C'era una volta un master

di
genere
dominazione

C’era una volta un master, seduto sul sofà, diceva alla sua schiava, raccontami una storia.

La storia incominciò…

C’era una volta un master, descritto in un racconto che percorreva passi in volta di cronologia, in un percorso di una prima volta…Quel racconto, inviato ad un concorso, non selezionato perché non conteneva catene e sangue, fu poi assurto agli onori della cronaca scritta su carta da una scelta successiva… Parlava di una donna, che sceglieva, come si fa con un mappamondo per una località remota, quando si ha voglia di girare il mondo, il suo punto di inizio avventura, in veste di persona. Parlava di emozioni descritte in movimenti e gesti, e di una scena chiusa in una camera di motel. Parlava di un uomo vestito di panni non portati bene, della sua incapacità di usarli, di un controllo mal gestito e inesistente, della sua trasgressione alla vita in convenzioni sociali, vista in comode menzogne ad una moglie ed un figlio, di cui lei, la donna, sapeva bene, nonostante le sue convinzioni e regole intime e personali. Parlava di un ruolo relegato in un fotogramma da film a luci rosse, di vergognose soste senza scendere dalla macchina se non per chiudere una porta di una camera, di bende e mollette e corde, visioni infantili e azzardate dell’autrice, protagonista, dello scritto.

Parlava di conduzioni non condotte, di emozioni forti gestite in totale individualità e da una parte sola. Parlava di strane cose raggruppate a grappolo da seguire una ad una. Il ritmo era incalzante, il tono sensuale forte, ma tutto apparteneva a lei, che non sentiva e vedeva in quell’uomo, nel passato e nel presente il signor xxxxxxx xxxxxx, nulla di più di quel che si era portata appresso lei, immaginato lei, creato lei. Non parlava di fragilità e impotenza fisica che lei stessa avrebbe in quell’occasione e dopo trovato in uomini vestiti di quelle vesti, il master. Non parlava del suo specchiarsi in uno specchio che la rendeva più sola e più forte in una ricerca difficile, dentro e fuori di sé. Non parlava del suo seguito e del cedere il ruolo così poco reale in quello opposto, di questo misero e piccolo master. Non parlava della pochezza di emozioni ricevute, ma così attentamente cercate e finite per disegnare in una cronaca di realtà. Non parlava del coraggio di concepire uso e abuso in due ore di recita con uno sconosciuto, in un teatro che vede attori avvicendarsi su un palcoscenico sempre gremito. Non parlava di realtà, se non in quelle solite di cui tutti si fanno comodi assertori e negatori e maschere di carnevale.

Lei era una un salame legato male, traboccante inestetiche pose, lui l’uomo che non sa nemmeno comodamente possederla, diciamo "normalmente"? Ma si inventa o riporta, scene cercate la notte prima nei libri di testo sadomaso, quelli a livello elementare, per il conseguimento del brevetto a saper leggere e scrivere, non superato per grave deficienza di mezzi fisici e mentali, per presunzione di infrazione di regole umane e di onestà, per mancanza di strumenti personali.

C’era una volta un master, seduto sul sofà. Diceva alla sua schiava, raccontami una storia.

La storia incominciò

C’è oggi la stessa donna, legata ad un invisibile e forte laccio, corto corto, da levarle il fiato. La città è la stessa…roma. I suoi passi , gli aerei , gli aeroporti… Il master, l’uomo che sta seduto, la possiede. Ha la forza quasi inconsapevole di tenerla lì. Quando lei ha cercato di scostarsi il nodo alla gola si è fatto stretto, il respiro impossibile. Una volta o tante e tutte , lei ha percorso gli stessi scalini sugli stessi aerei, in mezzo il tempo ha descritto archi molto diversi. Ma lei è qui, legata a lui, rabbiosa e furente per quello stato, quello che lei tanto ha cercato. Lui, ha strumenti elaboratissimi, lei striscia per il perdono di un suo gesto, facendolo ancora con presunzione e sguardi iracondi. Lui fa un gesto e lei corre dentro a porgersi per poterlo servire, per accorgersi che lo fa in modo sbagliato, che esige un rispetto che non da, che esige… Lui sa fulminarla con occhi cattivi, sa renderla docile e inutile, sa divertirsi di lei. Sa farla sentire inesistente, una, qualunque, a cui si regala un attimo di illusione, senza garantire un secondo respiro. Lui con le mollette ci stende il bucato, con le corde il filo per i panni bagnati, con il suo gelo e indifferenza, le notti a latitudini estreme. Lui la tiene seduta in terra mentre dorme, lui la costringe ad abbassarsi sul suo ventre, lui regola i ritmi e gli umori, lui si prende gioco di lei. Lui la usa, meglio e più di chiunque altro, come mai nessuno più saprà fare, e lei sta lì, pregando che non finisca mai, che questa strana forma di amore e odio per lei per lui per se stessa, la faccia uscire da quel pozzo nero che conosce. Lui sa che se si alza per un piccolo qualunque gesto, lei lo seguirà, lui sa che lei lo cerca ogni volta e per ogni volta come se mai fosse esistito prima e mai esistesse più dopo. Lui non concepisce vita, ne continuità e le nega il respiro, se non quel poco che passa per il nodo. Se decide di giocare, lui usa corde e strumenti che diventano infuocati uncini nella carne, e da vita ad immagini di guerra.

Lui vuole solo questo, lui la prende e lui la butta, mai assicurandole che lei sarà la sola.

Lei ha poco tempo e poco fiato per pensare, e se ne avesse non lo userebbe che per lui.

Lui la domina senza aver mai concepito la parola master se non in un abecedario scorso da piccolo, lui è Grande. Il suo corpo è magnifico ed evoca estatiche ammirazioni. Lei con grande stupore gli regala la sua luce, così ammirata fino a quel punto e così esibita, così potente, di cui lui si cibi, per la sua fame. Lui è Grande e Magnifico. Lei vuole poterglielo dire ad ogni frammento di tempo.

C’era una volta un Re, seduto sul sofà, diceva alla sua nonna, raccontami una storia.

La storia incominciò

Questa è la storia di una donna che desidera regalare ogni luce e ombra, ogni tormento ed estasi, ogni energia a chi forse non l’amerà mai come lei vorrebbe chiedere, che non le permette di chiedere, che vuole per sé. Che le alza la gonna e le scosta le gambe, senza garbo, che insinua le mani e ci fa ciò che vuole, e se il telefono suona , si occupa del suo quotidiano continuando con grande indifferenza. Che con noncuranza le regala attimi del suo piacere di maschio, per poi darle modo di lavare con la lingua le preziose e abbondanti mescite. Lui stabilisce il prezzo di ogni volta del suo corpo da puttana, che porta con se in grandi alberghi, vestita come si conviene, esibita come sua, per il tempo di una firma, per il tempo di una stanza, per il tempo che lui decide, per tutto il tempo che lei concepisce come vita, nell’anima di lei. Lui la possiede, possiede tutto di lei, per poco, per molto, per quel che ritiene. Lui calpesta ogni gesto del suo passato trionfante nel suo incedere.

Lei glielo porge come immagini su cui fare una danza rituale e poi bruciare nel rogo. Lei è in quel rogo, e lui la guarda sorridente. Non la salverà se non per indicarle un altro rogo su cui bruciare ancora, fino a quando negli occhi di lui ci sarà il piacere del fuoco e del tormento.

Lei non riesce, non può, non vuole scostarsi da lui, da quell’odore di carne bruciata, dalle mani che peggio che pinze strizzano i suoi capezzoli, dalle corde invisibili che la legano in ogni posizione lui chieda, da visioni costrette da bende intangibili, dalla paura della non esistenza che lui sa creare, dal dolore percorso per ogni passo avanzato o indietreggiato.

Lei è una bella farfalla blu infilata ogni volta e tante volte da un lungo e accuminato spillone, a forma di cazzo, a forma di mani, a forma di mente, a forma di tempo, a forma di vita.

Avete mai chiesto ad una farfalla quanto le fa male e quanto le piace restare lì?

Io si…alla mia. Dispiegate le belle ali, spalancate le gambe, tenuta ferma per la vita, trafitta dal metallo freddo… io si. E in un sussurro ho sentito rispondere… io voglio star qui.

Qui dove le parole hanno poco senso, i ruoli lontani ricordi, il fiato appena possibile, il pianto inesauribile e non certo piccolo momento di stupore, il cuore a fornire zucchero per il caffè, nemmeno girato e lasciato al fondo, l’anima a essere bruciata come panni stesi ad un sole impazzito, il ventre a sbrodolare piogge per la sete nemmeno estiva, il tempo inconsistente, l’amore, strana e inconcepita parola, nulla di conosciuto

Nulla di conosciuto era il titolo di quel racconto che scrissi anni fa. Vorrei fare la mia personale danza di guerra e attacco e devastazione e cancellazione di quel vissuto e di quella persona, e di ogni cosa abbia preceduto questo momento in cui io celebro LUI

E dal mio rogo, con occhi furenti, e rivolgendomi direttamente ai Suoi occhi, voglio che sappia quanto possiede di me, quanto ogni suo passo e presenza studiata o istintiva, superi, annulli, cancelli ogni altro. Lo renda impossibile.

Quanto sono disposta a pagare per le mie furie e le mie presunzioni, quanto quello che vivo è davvero "nulla di conosciuto" . Ora si.

Quanto le mie vesti cadono prima durante e dopo il fuoco che le arde. Quanto sono attenta a rimetterle per vederle violare. Quanto spazio c’è in me.

Quanto, nella mia regalità blu, io celebro per Lui, in Lui, con Lui.
scritto il
2010-08-18
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