare colazione sulla finestra. Il monolocale era al primo piano di un edificio a schiera e le tre uniche finestre della casa davano sulla strada. Aveva scelto quella casa perché le piaceva, ma la cosa che le piaceva di più erano le finestre a specchio e le mura ben spesse. La sua piccola tana del peccato.
Quella mattina, Amara decise quindi di aprire la finestra, si sedette a cavalcioni sul bordo, prese la tazza piena di latte e cereali e si gustò la colazione mentre il sole passava per le vie del centro storico. La casa di fronte alla sua era abitata nella sua interezza da una comunità di portoricani. Anche loro affacciati alle finestre. C’erano uomini di tutte le età, chi vestito, chi a petto nudo e anche chi solo in canottiera. Alcuni stavano andando alle finestre con la colazione in mano, altri con una tazza di caffè e altri…
“Perché mi stanno fissando tutti?” In effetti tutti i portoricani affacciati alle finestre dell’edificio di fronte la stavano chiaramente fissando. Qualcuno le stava anche lanciando un occhiolino malizioso, ma nessuno faceva un verso. Nessuno si azzardava a dire niente, come se ci fosse il pericolo di spezzare un qualche incantesimo nell’aria. Ad Amara si gelò il sangue. Posò la tazza con i cereali sul bordo e con metà busto ancora fuori dalla finestra chiuse una delle due ante.
Amara vedeva chiaramente dall’altra parte. Per cinque giorni aveva camminato nuda per casa, masturbandosi e lasciandosi andare ai più lascivi comportamenti sotto gli sguardi piacenti dei suoi vicini di casa. Ignorò bellamente la tazza che fece un volo di tre metri quando Amara richiuse frettolosamente le finestre. Doveva comprare delle fottute tendine.
Cinque minuti dopo le suonò il campanello e venne così a conoscenza dell’anziana coppia che viveva al piano inferiore. La vecchietta tutta raggrinzita con cui fece conoscenza la pregò gentilmente di non lanciare oggetti dalla sua finestra sulla strada, avrebbe potuto colpire qualcuno. La pregò anche di mettere su della musica quando invitava i suoi amici a casa perché le mura del palazzo erano sì spesse e insonorizzate, ma non quelle del soffitto e del pavimento. Amara salutò la vecchia con lo sguardo fisso nel vuoto e la faccia più rossa del colore delle sue mutandine. Finché non giunse la settimana dell’accoglienza, Amara non si masturbò più in pieno giorno e durante la notte, lo faceva nel silenzio più assoluto, cercando di evitare ogni minimo verso o gemito. Il che era molto difficile, specialmente per chi come lei ha orgasmi di tale intensità. Aveva passato ogni giorno con l’ansia di farsi scoprire dalla vecchia grinzosa o dai vicini portoricani. Aumentò così l’ammontare di stress per una ragazza che, abituata a passare un terzo della propria giornata a masturbarsi, si vedeva costretta a ridurre a cinque minuti di orgasmo a notte e circa una mezzora di incoscienza derivante dall’ondata anomala di piacere.
Il primo giorno di accoglienza Amara aveva deciso di andare a dormire presto per svegliarsi prima così da darsi un paio di minuti di piacere, ovviamente in rigoroso silenzio, per evitare di farsi salire la voglia il primo giorno di pseudo-lezione. Si svegliò alle 9:10.
Per chi non lo sapesse, il pavimento del centro storico maceratese è composto da sanpietrini, cubi irregolari di pietra che ogni anno mietono numerose vittime. Amara correva, ancora mezza svestita, sulle trappole mortali che solo una mente marchigiana poteva ordire. Si era infilata i primi vestiti che le erano capitati a tiro: camicia bianca mezza sbottonata, maglione beige sopra, una graziosa gonnellina rosa sotto, collant neri nuovi e un paio di mocassini marroni. Era riuscita a ficcare in borsa con un unico movimento del braccio pc, cavo di alimentazione e mouse e adesso, a tracolla sulla spalla, la borsa le sbatteva prepotentemente sul sedere, quasi come un fantino che frusta il cavallo. Mentre correva, Amara teneva le mani inserite sotto al maglione per abbottonarsi la camicia, e nel correre fu per miracolo che arrivò indenne all’edificio relegato a quelli di Graphic.
L’Accademia di Belle Arti è pressappoco paragonabile a un condominio. Ogni diverso corso, come i membri di un condominio, trova difetti e mancanze in ogni altro corso, a parte quelli di Fashion e quelli di Graphic. Quelli di Fashion stanno così in culo a tutti che persino tra loro si lanciano occhiate reciproche di odio. Quelli di Graphic invece sono così simpatici e disponibili che si è ben pensato di tenerli il più lontano possibile dall’Accademia e dagli altri corsi per non coinvolgerli nei giornalieri bagni di sangue dell’istituto. Ecco perché la corsa di Amara le fece sfrecciare mezzo centro storico, prima di raggiungere l’edificio di Graphic.
Con il fiatone, stanca, affamata e con i capelli in completo disordine aspettava di entrare nell’ascensore che l’avrebbe portata al secondo piano, dove si teneva l’orientamento. Assieme a lei erano arrivati altre due studentesse.
Dentro l’ascensore, un buco di un metro per un metro ma alto due, Amara aveva lo sguardo fisso ai suoi piedi, stipata e schiacciata contro una delle quattro pareti per evitare il più possibile un contatto fisico che avrebbe potuto avere esiti catastrofici. Quando a un tratto sentì una piacevole fitta contro l’ingresso della sua vagina.
Gli studenti neo-diplomati che decidono di entrare nei corsi di grafica, che sia d’arte, di design o di pubblicità, compiono tutti lo stesso errore. Ben consci di vivere in un paese che sia mentalmente che in qualsiasi altro senso vive vent’anni indietro, supportano la tesi che anche le accademie di design vivano in questo stato retrogrado. Immaginate poi la sorpresa di questi ragazzi e ragazze nell’apprendere che le squadre, i righelli e gli A3 che erano costretti a portarsi da casa alle superiori, qui all’Accademia erano stati completamente sostituiti dai computer e dalla sequenza pressoché infinita dei programmi della Adobe.
Amara poté quindi constatare che la cartella di quell’ignara studentessa le stesse felicemente stuzzicando la fica. Nel cervello di Amara stava avendo luogo una guerra civile impari: da un lato i neuroni sottomessi alla lussuria che usavano la scusa che le mani non potessero muoversi perché non c’era spazio nell’ascensore, armati della più importante delle cause “Sono almeno dodici ore che sta stronza non si masturba!” e dall’altra sponda i pochi neuroni rimasti ancora in funzione, contrari all’atto e ligi all’etica e al dovere. Trai due schieramenti vi erano inoltre innumerevoli vittime, almeno il 50% dei neuroni era infatti collassato nella spirale di piacere che ogni volta lasciava Amara inerme alle proprie voglie.
La cartella in plastica dura stava giocherellando con il clitoride di Amara. Le mutandine e i collant poco potevano nei suoi confronti e Amara, che stava trattenendo tanto il respiro quanto chiusi tutti gli orifizi del suo corpo, si ritrovò in punta di piedi. Mentre il suo clitoride subiva le sferzate, i capezzoli le si inturgidirono e quasi era possibile vederli attraverso il reggiseno. Voleva che quella cartella le sfondasse la fregna. Tutto il suo corpo bramava ogni singolo impercettibile movimento del braccio di colei che le stava sbattendo la cartella sulla fica. Ad ogni scrollata di spalle, ad ogni movimento del polso corrispondeva lo spasmo silenzioso della piccola Amara, compressa nello sforzo erculeo di non orgasmare in ascensore con due sconosciute e, molto probabilmente, sue future compagne di corso.
Fortuna che quello scassone dell’ascensore non impiegò poi molto a fare due piani. Inutile dire che quel non impiegò poi molto per Amara risultò poco meno di un’eternità.
Le ci vollero cinque secondi per uscire dall’ascensore, tremante e con il bisogno impellente di dover usare immediatamente il bagno.
La lezione era già iniziata e Amara non fu la sola né ad entrare in ritardo né tantomeno a fermarsi sull’uscio della porta, come in attesa del permesso di entrare o del rimprovero della professoressa. Ma la professoressa non era interessata a chi entrava in ritardo, era invece così felice di spiegare a quelle giovani menti dove affondassero le radici del design industriale.
Amara era però poco interessata a quell’excursus storico quanto più invece a scoprire la locazione del bagno. Notò due ragazze che entravano in una porta insieme e, richiudendosela alle loro spalle, Amara vide il foglietto con la scritta Toilette.
Rassegnata a dover attendere un tempo compreso trai cinque minuti e il quarto d’ora, Amara si trovò un posto a sedere in fondo all’aula. Posò la borsa del computer davanti a sé e intervallò il proprio interesse tra le parole della professoressa e la porta del bagno, ancora chiusa. Aveva un bisogno dannato di entrare in quel bagno, abbassare collant e mutandine e liberare finalmente le proprie voglie, cercando di non svenire sulla tavolozza del water.
Ora, in quello stato di intermittente lussuria che le anelava in testa e tra le gambe, Amara non percepì neppure la mano che gentilmente le avevano posato su una spalla e ovviamente trasalì quando una voce mielosa le sussurrò all’orecchio. Quasi non le scappò uno schizzo e subito si portò le mani alla vagina per evitare il peggio.
Quando si voltò vide una ragazzina minuta, molto carina, dal naso adunco ma dai grandi e immensi occhi color nocciola che le stava chiedendo se poteva spostarsi un poco in avanti per farla passare. Amara sentì una dolce nota di mandorla quando quella ragazza le sussurrò la richiesta. I loro due volti erano vicini, troppo vicini. Dopo un flebile accenno di consenso con la testa, Amara, tremante e bollente si sporse in avanti, tralasciando l’ovvio, cioè il dover spostare la sedia con sé. La ragazza minuta per contro non aveva intenzione di riformulare nuovamente la richiesta e perciò si decise a passare cercando di scavalcarla gentilmente.
Amara sentì una massa morbida che le si schiantava contro l’emisfero laterale, quasi come se le avessero lanciato un cuscino. Sentì i capelli bruni della ragazza minuta che le solleticavano la fronte e capì. Quel morbido cuscino che le si era abbattuto su un lato della calotta cranica, altro non era che un seno ben più che abbondante. Amara allungò leggermente la testa in avanti, in un rimpianto gesto di cortesia. La ragazza se ne accorse e la ringraziò, ma scivolando in avanti tutto ciò che le uscì di bocca fu un rantolo di fatica.
Amara invece sentì nuovamente il seno che le si abbatteva sulla testa, prima uno, poi un altro. Una goccia. Amara percepì distintamente una goccia zampillare fuori dalla sua vagina ormai esausta, sull’orlo dello straripamento. La ragazza si aggiustò alla buona e posò una mano sulla scrivania, toccando inavvertitamente le dita della mano di Amara. Un’altra goccia. La ragazza riuscì a liberare una gamba e la issò oltre lo sgabello di Amara, ma nel farlo si accasciò ancora sopra di Amara, scaldandole il collo con la sua quarta. Un’altra goccia.
La mano sinistra di Amara stava tentando l’impossibile da sotto la gonna. Cercava di tappare quel rubinetto che aveva invece tutta l’intenzione di esplodere. Lo sguardo di Amara era perso nel vuoto della sua scrivania. Sentiva il respiro affannato della ragazza, il suo odore, il suo calore. Sentiva il suo respiro sul collo e le sue tette continuavano ad abbattersi dietro Amara, come sensuali palle da demolizione.
Amara sentì la mano sinistra inumidirsi. La diga stava cedendo, non avrebbe retto a lungo, anzi non avrebbe retto affatto.
Appena la ragazza completò il suo difficile pedaggio, la porta del bagno si aprì. Per poco non travolse le due ragazze che stavano uscendo, ma Amara riuscì a entrare nel bagno. Chiusa la porta, si ficcò la maglietta alla bocca e il suo corpo non resse più. Da sotto i collant scaturì uno spruzzo talmente violento che tutto il corpo di Amara fu divelto da uno spasmo. Non aveva ancora finito di squirtare che le gambe le cedettero e Amara cadde a terra. Non si accorse nemmeno che stava piangendo e nemmeno della bava che le colava in un rigolo sul maglione beige. Mentre perdeva i sensi, la sua vagina faceva uscire l’ultimo rigagnolo di piacere e la mente le si svuotava del tutto. Nessuno notò la sua assenza per l’ora che ne seguì. Solo la sua compagna di banco, una ragazza dai capelli castano ramato che era stata a fissare Amara con malizia per tutto il tempo.
Il mondo è bello perché è vario. Uno dei modi di dire più onesti nell’innumerevole database di modi di dire lasciatoci dai nostri nonni. Ed è anche il più veritiero, basti pensare che il nostro cervello reagisce meglio, con più vivacità e, in alcuni casi, prova anche piacere quando elabora un’immagine complessa piena di colori e forme. Per fare un facile esempio, il nostro cervello è molto più eccitato nell’osservare le fronde di un albero che non un muro bianco. Quando però si inizia un dialogo con un giovane studente o studentessa in procinto di diplomarsi, pare che il nostro cervello si focalizzi su quell’enorme muro bianco al cui centro c’è sempre la stessa frase “Cosa pensi di fare dopo?”
È un argomento di cui non frega niente a nessuno, quanti studenti esistono al mondo? Quanti simultaneamente si diplomano ogni anno? E perché tutti dovranno subire questa domanda un numero compreso tra 2 e X, dove X è il numero di amici e parenti della vittima? Sì, vittime. Perché stiamo parlando proprio di vittime, perché chiunque chieda a uno studente del quinto superiore, con il profumo di eau de diplom nell’aria, “Cosa pensi di fare dopo?” sta facendo violenza psicologica.
Amara aveva subito questa violenza psicologica molto prima del quinto. Il “Cosa pensi di fare dopo?” era un argomento che tornava molto spesso a galla durante le varie estati prima del suo ventunesimo compleanno. Come scorie tossiche sotterrate in malo modo che riaffiorano sulla superficie del mare l’argomento spuntava tra una frittura di pesce, un analcolico all’ananas o tra le polpette al merluzzo della nonna. Buffo come in effetti questo argomento tornasse sempre a galla quando c’era del cibo sul tavolo.
Amara aveva col tempo maturato l’idea di entrare nel mondo del design, non per chissà quale motivo, ma in fondo poteva già vedersi proiettata anni nel futuro a progettare le sensuali forme della prima bambola gonfiabile senziente.
Due anni prima dell’arrivo del Covid in Italia, avendo una precisa prospettiva di studio, i genitori di Amara non si trovarono in disaccordo quando la iscrissero alla facoltà di Graphic Design, all’Accademia di Belle Arti di Macerata, nelle Marche. Non si trovarono nemmeno in disaccordo quando le fecero prendere in affitto un minuscolo monolocale nel centro storico, ma si trovarono un po’ meno d’accordo con lei quando Amara si propose di tornare a trovarli ogni fine settimana. La loro bambina passava già troppo tempo in casa da sola, era tempo che si facesse dei nuovi amici.
Amara che di farsi nuovi amici ne aveva perso completamente la forza fin dalla terza volta che aveva ripetuto il primo superiore, passò le prime due settimane in completa solitudine nel monolocale. Aveva scoperto che le materie avrebbero avuto inizio solo i primi di novembre. Essendo a inizio ottobre le attenzioni di Amara si focalizzarono sulla settimana di accoglienza che avrebbe avuto luogo una settimana prima dell’inizio delle lezioni.
Le due settimane passarono con estrema lentezza. Unico vantaggio ora Amara aveva una casa tutta per sé.
Passò i primi cinque giorni completamente nuda, con solo i calzini e sporadicamente l’asciugamano dopo ogni doccia per non ammalarsi. Mentre passava le giornate nuda nel suo piccolo monolocale si intratteneva con le dita e con qualsiasi utensile potesse avere sottomano. Ogni mattina si svegliava, si alzava nuda da sotto le coperte, andava a farsi una doccia, sotto la doccia si toccava felice, poi faceva colazione molto attenta a farsi cadere gocce di caffè caldo sul corpo nudo, leggeva un libro fino a ora di pranzo e mentre leggeva stava spesso sul letto con il cuscino tra le gambe, faceva pranzo, una toccatina fugace per aiutare la digestione, il pomeriggio di solito usciva a passeggiare per le vie della piccola città, sempre con i pantaloni e sempre senza intimo sotto, osservava la città in cerca di viste panoramiche, viuzze tradizionali con gli edifici così vicini li uni agli altri, locali illuminati e vecchi edifici in abbandono. Amara la piccola feticista, stava battendo il territorio di caccia. Tutti piccoli angoli bui, vie non illuminate, edifici abbandonati dove nascondersi e darsi tutto il piacere necessario.
Tornata a casa, si spogliava di nuovo e si divertiva un po’ prima di cena, cenava e andava a vedersi un film con il portatile economico che le avevano regalato i genitori, finché non le saliva di nuovo la voglia e abbandonava il film per passare a contenuti più lascivi. Lascivi quanto i suoi gemiti che accompagnavano tutta la sua giornata in casa. Amara era libera.
Il sesto giorno le tornarono e Amara tornò ai vestiti degli umani per evitare di subire un raffreddore mentre subiva i dolori della sua povera vagina. I dolori duravano solo un giorno, ma siccome nei successivi tre o cinque giorni non poteva tenersi allenata, tanto valeva rimanere vestita. Quella mattina si svegliò in pigiama, andò a sciacquarsi la faccia e poi si preparò la colazione. Mise la tazza sul tavolino della cucina ma decise che quella mattina voleva fare colazione sulla finestra. Il monolocale era al primo piano di un edificio a schiera e le tre uniche finestre della casa davano sulla strada. Aveva scelto quella casa perché le piaceva, ma la cosa che le piaceva di più erano le finestre a specchio e le mura ben spesse. La sua piccola tana del peccato.
Quella mattina, Amara decise quindi di aprire la finestra, si sedette a cavalcioni sul bordo, prese la tazza piena di latte e cereali e si gustò la colazione mentre il sole passava per le vie del centro storico. La casa di fronte alla sua era abitata nella sua interezza da una comunità di portoricani. Anche loro affacciati alle finestre. C’erano uomini di tutte le età, chi vestito, chi a petto nudo e anche chi solo in canottiera. Alcuni stavano andando alle finestre con la colazione in mano, altri con una tazza di caffè e altri…
“Perché mi stanno fissando tutti?” In effetti tutti i portoricani affacciati alle finestre dell’edificio di fronte la stavano chiaramente fissando. Qualcuno le stava anche lanciando un occhiolino malizioso, ma nessuno faceva un verso. Nessuno si azzardava a dire niente, come se ci fosse il pericolo di spezzare un qualche incantesimo nell’aria. Ad Amara si gelò il sangue. Posò la tazza con i cereali sul bordo e con metà busto ancora fuori dalla finestra chiuse una delle due ante.
Amara vedeva chiaramente dall’altra parte. Per cinque giorni aveva camminato nuda per casa, masturbandosi e lasciandosi andare ai più lascivi comportamenti sotto gli sguardi piacenti dei suoi vicini di casa. Ignorò bellamente la tazza che fece un volo di tre metri quando Amara richiuse frettolosamente le finestre. Doveva comprare delle fottute tendine.
Cinque minuti dopo le suonò il campanello e venne così a conoscenza dell’anziana coppia che viveva al piano inferiore. La vecchietta tutta raggrinzita con cui fece conoscenza la pregò gentilmente di non lanciare oggetti dalla sua finestra sulla strada, avrebbe potuto colpire qualcuno. La pregò anche di mettere su della musica quando invitava i suoi amici a casa perché le mura del palazzo erano sì spesse e insonorizzate, ma non quelle del soffitto e del pavimento. Amara salutò la vecchia con lo sguardo fisso nel vuoto e la faccia più rossa del colore delle sue mutandine. Finché non giunse la settimana dell’accoglienza, Amara non si masturbò più in pieno giorno e durante la notte, lo faceva nel silenzio più assoluto, cercando di evitare ogni minimo verso o gemito. Il che era molto difficile, specialmente per chi come lei ha orgasmi di tale intensità. Aveva passato ogni giorno con l’ansia di farsi scoprire dalla vecchia grinzosa o dai vicini portoricani. Aumentò così l’ammontare di stress per una ragazza che, abituata a passare un terzo della propria giornata a masturbarsi, si vedeva costretta a ridurre a cinque minuti di orgasmo a notte e circa una mezzora di incoscienza derivante dall’ondata anomala di piacere.
Il primo giorno di accoglienza Amara aveva deciso di andare a dormire presto per svegliarsi prima così da darsi un paio di minuti di piacere, ovviamente in rigoroso silenzio, per evitare di farsi salire la voglia il primo giorno di pseudo-lezione. Si svegliò alle 9:10.
Per chi non lo sapesse, il pavimento del centro storico maceratese è composto da sanpietrini, cubi irregolari di pietra che ogni anno mietono numerose vittime. Amara correva, ancora mezza svestita, sulle trappole mortali che solo una mente marchigiana poteva ordire. Si era infilata i primi vestiti che le erano capitati a tiro: camicia bianca mezza sbottonata, maglione beige sopra, una graziosa gonnellina rosa sotto, collant neri nuovi e un paio di mocassini marroni. Era riuscita a ficcare in borsa con un unico movimento del braccio pc, cavo di alimentazione e mouse e adesso, a tracolla sulla spalla, la borsa le sbatteva prepotentemente sul sedere, quasi come un fantino che frusta il cavallo. Mentre correva, Amara teneva le mani inserite sotto al maglione per abbottonarsi la camicia, e nel correre fu per miracolo che arrivò indenne all’edificio relegato a quelli di Graphic.
L’Accademia di Belle Arti è pressappoco paragonabile a un condominio. Ogni diverso corso, come i membri di un condominio, trova difetti e mancanze in ogni altro corso, a parte quelli di Fashion e quelli di Graphic. Quelli di Fashion stanno così in culo a tutti che persino tra loro si lanciano occhiate reciproche di odio. Quelli di Graphic invece sono così simpatici e disponibili che si è ben pensato di tenerli il più lontano possibile dall’Accademia e dagli altri corsi per non coinvolgerli nei giornalieri bagni di sangue dell’istituto. Ecco perché la corsa di Amara le fece sfrecciare mezzo centro storico, prima di raggiungere l’edificio di Graphic.
Con il fiatone, stanca, affamata e con i capelli in completo disordine aspettava di entrare nell’ascensore che l’avrebbe portata al secondo piano, dove si teneva l’orientamento. Assieme a lei erano arrivati altre due studentesse.
Dentro l’ascensore, un buco di un metro per un metro ma alto due, Amara aveva lo sguardo fisso ai suoi piedi, stipata e schiacciata contro una delle quattro pareti per evitare il più possibile un contatto fisico che avrebbe potuto avere esiti catastrofici. Quando a un tratto sentì una piacevole fitta contro l’ingresso della sua vagina.
Gli studenti neo-diplomati che decidono di entrare nei corsi di grafica, che sia d’arte, di design o di pubblicità, compiono tutti lo stesso errore. Ben consci di vivere in un paese che sia mentalmente che in qualsiasi altro senso vive vent’anni indietro, supportano la tesi che anche le accademie di design vivano in questo stato retrogrado. Immaginate poi la sorpresa di questi ragazzi e ragazze nell’apprendere che le squadre, i righelli e gli A3 che erano costretti a portarsi da casa alle superiori, qui all’Accademia erano stati completamente sostituiti dai computer e dalla sequenza pressoché infinita dei programmi della Adobe.
Amara poté quindi constatare che la cartella di quell’ignara studentessa le stesse felicemente stuzzicando la fica. Nel cervello di Amara stava avendo luogo una guerra civile impari: da un lato i neuroni sottomessi alla lussuria che usavano la scusa che le mani non potessero muoversi perché non c’era spazio nell’ascensore, armati della più importante delle cause “Sono almeno dodici ore che sta stronza non si masturba!” e dall’altra sponda i pochi neuroni rimasti ancora in funzione, contrari all’atto e ligi all’etica e al dovere. Trai due schieramenti vi erano inoltre innumerevoli vittime, almeno il 50% dei neuroni era infatti collassato nella spirale di piacere che ogni volta lasciava Amara inerme alle proprie voglie.
La cartella in plastica dura stava giocherellando con il clitoride di Amara. Le mutandine e i collant poco potevano nei suoi confronti e Amara, che stava trattenendo tanto il respiro quanto chiusi tutti gli orifizi del suo corpo, si ritrovò in punta di piedi. Mentre il suo clitoride subiva le sferzate, i capezzoli le si inturgidirono e quasi era possibile vederli attraverso il reggiseno. Voleva che quella cartella le sfondasse la fregna. Tutto il suo corpo bramava ogni singolo impercettibile movimento del braccio di colei che le stava sbattendo la cartella sulla fica. Ad ogni scrollata di spalle, ad ogni movimento del polso corrispondeva lo spasmo silenzioso della piccola Amara, compressa nello sforzo erculeo di non orgasmare in ascensore con due sconosciute e, molto probabilmente, sue future compagne di corso.
Fortuna che quello scassone dell’ascensore non impiegò poi molto a fare due piani. Inutile dire che quel non impiegò poi molto per Amara risultò poco meno di un’eternità.
Le ci vollero cinque secondi per uscire dall’ascensore, tremante e con il bisogno impellente di dover usare immediatamente il bagno.
La lezione era già iniziata e Amara non fu la sola né ad entrare in ritardo né tantomeno a fermarsi sull’uscio della porta, come in attesa del permesso di entrare o del rimprovero della professoressa. Ma la professoressa non era interessata a chi entrava in ritardo, era invece così felice di spiegare a quelle giovani menti dove affondassero le radici del design industriale.
Amara era però poco interessata a quell’excursus storico quanto più invece a scoprire la locazione del bagno. Notò due ragazze che entravano in una porta insieme e, richiudendosela alle loro spalle, Amara vide il foglietto con la scritta Toilette.
Rassegnata a dover attendere un tempo compreso trai cinque minuti e il quarto d’ora, Amara si trovò un posto a sedere in fondo all’aula. Posò la borsa del computer davanti a sé e intervallò il proprio interesse tra le parole della professoressa e la porta del bagno, ancora chiusa. Aveva un bisogno dannato di entrare in quel bagno, abbassare collant e mutandine e liberare finalmente le proprie voglie, cercando di non svenire sulla tavolozza del water.
Ora, in quello stato di intermittente lussuria che le anelava in testa e tra le gambe, Amara non percepì neppure la mano che gentilmente le avevano posato su una spalla e ovviamente trasalì quando una voce mielosa le sussurrò all’orecchio. Quasi non le scappò uno schizzo e subito si portò le mani alla vagina per evitare il peggio.
Quando si voltò vide una ragazzina minuta, molto carina, dal naso adunco ma dai grandi e immensi occhi color nocciola che le stava chiedendo se poteva spostarsi un poco in avanti per farla passare. Amara sentì una dolce nota di mandorla quando quella ragazza le sussurrò la richiesta. I loro due volti erano vicini, troppo vicini. Dopo un flebile accenno di consenso con la testa, Amara, tremante e bollente si sporse in avanti, tralasciando l’ovvio, cioè il dover spostare la sedia con sé. La ragazza minuta per contro non aveva intenzione di riformulare nuovamente la richiesta e perciò si decise a passare cercando di scavalcarla gentilmente.
Amara sentì una massa morbida che le si schiantava contro l’emisfero laterale, quasi come se le avessero lanciato un cuscino. Sentì i capelli bruni della ragazza minuta che le solleticavano la fronte e capì. Quel morbido cuscino che le si era abbattuto su un lato della calotta cranica, altro non era che un seno ben più che abbondante. Amara allungò leggermente la testa in avanti, in un rimpianto gesto di cortesia. La ragazza se ne accorse e la ringraziò, ma scivolando in avanti tutto ciò che le uscì di bocca fu un rantolo di fatica.
Amara invece sentì nuovamente il seno che le si abbatteva sulla testa, prima uno, poi un altro. Una goccia. Amara percepì distintamente una goccia zampillare fuori dalla sua vagina ormai esausta, sull’orlo dello straripamento. La ragazza si aggiustò alla buona e posò una mano sulla scrivania, toccando inavvertitamente le dita della mano di Amara. Un’altra goccia. La ragazza riuscì a liberare una gamba e la issò oltre lo sgabello di Amara, ma nel farlo si accasciò ancora sopra di Amara, scaldandole il collo con la sua quarta. Un’altra goccia.
La mano sinistra di Amara stava tentando l’impossibile da sotto la gonna. Cercava di tappare quel rubinetto che aveva invece tutta l’intenzione di esplodere. Lo sguardo di Amara era perso nel vuoto della sua scrivania. Sentiva il respiro affannato della ragazza, il suo odore, il suo calore. Sentiva il suo respiro sul collo e le sue tette continuavano ad abbattersi dietro Amara, come sensuali palle da demolizione.
Amara sentì la mano sinistra inumidirsi. La diga stava cedendo, non avrebbe retto a lungo, anzi non avrebbe retto affatto.
Appena la ragazza completò il suo difficile pedaggio, la porta del bagno si aprì. Per poco non travolse le due ragazze che stavano uscendo, ma Amara riuscì a entrare nel bagno. Chiusa la porta, si ficcò la maglietta alla bocca e il suo corpo non resse più. Da sotto i collant scaturì uno spruzzo talmente violento che tutto il corpo di Amara fu divelto da uno spasmo. Non aveva ancora finito di squirtare che le gambe le cedettero e Amara cadde a terra. Non si accorse nemmeno che stava piangendo e nemmeno della bava che le colava in un rigolo sul maglione beige. Mentre perdeva i sensi, la sua vagina faceva uscire l’ultimo rigagnolo di piacere e la mente le si svuotava del tutto. Nessuno notò la sua assenza per l’ora che ne seguì. Solo la sua compagna di banco, una ragazza dai capelli castano ramato che era stata a fissare Amara con malizia per tutto il tempo.
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