L'apprendista

di
genere
etero

Non vi darò misure, ne descrizioni particolari della mia fisicità, o di quelle della mia partner occasionale. Non sono tipo da estimo e da valutazioni. Lascio che sia la vostra fantasia a costruire i personaggi di questa storia. In fondo una storia semplice e perfino banale.
Nulla di particolarmente eccitante, se non fosse che lo è stato per me, conducendomi fino al punto di volerla rivivere scrivendone per degli sconosciuti (anche se in verità, dentro di me, sento che sto scrivendo prima di tutto per me stesso). I nomi che userò sono di fantasia: Marco e Anna (Anna e Marco, citazione di Lucio Dalla, sarebbe stato troppo presuntuoso).
Dunque mi chiamo Marco, ho quasi sessant’anni, sono sposato e faccio il secondo mestiere più antico del mondo: il giornalista. Il secondo, perché come noto il primo è quello della puttana. Il nostro (mi riferisco a tutta la categoria) è il secondo, ma tanto tanto simile al primo. Non sono mai stato geloso del mio lavoro e, anzi, ho sempre amato insegnare ai giovani il mestiere.
E così nell’ultima mia avventura editoriale mi accadde che il direttore mi affiancò tre ragazzi, tutti appena laureati, con l’intento di farli crescere in redazione. Due ragazze e un ragazzo. Due di loro si vide subito che avevano stoffa, e una “penna” agile, nei loro rispettivi campi di competenza.
L’altra, Anna, arrancò un po’. Ragazza volenterosa, con alcuni limiti, con una caparbietà ed un impegno disarmanti. Capii che, lavorandoci, ce la poteva fare. Poteva essere una buona apprendista. E così mi misi di buzzo buono. Ne avrei tirato fuori un ottimo elemento per la “cucina” (in gergo si chiama così il lavoro interno di redazione). La misi al mio fianco (in senso letterale) nella impaginazione del giornale.
In tanti anni di carriera non mi era mai accaduto di prendere una scuffia per una collega (mai confondere lavoro e sesso o, peggio, amore!). Eppure Anna, giorno dopo giorno, cominciò a interessarmi come donna. Non più la ragazzina smarrita, un po’ in carne, cui dire cosa fare. Ma la femmina le cui curve cominciarono a eccitare la mia fantasia. In estate il suo seno generoso (ecco per gli appassionati delle misure un dato: direi una quarta) tracimava da camicie e magliette come un fiume in piena. I capezzoli non riuscivano a trovare argine nel reggiseno, tanto meno sulla leggerezza di cotoni e lini. I suoi occhi verdi erano un mare in cui mi perdevo, i capelli biondi e profumati, le labbra carnose e voluttuose. Tra tutti i sensi fu l’odore quello che per primo mi travolse. Sentivo il suo profumo, non quello che si spruzza sulla pelle. Sentivo il suo profumo di donna.
Mi diedi ripetutamente del cretino! Quando tutto ciò accadde, alcuni anni fa, avevo abbondantemente superato la cinquantina. Avrei potuto essere suo padre, mi ripetei. Ma poi osservavo la linea dolce del suo collo, le scrutavo l’attaccatura dei capelli sulla nuca, lì dove il sudore diventa come gocce di rugiada sulla pelle, e viene voglia di lavarlo via con la lingua, indugiando con il naso tra i suoi capelli. Fatti questi pensieri mi dissi: non sei suo padre, sei un uomo che sta cedendo ad una attrazione, anche solo sessuale. Non rimproverarti. Ma poi pensai che stavo cedendo da uomo maturo alle lusinghe di una giovinezza fresca ed eccitante. Classico rincoglionimento da ultra cinquantenne che viaggia spedito verso la vecchiaia. Certo Anna non era una lolita, tutt’altro. La sua fisicità era molto muliebre. Femmina, sotto ogni aspetto, e insieme dolce. E con una carica di sensualità inconsapevole che ti sbatteva in faccia con una arroganza involontaria.
Mesi di lavoro fianco a fianco, in cui i nostri avambracci si sfiorarono mille volte, i nostri volti si facevano sempre più vicini, la nostra pelle si lambiva in contatti “involontari”. Mesi in cui abbiamo riso e scherzato, ci siamo guardati in maniera languida e tenera, ci siamo baciati teneramente sulle labbra, ma senza mai dargli un “intento”. Giornate in cui la distanza tra i nostri corpi si ridusse sempre di più. Insomma, la prossemica mi disse che non le dava fastidio la mia invasione del suo spazio, e viceversa. Accadde tutto in una calda serata di luglio. Dovevamo sistemare l’archivio fotografico e quello dei pezzi pubblicati. Eravamo indietro con il lavoro e decidemmo di fermarci. Tutti gli altri colleghi andarono via. Rimanemmo soli.
Non so se fu il caso, o se in qualche modo entrambi creammo la circostanza giusta per lasciarci andare. Fu un argomento di lavoro che ci portò a rompere gli argini del buon senso. Una parola: il consenso. Parola magica senza la quale due persone non possono amarsi, toccarsi, sfiorarsi, darsi reciproco piacere.
Mentre enunciavo il mio ragionamento mi accostai al suo viso e baciai le sue labbra. Un bacio quasi innocente, come quello che altre volte ci eravamo scambiati: “a stampo”, si direbbe. Mi guardò perplessa. Non capii bene se fosse stupita, sorpresa, felice. Mi avvicinai nuovamente, solo il viso, senza neppure toccarla. E questa volta le sue labbra si schiusero, con una certa timidezza. Ci baciammo con una tenerezza quasi adolescenziale. Forse erano anni che non baciavo una donna con tanta delicatezza. Poi i baci furono più intensi, ci abbracciammo.
Le nostre mani cominciarono a frugare i nostri corpi. Lei cominciò a carezzarmi lievemente il membro, ancora prigioniero dei pantaloni, ma che sentivo già in erezione. Io feci lo stesso, le carezzai il pube, attraverso i vestiti. E intanto le nostre lingue vorticavano nelle nostre bocche anticipando i nostri pensieri, suggerendoci che non ci saremmo fermati.
«Voglio fare l’amore con te» le dissi, con buona dose di ipocrisia verbale. Non le dissi, come sarebbe stato più onesto, «ti voglio scopare». Comunque sia, Anna rispose un laconico «sì». Non una parola di più. Un sì pronunciato anche con qualche imbarazzo. Sgomberai la scrivania e le chiesi di sedersi davanti a me. Poi le dissi, portando il dito al naso e facendo il segno di “silenzio”: «lascia fare a me». Le sollevai la gonna, ampia e lunga, mi immersi tra le sue cosce, le sfilai gli slip con qualche difficoltà (non sono mai stato molto pratico), con il suo aiuto e con qualche risata di troppo da parte sua.
Era eccitata, ma non bagnata. Ma di quello mi occupai io. Cominciai a leccare la sua fica. Era morbida, profumata, appena depilata. Leccai con avidità, come se non ci fosse un domani. La penetrai letteralmente con la lingua. Usavo la mie labbra sulle sue piccole e grandi labbra. Baciai il suo clitoride, lo leccai, ne apprezzai gusto e consistenza tra le mie labbra. La sua eccitazione montava, i suoi umori fluivano, le mia erezione era sempre più tonica dentro i pantaloni. Ebbe un orgasmo? Non lo so, credo di sì, e se no ha finto da premio oscar. Non squirtò, ma i suoi umori erano un profluvio.
Riemersi da quel paradiso in preda ad una sorta di parossismo, la bacia sulle labbra ancora bagnato dei suoi umori. Anna non si ritrasse. Intanto mentre ero ancora tra le sue gambe mi slacciò i pantaloni, li tirammo giù insieme ai boxer e cominciò a segarmi lentamente, con una dolcezza infinita. E intanto mi baciava. E nel mentre le sbottai l’abito scoprendole la schiena e slacciai il reggiseno. Mi aiutò a tirare giù il corpetto dell’abito e tolse il reggiseno, con una mano, mentre con l’altra continuava a masturbarmi. Le sue tette erano fantastiche da toccare, grandi, sode, con capezzoli turgidi al centro di un’aureola meno grande di quanto mi sarei aspettato, per quei seni.
«Aspetta – disse ad un certo punto – spogliamoci». In effetti aveva ragione. A quel punto che senso aveva tenersi braghe alle caviglie e abito sui fianchi. Ci denudammo in un lampo, ma non riprendemmo da dove avevamo lasciato. Fu Anna a prendere l’iniziativa: «Siediti». Mi saltò addosso e sbattendomi i seni sul viso si “accomodò” sul mio cazzo, infilandoselo nella fica. Anna mi ha scopato con foga. Ad ogni stantuffata sull’asta il suo seno massaggiava il mio petto. L’ho ricambiata con altrettanta passione, assecondando il suo ritmo e ogni tanto rallentandola per non venire troppo presto. In realtà ero troppo eccitato e dopo una decina di decisi colpi di reni (suoi!), venni clamorosamente, come Onan spargendo per terra il mio seme.
Poi, non lo leggo quasi mai, ma a noi accadde così, ripulimmo e ci ripulimmo, tra una risata e qualche imbarazzo. Tornai a baciarla, e questa volta i nostri sguardi dissero tutto. Anna capì che avrei voluto di nuovo scopare, e di nuovo tornò a cincischiare con il mio cazzo. Onestamente, avrei voluto mi facesse un pompino, me lo sarei aspettato.
Invece ripartì con una sega vertiginosa. La sega più eccitante che abbia mai ricevuto (pensai che si fosse specializzata nelle seghe per non fare pompini!). Anche senza lo stimolo della sua lingua calda e morbida il mio “cavaliere calvo” si mise sull’attenti, pronto per un altro giro di giostra. Come fu, come non fu, le dissi chiaramente «girati che ti inculo».
Anna strabuzzò gli occhi e mi disse: «ma che cazzo dici, no. Non se ne parla». «Scherzavo – risposi –, girati che ho ancora voglia della tua fica».
Non se lo fece dire due volte. Facemmo per la seconda volta del buon sesso selvaggio. I suoi fianchi morbidi e rotondi sembravano essere fatti apposta per la “pecorina”. Le sue tette sembravano essere fatte apposta per essere strizzate tra una stantuffata e l’altra. La penetrai con studiata lentezza, prima facendole comunque sentire la cappella nel solco delle natiche e perfino sulla “rosa” del culo. La scopai da dietro con grande soddisfazione, e intanto con il pollice le stimolai l’ano. La volevo eccitata al massimo e forse vi riuscii. Dopo un quasi crampo ad un polpaccio, alla fine, questa volta, venne prima lei, e poi io, meno copiosamente della prima volta, sulla sua schiena. Poi ci abbracciammo, ci baciammo, ci toccammo un altro po’. Alla fine ci ricomponemmo e, va da sé, per quella sera non lavorammo. Diventammo amanti fissi? No. Avemmo altri incontri di sesso? Sì, ma queste sono altre storie, che magari scriverò (forse!)
scritto il
2023-08-04
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