Alternanza scuola-lavoro

di
genere
prime esperienze

Ciao a tutti, mi chiamo Lerry, frequento l'ultimo anno di liceo artistico (il mio sogno è diventare fumettista) e fino a qualche mese fa ero vergine, nel senso che non ero mai entrato dentro una donna. Ci sono andato vicino, questo sì, tipo pomiciate e toccamenti con la mia compagna di banco, ad esempio, durante le noiose lezioni di fisica (poi si è fidanzata e abbiamo smesso) oppure, più recentemente, con Marta, una ragazza con la quale stavo approfondendo il discorso piuttosto seriamente, tra un ditalino e una sega al cinema, salvo poi essere bruciato sulla linea d'arrivo da Arrigo (un ragazzone non proprio di cervello fine ma con tanto grano e, a quanto riferisce chi ha avuto l'onore di condividere con lui gli spogliatoi del circolo di tennis, tanto cazzo da poterlo usare come sfollagente durante un assalto dei black block) o, infine e più drammaticamente, con una mia cugina, con la quale ero arrivato proprio in prossimità del paradiso, con la cappella che le sfiorava i peli pubici e le labbra umide, sarebbe mancato solo un colpo di reni per andare in buca, ma l'arrapamento era così forte che non ebbi il tempo di entrare che cominciai a schizzare tutt'intorno, tra la mia vergogna e le sue imprecazioni. Insomma, capirete che queste esperienze mi abbiano un pelo depresso, anche perché tutti i miei amici più intimi l'avevano già fatto ed era un supplizio ogni volta starli a sentire mentre snocciolavano i dettagli delle loro performance, senza mai poter dire la mia in proposito, se non elencando mestamente, tra gli sghignazzi generali, le mie disavventure, diventando la mascotte sfigata del gruppo, un po' da sfrocoliare un po' da coccolare, il che è pure peggio.

Tuttavia la fatidica ora X per me non era lontana e si materializzò nel pieno della scorsa primavera quando, per l'alternanza scuola-lavoro, fui mandato a fare tirocinio presso uno studio di grafica. Non che lì mi facessero fare molto, più che altro portavo caffè ai soci a scansioni regolari e recuperavo le stampe dalla stampante, che era in uno sgabuzzino, sicché il grosso delle ore le trascorrevo a compulsare video porno sullo smartphone, a leggere i racconti sozzi su ER e a chattare con i miei amici che, chi più chi meno, si trovavano nella mia stessa degradante condizione. È il brutto dell'alternanza così com'è impostata (almeno nella mia scuola, na, a quanto sento in giro il fenomeno è tristemente generalizzato), potrebbe essere una risorsa per noi studenti, perché dovrebbe avviarci ad un lavoro (secondo quanto detto e ridetto da chi l'ha istituita) e invece nella maggior parte dei casi diventa semplice burocrazia che non ci serve a un cazzo, se non a totalizzare il monte ore necessario per andare avanti. Vabbè, ad ogni modo un giorno il titolare dello studio mi trova un lavoretto da fare. Finalmente, mi dico in uno slancio di euforia, quando mi chiede se mi piace dipingere.
"Certo che mi piace!", rispondo entusiasta.
"Ottimo", fa lui, "sali al piano di sopra, allora, ti spiegherà tutto mia moglie".
Scopro così due cose: uno, che il signor Banci ha l'appartamento sopra lo studio, al quale si accede anche tramite una scala a chiocciola, e due, che sua moglie non è affatto male, il tipo in carne, con le curve in salute che ti chiamano seducenti come le sirene di Ulisse. Scopro in realtà, dopo essere stato edotto sul daffarsi dalla signora Banci, una terza cosa, e cioè che suo marito o ha voluto fare il simpatico oppure non conosce la differenza semantica tra "dipingere" e "tinteggiare". Tuttimodi, la stanza da imbiancare non è molto grande e per fortuna sulle pareti già è stata fatta la camicia di stucco, quindi devo soltanto preparare la pittura e darci dentro di braccio. Infilo un camice di carta bianca, che mi porge stesso la signora, e inizio a darmi da fare, se non altro, penso, farò qualcosa nelle prossime ore che restano per completare il mio portfolio.

La giornata è calda e sudo mentre, in piedi sulla scala, passo e ripasso la pennellessa sul soffitto. La signora Banci, fresca di doccia, indossa una t-shirt attillata e un paio di shorts che evidenziano la prima due bocce gonfie e morbide, i secondi le cosce piene e rotonde. Mi dà le spalle, è fuori al balcone a stendere i panni, e ogni volta che si cala per prendere un indumento dalla bacinella, mi mostra il culone massiccio e florido che sembra mettere a dura prova la tenuta del tessuto che lo riveste a forza, teso come la pelle di una tammorra. Proprio non riesco a staccare gli occhi da quelle grosse chiappe e mi arrapo al punto che comincia a farmi davvero male nei pantaloni, e rischio una trombosi al pisello se non eiaculo immediatamente. Ma andare al bagno significa perdermi lo spettacolo, e questo non lo voglio per niente al mondo, ché la signora Banci è meglio di un porno adesso, allora infilo la mano sinistra nelle mutande, mentre con la destra continuo a spingere la pennellessa avanti e indietro sul soffitto, afferro l'arnese e prendo a menarmelo con un certo ritmo, per quel che consentono le angustie dei vestiti, senza staccare lo sguardo dalle muliebri carni che mi occhieggiano più sensuali che mai. Sto quasi per venire, quando un movimento troppo concitato della mano mi fa perdere l'equilibrio, la scarpa scivola sul gradino della scala e precipito all'indietro, tirandomi appresso, nel vano tentativo di appigliarmi a qualcosa, anche il secchio di pittura che mi si rovescia addosso. Ho subito la percezione di non essermi fatto nulla, del resto anni di judo mi hanno insegnato a cadere, di lato e con la testa in avanti, ma questo la signora Banci non lo sa e quasi le viene un coccolone mentre corre verso di me, col viso congestionato dalla paura e urlando il mio nome intervallandolo tra un Madonna mia e l'altro. Sono certo di aver neutralizzato il colpo quasi del tutto, giusto un lieve risentimento alla spalla sinistra, ma la corsa della donna e le sue urla mi spaventano inibendomi la voce, sicché, anziché rassicurarla immediatamente e alzarmi per mostrarle che è tutt'ok, resto steso fino al suo arrivo, con occhi e bocca spalancati. Vitto' Vitto', strilla lei accoccolandosi al mio fianco e tastandomi a caso, sulle spalle, sul petto, sulle gambe, Vitto', Vittoriooo. Il signor Vittorio Banci si materializza nella stanza dopo pochissimo (deve aver usato le scale a chiocciola), col fiato grosso e bestemmiando non appena vede lo spettacolo che gli si presenta davanti agli occhi. È davvero agitato, il ritratto della preoccupazione, terrorizzato, lo definirei, ma nemmeno renderei l'idea di quel volto sfigurato dalla paura che si china su di me e mi chiede come mi sento, alitandomi in faccia un fiato di caffè corretto a sambuca. Annuisco con la testa, troppo timoroso, vista la reazione degli astanti, per proferir parola, ma faccio per tirarmi su a sedere, sperando di tranquillizzarli.
"Aspetta aspetta", mi blocca lui, poggiandomi una mano sul petto, "stai giù", poi, rivolto alla moglie, "Aiutami, Mari', prendiamolo insieme, io di qua e tu di là".
Sorreggendomi per le braccia, lentamente mi scortano in soggiorno e mi fanno sedere su una poltrona. Poi, sgattaiolano in cucina a prendermi un bicchiere d'acqua.
"Se si è fatto qualcosa, siamo nei guai, Mari'. Nei guai, capisci?", sento Vittorio parlottare concitato, sforzandosi di tenere un tono basso, cospiratorio.
"Mi sembra che stia meglio, ha ripreso colore, non s'è fatto niente. E poi, scusa, mica l'abbiamo spinto noi, è stato un incidente".
"Mari', ma tu stai scherzando?", sbotta l'uomo con una vena di frustrazione nella voce, "Ma lo sai chi è 'sto ragazzo? Pensi che sia l'imbianchino? Lo manda la scuola, è qui per l'alternanza, avrebbe dovuto lavorare ad un computer o fare caffè o non fare un cazzo su una sedia, tutto ma non certo imbiancarci casa. Mannaggia la morte, e che casino, che casino!"
"Ma allora sei un coglione, Vittorio!", scatta Maria, che finalmente ha afferrato il senso delle preoccupazioni del marito, "Oddio, sono basita! Ma come ti è venuto in mente? Se esce fuori 'sta storia finiamo sui giornali. Che vergogna, che vergogna".
"Tu pensi ai giornali, Marì? Qua il problema è molto più serio. Anche a me sembra che non si sia fatto niente, s'è solo preso una grande paura, ma non è questo il punto".
"E qual è? Il punto, dico".
"Il punto è che questa vicenda non deve venire fuori. Lerry non deve parlarne con nessuno. Non sia mai racconta tutto al suo tutor... non farmici pensare".
"Ho capito. E quindi? Che facciamo?"
"Adesso ci penso. Tu portagli l'acqua, nel frattempo".
Quando Maria ritorna in soggiorno, mi faccio trovare con gli occhi chiusi e la testa poggiata indietro, come se dormissi.
"Va meglio?", mi chiede gentile porgendomi il bicchiere.
"Sì sì", faccio con voce che carico un po', a simulare una brillantezza non ristabilitasi del tutto, "va molto meglio, grazie. Credo che sia stata più la paura, ma nella caduta sono stato fortunato".
"Eh sì, anch'io mi sono messa una paura che non ti dico", e maternamente mi fa una carezza sulla testa, frizionando dolcemente il cespo di riccioli. Nel frattempo io, molto meno filialmente, le punto le tette, che mi stazionano a due dita dalla punta del naso, e sento il cazzo premere nelle mutande, impaziente di riprendere il discorso di prima bruscamente interrottosi. Maria, intanto, si siede sul bracciolo della poltrona e il suo ginocchio sinistro poggia contro il mio. La stretta vicinanza con quelle cosce nude mi spappola il sistema nervoso e accolgo quindi con un certo sollievo l'entrata in scena del signor Banci.
"Hai fatto proprio un bel lavoro di là, ragazzo", esordisce con un gran sorriso e spalancando le braccia, come se volesse stringere me e tutto il mondo intero in un immenso ed empatico abbraccio, "Davvero un gran bel lavoro! Altro che quegli imbianchini che si sentono Raffaello Sanzio e che son buoni solo a spillarti quattrini".
"Lei è troppo buono, dottor Banci, non ho nemmeno completato il lavoro...", mi schernisco ostentando umiltà.
"Ma quale dottore, chiamami Vittorio, e, credimi, so riconoscere un buon lavoro da uno scadente. Hai una buona mano, figliolo, diventerai un grande artista, lasciatelo dire da uno che se ne intende".
Non so se quella che sento sia una battuta, e quindi buona costumanza imporrebbe almeno un sorriso di circostanza da parte mia, o l'ennesima esternazione semanticamente confusa del mio interlocutore, ma, spiritosaggine o meno, Vittorio non mi dà il tempo di alcuna reazione, perché, mano destra dietro la schiena, avanza verso di me ad ampie falcate, tira fuori un portafogli gonfio come quello di un benzinaio, ne estrae una, due, tre banconote da 100 e me le porge, stirando sornione le labbra sotto i folti baffoni color ruggine.
"Tieni, ragazzo", fa solenne, "per il tuo lavoro e per il tuo futuro".
"No no", scuoto vigorosamente la testa, "sono troppi, davvero. Non posso accettare. Se il mio tutor sapesse una cosa del genere...", butto lì da vero figliodiputtana.
"Oh-oh-oh", ridacchia come un fumetto l'uomo, "ma il tutor non deve sapere un bel niente. Assolutamente! AS-SO-LU-TA-MEN-TE!!! Questa è una cosa che riguarda me e te, roba da uomini, insomma, la scuola lasciamola fuori".
"Ma sono comunque troppi per un lavoro non finito. Me lo faccia almeno completare".
"Ma scherzi?!? A me serviva solo che qualcuno ci mettesse mano, in quella stanza. Sai com'è, la pigrizia, ma adesso quel poco che resta posso finirlo io. E poi non sono troppi, ci ho messo dentro anche qualcosa che hai fatto allo studio. Insomma, niente storie, prendi questi soldi", e mi afferra una mano e vi sbatte bonariamente le banconote sul palmo, richiudendovi poi sopra le dita. "Bene, adesso se stai meglio puoi farti una doccia, che sei tutto inzaccherato di pittura. Maria ti darà degli asciugamani puliti e qualcosa di mio da metterti addosso... ti andranno un po' larghi i calzoni, ma per arrangiare può andar bene. Dopodiché, rimani a pranzo da noi, va bene?" Annuisco. "Molto bene. Maria cucina divinamente, vedrai. Adesso io scendo allo studio, ci vediamo tra un po'".

Finalmente, sotto la doccia, posso sfogare la voglia che mi tende il membro allo spasimo, un arco di carne dura stretto nel pugno e infilato sotto il getto di acqua bollente che fuoriesce dal manubrio, che tengo con l'altra mano a qualche centimetro dalla cappella. È stato Tullio ad indirizzarmi a questa pratica, sostenendo che la sensazione di calore è simile a quella che si prova quando entri in una passera. Io non ho il termine di paragone per testarne la veridicità, ma in effetti il piacere è amplificato e, dopo non molto, spruzzo come un idrante ripercorrendo, fotogramma per fotogramma, il film di Maria Banci sul balcone, china sulla bacinella, col grosso culo in primo piano che mi chiama, Lerry Lerry, mi dice, Lerry, bel cazzone, vieni a chiavarmi, sfondami, riempimi di sborra bollente.

I pantaloni di Vittorio, un paio di bermuda di lino per l'esattezza, sono in effetti un po' larghi, ma morbidi e confortevoli, mentre la t-shirt dei Doors è una piacevole spia di un comune gusto musicale (inoculatomi da mio padre, per quanto mi riguarda, fin dall'epoca dell'impriting) che, per un attimo, mi mostra il signor Banci sotto un'altra luce, quella dalla quale traspare, come in filigrana, il riverbero di una giovinezza satura di aspettative e di sogni, giovinezza non lontana anagraficamente - ché il soggetto in questione non ha ancora compiuto i 40 -, ma presto soffocata, avvilita, repressa dalle responsabilità professionali e dagli ingranaggi di una società che persegue il massimo profitto, piuttosto che la libertà e la poesia (questo per parafrasare il prof di italiano, che colgo qui l'occasione per ringraziare). Da par suo, inoltre, la cucina di Maria Banci rispetta le aspettative innescate dagli elogi del marito, specialmente se si tiene conto del poco tempo utilizzato per mettere in tavola il vettovagliamento. Per gli amanti del dettaglio: pasta alla Norma e scaloppine al limone. Il tutto accompagnato con del Chianti rosso, che al secondo bicchiere mi ha già mandato fuori giri. Vittorio tiene banco, durante il pranzo, in pratica parla soltanto lui, io e Maria ci limitiamo ad annuire di tanto in tanto. Parla di lavoro, o meglio di un mio lavoro futuro alle sue dipendenze, da portare avanti - con una certa flessibilità nell'orario, precisa per rendere più allettante l'offerta - di pari passo con l'Accademia, alla quale, interrogato sui miei progetti prossimi futuri, ho detto di volermi iscrivere dopo il diploma. L'eloquio del Gran Cerimoniere è logorroico, non è arginato nemmeno dalle corpose forchettate di penne di cui si riempie la bocca, e fatico a seguirlo anche perché, arrivato a metà scaloppina, ho netta la sensazione di qualcosa - una mano, sì, proprio una mano! - che prima mi sfiora la coscia sinistra, su e giù, su e giù un paio di volte, poi si poggia sulla patta, ferma immobile, come un gatto che, trattenendo il respiro, fissa il fringuello davanti a lui, aspettando il momento propizio per l'attacco letale. Mi verso un altro bicchiere di vino e mentre bevo avverto il cazzo gonfiarsi, crescere, espandersi nei bermuda (le mutande le ho messe in una busta di plastica, insieme al resto dei vestiti), e, al tempo stesso, le dita della mano corsara contrarsi e stringersi intorno alla massa sempre più dura e voluminosa. Quasi m'ingozzo quando il gradito ospite molla il cucuzzolo della montagnola e si infila agevolmente nei bermuda, il cui elastico, considerata la taglia abbondante, non aderisce a dovere ai miei fianchi, lasciando ampio spazio di movimento alla mano che ora mi afferra il coso, ne sente la vena pulsare con battito techno e, tenendo fermo il polso, comincia a menarlo metodicamente, con ritmo lento ed estasiante. Vittorio si infervora al suono delle sue parole, allude, mi sembra, alla possibilità di lavorare ai miei fumetti - gli ho detto anche questo, interrogato sulla mia passione -, Maria ogni tanto annuisce, sorride e sbocconcella la sua carne, senza smettere per un solo attimo il suo lavorio sotto la tavola, ed io, per completare il quadretto del simposio in atto, non scollo lo sguardo dal piatto, come in trance, sotto ipnosi, le posate nelle mani e dritte nei pugni poggiati sulla tovaglia come baionette sugli attenti, non mangio, non bevo, a stento respiro, emettendo bocconi di aria dalla bocca semiaperta, per poi andare in apnea quando affondo gli incisivi nel labbro un istante prima di venire a fiumi, con l'orgasmo che mi fa sussultare stimolando un rantolo che fuoriesce, compresso, sotto forma di sibilo, simile ad un nitrito, troppo, davvero troppo invadente e macroscopicamente fuori luogo per non interrompere finanche il più narcisistico soliloquio inscenato ad esclusivo uso e consumo del suo autore.
"Tutto bene, ragazzo?", mi fa mister Banci dopo aver ingollato d'un fiato mezzo calice di Chianti e detersosi i baffoni.
"Sì sì", mi affretto a rispondere, con le guance bollenti e rosse, suppongo, come brace viva, "Benissimo!"
"Ottimo! Sono felice che tu abbia gradito", ha commentato alzandosi, "Il caffè è compito mio", e si è alzato avviandosi in cucina seguito dalla moglie che, pulitasi con nonchalance la mano col tovagliolo, durante il breve scambio di battute tra me e Vittorio, ha impilato i piatti e raccolto le posate, lasciando a tavola solo i bicchieri.
Rimasto solo, valuto con sgomento l'ampia macchia di sperma che fa bella mostra di sé al centro dei bermuda di Vittorio. Considero il daffarsi, con quel poco di raziocinio elaborato dalle sinapsi impiastricciate dalla melassa postcoitale, per cui la sola mossa che alla fine ritengo valida è di non muovermi dal mio posto, rimanere fermo, con le gambe sotto la tovaglia, immobile come un corazziere alla porta del Presidente, almeno fin quando non mi viene in mente un'idea migliore.
Il caffè è notevole - "scuola napoletana", precisa gongolante Vittorio -, e anche il rum di marca che accompagna la sigaretta. Poi, il padrone di casa prende commiato, "ché il lavoro chiama", ma prima si assicura che aspetterò che evaporino in me gli effluvi dell'alcol, che brillo come sono non può certo permettermi di andare via in motorino. Quindi intima alla moglie di prendersi cura di me e, fatta una capatina in bagno, imbocca le scale a chiocciola che portano allo studio, salutandoci agitando le dita della mano sinistra e cantilenando un "Arrivedòrci", come Ollio.

"Su, vieni a riposarti un po'", mi dice Maria avvicinandosi e tirandomi per la mano. Sono molto imbarazzato, eccitato ma al tempo stesso disorientato per tutto quanto sta accadendo, perciò, mentre mi lascio trascinare lungo il corridoio come un bambino, non trovo niente di più intelligente da fare che tirare giù, con la mano libera, la maglietta per coprire la chiazza di sperma ancora fresca al centro dei calzoni.
La camera da letto di Maria e Vittorio è ammantata da una fresca penombra. C’è tutt’intorno odore di pulito e i pochi mobili – giusto un armadio quattro stagioni con specchi come ante (in uno dei quali vedo riflessa la mia buffissima immagine, curva su se stessa, una mano alla signora, l'altra che tira la maglietta), una toletta con tutto l’occorrente per truccarsi ordinatamente disposto e allineato sulla piccola mensola sotto lo specchio e un’ottomana, posizionata tra una poltrona stile Luigi XIV rivestita di velluto verde e un servomuto della Foppapedretti, sul quale trova posto un completo da uomo impeccabilmente stirato – riflettono la poca luce, nei cui raggi non danza la miriade di pulviscoli che si vede spesso in ambienti non propriamente igienizzati - come la mia camera, ad esempio. Il talamo nuziale, bello grande e incastrato tra due comodini entrambi forniti di abat-jour – quello di destra corredato da un libro bello spesso, di cui non leggo il titolo, quello di sinistra equipaggiato di telefono fisso e portaritratti d’argento che incornicia l’uscita dalla chiesa dei due novelli sposi, sorridenti e felici nonostante la pioggia di riso che li investe - è perfettamente rigovernato, con le lenzuola gialle a fantasia floreale tirate su con la squadretta, e i guanciali gonfi e soffici come cirri in una mattinata di primavera. Maria guadagna il centro della stanza, poi si volta, poggia le mani sulle mie braccia e mi guarda sorridendo. Poi, come se fossi un manichino o la manopola di un forno, mi gira di 180° e mi dà una spinta, facendomi planare sul materasso duro, ergonomico.
"Spero che sia comodo abbastanza per i tuoi gusti, giovane Lerry", dice e, senza aspettare una risposta, mi slaccia le scarpe e toglie anche i calzini – e qui ho un sussulto, ché l’accoppiata All stars-caldo non fa precisamente la felicità dell’olfatto, sebbene mi sia docciato da poco. Ma la mia chaperon non fa una piega e mi sfila anche la t-shirt e i bermuda, scoprendo il cazzo già quasi del tutto pronto, ovviamente. Denudatomi, si tira su, incrocia le mani sotto la sua t-shirt e la sfila dalla testa, scoprendo i grandi seni rotondi - appena bassi sul ventre arrotondato -, dalle areole più larghe di quelle di Marta e di mia cugina, e anche più scure, leggermente gonfie e ornate da un paio di capezzoli turgidi, scuri e a punta. La maglietta trova l’intoppo del fermaglio di legno che tiene fermi sopra la nuca i capelli, così che questi cade con un rintocco secco sul parquet sciogliendo la matassa di ricci che le si riversa sulle spalle rotonde. Allora scuote forte la testa, frustando l’aria con i boccoli, e mi ringhia contro mostrandomi le unghie della mano. La gag mi fa ridere di gusto, smussando un po' la tensione che mi morde l'addome e mi raziona il respiro.
“Ridi ridi, ridi pure, giovanotto... tra poco vedremo se ne avrai ancora la forza”, mi redarguisce fintamente minacciosa. Poi infila i pollici tra le ossa iliache e l’elastico degli shorts e li tira giù, facilitandone la discesa lungo le cosce piene con ampie sculettate. Ho la conferma ad un pensiero che ho coccolato sotto la doccia, per aggiungere pepe alla sega, infatti Maria non porta le mutandine, per cui istantaneamente mi si palesa una criniera folta, nera come il petrolio, e riccia, che le copre rigogliosamente il Monte di Venere – uno spettacolo del tutto simile a quello offerto dall’"Origine della vita" di Courbet, riprodotta sul libro di storia dell'arte, sulla quale tante diottrie, spero soltanto metaforicamente, ho beatamente sacrificato. Deglutisco incantato, mentre sento il cazzo sussultare dalla gioia, come un bambino goloso all’arrivo della pappa. Da parte sua, lo sguardo di Maria non sembra essere meno partecipe e fissa la mia erezione sprizzando cupidigia dagli occhi brillanti, come asfalto bagnato sferzato dai fari.
"Sei già in tiro, vedo... beata gioventù!", gioisce e con un balzo mi è sopra, a cavalcioni. Mi bacia la fronte, gli occhi, il naso, la bocca, con i capezzoli che mi sfiorano il petto, producendo scariche elettriche che mi fustigano il corpo, ricoprendomi di brividi. Poi comincia a scendere lentamente, stampando rapidi bacetti e stoccate di lingua dietro le orecchie, sul mento, sul collo, al centro del petto, e da lì devia verso un capezzolo, che subito si inturgidisce, sventagliando un’altra serie di brividi che mi accappona la pelle, quindi riserva lo stesso trattamento all’altro, prima di imboccare la linea di pelo che dallo sterno, attraversando il ventre, conduce alla regione sub ombelicale. Ma a quel punto si blocca, perché il culo trova l’ostacolo del compare ben dritto sugli attenti, ed è come se si ritrovasse a cavalcioni di una staccionata. Guardandomi dal basso verso l’alto e sorridendomi, scarta di lato, acciambellandosi morbidamente accanto a me e afferrando il coso inteccherito alla radice.
“Guarda qui, sembra che trema... hai tanta voglia, vero? Prima, a tavola, mi sono resa conto che fosse bello arzillo, ma vederlo dal vivo fa tutto un altro effetto  Non vedi l’ora di infilarmelo dentro, di’ la verità, mascalzone”, m’interroga con voce a sua volta impaziente. Annuisco con forza, incapace di profferir parola. Maria mi guarda e spalanca le fauci. La lingua guizza fuori come una biscia. Poi, cala la testa e la cappella sparisce in quella voragine voluttuosa. Ho un fremito che mi striglia le reni. “Vuoi venire così?”, chiede staccandosi e prendendo fiato. Non so cosa rispondere. Voglio chiavare, ma allo stesso tempo sono pervaso da un incipiente bisogno di liberarmi dallo sbrodo che sento premere nei coglioni. E poi c'è il dettaglio, non irrilevante, del signor Banci sotto di noi, che potrebbe salire da un momento all'altro, e a quel punto sarebbe una tragedia. Esterno a Maria questa mia preoccupazione, ma lei ride, senza mollare il cazzo, ride e scuote la testa, poi mi rassicura dicendomi che il marito non salirà, che è stato lui stesso a raccomandarsi affinché si prendesse cura di me, quindi lei non sta facendo altro che eseguire le direttive di Vittorio, perché è di queste cure qui che io necessito, dice, e come per sottolineare l'assunto con l'azione, cala di nuovo la testa e riprende a succhiarmi per qualche secondo, poi si blocca di nuovo, mi guarda, alza il dito sinistro a mo' di monito e, seria, mi arringa:
“Ma non bisogna essere egoisti, Lerry. Generosi sì, egoisti mai. Ho molto da insegnarti...”, dice e, senza dar peso al punto interrogativo disegnato sulla mia faccia, con l’agilità di una esperta cavallerizza, alza la gamba destra e mi è di nuovo a cavalcioni, nella posizione contraria a quella assunta prima, di modo che il mio sguardo adesso è completamente riempito dal suo grosso deretano. La posizione non è estranea alla mia nutrita cultura da pornomane, ma un conto è tirarsi una sega davanti a un 69 su un video porno, ben altra cosa è avere un culo a pochi centimetri dalla bocca. Una zaffata densa di ormoni e sudore, che esala dalle chiappe ben divaricate, mi stupra l’olfatto mandandomi in delirio. Intanto, Maria ha ripreso a ciucciare, a smanettare, a pilotare la lingua prima sui contorni della cappella, poi lungo il tronco, ripetendo la serie a buon ritmo e sculettando energicamente come esortazione a darmi una mossa. Allora abbranco a due mani le natiche maestose, ne ammiro le due dita di cellulite che ne fanno da supporto, saldandole alle cosce massicce, le allargo fino a dilatare percettibilmente l’ano, grinzoso e scuro, come un paio di labbrucce atteggiate a broncetto, studio incantato il tragitto del pelo morbido e umido che riveste l’interno delle chiappe e che unisce il buco del culo alla valle della fica, che mostra le vellutate labbra rosa già aperte, come la bocca di un fiore carnivoro, e, infine, affondo il viso in quel solco lussurioso. Intontito dall’afrore intenso, selvatico, come di muschio bagnato, mando la lingua a pascolare in quella voragine, senza il metodo e la tecnica dell’esperienza, ma disordinatamente, spennellando le labbra con corpose slinguazzate che fanno fremere Maria che, come reazione, serra cosce e ginocchi intorno alla mia testa, senza rinunciare tuttavia a succhiare, mordicchiare, slinguazzare a sua volta il cazzo, in maniera sempre più spasmodica e frenetica, mugolando forte e raspandomelo smaniosa, procurandomi un piacere così intenso da essere scambiato in alcuni momenti per dolore vero e proprio.
È mentre mi convinco che non posso resistere oltre che Maria dà un urlo di gola, roco e prolungato, tirandosi su e schiacciando il culo sul mio viso, sfregando la fica con furia sulle mie labbra e sulla lingua che continua a leccarla, nonostante il bruciore che esplode in tutta l’area dal naso in giù. Una mano rimane stretta intorno all’uccello e lo smuove disarticolatamente, come se fosse la leva di comando di quel suo rinculare sulla mia bocca, mentre con l’altra arpiona la rotula del mio ginocchio usandola come appoggio per le sue spinte sempre più furiose.
“Continua, Lerry, continua continua, non ti fermare... oh-mio-Dio, oh-mio-Dioooo...”.
Ed io non mi fermo, cazzo, e lecco come un assetato quelle labbra tremule, ridotte in poltiglia per il reiterato pungolare a cui sono sottoposte, mandando giù il liquido che prende a colare come da un favo, e che mi impiastriccia gli sparuti peli che compongono il pizzetto spelacchiato (giusto un po’ di baffo biondastro e della lanugine ramata che punteggia a macchia la parte inferiore del mento, mentre le gote ancora non registrano nessuna traccia di veri peli da barba, infestate come sono da una sadica e persistente acne). Chiamando in causa un’ultima volta il dio che ha voluto come testimone del travolgente orgasmo che la sta investendo, Maria stramazza sulle mie gambe, prima di scivolare di lato, a pancia in su, il petto che le batte forte (i grossi seni sobbalzano come sottoposti a ripetute defibrillazioni, riversandosi scompostamente ai lati del costato), le cosce che tremano, la mano sempre stretta intorno alla mazza in presa salda, come per effetto del rigor mortis. Ha gli occhi aperti, ma le pupille sono rivolte verso l’alto, così che è quasi tutta sclera quella che vedo, e la bocca è spalancata come se stesse seduta sulla poltrona del dentista, ed emette un gorgoglio sinistro, da lavandino intasato. Prendo posizione su un fianco, cercando di allentare la sua presa sul cazzo, senza riuscirvi, e le accarezzo la superficie delle cosce, punteggiate di brividi e con la peluria elettrizzata tutta su, incentivando inconsapevolmente i fremiti di entrambi gli arti inferiori, che adesso scattano e scalciano come in una prova di riflessi.
“Ooooh... Lerry...”, esala lasciando cadere all’unisono braccia e gambe sulle lenzuola spiegazzate, “Stu-pen-do... stupendo... mmmmmm... baciami... baciami...”, e mi porge le labbra nell’atto di accennare una serie di baci. Mi calo verso di lei e nel farlo il pene, smosso dalla posizione in cui giaceva, ha un guizzo che la fa trasalire. “Oh miodio, ma sei ancora duro... devi ancora venire". Vieni sopra di me", mi esorta orientando il membro verso la parte giusta e trasalendo appena lo spingo dentro. Entra subito e tutto, e una scarica elettrica mi scuote come un ramoscello. Sono in una fica, mi ripeto felice, finalmente sono in una ficaaa!!! "Adagio, muoviti adagio, amore... piano piano”, mi richiama all'ordine Maria, "Oddio, come sei grosso... ti sento nello stomaco".
Ubbidiente, prendo a muovermi lentamente, leccandole allo stesso tempo le labbra arse e calde, il mento, il collo, per poi ripercorrere a ritroso le umide linee tracciate innestandovi bacetti senza rumore, lievi come quelli dei bambini, cosa che la fa gemere e mugolare. Vado avanti per un po’ così, cogliendo a volo anche l’intuizione di sfregarle un capezzolo tra pollice e indice e succhiarle l’altro, doppia variante che ha come effetto immediato l’irrigidimento dei suoi muscoli, di nuovo la tenaglia delle sue cosce attorno alle mie reni, e il nuovo ridisegnarsi sul volto di quel ghigno ferino di femmina, cui segue l’esortazione a chiavarla forte, a liberarmi di tutta la crema che mi riempie testicoli. Eseguo e stavolta vado fino in fondo, fottendo ad occhi spalancati e fauci aperte, per godermi tutto lo spettacolo del suo orgasmo, che sento montare dal profondo dei visceri come il mio, del resto, che è tutto un bruciare qui davanti e anche di dietro, nel buco del culo, allora stringo le chiappe ad ogni affondo, il piacere che mi urtica le pareti interne di qualche organo il cui nome al momento non mi sovviene – non me ne voglia il prof di Scienze – e grugnisco, sì grugnisco letteralmente, mentre sbanfo le ultime possenti stoccate di alfiere e spruzzo, con un aaaaarrrrrgggghhhh da fumetto, tutta la crema che mi farcisce le palle, gonfie come sac à poche, e mi sembra di non finire mai, mi sembra che quel flusso ininterrotto di sperma si porti via tutto il mio interno, aspirando sangue, fibre, muchi, bile, succhi di varia natura, tutto, lasciandomi completamente svuotato di linfa vitale. Quindi, sferzato da un ultimo spasmo, crollo sopra di lei, come se fossi precipitato da una nuvola del paradiso.
di
scritto il
2018-10-17
1 0 . 6 K
visite
0
voti
valutazione
0
il tuo voto

Continua a leggere racconti dello stesso autore

racconto sucessivo

Cronache quotidiane#1
Segnala abuso in questo racconto erotico

Commenti dei lettori al racconto erotico

cookies policy Per una migliore navigazione questo sito fa uso di cookie propri e di terze parti. Proseguendo la navigazione ne accetti l'utilizzo.