Mary Jane
di
Billi
genere
gay
Suonai alla porta notando il talloncino d'ottone che incorniciava la targhetta. Risplendeva come fosse stato appena lucidato, tanto da specchiarmi nel bordo leggermente curvo. Ero a disagio, si trattava della mia prima visita. "Dott. Guido Visank, specialista in urologia" recitava la didascalia. Mi aprì una signora in camice, sulla quarantina, le labbra coperte di rossetto, carnose e gonfie, leggermente accostate a dire un “Buonasera” che subito mi mise di un inquietante buon umore. Si portò le mani ai lunghi capelli e, facendomi entrare, mi guardò di sottecchi, come fossi stato un esemplare di raro animale.
«Ho un appuntamento per le 19.30».
«Si certo. Il dottore la sta aspettando. Si accomodi».
Si sedette sulla poltrona accanto alla mia (perché non dietro la reception?), accavallò le gambe e si preparò a compilare la scheda di prima visita.
«Non è mai venuto dal dottore, giusto?».
«Giusto» feci io notando le calze nere che inguainavano la sua gamba, giù fino alla caviglia. Il piede era calzato dentro una scarpa dalla quale avrei voluto bere. Erano nere, in vera pelle, con la punta rossa arrotondata; un plateau corposo le rendevano molto sexy, insieme alla tomaia che mi dava una sensazione di morbidezza estrema a dispetto del tacco medio e quadrato, e della pur necessaria rigidità della suola. Un listino rosso alla caviglia completava l’opera.
«Mary Jane…».
«Cosa?»
«Mary Jane… Sta notando il cinturino del collo del piede? Se il cinturino disegna una T fra caviglia e punta diventano T-Strap. In America le chiamano bar shoes».
Sorrise, piegò il piede en point, e si umettò le labbra. Doveva aver notato che fissavo le sue estremità.
«Cosa sta pensando?» riprese
Risorsi dalla palude dei miei pensieri e rimasi perplesso: dire la verità? O qualcosa di circostanza?
«Volevo dire: cosa le piace? Il mio piede, la mia scarpa, o tutte e due?».
Un fattore di gusto sarebbe stato riduttivo. Mi eccitavano da morire.
«Le vuole provare?».
«Cosa dice?».
«Certo… Andiamo… Lo dica che le trova eccitanti, che se le immagina addosso. Anzi, in questo momento si sta vedendo nudo allo specchio con quelle scarpe, o dovrei dire “nuda”?»
Rimasi di sasso… Balbettai qualcosa, non ricordo cosa. Mi alzai e feci per andarmene.
«È sicuro – disse lei frenetica - di quello che fa? È sicuro di buttare via l’occasione per essere sé stesso? Si guardi…».
Avevo la mano sulla maniglia. L’ottone lucidissimo rifletteva la mia immagine specchiata d’oro.
«Non lì, alle sue spalle» riprese.
Un enorme specchio raffigurava me, un uomo longilineo preso di spalle, camicia larga, jeans che sagomavano un didietro e ben fatto. Le mie mani – guardai le mie mani – erano affusolate e gentili, non pelose, ma lunghe, come quelle di una donna. Sarebbe mancata solo un po’ di manicure. Mi rivolsi del tutto allo specchio e rinunciai a nascondermi.
«Mi dica piuttosto cosa sta vedendo lei in questo momento... Mi dica quello che pensa sul serio» dissi io inebriato e sgomento.
Si protese in avanti, col busto sulle ginocchia unite, aggiustandosi la gonna quel tanto per dare un senso di attenzione virginale. Si mise la punta della matita sulle labbra, poi sulla lingua.
«Vedo un uomo… Non le ho chiesto quanti anni ha… Quanti anni ha?»
«52…»
«Bene… vedo uno splendido 52enne che combatte contro sé stesso, che si divincola dalla stretta del suo piacere che trova sbagliato. Perché trovarlo così? È lei che lo prova, un uomo stretto a un corpo di cui vuole liberarsi per nascere a un nuovo corpo, un corpo di donna. Lei sarebbe una splendida donna, lo sa?»
Si tolse le sue Mary Jane.
«Si spogli completamente…»
Il turbamento che lesse sui miei occhi fu lenito da quello che disse poi: «Al dottore per il momento non diremo nulla. Facciamolo aspettare. Siamo io e lei soli».
Si avvicinò tirando la gonna in basso, una bella gonna stretta di vernice verde. Arrivata di fronte a me, scese dalle sue Mary Jane, ma anche così era più alta di me di qualche centimetro. Mi sfilò la camicia, mi slacciò i pantaloni e me lo tirò fuori. Sentivo il suo aroma - eccitato e segreto - che alitava ansimante sul mio volto.
«Calzale».
Sfilai i mocassini con i piedi, mi divincolai dai jeans accartocciati a terra e rimasi nudo. Mi sentii stringere in una morsa il cazzo, il quale aveva intenzione di partecipare alla conversazione in maniera inequivocabile.
«Cosa abbiamo qui?» domandò con un fare da civetta. «E qui?» continuò stringendomi i glutei.
Mi voltò di spalle, mi spinse in faccia alla porta e mi fu addosso con tutto il suo corpo. Mi accarezzò il buco passando a filo il palmo della mano tra lo spacco.
Mi soffiò nelle orecchie: «Ora sei docile, una docile brava ragazza che aspetta solo di conoscere il desiderio che sa suscitare, perché tu vuoi conoscerlo, vero?».
Mi morse il lobo fino a farmi male, fino a farmi uscire tra le labbra un lamento di soddisfazione. Prese una Mary Jane e con questa mi accarezzò la schiena, le braccia, la guancia.
«Apri…».
Mi spinse la punta in bocca. La succhiai avidamente scoprendo un piacere umido, sporco, il piacere di essere alla stregua di niente, e come tale vogliosa solo di essere riempita del volere dell’altro, un volere capriccioso, denso, dalla consistenza di catrame.
«Mettile».
Le calzai e quando fui dentro mi sentii potente come una nave da crociera che solca un mare di godimento.
«Come le senti?»
«Bene» sussurrai.
«Bene quanto?»
«Come fossero mie da sempre».
«Adesso cammina su e giù, avanti, fammi una passerella».
Mi lasciò il passo, e camminai fino allo specchio, badando bene a mettere con deliberata intenzione prima un piede avanti, poi l’altro, come se camminassi su un filo invisibile, il filo del mio passaggio a qualcosa di sconosciuto che mi faceva paura, ma da cui ero irresistibilmente attratto.
«Che culetto dolce che hai».
Ebbi un fremito compulsivo tra le cosce, tanto che tremai, e lei se ne accorse subito.
«Bene… Stringiti i capezzoli… Ferma ora. Divarica leggermente le gambe… Guardami… Tira fuori la lingua come se stessi infilando un filo in una cruna… Succhiati il pollice e guardami… Fammi sentire che sei una porca… Me lo stai facendo diventare duro, sai?»
Si alzò la gonna ondeggiando i fianchi per creare giogo tra pelle e tessuto. Apparve un cazzo enorme, gonfio da scoppiare, un cazzo come ne avevo visto solo su internet, o nelle mie immaginazioni febbrili di cui non avevo memoria alcuna.
«Guardami ho detto» ringhiò.
Da solo, come fosse stato senziente, il suo pene si divincolò dalle mutandine di seta e mi puntò, come il muso di un bracco.
«Guardami, non distogliere mai lo sguardo da me, capito? Guarda come ti guardo, come ti desidero, come ti voglio, come dipendi da me, e dai miei capricci, in tutto e per tutto. Come ti fa sentire tutto questo?».
«Bene».
«Sì? Allora è vero che sei una puttana… Dimmelo».
«Sì, sono una puttana».
Rimase soddisfatta della mia risposta balbettante, affranta ed estatica, come fossi stata una perpetua da sagrestia oggetto della visione di un angelo, o del peggiore dei demoni.
«Sei la mia puttana… Dimmelo»
«Sono la tua puttana»
«Le mie scarpe ti stanno un amore»
Unii le estremità dei piedi come mani in preghiera, godendo della vertigine derivante da un equilibrio incerto; avrei voluto che i tacchi fossero stati a punta e assai più alti per godere ancora della mia incoscienza.
Mi invitò con lo sguardo, mi avvicinai, lo presi grosso com’era, e con la punta della lingua umettai il suo glande turgido e infuocato, così da sentire la sensazione di una bruciatura. Rimasi sconcertato di quanto era buono il suo sapore acidulo, di pelle salata, di corpo donato a me, a me solo. Pulsava. Lo afferrai bene, e lo scoprii del tutto, roseo ma purpureo, vivo come un giocattolo di cui si immagina una vita propria, al di fuori da ogni proprio dominio. Ma stavolta quell’oggetto stupendo rispondeva a me, ero io a suscitarlo, a muoverlo; era il mio corpo a evocarlo, di cui riconoscevo appena quella seduzione magica e misteriosa, onnipotente. Ingoiai tutta l’asta mentre lei, approfittando di ciò, mi spinse la nuca perché lo prendessi tutto fino a soffocare. Tossii e esplosi in una vaporizzazione di saliva che lo bagnò tutto, fino a riprendere fiato, ma solo per ingoiarlo ancora e selvaggiamente. La guardavo mentre lo leccavo, mentre ero ai suoi piedi come un servo senza dignità. Lei aspirava tra i denti e la lingua come a manifestare stupore per una beatificante visione, di me nudo a venerare il suo scettro.
Mi accorsi guardando verso di lei, che la sua attenzione si era spostata dai miei occhi imploranti a qualcosa che si muoveva nella stanza. Sorrise malignamente a lui (o a lei), come a constatare di aver vinto una scommessa. Una scommessa che riguardava me? Come poteva sapere del mio desiderio negletto? Come poteva aver letto in pochi istanti della mia natura di donna? E se avessi reagito male? Se avessi insultato lei e le sue offensive insinuazioni? Davvero ero così trasparente nella mia nuda carne?
Investigai intorno con la vista periferica e intuii la presenza di qualcuno alle mie spalle, probabilmente seduto su una poltroncina della sala di attesa a godersi lo spettacolo. Lei si accorse del mio turbamento e sorrise ammaliatrice: voleva intendere che il piacere sarebbe aumentato, per me e per tutti loro.
Permise che mi voltassi, al prezzo di smettere di giocare. Un uomo sulla sessantina, alto, vigoroso, dalla barba bianca curata, e un nugolo di capelli ribelli altrettanto bianchi, si stava stringendo il pacco, con le gambe che avevano occupato in lunghezza quasi tutto il tappeto.
Mi spinse delicatamente sulle spalle per indicarmi la via, e la presi strisciando fino a lui. Mi guardava come avesse negli occhi un telecomando, e potesse spostarmi come a lui fosse piaciuto guidato dal suo sguardo. Mi sembrava di riuscire a capire quello che esattamente avrei dovuto fare, e lo feci. Tolsi i suoi mocassini, li deposi, e cominciai a leccare il dorso del piede; lo presi tra le mani, nodoso e forte, strinsi la pianta tra le dita, poi l’arco plantare, fino a sentire esclamare un “sì” di soddisfazione. Leccai le dita dei piedi, le aspirai una per una, le bagnai bene, e rimasi estasiato dal sapore di carne, umido e striato per la calura del giorno. Schioccai la lingua più volte succhiando centimetro per centimetro, fino a lasciare una bava fresca che mi facilitava il compito di infilare tutto il piede in bocca. Questo, grosso e insinuante, si muoveva con le sue dita dentro il mio palato, e sentivo che stava reagendo al piacere. Ne scorgevo l’intensità spiando la sua espressione rapita, estasiata, con gli occhi sbarrati da una visione inaspettata di me inginocchiato che con la lingua risale ai polpacci, poi, non potendo proseguire oltre, si rassegna a leccare il pantalone di lino bianco, su fino alla patta, per infine mordere quella enorme consistenza di pietra, che si agitava sotto le mutande.
Mentre apro il bottoncino dei pantaloni, ecco dietro di me le mani di lei che mi cercano e trovano il punto sfinterico da cui tutto entra, amore, passione, carne e sperma, potenza di fuoco, sottomissione alle baionette di un esercito d’amore che mi incalza, e di cui non so niente se non lo specchio delle mie fantasie eccitate.
Guardo l'uomo mentre lo tiro fuori e incandescente si erge come una torre babelica, splendente come un grattacielo di specchi su cui devo salire, prima con la lingua poi col palato. Mi riempio di un aroma di maschio che mi stordisce. Mi penetra, prima ancora che in bocca, dentro le mie cellule olfattive (odore di muschio e sottobosco, di corteccia umida, di foglie cadute), dentro la luce dei miei occhi (maestoso si erge come un monte nevoso, striato di vene e dotti cavernosi in cui scorrono fluidi sotterranei), dentro il mio palato su cui spinge il glande (sapore di stufato lasciato a bollire, di lenzuola umide dopo aver fatto l’amore, fluido dorato e d’argento, di carne dal retrogusto di senape, d’Algarve, di spezia d’oriente). Mentre mi abbandono, lei mi ha appena baciato dietro e ben insalivato; la sento agitarsi come un animale pieno del suo istinto di razza, padronale e selvaggio, oltre il quale c’è solo l’atto subitaneo e violento, a cui non avrei più potuto oppormi. Perché farlo poi? Non avevo più coscienza, né arbitrio, né volontà. Tutto avevo sacrificato a lei come a una ninfa che non parla né ascolta se non sé stessa e la propria potente deliberazione divina.
Mi sorpresi a dire col cazzo dell’uomo ancora in bocca: «Scopami».
Fui udito e inteso bene da entrambi. Lei mi sputò sul buco ancora, poi assestò l’arma, l’accostò piano, e senza pietà la spinse dentro di me con arroganza. Il dottore (doveva essere lui, pensai, chi altro?) dal suo vantage point privilegiato, si scosse; lo vidi sobbalzare e anche da lui appresi della mia definitiva deflorazione. Le gambe mi tremarono, prima piano, poi convulsamente, senza che riuscissi a smettere.
«Hai visto la puttana? Sono appena all’inizio e già gode».
Opposi solo un «Oddio», il cui eco mi giunse dal dottore, anche lui partecipante della visione divina che pur dovevo ispirare, perfino a me stesso.
Non dissi nulla per dire che no, mi faceva male, soffrivo, che avevo il culo dilatato con violenza. Il colpo - profondissimo - lo sentivo fin dentro la pancia, e poi ancora oltre; sentivo spingere il suo cazzo contro un’intercapedine interna che stava cedendo, dandomi dolori interni lancinanti e a strappo, ma mischiati a un’eccitazione sconosciuta e terribile, esplosiva, come se mi fosse stata offerta una porta del cielo, e mi fosse stato strappato un arto per aprirla.
Dio che sensazione meravigliosa avevo dentro la bocca e il culo; nello spazio tra questi passò una scarica elettrica di desiderio, così da voler sentire sempre una sazietà totale.
Quanto tempo passò? So solo che fu il dottore il primo a venire. Lo seppi dalla pulsazione che divenne regolare del suo cazzo, dagli ansimi suoi, e infine dalla crema calda che mi invase il palato, e che gustai aspettando fino all’ultimo la fine delle scosse. Dei rivoli di crema colarono dalla mia bocca.
«Tieni lo sperma dentro, non ingoiare tutto» mi disse lei mentre, eccitata dalla scena, spinse dentro ancora più forte per venire all’unisono con lui. Obbedii. Trattenni lo sperma in bocca, ma era troppa e comunque altra crema mi scivolò, andando a colare sul pube del dottore perfettamente glabro. La violenza dei colpi mi spinse addosso all’uomo, il quale mi abbracciò, mi tenne la testa, mi accarezzò la guancia e disse: «Ecco, arriva…».
La donna proruppe in un grido selvaggio, leonino, con la criniera che si agitava come i serpenti di Medusa. Mi sentii bagnato dentro. La sensazione mi avvampò e venni senza toccarmi, in un orgasmo dagli effetti simili a un elettroshock. Cominciai a tremare in maniera involontaria e mi rotolai sul tappeto, mentre lei mi fu sopra e mi baciò andandosi a prendere con la lingua lo sperma del suo uomo (chi poteva essere il dottore se non il suo uomo? Sarebbe stato d’ora in avanti anche il mio?). Mi baciò andandosi a prendere tutto fino a soffocarmi. Fummo unite da filamenti di sperma e saliva di cui cercammo di non sprecare alcuna goccia; dovevamo infatti sempre riunirci con le bocche per succhiarci avidamente l’un l’altra ogni fluido cremoso, finché aspirammo tutto, come davanti a uno spaghetto saporito.
Finimmo a stare tutti distesi sul tappeto, rannicchiati l’uno sull’altro, come svenuti, naufraghi gettati su una spiaggia. Io continuavo a tenere le mani sul mio culo, come se gli chiedessi perdono di aver permesso tutto ciò. Ma dolore e piacere si stavano esaltando a vicenda, e già pensavo a come fare per ripetere ancora tutto. Avevo ancora le sue belle scarpe addosso. Lei lo notò.
«Ti piacciono, vero?».
Annuii.
«Te le regaleremo uguali, vero Guido?» e chiese conferma al dottore.
«Certo» rispose lui serio.
«Vieni in mezzo a noi, Mary Jane».
Mi strinsi tra loro e fui avvolto da due abbracci forti e gentili, tanto che mi addormentai, rapito dalle mie visioni di un’altra vita.
«Ho un appuntamento per le 19.30».
«Si certo. Il dottore la sta aspettando. Si accomodi».
Si sedette sulla poltrona accanto alla mia (perché non dietro la reception?), accavallò le gambe e si preparò a compilare la scheda di prima visita.
«Non è mai venuto dal dottore, giusto?».
«Giusto» feci io notando le calze nere che inguainavano la sua gamba, giù fino alla caviglia. Il piede era calzato dentro una scarpa dalla quale avrei voluto bere. Erano nere, in vera pelle, con la punta rossa arrotondata; un plateau corposo le rendevano molto sexy, insieme alla tomaia che mi dava una sensazione di morbidezza estrema a dispetto del tacco medio e quadrato, e della pur necessaria rigidità della suola. Un listino rosso alla caviglia completava l’opera.
«Mary Jane…».
«Cosa?»
«Mary Jane… Sta notando il cinturino del collo del piede? Se il cinturino disegna una T fra caviglia e punta diventano T-Strap. In America le chiamano bar shoes».
Sorrise, piegò il piede en point, e si umettò le labbra. Doveva aver notato che fissavo le sue estremità.
«Cosa sta pensando?» riprese
Risorsi dalla palude dei miei pensieri e rimasi perplesso: dire la verità? O qualcosa di circostanza?
«Volevo dire: cosa le piace? Il mio piede, la mia scarpa, o tutte e due?».
Un fattore di gusto sarebbe stato riduttivo. Mi eccitavano da morire.
«Le vuole provare?».
«Cosa dice?».
«Certo… Andiamo… Lo dica che le trova eccitanti, che se le immagina addosso. Anzi, in questo momento si sta vedendo nudo allo specchio con quelle scarpe, o dovrei dire “nuda”?»
Rimasi di sasso… Balbettai qualcosa, non ricordo cosa. Mi alzai e feci per andarmene.
«È sicuro – disse lei frenetica - di quello che fa? È sicuro di buttare via l’occasione per essere sé stesso? Si guardi…».
Avevo la mano sulla maniglia. L’ottone lucidissimo rifletteva la mia immagine specchiata d’oro.
«Non lì, alle sue spalle» riprese.
Un enorme specchio raffigurava me, un uomo longilineo preso di spalle, camicia larga, jeans che sagomavano un didietro e ben fatto. Le mie mani – guardai le mie mani – erano affusolate e gentili, non pelose, ma lunghe, come quelle di una donna. Sarebbe mancata solo un po’ di manicure. Mi rivolsi del tutto allo specchio e rinunciai a nascondermi.
«Mi dica piuttosto cosa sta vedendo lei in questo momento... Mi dica quello che pensa sul serio» dissi io inebriato e sgomento.
Si protese in avanti, col busto sulle ginocchia unite, aggiustandosi la gonna quel tanto per dare un senso di attenzione virginale. Si mise la punta della matita sulle labbra, poi sulla lingua.
«Vedo un uomo… Non le ho chiesto quanti anni ha… Quanti anni ha?»
«52…»
«Bene… vedo uno splendido 52enne che combatte contro sé stesso, che si divincola dalla stretta del suo piacere che trova sbagliato. Perché trovarlo così? È lei che lo prova, un uomo stretto a un corpo di cui vuole liberarsi per nascere a un nuovo corpo, un corpo di donna. Lei sarebbe una splendida donna, lo sa?»
Si tolse le sue Mary Jane.
«Si spogli completamente…»
Il turbamento che lesse sui miei occhi fu lenito da quello che disse poi: «Al dottore per il momento non diremo nulla. Facciamolo aspettare. Siamo io e lei soli».
Si avvicinò tirando la gonna in basso, una bella gonna stretta di vernice verde. Arrivata di fronte a me, scese dalle sue Mary Jane, ma anche così era più alta di me di qualche centimetro. Mi sfilò la camicia, mi slacciò i pantaloni e me lo tirò fuori. Sentivo il suo aroma - eccitato e segreto - che alitava ansimante sul mio volto.
«Calzale».
Sfilai i mocassini con i piedi, mi divincolai dai jeans accartocciati a terra e rimasi nudo. Mi sentii stringere in una morsa il cazzo, il quale aveva intenzione di partecipare alla conversazione in maniera inequivocabile.
«Cosa abbiamo qui?» domandò con un fare da civetta. «E qui?» continuò stringendomi i glutei.
Mi voltò di spalle, mi spinse in faccia alla porta e mi fu addosso con tutto il suo corpo. Mi accarezzò il buco passando a filo il palmo della mano tra lo spacco.
Mi soffiò nelle orecchie: «Ora sei docile, una docile brava ragazza che aspetta solo di conoscere il desiderio che sa suscitare, perché tu vuoi conoscerlo, vero?».
Mi morse il lobo fino a farmi male, fino a farmi uscire tra le labbra un lamento di soddisfazione. Prese una Mary Jane e con questa mi accarezzò la schiena, le braccia, la guancia.
«Apri…».
Mi spinse la punta in bocca. La succhiai avidamente scoprendo un piacere umido, sporco, il piacere di essere alla stregua di niente, e come tale vogliosa solo di essere riempita del volere dell’altro, un volere capriccioso, denso, dalla consistenza di catrame.
«Mettile».
Le calzai e quando fui dentro mi sentii potente come una nave da crociera che solca un mare di godimento.
«Come le senti?»
«Bene» sussurrai.
«Bene quanto?»
«Come fossero mie da sempre».
«Adesso cammina su e giù, avanti, fammi una passerella».
Mi lasciò il passo, e camminai fino allo specchio, badando bene a mettere con deliberata intenzione prima un piede avanti, poi l’altro, come se camminassi su un filo invisibile, il filo del mio passaggio a qualcosa di sconosciuto che mi faceva paura, ma da cui ero irresistibilmente attratto.
«Che culetto dolce che hai».
Ebbi un fremito compulsivo tra le cosce, tanto che tremai, e lei se ne accorse subito.
«Bene… Stringiti i capezzoli… Ferma ora. Divarica leggermente le gambe… Guardami… Tira fuori la lingua come se stessi infilando un filo in una cruna… Succhiati il pollice e guardami… Fammi sentire che sei una porca… Me lo stai facendo diventare duro, sai?»
Si alzò la gonna ondeggiando i fianchi per creare giogo tra pelle e tessuto. Apparve un cazzo enorme, gonfio da scoppiare, un cazzo come ne avevo visto solo su internet, o nelle mie immaginazioni febbrili di cui non avevo memoria alcuna.
«Guardami ho detto» ringhiò.
Da solo, come fosse stato senziente, il suo pene si divincolò dalle mutandine di seta e mi puntò, come il muso di un bracco.
«Guardami, non distogliere mai lo sguardo da me, capito? Guarda come ti guardo, come ti desidero, come ti voglio, come dipendi da me, e dai miei capricci, in tutto e per tutto. Come ti fa sentire tutto questo?».
«Bene».
«Sì? Allora è vero che sei una puttana… Dimmelo».
«Sì, sono una puttana».
Rimase soddisfatta della mia risposta balbettante, affranta ed estatica, come fossi stata una perpetua da sagrestia oggetto della visione di un angelo, o del peggiore dei demoni.
«Sei la mia puttana… Dimmelo»
«Sono la tua puttana»
«Le mie scarpe ti stanno un amore»
Unii le estremità dei piedi come mani in preghiera, godendo della vertigine derivante da un equilibrio incerto; avrei voluto che i tacchi fossero stati a punta e assai più alti per godere ancora della mia incoscienza.
Mi invitò con lo sguardo, mi avvicinai, lo presi grosso com’era, e con la punta della lingua umettai il suo glande turgido e infuocato, così da sentire la sensazione di una bruciatura. Rimasi sconcertato di quanto era buono il suo sapore acidulo, di pelle salata, di corpo donato a me, a me solo. Pulsava. Lo afferrai bene, e lo scoprii del tutto, roseo ma purpureo, vivo come un giocattolo di cui si immagina una vita propria, al di fuori da ogni proprio dominio. Ma stavolta quell’oggetto stupendo rispondeva a me, ero io a suscitarlo, a muoverlo; era il mio corpo a evocarlo, di cui riconoscevo appena quella seduzione magica e misteriosa, onnipotente. Ingoiai tutta l’asta mentre lei, approfittando di ciò, mi spinse la nuca perché lo prendessi tutto fino a soffocare. Tossii e esplosi in una vaporizzazione di saliva che lo bagnò tutto, fino a riprendere fiato, ma solo per ingoiarlo ancora e selvaggiamente. La guardavo mentre lo leccavo, mentre ero ai suoi piedi come un servo senza dignità. Lei aspirava tra i denti e la lingua come a manifestare stupore per una beatificante visione, di me nudo a venerare il suo scettro.
Mi accorsi guardando verso di lei, che la sua attenzione si era spostata dai miei occhi imploranti a qualcosa che si muoveva nella stanza. Sorrise malignamente a lui (o a lei), come a constatare di aver vinto una scommessa. Una scommessa che riguardava me? Come poteva sapere del mio desiderio negletto? Come poteva aver letto in pochi istanti della mia natura di donna? E se avessi reagito male? Se avessi insultato lei e le sue offensive insinuazioni? Davvero ero così trasparente nella mia nuda carne?
Investigai intorno con la vista periferica e intuii la presenza di qualcuno alle mie spalle, probabilmente seduto su una poltroncina della sala di attesa a godersi lo spettacolo. Lei si accorse del mio turbamento e sorrise ammaliatrice: voleva intendere che il piacere sarebbe aumentato, per me e per tutti loro.
Permise che mi voltassi, al prezzo di smettere di giocare. Un uomo sulla sessantina, alto, vigoroso, dalla barba bianca curata, e un nugolo di capelli ribelli altrettanto bianchi, si stava stringendo il pacco, con le gambe che avevano occupato in lunghezza quasi tutto il tappeto.
Mi spinse delicatamente sulle spalle per indicarmi la via, e la presi strisciando fino a lui. Mi guardava come avesse negli occhi un telecomando, e potesse spostarmi come a lui fosse piaciuto guidato dal suo sguardo. Mi sembrava di riuscire a capire quello che esattamente avrei dovuto fare, e lo feci. Tolsi i suoi mocassini, li deposi, e cominciai a leccare il dorso del piede; lo presi tra le mani, nodoso e forte, strinsi la pianta tra le dita, poi l’arco plantare, fino a sentire esclamare un “sì” di soddisfazione. Leccai le dita dei piedi, le aspirai una per una, le bagnai bene, e rimasi estasiato dal sapore di carne, umido e striato per la calura del giorno. Schioccai la lingua più volte succhiando centimetro per centimetro, fino a lasciare una bava fresca che mi facilitava il compito di infilare tutto il piede in bocca. Questo, grosso e insinuante, si muoveva con le sue dita dentro il mio palato, e sentivo che stava reagendo al piacere. Ne scorgevo l’intensità spiando la sua espressione rapita, estasiata, con gli occhi sbarrati da una visione inaspettata di me inginocchiato che con la lingua risale ai polpacci, poi, non potendo proseguire oltre, si rassegna a leccare il pantalone di lino bianco, su fino alla patta, per infine mordere quella enorme consistenza di pietra, che si agitava sotto le mutande.
Mentre apro il bottoncino dei pantaloni, ecco dietro di me le mani di lei che mi cercano e trovano il punto sfinterico da cui tutto entra, amore, passione, carne e sperma, potenza di fuoco, sottomissione alle baionette di un esercito d’amore che mi incalza, e di cui non so niente se non lo specchio delle mie fantasie eccitate.
Guardo l'uomo mentre lo tiro fuori e incandescente si erge come una torre babelica, splendente come un grattacielo di specchi su cui devo salire, prima con la lingua poi col palato. Mi riempio di un aroma di maschio che mi stordisce. Mi penetra, prima ancora che in bocca, dentro le mie cellule olfattive (odore di muschio e sottobosco, di corteccia umida, di foglie cadute), dentro la luce dei miei occhi (maestoso si erge come un monte nevoso, striato di vene e dotti cavernosi in cui scorrono fluidi sotterranei), dentro il mio palato su cui spinge il glande (sapore di stufato lasciato a bollire, di lenzuola umide dopo aver fatto l’amore, fluido dorato e d’argento, di carne dal retrogusto di senape, d’Algarve, di spezia d’oriente). Mentre mi abbandono, lei mi ha appena baciato dietro e ben insalivato; la sento agitarsi come un animale pieno del suo istinto di razza, padronale e selvaggio, oltre il quale c’è solo l’atto subitaneo e violento, a cui non avrei più potuto oppormi. Perché farlo poi? Non avevo più coscienza, né arbitrio, né volontà. Tutto avevo sacrificato a lei come a una ninfa che non parla né ascolta se non sé stessa e la propria potente deliberazione divina.
Mi sorpresi a dire col cazzo dell’uomo ancora in bocca: «Scopami».
Fui udito e inteso bene da entrambi. Lei mi sputò sul buco ancora, poi assestò l’arma, l’accostò piano, e senza pietà la spinse dentro di me con arroganza. Il dottore (doveva essere lui, pensai, chi altro?) dal suo vantage point privilegiato, si scosse; lo vidi sobbalzare e anche da lui appresi della mia definitiva deflorazione. Le gambe mi tremarono, prima piano, poi convulsamente, senza che riuscissi a smettere.
«Hai visto la puttana? Sono appena all’inizio e già gode».
Opposi solo un «Oddio», il cui eco mi giunse dal dottore, anche lui partecipante della visione divina che pur dovevo ispirare, perfino a me stesso.
Non dissi nulla per dire che no, mi faceva male, soffrivo, che avevo il culo dilatato con violenza. Il colpo - profondissimo - lo sentivo fin dentro la pancia, e poi ancora oltre; sentivo spingere il suo cazzo contro un’intercapedine interna che stava cedendo, dandomi dolori interni lancinanti e a strappo, ma mischiati a un’eccitazione sconosciuta e terribile, esplosiva, come se mi fosse stata offerta una porta del cielo, e mi fosse stato strappato un arto per aprirla.
Dio che sensazione meravigliosa avevo dentro la bocca e il culo; nello spazio tra questi passò una scarica elettrica di desiderio, così da voler sentire sempre una sazietà totale.
Quanto tempo passò? So solo che fu il dottore il primo a venire. Lo seppi dalla pulsazione che divenne regolare del suo cazzo, dagli ansimi suoi, e infine dalla crema calda che mi invase il palato, e che gustai aspettando fino all’ultimo la fine delle scosse. Dei rivoli di crema colarono dalla mia bocca.
«Tieni lo sperma dentro, non ingoiare tutto» mi disse lei mentre, eccitata dalla scena, spinse dentro ancora più forte per venire all’unisono con lui. Obbedii. Trattenni lo sperma in bocca, ma era troppa e comunque altra crema mi scivolò, andando a colare sul pube del dottore perfettamente glabro. La violenza dei colpi mi spinse addosso all’uomo, il quale mi abbracciò, mi tenne la testa, mi accarezzò la guancia e disse: «Ecco, arriva…».
La donna proruppe in un grido selvaggio, leonino, con la criniera che si agitava come i serpenti di Medusa. Mi sentii bagnato dentro. La sensazione mi avvampò e venni senza toccarmi, in un orgasmo dagli effetti simili a un elettroshock. Cominciai a tremare in maniera involontaria e mi rotolai sul tappeto, mentre lei mi fu sopra e mi baciò andandosi a prendere con la lingua lo sperma del suo uomo (chi poteva essere il dottore se non il suo uomo? Sarebbe stato d’ora in avanti anche il mio?). Mi baciò andandosi a prendere tutto fino a soffocarmi. Fummo unite da filamenti di sperma e saliva di cui cercammo di non sprecare alcuna goccia; dovevamo infatti sempre riunirci con le bocche per succhiarci avidamente l’un l’altra ogni fluido cremoso, finché aspirammo tutto, come davanti a uno spaghetto saporito.
Finimmo a stare tutti distesi sul tappeto, rannicchiati l’uno sull’altro, come svenuti, naufraghi gettati su una spiaggia. Io continuavo a tenere le mani sul mio culo, come se gli chiedessi perdono di aver permesso tutto ciò. Ma dolore e piacere si stavano esaltando a vicenda, e già pensavo a come fare per ripetere ancora tutto. Avevo ancora le sue belle scarpe addosso. Lei lo notò.
«Ti piacciono, vero?».
Annuii.
«Te le regaleremo uguali, vero Guido?» e chiese conferma al dottore.
«Certo» rispose lui serio.
«Vieni in mezzo a noi, Mary Jane».
Mi strinsi tra loro e fui avvolto da due abbracci forti e gentili, tanto che mi addormentai, rapito dalle mie visioni di un’altra vita.
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