Ricordo di un'estate

di
genere
sentimentali

Quand’ero bambina passavo sempre il mese di agosto in montagna. Alcuni amici di famiglia ci affittavano per l’intero mese una mansarda all’interno della loro casa. Era una vecchia abitazione del centro storico del paese, al confine con le mura medievali. I piani superiori erano abitati. Al pian terreno, dietro un vecchio portone, c’era un ingresso enorme col pavimento in acciottolato. Ricordo ancora adesso l’odore che regnava in quell’androne: un misto di muffa, legno e bucato che due volte al giorno si mischiava ai profumi che uscivano dalla cucina. Non ho mai più trovato un odore simile in tutta la mia vita.
Da lì potevi sia scendere verso la cantina sia andare dritto verso il fienile. Dietro la casa c’era una stalla con delle mucche, un pollaio, un cane, una vecchia fontana in pietra, un paio di alberi da frutto ed un orto dove si mischiavano verdura e fiori. Mi piaceva chiamare quel posto “la fattoria”.
Nonostante fossimo in alta quota, ci trovavamo in un pianoro circondato da montagne. Era un fondovalle dove le coltivazioni, i prati ed i boschi si fondevano perfettamente in un insieme armonico. Di quando in quando spuntavano, come isole, i paesi.
Adesso amo molto il contatto con la natura e la vita all’aria aperta, ma all’epoca ero una bambina abbastanza timida, introversa e soprattutto schizzinosa: non mi piaceva sporcarmi. Ho comunque dei ricordi bellissimi di quelle estati, di camminate e biciclettate fra rogge, meleti e strade sterrate e incontri con animali, domestici e selvatici. Non so se sia solo frutto della nostalgia ma per me quelli furono giorni felici.
Non c’erano tanti bambini con cui poter giocare e non era facile socializzare con me. Ma c’era una persona che mi è rimasta ben impressa nella mente. Si chiamava Nicola, era mio coetaneo e, a differenza mia, non era un villeggiante, ma un residente. Viveva infatti in paese, in una casa poco fuori dal borgo. Nicola mi piaceva nel modo in cui un sentimento complesso come l’amore può essere provato, e magari anche capito, da una bambina delle elementari.
Nel frattempo, arrivava l’adolescenza, con tutti i problemi (più che altro interiori) che quest’età tremenda porta con sé. Cambiava il mio corpo, cambiava la mia mente e soprattutto cambiava il sentimento che provavo nei confronti di Nicola: diventava più nitido e tormentato. Sì, era amore: ne ero certa. L’unica cosa che non mutava era la mia timidezza nell’approcciarmi a lui. Le poche volte che lo incrociavo scambiavamo quattro chiacchiere, ma dovevo lottare con l’imbarazzo che mi faceva sudare le mani e abbassare istintivamente lo sguardo a terra.
Giunse finalmente l’università e, in generale, la piena giovinezza con tutto quello che ne seguiva: un maggior senso di libertà, una prima (seppur parziale) indipendenza, la consapevolezza di essere all’apice delle proprie energie ma senza le responsabilità della vita adulta, un senso di palpabile felicità. Continuavo ad andare alla fattoria nel mese di agosto: anche se non ero più una ragazzina, mi ritiravo per studiare in vista degli appelli di settembre. Lo consideravo il mio “buon ritiro”, il mio esilio dorato dove riprendere le forze. Continuavo a provare amore per Nicola e a frequentarlo se capitava, anche se ormai mi ero rassegnata a considerare fantascientifica l’ipotesi di noi due assieme. Tutto ciò era ulteriormente rafforzato dal vederlo in giro per il paese mano nella mano con un’altra ragazza.
Mi sbagliavo di grosso.
Era l’estate che precedeva la laurea. Era appena iniziato settembre: le giornate erano ancora lunghe e faceva ancora caldo, ma già si sentiva che era appena stato piantato il seme dell’autunno.
Mi ero ritirata alla fattoria per scrivere la tesi. Un pomeriggio, dopo aver passato l’intera mattinata a sottolineare pagine su pagine per estrarre qualche frase utile, decisi di prendere un po’ d’aria fresca e fare un po’ di movimento. Inforcai la bicicletta e pedalai. Girai a lungo, attraversando i paesi limitrofi, fino a spingermi ad un castello da dove si dominava l’intera vallata. Mi sentivo libera.
Come spesso però accade in montagna, il tempo cambiò in fretta: grosse e nere nuvole si ammassarono in cielo e, all’improvviso, partì il temporale.
Ero ancora a parecchi chilometri di distanza da casa. La pioggia mi colse mentre passavo vicino ad un fienile. Mi fiondai subito all’interno. Non ci avevo mai visto anima viva lì dentro, anche se il luogo appariva ben curato, e quindi nessuno avrebbe protestato se mi fossi fermata un po’ di tempo.
Improvvisamente qualcuno entrò. Era Nicola, vestito con maglietta, braghe corte e scarponi, parecchio bagnato.
“Ciao, Bea! Come mai da queste parti?”
“Ciao, Nick! Potrei farti la stessa domanda”.
“Stavo raccogliendo un po’ di erbe aromatiche qua attorno. E tu?”
“Stavo facendo un giro in bicicletta da queste parti”.
In breve iniziammo a parlare del più e del meno. La conversazione divenne parecchio piacevole. Buffo, lo conoscevo da tanti anni ma solo ora scoprivo di avere una marea di cose in comune con lui.
Intanto, il tempo passava ed il temporale non accennava a diminuire. Anzi, pareva che avesse ripreso d’intensità.
“Smetterà mai di piovere?”, chiesi. Stavo per dire: “Non può piovere per sempre”, ma mi fermai appena in tempo per evitarmi la banalità cinematografica.
“Perché, non ti trovi bene qui dentro?”
“No, per carità, sto benissimo. È che io, dopo un po’ che sto al chiuso, comincio a sentirmi in gabbia”.
“Beh, io in una gabbia simile ci starei più che volentieri…”
La sua voce aveva preso una strana increspatura. I miei occhi azzurri guardarono i suoi color nocciola. Lui mi accarezzò una guancia e mi passò una mano fra i capelli.
Quel suo gesto mise in moto qualcosa dentro di me, qualcosa che facevo finta di ignorare ma in realtà conoscevo benissimo.
Poi la mano scese a toccarmi il ginocchio, scivolò sotto la gonna e risalì verso l’inguine. Non riuscì a fermarlo in tempo e mi tastò l’uccello, già vistosamente in tiro. Non si scandalizzò né ritirò la mano inorridito; anzi, la sorpresa sembrava piacergli.
Si avvicinò a me e mi baciò. Quel sentimento che provavo per lui si scosse di dosso tutt’a un tratto la crosta che il tempo e l’abitudine avevano formato sopra. Mi tolsi il vestito a fiori bianco ed arancione e i sandali, e rimasi nuda. Anche Nicola si spogliò e ci buttammo l’uno addosso all’altra.
Io gli accarezzavo i capelli biondi e lui faceva lo stesso coi miei. Io lo baciavo sul petto e lui mi baciava sulle tette che avevo da poco inaugurato. Il mio pene ed il suo si toccavano e si sfioravano.
Si mise supino per terra, la sua testa fra le mie cosce. Io avanzai verso di lui quel tanto che bastava perché mi prendesse in bocca l’uccello e cominciasse a succhiarmelo. Mi distesi ancora un po’ e ricambiai il favore succhiandogli la minchia. Sentivo il suo cazzo crescere dentro la mia bocca ed il mio diventare sempre più grande nelle sua.
Come un’anguilla sgusciò da sotto e si mise alle mie spalle. Mi allargò un attimo le chiappe e me lo mise nel culo. Finalmente: dopo infinite serate passate in solitudine a masturbarmi pensando a lui, finalmente i miei sogni più segreti e profondi di ragazzina si stavano manifestando. Il suo sesso caldo che sentivo andare su e giù per lo sfintere mi agganciava felicemente alla realtà.
Eiaculò dentro di me. Poi si girò dandomi la schiena e aggiungendo: “Adesso tocca a te”.
Venni d’improvviso presa d’assalto da un inaspettato senso di colpa. Dicevo a me stessa che non potevo rovinare e sporcare quella persona per cui, fin da bambina, provavo un sentimento così candido e immacolato. Ma l’istinto fu più forte dei sentimenti. Lo afferrai per i fianchi e lo sodomizzai.
Lui lasciò andare un leggero verso di dolore.
“Scusa, non volevo farti del male”.
“Nessun problema. Vai avanti così, ti prego”.
Diedi dei leggeri colpi di reni, quanto bastava per farmelo diventare sempre più duro e ingrossare la cappella. Andavo avanti con dolcezza, bilanciando una delicatezza inusuale, un rispetto per l’uomo con cui stavo facendo sesso, e la volontà di far durare il rapporto il più possibile. Più mi avvicinavo al limite che separa questi due poli, più mi sentivo appagata.
Andavo avanti a spingere, e nel mentre gli accarezzavo i capelli e la barba.
Alla fine, venni anch’io. Neanche a farlo apposta, stava spiovendo. Aspettammo la fine del temporale nudi in mezzo alle balle di fieno che ci avvolgevano e ci tenevano caldo come una coperta. L’odore aspro del fieno e la durezza delle spine di erba ormai seccata ci punzecchiavano le narici e la pelle. Quando in cielo apparve il sole, ci rivestimmo e, dopo un ultimo bacio, potemmo tornare a casa.
La mattina successiva il senso di colpa per tutto quello che era successo tornò a bussare ancora più forte e, siccome non volevo aprirgli, sfondò la finestra ed entrò. Uscì subito alla ricerca di Nicola: dovevo parlare con lui.
Fortuna volle che lo incontrai appena fuori dalla porta di casa. Stava uscendo dal fornaio.
Incrociò il mio sguardo e mi si avvicinò.
“Ciao”.
“Ciao”.
“Come va?”
“Bene. Ci siamo visti poi solo ieri”.
“Già.”
“Senti, a proposito di ieri…”
“Sì?”
Mi fermai un attimo, il tempo di rimettere a posto i pensieri e trovare le parole giuste.
“È cambiato qualcosa fra di noi?”
“Secondo te?”
“Perché rispondi alla mia domanda con un’altra domanda?”
Questa volta fu lui a prendersi un po’ di silenzio.
“Avrei voglia di cambiare qualcosa, ma forse è meglio lasciare tutto così”.
Mi bastarono pochi istanti.
“Sì, forse è meglio così”.
“Ottimo, allora”.
“Peccato, però”.
“Cosa?”
“Già mi immaginavo io e te in un locale, seduta sulle tue gambe e abbracciata a te, mentre mi stai presentando ai tuoi amici”.
“Se è per questo, puoi venire quando vuoi. Io e loro ci vediamo quasi ogni sera”.
Cominciai così a prendere un nuovo ritmo di vita: di giorno studio e un po’ di attività fisica, di sera fuori con Nicola e i suoi amici.
Rimasi lì fino ad autunno inoltrato, poi tornai a casa.
Sette anni dopo, decisi di fare nuovamente un giro in quei posti. Avevo delle ferie arretrate e volevo godermele un po’.
Alloggiai alla fattoria e mi girai un po’ il paese, rincontrando di quando in quando volti conosciuti. Mi sembrava che non fosse cambiato niente. Poi mi diressi verso la casa di Nicola.
Entrai nell’adiacente laboratorio di falegnameria dove trovai suo padre.
“Buongiorno, signor Daniele”.
“Oh, buongiorno, Bea! Come mai da queste parti?”
“Sono di passaggio”.
Mi invitò in casa a prendere un bicchiere.
“Nicola è in casa?”, chiesi ad un certo punto.
Lui e sua moglie si guardarono negli occhi.
“Non lo sai?”, mi domandò lei.
“Che cosa mi scusi?”
“Nicola è morto”.
Una gelo improvviso mi attanagliò lo stomaco.
“Come? Quando è successo?”
“Tre anni fa. Stava mettendo a posto il tetto di casa. Disgraziatamente è scivolato e si è rotto l’osso del collo. È morto subito”, rispose Daniele.
Una volta fatte le condoglianze ed uscita di casa, andai sulla tomba di Nicola. Non riuscì a non versare le lacrime.
Continuai a girare il vecchio borgo ed i dintorni per altri tre giorni, ma ormai l’incanto era rotto. La morte di Nicola aveva cambiato tutto. Non vedevo più i luoghi che avevano segnato tutte le tappe della mia vita, non provavo più piacere a lasciarmi travolgere dal mare di ricordi. No. Vedevo solo reliquie, testimonianze di un passato bello, piacevole ma ormai irrimediabilmente lontano e perduto. Non da rimpiangere ma da dimenticare. Mi sembrava addirittura che le immagini, i suoni, gli odori, tutto quello che avevo attorno fossero coperti da polvere. Era un mondo che ormai mi stava stretto.
L’ultimo giorno pagai il conto, caricai le valigie in macchina e partì.
Non tornai mai più al paese.
di
scritto il
2015-09-02
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