Dottoressa
di
Ignoto
genere
dominazione
A Paoletta80,
ma potrei e dovrei dire anche ad Alba, Bear e molti altri. Quello che segue è un mio personale ringraziamento appositamente scritto e, se non avete già capito da chi giunge, probabilmente lo scoprirete prima di arrivare alla fine. Ancora grazie, di cuore.
Fermo sulla porta la osserva allontanarsi nel corridoio con passi malfermi ma inudibili. Mentre la guarda sparire nell’ascensore non può ignorare quel moto di orgoglio che gli lascia un dolce sapore in bocca, una sensazione che gli sembrava di aver scordato ma che ogni fibra del suo corpo riconosce immediatamente.
In quel preciso istante comprende l’insidia mortale di ogni dipendenza: per quanto ci si sforzi di mantenere il proprio corpo pulito come un santuario, una sola goccia del proprio personale veleno è sufficiente per rimandarci all’inferno. Peggio, basta una singola molecola per rispedirci un paio di gironi più in basso di dove stavamo quando decidemmo di tirarcene fuori.
Nel suo sangue, però, non ce n’è solo un’innocua molecola e neppure una piccola goccia. No, lui il suo personale veleno l’ha trangugiato come un uomo arso da una sete atavica, l’ha inghiottito con tutta l’ingordigia di cui un essere umano è capace. Si è abbuffato ripetendosi che non ci sarà un’altra volta perché, adesso che ha saziato la sua sete fino a vomitare, ne potrà fare a meno ancora per molto tempo. Mente a sé stesso. E lo sa perché è il suo stesso corpo a smentirlo. Basta solo il ricordo di quei glutei giovani, alti e sodi per fargli tornare l’arsura, per gonfiargli nuovamente la patta dei pantaloni.
Era un gioco innocuo, aveva ripetuto a sé stesso. Certo, apprezzava la sua pelle tesa e scura come la notte, i suoi glutei alti e tondi, quel seno appena accennato sotto gli ampi maglioni e, tutto sommato, anche la sua bocca eccessivamente larga aveva un suo fascino. Apprezzava tutto di lei cercando di autoconvincersi che non c’era nessun rischio a scherzare un po’, a lanciare qualche flebile allusione. Tirare il sasso e nascondere la mano era diventato il suo hobby preferito.
Non scegliamo cosa essere, non consciamente per lo meno. Possiamo solo decidere come vivere ciò che siamo oppure, con molto sforzo, vivere fingendo di essere diversi. Lui aveva fatto entrambe le cose, aveva vissuto da leone per poi vestire i panni di un disinteressato e vecchio elefante dalla pelle rugosa. Per anni aveva forgiato la sua pazienza negli infiniti attimi passati in attesa della giusta preda, aveva provato il crescendo di eccitazione che precede l’assalto e, infine, si era ubriacato di piacere mentre le sue zanne affondavano nella molle carne. Aveva affinato la sua arte per tanto tempo salvo poi svegliarsi e chiedersi se quella vita avesse senso. Non sarebbe forse stato meglio sorseggiare un po’ di piacere tutti i giorni invece che affogarcisi di tanto in tanto?
Poi arrivò lei, una giovane antilope dalla pelle ebenina che passava le sue giornate brucando con serenità proprio davanti ai suoi occhi, del tutto ignara che quella pelle vecchia e raggrinzita era stata bagnata innumerevoli volte da sangue fresco. Gli passava di fronte, a volte addirittura lo sfiorava, senza mostrare alcun segno di timore ma, anzi, con la baldanza tipica di quell’età in cui si è convinti che nulla ci possa davvero spaventare. Forse ritenne quel comportamento una voluta spavalderia oppure una sorta di silenzioso vezzeggio. Comunque sia andata, giorno dopo giorno, sguardo dopo sfioramento, allusione dopo provocazione, qualcosa dentro di lui iniziò a muoversi.
I giorni volarono, le settimane passarono e le occasioni di contatto non mancarono. La ruggine accumulatasi non ci mise molto a trasformarsi in sottile polvere e volare via. E così, senza quasi che se ne accorgesse, si ritrovò ancora una volta inondato dall’odore dell’erba che lo nascondeva in attesa di quel momento che prima o poi si sarebbe presentato.
E l’occasione arrivò. Però… però percepiva che c’era qualcosa di diverso in lui, una traccia di esitazione che lo aveva improvvisamente riportato indietro di trenta, forse quarant’anni. Percepiva distintamente l’inquietezza figlia del dubbio: avrebbe saputo scegliere le parole ed il momento perfetto?
Era entrata nella sua stanza indossando un paio di pantaloni bianchi ed un maglione altrettanto candido e per questo, appena un raggio di sole serale la colpì, lui fu quasi accecato.
“Dottoressa, si accomodi.” le disse indicando la poltrona davanti a sé e forse tradendo la sua stessa inquietudine.
Non che lei fosse meno inquieta ma, per lo meno, aveva un motivo che entrambi sapevano.
Prese posto ben sapendo che, quando le fosse toccato parlare, le sue prime parole sarebbero state un profluvio di scuse. Non di giustificazioni ma di sincere scuse. Istintivamente sfuggì ad uno sguardo diretto e fissò un punto sotto il suo mento in attesa che lui iniziasse a parlare. Tuttavia i secondi passavano e l’unica cosa che si sentiva era il rumore assordante di un silenzio carico di tensione.
Lei pensò che lo stesse facendo apposta per metterla a disagio, forse in soggezione, ma se avesse guardato negli occhi di lui forse vi avrebbe letto incertezza. E passarono altri attimi.
“Dottoressa – rece un respiro profondo – immagino che sappia il motivo di questo colloquio…”
Un torrente in piena la colpì allo stomaco e iniziò a vomitare in ordine quasi sparso le centinaia di frasi e parole che si era ripetuta per tutto il pomeriggio.
“Ho sbagliato e… non ho scuse. Io non volevo scrivere, cioè… io non avrei dovuto mandare al cliente quel documento senza… senza averglielo fatto leggere. Però lui insisteva e…”
Per due minuti pronunciò mezze frasi, spesso sconnesse, ripetendo fino allo sfinimento quanto fosse dispiaciuta. Lui continuò a fissarla non sapendo come riprendere il controllo di una situazione che gli era sfuggita di mano. Anni prima, al primo accenno di una parola, avrebbe alzato una mano per farle segno di tacere ed attendere ma quel tempo era passato. Ormai non poteva fare altro che ascoltare e aspettare che lei finisse.
“Io… non so davvero cosa posso fare per scusarmi. Ho fatto un danno forse irreparabile quindi…”
Si interruppe per un secondo, giusto il tempo di smetterla di fissare un punto sul petto di lui e, per la prima volta da quando era entrata, guardarlo dritto negli occhi.
“… quindi accetterò qualunque provvedimento lei vorrà prendere.”
Non furono le parole ma furono il modo in cui le pronunciò e lo sguardo nei suoi occhi. Poi fece quello che entrambi stentarono a credere e ripeté due parole scandendole lentamente.
“Qualunque provvedimento”.
In quel momento nessuno dei due poté ignorare le settimane di allusioni e di innocenti provocazioni accennate più che dette, di frasi lasciate in sospeso perché potessero avere ogni significato possibile. Mai nulla di esplicito, mai nulla di anche solo lontanamente volgare, ma piccoli accenni lasciati liberi di viaggiare.
Ora o mai più.
“Dottoressa, si alzi, esca dalla porta e se ne vada a casa. - fece una pausa soppesando esattamente cosa dire – Prima che sia troppo tardi.”
Lei ascoltò in silenzio ma non si mosse.
“Qualunque…” bisbigliò.
“Mi creda – riprese lui – è meglio per lei… è meglio per me.”
Probabilmente c’era un fondo di verità in queste parole ma nessuno gli diede molto peso.
“E se… se non volessi andare… l’alternativa quale sarebbe?”
Nemmeno lei sapeva dove avesse trovato la forza di pronunciare quelle parole in modo stranamente chiaro, senza tutta l’esitazione che solo qualche minuto prima l’aveva sopraffatta. Parole neutre, che prese di per sé non sembrano poter avere chissà quale impatto. Invece furono una carica di tritolo fatta detonare nel punto più fragile di una diga già incrinata.
Lei ascoltò la risposta senza pentirsi della domanda. Ascoltò in perfetto silenzio, soppesando ogni virgola e ogni pausa, ogni parola a cui lui aveva dato più enfasi delle altre. Lo sentì invitarla nuovamente alla porta non una ma diverse volte e più lui lo faceva meno lei sentiva la voglia di assecondarlo.
Ascoltando non poté fare a meno di notare due cose molto curiose: la prima è che il suo tono era rimasto sempre neutro, quasi stesse parlando della cosa più noiosa del mondo; la seconda è che più parlava più le parole sembravano fluirgli con maggiore facilità. Proseguì così per qualche minuto fino a che, dopo averla invitata per l’ultima volta ad andarsene, si tacque.
Nel silenzio conseguente iniziarono a danzare pensieri diversi e tuttavia simili. Entrambi si facevano domande affannandosi a cercare le risposte giuste salvo poi rendersi conto che non esistevano.
Fu lei a rompere quel pesante silenzio e, seppure furono sussurrate solo due parole, entrambi le percepirono come un boato.
“Qualunque provvedimento.”
Con gesti misurati si sfilò le scarpe e le spostò. Quindi fu la volta del maglione che piegò ed appoggiò sul tavolino. Senza tradire alcuna esitazione si alzò in piedi, slacciò e si sfilò i pantaloni e, infine, la maglietta. Rimase solo in biancheria intima sotto lo sguardo attento di lui che non si perse il minimo movimento. Tuttavia i loro occhi non si incontrarono mai.
Per completare ciò che lui le aveva richiesto si girò e si inginocchiò sulla seduta della poltroncina abbracciandone lo schienale e facendo attenzione a spingere i glutei più in alto possibile.
Se dentro di lei c’era una certa incredulità, in lui non ce n’era meno. In un moto di incerto rimorso, aveva cercato di persuaderla a non fare ciò che, in fondo, lui desiderava ardentemente. Ma adesso lei era lì, proprio davanti a lui, con i glutei all’altezza del suo viso e solo una sottilissima striscia di tessuto a nascondere il suo sesso. Ispirò.
Con movimenti la cui solennità era paragonabile a quella di una cerimonia si alzò e si avvicino. Bastò una leggerissima carezza sulla schiena per provocarle un brivido sempre più visibile man mano che la mano di lui scendeva verso l’ultimo barlume di difesa.
Mentre le abbassava lentamente gli slip fu compiaciuto dal vedere i suoi muscoli irrigidirsi ed i glutei stringersi come se volessero nascondere quello che inevitabilmente sarebbe stato messo a nudo. Fece scivolare sulla pelle nera una lunga carezza mentre si spostava di lato.
“È pronta, Dottoressa?”
Nemmeno in quel momento la chiamò per nome, quasi come se fosse una cosa troppo personale, il che, in quella situazione, può sembrare francamente ridicolo. Ma non lo è. Lei rispose con quelle parole che erano ormai diventate un mantra: qualunque provvedimento.
I secondi si susseguirono con una lentezza esasperante e poi tutto accelerò. Accelerò il braccio di lui che, con una discesa repentina, portò la sua mano ad impattare sul gluteo destro di lei producendo uno schiocco che di lì a poco fu seguito da un lamento. Da lì in poi anche il tempo accelerò ed i colpi si susseguirono senza soluzione di continuità. Alcuni a destra, altri a sinistra o in mezzo, alcuni forti altri meno, alcuni ravvicinati altri distanti. Le uniche costanti erano la certezza del successivo e l’incertezza del dove, come e quando sarebbe arrivato.
Era impossibile capire se lui fosse più concentrato sul formicolio della propria mano sinistra o sui sommessi lamenti che provenivano dalle labbra semichiuse di lei. Dentro di sé, invece, percepiva distintamente l’effetto delle endorfine, quel misto di eccitazione ed euforia la cui manifestazione fisica era un evidente rigonfiamento del cavallo. Quanto gli sarebbe piaciuto fermarsi anche solo per pochi secondi, far scivolare la propria mano fra le cosce di lei e, con lentezza, farla salire fino al suo sesso. Non aveva dubbi sul fatto che l’avrebbe trovato ben più che umido tanto che l’idea di prenderla lì, in quel momento, lo sfiorò ma solo per un istante.
Aveva cercato in tutti i modi di convincerla ad andarsene, ivi compreso dirle nei dettagli cosa sarebbe successo. Lei, invece, era rimasta e praticamene in silenzio onorava le sue stesse parole mentre la pelle scura iniziava a tradire l’effetto dei colpi.
Quando ci fu una pausa più lunga delle altre, lei non lo prese come un buon segno. Anzi, avrebbe iniziato a pentirsi ancora più amaramente se non fosse stato per… già, per quello. La decisione l’aveva presa tanti minuti prima e non voleva neppure pensare di sottrarsi alle conseguenze. Rimase immobile fissando un punto immaginario sul muro davanti a sé.
Il tintinnio del metallo non lasciò spazio a dubbi e, del resto, lo sapeva sin dall’inizio. Non aveva bisogno di girarsi per sapere che la sua mano sinistra non era più aperta bensì chiusa a pugno attorno alla cintura di liscia pelle nera che fino a qualche secondo prima stava indossando. Sospirò e non era un sospiro per farsi forza o coraggio ma quasi di liberazione. Poi urlò.
La differenza fra l’essere colpiti da una mano aperta e da una rigida cintura di cuoio le fu immediatamente evidente. Ogni volta che quel pezzo di pelle conciata la colpiva era come un morso sulla pelle che la faceva urlare e scattare in avanti. Si rese conto che ogni tentativo di controllarsi era inutile. In quel momento, inoltre, comprese perché lui avesse messo tanta enfasi sulla parola dolore.
Iniziò a contare i colpi in senso decrescente per darsi la forza di resistere fino alla fine. Ancora quindici, si disse, ce la puoi fare. Poi dieci, cinque e lo zero si faceva sempre più vicino ma le lacrime lo anticiparono. A quel punto si lasciò andare ad un pianto sommesso, leggero e liberatorio, mentre i glutei e parte delle cosce pulsavano.
Solo una cosa di ciò che le aveva detto l’aveva lasciata con un interrogativo: doveva rimanere in quella posizione “qualunque cosa succeda” fino a che lui non le avesse detto altrimenti. Quell’inciso, rimasto in sottofondo per diversi minuti, le riaffiorò prepotentemente. Per un breve istante provò a chiedersi cosa sarebbe successo ma poi decise che non valeva la pena preoccuparsi. Era lì e non si sarebbe spostata. Se voleva farla sua, aveva il diritto di farlo e, neppure troppo in fondo, lei lo desiderava forse più di lui.
Lui non sentiva dolore, non come lo sentiva lei per lo meno, ma al suo interno non c’era maggior quiete. Sapeva cosa aveva fatto, sapeva quali conseguenze avrebbe avuto, sapeva e aveva scelto. Stupido idiota.
Lasciò trascorrere qualche minuto ma, prima che lei smettesse di singhiozzare, si avviò a concludere quello che aveva iniziato. Con un movimento dolce e misurato accarezzo l’interno delle cosce facendola rabbrividire, quindi salì fino a trovare le sue labbra gonfie e bagnate. Ne assaporò i bordi con la punta delle dita e, infine, scoprì la clitoride. Lui era l’arpista e lei le corde, lui sfiorava e lei rispondeva con un suono dolce, melodico, seguendo il ritmo che lui impartiva.
Partì con un adagio per saggiare la risposta di quello strumento che ancora non conosceva bene ma ben presto salì all’andante compiacendosi della melodia che scaturiva. Il passaggio prima al rapido e poi all’allegretto ebbe un effetto immediato e la melodia si fece notevolmente più acuta. Non riuscì e nemmeno servì affrettare i tempi perché lei aveva ormai rimpiazzato i singhiozzi con un lunghissimo mugolio di piacere che riempì la stanza e le loro menti. Avendo raggiunto il culmine a lui non rimase altro da fare che accompagnarla fino a quando l’ultima nota si fosse spenta.
Il tutto durò meno di un temporale estivo ma fu altrettanto potente solo che per terra non c’erano foglie ma pezzi di loro. Tornato a sedersi sulla poltrona aspettò con pazienza che anche l’ultima folata di vento fosse dimenticata.
“Dottoressa, può rivestirsi e andare a casa. Ci vediamo domani mattina come al solito… e le auguro una buona serata.”
Per quanto le parole potessero sembrare stranamente fredde, il modo in cui furono dette lasciava intendere molto altro che nessuno di loro aveva il bisogno di dire o sentire. Lo sapevano.
Senza affettarsi lei si rivestì e, se non fosse stato per il segno delle lacrime sul viso, non era diversa da quando era entrata. Più dolorante, certo, ma anche più appagata, forse più di quanto avrebbe mai immaginato. Leggera, ecco l’aggettivo con cui si sarebbe descritta.
Lei se n’è andata, la porta si è chiusa e, girandosi, non può fare a meno di guardarsi in uno specchio appeso alla parete con un misto di stupore e sconcerto. Si vede più vecchio, sicuramente non più saggio, più appagato dalla vita ma non per questo del tutto quieto. Chi era, si domanda. Chi è ora? Chi avrebbe potuto essere se non avesse scelto? Qualcuno potrebbe dire che fu una scelta obbligata, qualcun altro sentenzierebbe che si limito a preferire il certo all’incerto ma, in cuor suo, lui sa che prese l’unica decisione possibile. Forse l’unica giusta.
Scelse di scomparire nell’ombra senza dare spiegazioni, cosa che gli è pesata più di quanto vorrebbe ammettere, scelse di tornare nel buio da cui era uscito lasciando di sé solo il ricordo perché, si sa, nei ricordi tutto sembra migliore di quanto non fosse nella realtà.
Lei scende le scale maledicendolo e benedicendolo ad ogni passo. Sicuramente non l’aveva desiderato, non all’inizio almeno, ma pian piano il suo modo di fare, i suoi gesti e quelle sottilissime allusioni avevano solleticato una curiosità a cui non aveva saputo resistere. Ogni tanto aveva colto qua e là qualche parola sussurrata sottovoce ma nulla che le desse una nitida immagine della realtà che aveva appena scoperto.
No, i veri indizi erano arrivati da altre fonti, per altre vie non sempre moralmente o eticamente corrette ma i mormorii l’avevano messa sulla giusta strada. Le ci erano voluti mesi ma alla fine era riuscita a comprendere tutti gli indizi indecifrabili. Quello che non aveva previsto era di spingerlo a tanto, di provocarlo per fargli strappare la maschera e, sicuramente, non aveva previsto che sarebbe stato proprio lui a permetterle di comprendere appieno la differenza fra realtà e fantasia. E la realtà le piace molto di più.
Entrambi camminano persi nei loro pensieri, illuminati da una luce sempre più fioca finché diventano ombre e, così come sono apparsi, spariscono nella notte, lasciando il dolce piacere di qualcosa che rimarrà e la trepidante attesa di un futuro non ancora scritto.
ma potrei e dovrei dire anche ad Alba, Bear e molti altri. Quello che segue è un mio personale ringraziamento appositamente scritto e, se non avete già capito da chi giunge, probabilmente lo scoprirete prima di arrivare alla fine. Ancora grazie, di cuore.
Fermo sulla porta la osserva allontanarsi nel corridoio con passi malfermi ma inudibili. Mentre la guarda sparire nell’ascensore non può ignorare quel moto di orgoglio che gli lascia un dolce sapore in bocca, una sensazione che gli sembrava di aver scordato ma che ogni fibra del suo corpo riconosce immediatamente.
In quel preciso istante comprende l’insidia mortale di ogni dipendenza: per quanto ci si sforzi di mantenere il proprio corpo pulito come un santuario, una sola goccia del proprio personale veleno è sufficiente per rimandarci all’inferno. Peggio, basta una singola molecola per rispedirci un paio di gironi più in basso di dove stavamo quando decidemmo di tirarcene fuori.
Nel suo sangue, però, non ce n’è solo un’innocua molecola e neppure una piccola goccia. No, lui il suo personale veleno l’ha trangugiato come un uomo arso da una sete atavica, l’ha inghiottito con tutta l’ingordigia di cui un essere umano è capace. Si è abbuffato ripetendosi che non ci sarà un’altra volta perché, adesso che ha saziato la sua sete fino a vomitare, ne potrà fare a meno ancora per molto tempo. Mente a sé stesso. E lo sa perché è il suo stesso corpo a smentirlo. Basta solo il ricordo di quei glutei giovani, alti e sodi per fargli tornare l’arsura, per gonfiargli nuovamente la patta dei pantaloni.
Era un gioco innocuo, aveva ripetuto a sé stesso. Certo, apprezzava la sua pelle tesa e scura come la notte, i suoi glutei alti e tondi, quel seno appena accennato sotto gli ampi maglioni e, tutto sommato, anche la sua bocca eccessivamente larga aveva un suo fascino. Apprezzava tutto di lei cercando di autoconvincersi che non c’era nessun rischio a scherzare un po’, a lanciare qualche flebile allusione. Tirare il sasso e nascondere la mano era diventato il suo hobby preferito.
Non scegliamo cosa essere, non consciamente per lo meno. Possiamo solo decidere come vivere ciò che siamo oppure, con molto sforzo, vivere fingendo di essere diversi. Lui aveva fatto entrambe le cose, aveva vissuto da leone per poi vestire i panni di un disinteressato e vecchio elefante dalla pelle rugosa. Per anni aveva forgiato la sua pazienza negli infiniti attimi passati in attesa della giusta preda, aveva provato il crescendo di eccitazione che precede l’assalto e, infine, si era ubriacato di piacere mentre le sue zanne affondavano nella molle carne. Aveva affinato la sua arte per tanto tempo salvo poi svegliarsi e chiedersi se quella vita avesse senso. Non sarebbe forse stato meglio sorseggiare un po’ di piacere tutti i giorni invece che affogarcisi di tanto in tanto?
Poi arrivò lei, una giovane antilope dalla pelle ebenina che passava le sue giornate brucando con serenità proprio davanti ai suoi occhi, del tutto ignara che quella pelle vecchia e raggrinzita era stata bagnata innumerevoli volte da sangue fresco. Gli passava di fronte, a volte addirittura lo sfiorava, senza mostrare alcun segno di timore ma, anzi, con la baldanza tipica di quell’età in cui si è convinti che nulla ci possa davvero spaventare. Forse ritenne quel comportamento una voluta spavalderia oppure una sorta di silenzioso vezzeggio. Comunque sia andata, giorno dopo giorno, sguardo dopo sfioramento, allusione dopo provocazione, qualcosa dentro di lui iniziò a muoversi.
I giorni volarono, le settimane passarono e le occasioni di contatto non mancarono. La ruggine accumulatasi non ci mise molto a trasformarsi in sottile polvere e volare via. E così, senza quasi che se ne accorgesse, si ritrovò ancora una volta inondato dall’odore dell’erba che lo nascondeva in attesa di quel momento che prima o poi si sarebbe presentato.
E l’occasione arrivò. Però… però percepiva che c’era qualcosa di diverso in lui, una traccia di esitazione che lo aveva improvvisamente riportato indietro di trenta, forse quarant’anni. Percepiva distintamente l’inquietezza figlia del dubbio: avrebbe saputo scegliere le parole ed il momento perfetto?
Era entrata nella sua stanza indossando un paio di pantaloni bianchi ed un maglione altrettanto candido e per questo, appena un raggio di sole serale la colpì, lui fu quasi accecato.
“Dottoressa, si accomodi.” le disse indicando la poltrona davanti a sé e forse tradendo la sua stessa inquietudine.
Non che lei fosse meno inquieta ma, per lo meno, aveva un motivo che entrambi sapevano.
Prese posto ben sapendo che, quando le fosse toccato parlare, le sue prime parole sarebbero state un profluvio di scuse. Non di giustificazioni ma di sincere scuse. Istintivamente sfuggì ad uno sguardo diretto e fissò un punto sotto il suo mento in attesa che lui iniziasse a parlare. Tuttavia i secondi passavano e l’unica cosa che si sentiva era il rumore assordante di un silenzio carico di tensione.
Lei pensò che lo stesse facendo apposta per metterla a disagio, forse in soggezione, ma se avesse guardato negli occhi di lui forse vi avrebbe letto incertezza. E passarono altri attimi.
“Dottoressa – rece un respiro profondo – immagino che sappia il motivo di questo colloquio…”
Un torrente in piena la colpì allo stomaco e iniziò a vomitare in ordine quasi sparso le centinaia di frasi e parole che si era ripetuta per tutto il pomeriggio.
“Ho sbagliato e… non ho scuse. Io non volevo scrivere, cioè… io non avrei dovuto mandare al cliente quel documento senza… senza averglielo fatto leggere. Però lui insisteva e…”
Per due minuti pronunciò mezze frasi, spesso sconnesse, ripetendo fino allo sfinimento quanto fosse dispiaciuta. Lui continuò a fissarla non sapendo come riprendere il controllo di una situazione che gli era sfuggita di mano. Anni prima, al primo accenno di una parola, avrebbe alzato una mano per farle segno di tacere ed attendere ma quel tempo era passato. Ormai non poteva fare altro che ascoltare e aspettare che lei finisse.
“Io… non so davvero cosa posso fare per scusarmi. Ho fatto un danno forse irreparabile quindi…”
Si interruppe per un secondo, giusto il tempo di smetterla di fissare un punto sul petto di lui e, per la prima volta da quando era entrata, guardarlo dritto negli occhi.
“… quindi accetterò qualunque provvedimento lei vorrà prendere.”
Non furono le parole ma furono il modo in cui le pronunciò e lo sguardo nei suoi occhi. Poi fece quello che entrambi stentarono a credere e ripeté due parole scandendole lentamente.
“Qualunque provvedimento”.
In quel momento nessuno dei due poté ignorare le settimane di allusioni e di innocenti provocazioni accennate più che dette, di frasi lasciate in sospeso perché potessero avere ogni significato possibile. Mai nulla di esplicito, mai nulla di anche solo lontanamente volgare, ma piccoli accenni lasciati liberi di viaggiare.
Ora o mai più.
“Dottoressa, si alzi, esca dalla porta e se ne vada a casa. - fece una pausa soppesando esattamente cosa dire – Prima che sia troppo tardi.”
Lei ascoltò in silenzio ma non si mosse.
“Qualunque…” bisbigliò.
“Mi creda – riprese lui – è meglio per lei… è meglio per me.”
Probabilmente c’era un fondo di verità in queste parole ma nessuno gli diede molto peso.
“E se… se non volessi andare… l’alternativa quale sarebbe?”
Nemmeno lei sapeva dove avesse trovato la forza di pronunciare quelle parole in modo stranamente chiaro, senza tutta l’esitazione che solo qualche minuto prima l’aveva sopraffatta. Parole neutre, che prese di per sé non sembrano poter avere chissà quale impatto. Invece furono una carica di tritolo fatta detonare nel punto più fragile di una diga già incrinata.
Lei ascoltò la risposta senza pentirsi della domanda. Ascoltò in perfetto silenzio, soppesando ogni virgola e ogni pausa, ogni parola a cui lui aveva dato più enfasi delle altre. Lo sentì invitarla nuovamente alla porta non una ma diverse volte e più lui lo faceva meno lei sentiva la voglia di assecondarlo.
Ascoltando non poté fare a meno di notare due cose molto curiose: la prima è che il suo tono era rimasto sempre neutro, quasi stesse parlando della cosa più noiosa del mondo; la seconda è che più parlava più le parole sembravano fluirgli con maggiore facilità. Proseguì così per qualche minuto fino a che, dopo averla invitata per l’ultima volta ad andarsene, si tacque.
Nel silenzio conseguente iniziarono a danzare pensieri diversi e tuttavia simili. Entrambi si facevano domande affannandosi a cercare le risposte giuste salvo poi rendersi conto che non esistevano.
Fu lei a rompere quel pesante silenzio e, seppure furono sussurrate solo due parole, entrambi le percepirono come un boato.
“Qualunque provvedimento.”
Con gesti misurati si sfilò le scarpe e le spostò. Quindi fu la volta del maglione che piegò ed appoggiò sul tavolino. Senza tradire alcuna esitazione si alzò in piedi, slacciò e si sfilò i pantaloni e, infine, la maglietta. Rimase solo in biancheria intima sotto lo sguardo attento di lui che non si perse il minimo movimento. Tuttavia i loro occhi non si incontrarono mai.
Per completare ciò che lui le aveva richiesto si girò e si inginocchiò sulla seduta della poltroncina abbracciandone lo schienale e facendo attenzione a spingere i glutei più in alto possibile.
Se dentro di lei c’era una certa incredulità, in lui non ce n’era meno. In un moto di incerto rimorso, aveva cercato di persuaderla a non fare ciò che, in fondo, lui desiderava ardentemente. Ma adesso lei era lì, proprio davanti a lui, con i glutei all’altezza del suo viso e solo una sottilissima striscia di tessuto a nascondere il suo sesso. Ispirò.
Con movimenti la cui solennità era paragonabile a quella di una cerimonia si alzò e si avvicino. Bastò una leggerissima carezza sulla schiena per provocarle un brivido sempre più visibile man mano che la mano di lui scendeva verso l’ultimo barlume di difesa.
Mentre le abbassava lentamente gli slip fu compiaciuto dal vedere i suoi muscoli irrigidirsi ed i glutei stringersi come se volessero nascondere quello che inevitabilmente sarebbe stato messo a nudo. Fece scivolare sulla pelle nera una lunga carezza mentre si spostava di lato.
“È pronta, Dottoressa?”
Nemmeno in quel momento la chiamò per nome, quasi come se fosse una cosa troppo personale, il che, in quella situazione, può sembrare francamente ridicolo. Ma non lo è. Lei rispose con quelle parole che erano ormai diventate un mantra: qualunque provvedimento.
I secondi si susseguirono con una lentezza esasperante e poi tutto accelerò. Accelerò il braccio di lui che, con una discesa repentina, portò la sua mano ad impattare sul gluteo destro di lei producendo uno schiocco che di lì a poco fu seguito da un lamento. Da lì in poi anche il tempo accelerò ed i colpi si susseguirono senza soluzione di continuità. Alcuni a destra, altri a sinistra o in mezzo, alcuni forti altri meno, alcuni ravvicinati altri distanti. Le uniche costanti erano la certezza del successivo e l’incertezza del dove, come e quando sarebbe arrivato.
Era impossibile capire se lui fosse più concentrato sul formicolio della propria mano sinistra o sui sommessi lamenti che provenivano dalle labbra semichiuse di lei. Dentro di sé, invece, percepiva distintamente l’effetto delle endorfine, quel misto di eccitazione ed euforia la cui manifestazione fisica era un evidente rigonfiamento del cavallo. Quanto gli sarebbe piaciuto fermarsi anche solo per pochi secondi, far scivolare la propria mano fra le cosce di lei e, con lentezza, farla salire fino al suo sesso. Non aveva dubbi sul fatto che l’avrebbe trovato ben più che umido tanto che l’idea di prenderla lì, in quel momento, lo sfiorò ma solo per un istante.
Aveva cercato in tutti i modi di convincerla ad andarsene, ivi compreso dirle nei dettagli cosa sarebbe successo. Lei, invece, era rimasta e praticamene in silenzio onorava le sue stesse parole mentre la pelle scura iniziava a tradire l’effetto dei colpi.
Quando ci fu una pausa più lunga delle altre, lei non lo prese come un buon segno. Anzi, avrebbe iniziato a pentirsi ancora più amaramente se non fosse stato per… già, per quello. La decisione l’aveva presa tanti minuti prima e non voleva neppure pensare di sottrarsi alle conseguenze. Rimase immobile fissando un punto immaginario sul muro davanti a sé.
Il tintinnio del metallo non lasciò spazio a dubbi e, del resto, lo sapeva sin dall’inizio. Non aveva bisogno di girarsi per sapere che la sua mano sinistra non era più aperta bensì chiusa a pugno attorno alla cintura di liscia pelle nera che fino a qualche secondo prima stava indossando. Sospirò e non era un sospiro per farsi forza o coraggio ma quasi di liberazione. Poi urlò.
La differenza fra l’essere colpiti da una mano aperta e da una rigida cintura di cuoio le fu immediatamente evidente. Ogni volta che quel pezzo di pelle conciata la colpiva era come un morso sulla pelle che la faceva urlare e scattare in avanti. Si rese conto che ogni tentativo di controllarsi era inutile. In quel momento, inoltre, comprese perché lui avesse messo tanta enfasi sulla parola dolore.
Iniziò a contare i colpi in senso decrescente per darsi la forza di resistere fino alla fine. Ancora quindici, si disse, ce la puoi fare. Poi dieci, cinque e lo zero si faceva sempre più vicino ma le lacrime lo anticiparono. A quel punto si lasciò andare ad un pianto sommesso, leggero e liberatorio, mentre i glutei e parte delle cosce pulsavano.
Solo una cosa di ciò che le aveva detto l’aveva lasciata con un interrogativo: doveva rimanere in quella posizione “qualunque cosa succeda” fino a che lui non le avesse detto altrimenti. Quell’inciso, rimasto in sottofondo per diversi minuti, le riaffiorò prepotentemente. Per un breve istante provò a chiedersi cosa sarebbe successo ma poi decise che non valeva la pena preoccuparsi. Era lì e non si sarebbe spostata. Se voleva farla sua, aveva il diritto di farlo e, neppure troppo in fondo, lei lo desiderava forse più di lui.
Lui non sentiva dolore, non come lo sentiva lei per lo meno, ma al suo interno non c’era maggior quiete. Sapeva cosa aveva fatto, sapeva quali conseguenze avrebbe avuto, sapeva e aveva scelto. Stupido idiota.
Lasciò trascorrere qualche minuto ma, prima che lei smettesse di singhiozzare, si avviò a concludere quello che aveva iniziato. Con un movimento dolce e misurato accarezzo l’interno delle cosce facendola rabbrividire, quindi salì fino a trovare le sue labbra gonfie e bagnate. Ne assaporò i bordi con la punta delle dita e, infine, scoprì la clitoride. Lui era l’arpista e lei le corde, lui sfiorava e lei rispondeva con un suono dolce, melodico, seguendo il ritmo che lui impartiva.
Partì con un adagio per saggiare la risposta di quello strumento che ancora non conosceva bene ma ben presto salì all’andante compiacendosi della melodia che scaturiva. Il passaggio prima al rapido e poi all’allegretto ebbe un effetto immediato e la melodia si fece notevolmente più acuta. Non riuscì e nemmeno servì affrettare i tempi perché lei aveva ormai rimpiazzato i singhiozzi con un lunghissimo mugolio di piacere che riempì la stanza e le loro menti. Avendo raggiunto il culmine a lui non rimase altro da fare che accompagnarla fino a quando l’ultima nota si fosse spenta.
Il tutto durò meno di un temporale estivo ma fu altrettanto potente solo che per terra non c’erano foglie ma pezzi di loro. Tornato a sedersi sulla poltrona aspettò con pazienza che anche l’ultima folata di vento fosse dimenticata.
“Dottoressa, può rivestirsi e andare a casa. Ci vediamo domani mattina come al solito… e le auguro una buona serata.”
Per quanto le parole potessero sembrare stranamente fredde, il modo in cui furono dette lasciava intendere molto altro che nessuno di loro aveva il bisogno di dire o sentire. Lo sapevano.
Senza affettarsi lei si rivestì e, se non fosse stato per il segno delle lacrime sul viso, non era diversa da quando era entrata. Più dolorante, certo, ma anche più appagata, forse più di quanto avrebbe mai immaginato. Leggera, ecco l’aggettivo con cui si sarebbe descritta.
Lei se n’è andata, la porta si è chiusa e, girandosi, non può fare a meno di guardarsi in uno specchio appeso alla parete con un misto di stupore e sconcerto. Si vede più vecchio, sicuramente non più saggio, più appagato dalla vita ma non per questo del tutto quieto. Chi era, si domanda. Chi è ora? Chi avrebbe potuto essere se non avesse scelto? Qualcuno potrebbe dire che fu una scelta obbligata, qualcun altro sentenzierebbe che si limito a preferire il certo all’incerto ma, in cuor suo, lui sa che prese l’unica decisione possibile. Forse l’unica giusta.
Scelse di scomparire nell’ombra senza dare spiegazioni, cosa che gli è pesata più di quanto vorrebbe ammettere, scelse di tornare nel buio da cui era uscito lasciando di sé solo il ricordo perché, si sa, nei ricordi tutto sembra migliore di quanto non fosse nella realtà.
Lei scende le scale maledicendolo e benedicendolo ad ogni passo. Sicuramente non l’aveva desiderato, non all’inizio almeno, ma pian piano il suo modo di fare, i suoi gesti e quelle sottilissime allusioni avevano solleticato una curiosità a cui non aveva saputo resistere. Ogni tanto aveva colto qua e là qualche parola sussurrata sottovoce ma nulla che le desse una nitida immagine della realtà che aveva appena scoperto.
No, i veri indizi erano arrivati da altre fonti, per altre vie non sempre moralmente o eticamente corrette ma i mormorii l’avevano messa sulla giusta strada. Le ci erano voluti mesi ma alla fine era riuscita a comprendere tutti gli indizi indecifrabili. Quello che non aveva previsto era di spingerlo a tanto, di provocarlo per fargli strappare la maschera e, sicuramente, non aveva previsto che sarebbe stato proprio lui a permetterle di comprendere appieno la differenza fra realtà e fantasia. E la realtà le piace molto di più.
Entrambi camminano persi nei loro pensieri, illuminati da una luce sempre più fioca finché diventano ombre e, così come sono apparsi, spariscono nella notte, lasciando il dolce piacere di qualcosa che rimarrà e la trepidante attesa di un futuro non ancora scritto.
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