Ho rivisto Giada
di
Sebastian Merlin
genere
saffico
Ieri ho rivisto Giada.
Ci siamo incontrate nel bel mezzo della hall del New Europa Hotel.
Io ero appena arrivata in città per un congresso di architetti, lei stava appunto partendo dopo aver assistito a una tre giorni dell’associazione nazionale fisioterapeuti.
Il tutto è durato una manciata di secondi, forse un minuto, due, o poco più, il tempo di un : “Ciao che ci fai qua?” un “ti vedo bene…” e le solite frasi di rito tra due persone che non si vedono più da dieci anni.
Ma in quella nostra stretta di mano, in quel nostro incrocio di sguardi, c’era tutta la sincera contentezza di essersi ritrovate, seguito dall’amara consapevolezza che quel nostro incontro sarebbe durato poco, neanche il tempo di un caffè, visto che fuori ad aspettare Giada c’era già un taxi con il portellone del portabagagli alzato e il motore ancora acceso.
E’ durato poco quel nostro incontro, ma quel poco è bastato per far riemergere dal fondale dei miei ricordi, quei bei spensierati tempi passati, quando io e lei eravamo solo due giovani spensierate ragazze, con la voglia di divertirsi, di ridere scherzare … insomma di vivere.
E così, salendo in ascensore al terzo piano del New Europa Hotel, puntando verso la camera duecentoventotto, mi sono ritrovata nel rivivere mentalmente quei bei spensierati tempi passati.
Avevo tante amiche, tante ragazze che mi volevano bene, che amavano stare in mia compagnia, ma Giada era speciale.
Lo era lei per me, e io lo ero per lei.
Ci capivamo con uno sguardo, tra noi non c’erano ne segreti, ne bugie.
Dove andava una, andava pure l’altra.
Il problema, la paura, la felicità di una, era anche dell’altra.
Proprio l’altro giorno, ironia della sorte, mettendo a posto vecchi album fotografici, mi è passata per le mani una foto fatta insieme a lei, dentro una di quelle macchinette automatiche, durante una settimana bianca con la scuola in Trentino.
Dopo i cinque anni trascorsi insieme al liceo, nella stessa sezione, la mitica F, abbiamo scelto due strade differenti. Io architettura, lei medicina, ma grazie a dio le nostre facoltà erano nella stessa medesima città, e così io e Giada fino al conseguimento della laurea ci siamo ritrovate a condividere un piccolo appartamentino, in un condominio affittato dal primo all’ultimo piano a studenti e giovani assistenti di laboratorio.
Per la prima volta ci siamo ritrovate tutte e due fuori di casa, in una casa tutta nostra, con sì la consapevolezza che davanti a noi ci aspettavano tempi di duro studio, ma anche di totale e irrefrenabile libertà.
Ieri ho rivisto Giada, e quel nostro incontro di pochi secondi, un minuto, due, o poco più, mi ha fatto affogare letteralmente nel mare dei ricordi …
Sono quei momenti in cui pur ritrovandoti nella presente realtà, grazie alla forza dell’immaginazione alimentata dalle memorie, ci si ritrova a compiere un vero e proprio viaggio temporale, un po’ come se si salisse a bordo di una macchina del tempo.
Salendo in ascensore, attraversando il corridoio, entrando nella stanza duecentoventotto e iniziando a sistemare tutte le mie cose, mi sono ritrovata a rivivere tutti quei momenti, tutti quei giorni, oserei dire quei attimi della mia giovinezza.
Ma quando, dopo una bella doccia mi sono distesa sul morbido letto, circondata dall’azzurro delle pareti e da quel avvolgente intimo silenzio, nella mia testa, dalla mia testa, da tutto quel gorgogliare di ricordi, di quei momenti vissuti, mi sono ritrovata a riproiettarmi mentalmente, senza un perché quei attimi, quelle segrete intime esperienze, quando io e Giada ci ritrovevamo a vivere quel qualcosa che era un qualcosa in più, un qualcosa al di fuori di una semplice amicizia tra due ragazze.
Non lo so perché tra i tanti ricordi mi siano ritornate in testa quelle cose lì … quei momenti lì. Nemmeno adesso mi so dare un perché …
Quei bei tempi passati, spensierati lo erano per davvero.
Io, Giada, ma anche tutti gli altri ragazzi e ragazze, vivevamo ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, con la consapevolezza che quel tempo non sarebbe più tornato, e che sacrificarlo interamente ai doveri dello studio, voleva dire lasciar passare l’unica primavera che la vita concede .
Carpe diem … cogli l’attimo … Ora o mai più.
Dovevamo vivere … dovevamo divertirci. Soprattutto divertirci.
E divertimento era anche sesso. Anzi, soprattutto sesso.
Sesso spensierato, sesso irrefrenabile, sesso liberatorio.
Sesso vissuto ad ogni occasione, con il compagno di corso, di cui non avevi nemmeno chiesto il nome, con il boy incontrato in discoteca, o il ragazzo della pompa di benzina, oppure quello della consegna pizze.
Rudi scopate dentro il bagno di una discoteca, nel sgabuzzino di un bar.
Nel retro di un cinema, appoggiata su un vagone del luna park, o addirittura ad un palo della luce in una strada isolata.
A volte il menage si faceva più comodo, casalingo e riservato … si fa per dire.
Io e Giada dopo una pizza e due salti in discoteca ci portavamo a casa i due ragazzi, i due boyfriend’s di turno.
Ce li scopavamo… ce li scambiavamo, senza vergogna, senza tabù.
Perché alla fine era il sesso a rappresentare l’apice di quel nostro divertimento, di quel nostro vivere in piena la libertà.
Il condominio dove io e Giada abitavamo era abitato dal primo all’ultimo appartamento da studenti specializzandi e assistenti di laboratorio.
Futuri dottori, architetti, medici, avvocati, ingegneri, ma se ci salivi le scale, e se ci attraversavi i corridoi il venerdì, o il sabato sera, pareva d’essere in un squallido bordello di Budapest.
Nei fine settimana, c’era una festa organizzata in due appartamenti su tre.
I vetri vibravano dalla musica dalle otto di sera fino alle quattro di mattina.
Uscivi dall’ascensore e ti trovavi gente che si rincorreva nuda per i corridoi e che scopava appoggiata alle pareti.
Se ne facevano di cotte e di crude, e di cotte e di crude ne abbiamo fatte pure io e Giada.
Al diavolo la nostra reputazione da brave ragazze, al diavolo il rischio di essere marcate come delle scostumate, delle lolite, o peggio ancora delle puttane.
Noi volevamo divertirci, godere, vivere, e al diavolo tutto il resto.
Ma in quel momento, mentre ero distesa nuda sul letto della duecentoventotto, circondata dalle sue pareti azzurro cielo e avvolta dal suo silenzio, i ricordi che mi fluttuavano in testa non erano nemmeno legati a quelle carnali, selvagge avventure di puro sesso vissute tra giovani studenti.
Ciò che mi stava regalando un piacente brivido lungo la spina dorsale, aveva sì a che fare con i miei piaceri di donna, ma riguardava in particolare a quei piaceri vissuti dentro quell’intima sfera che io e la mia più cara intima amica c’eravamo create.
Quella cosa tra noi, quel nostro segreto, quella nostra sfera d’intimità, era nata, sbocciata, molto tempo prima che andassimo a vivere in quel piccolo appartamento, in quel condominio di studenti a due passi dalle nostre facoltà.
Di quella nostra prima volta ricordo che era estate, e che quella sera eravamo appena ritornate da una sagra di paese.
Ero andata in vacanza con lei, in montagna, ospite di suo zio. Non so come è successo, ricordo solo che ci siamo ritrovate sotto le coperte, una volta rientrate a casa, e ridevamo e scherzavamo come sempre, e se all’inizio il nostro argomento era stato su tutti quei ragazzi che avevamo visto pavoneggiarsi davanti a noi alla sagra, poi, senza un perché, forse spinte da un paio di birre che avevamo bevuto per la prima volta, siamo cadute in tematiche piuttosto boccaccesche, confidandoci a vicenda come vivevamo quei attimi di intimità, di gioco, vissuti da ogni ragazza, soprattutto in quella fase in cui si sente spinta ad esplorare il proprio corpo, alla scoperta dei piaceri da mietere. Parlando oscenamente ce ne uscimmo con delle domande del tipo :
“ Ma tu… come ti tocchi la fighetta?”
Ne sono più che certa che non era intenzione di nessuna delle due, di andare oltre a una chicchierata boccaccesca tra due adolescenti diciottenni brille, ma all’improvviso del tutto innocentemente ci siamo messe reciprocamente a toccarci a vicenda quelle nostre intimità.
Ricordo ancora oggi quel brivido intenso al solo tocco dato e ricevuto ….
Poi il resto, tutto il resto, venne da se …
E’ stata Giada la prima a baciarmi.
Tanti uomini mi hanno baciata, ma nessuno di loro è mai riuscito a trasmettermi con un bacio ciò che con un semplice bacio mi trasmetteva lei. Giada con quelle sue labbra, con il giocare della sua lingua, mi aveva saputo regalare dei brividi che mi scuotevano fino alla punta dei piedi.
Era incredibile ciò che sapeva fare …
Io, ogni volta, mi abbandonavo a lei, ritrovandomi in balia della sua bocca, delle sue labbra, della sua lingua. Mi sollevava le labbra con le sue, poi faceva scorrere fuori la sua lingua iniziando a massaggiare il mio labbro inferiore, leccandomelo dolcemente, e invitandomi tacitamente a entrare dentro di lei … a far scorrere la mia lingua sopra la sua, dentro la sua bocca.
Il resto, ciò che ne seguiva, era tutto un gioco, un avvolgente irrefrenabile gioco di labbra che si catturavano, divorano a vicenda, mentre le nostre lingue dentro le nostre bocche si scontravano tra di loro, duellavano tra di loro, si spalmavano una sull’altra, quasi come se cercassero di fondersi.
E Giada non è stata solo la prima a baciarmi, ma è stata la prima ad attaccarsi ai miei capezzoli, a succhiare dai miei seni, a leccare i miei seni.
E’ stata la prima a toccarmi il sedere, mi faceva impazzire quando mi sculacciava, o quando all’apice di quella carnale lussuria arrivava ad infilarmi un dito proprio lì, dritto nel mio culetto.
Tecnicamente parlando è stata lei pure la prima a prendermi, possedermi, farmi donna, insomma a sverginarmi.
Una zucchina tenuta stretta tra i suoi denti, me l’ha infilata dentro lentamente, per poi penetrarsi con l’altra estremità.
Sverginate tutte e due, nello stesso momento, nello stesso medesimo attimo, con la stessa zucchina che fungeva da pene, da membro, da cazzo.
E a dirla tutta, Giada è stata la prima anche a far strisciare la sua lingua, lungo il mio ventre, dentro la fossetta dell’ombelico riempiendola di saliva, per poi continuare a scendere, più giù, sempre più giù, e ancora più giù.
L’avevamo visto fare s’un giornalino porno, e la prima a voler provare a compiere quel lascivo atto a voluto essere lei.
Mio dio, mi son sentita così sporca, così deviata, quando a cosce spalancate ho visto la chioma riccia di Giada tra le mie cosce e ho percepito la sua lingua strusciare proprio lì, sulle mie intime labbra, sul mio clitoride, sulla mia bagnata gonfia, giovane fica pulsante di piacere.
Ricordo che ho chiuso gli occhi, quella sensazione di vergogna e piacere dibatteva il mio corpo, spasimavo.
Godevo, nel sentir giungere quel dirompente orgasmo, ma soffrivo perché avrei voluto fermarlo, mi vergognavo troppo di giungere a svuotare quel piacere nella bocca della mia amica.
Ricordo ancora, che all’ultimo istante, quando ero consapevole che non sarei riuscita a trattenermi, a frenare minimamente ciò che stava sopra giungendo, ho cercato di scostarla da lì, dal bel mezzo delle mie cosce, ma lei non ha voluto. Al mio gesto ha imposto resistenza rimanendo lì, con la testa ficcata tra le mie cosce, e le sue labbra avvinghiate alle labbra della mia fica e con la sua lingua che si spingeva dentro di me …
Le sono venuta in bocca, non ho potuto farci niente, e quando Giada si è rialzata, si è distesa sopra di me e mi ha baciato, dalle sue labbra per la prima volta ho assaporato il sapore della mia femminilità.
Ieri ho rivisto Giada.
E venti minuti dopo averla rivista, me ne stavo distesa sul letto della camera che avevo preso, completamente nuda, con le cosce spalancate, come se fossi stata sul lettino della mia ginecologa.
La mia mano sinistra si distendeva lungo il mio corpo, verso il basso, prodigando le dita nel bel mezzo della mia femminilità.
Mi sentivo bagnata ed eccitata come non mai.
Quei pensieri, quei ricordi nascosti per tutto quel tempo, erano riemersi prepotentemente, catturando la mia mente, impadronendosi del mio corpo.
Ed io non potevo farci niente, e andavo avanti a masturbarmi come una ragazzina in preda ad una delle sue tempeste ormonali.
Godevo nel rivivere, anche se solo mentalmente, quelle passate avventure, quando io e Giada ci abbadonevamo l’una nell’altra, trascinandoci a vicenda dentro un turbine di carnale lussurioso piacere.
Quella nostra intimità, quella nostra lussuriosa complicità era sbocciata quando ancora eravamo appena diciottenni, senza alcuna esperienza in materia di sesso, ma continuò ancora e soprattutto anche dopo, quando insieme andammo a vivere in quel condominio studentesco.
Non riuscivo nemmeno a tenere il conto di quanto sessi, membri, cazzi prendevo sul giro di una settimana. Ed erano tutti pezzi dai venti in su.
Ai poverini che non ci arrivavano alla minima soglia richiesta, toccava beccarsi una risata in faccia e ritirasi su slip e pantaloni.
Ma alla fine mi facevano godere di più i tre quattro millimetri del clitoride di Giada, che tutte quelle verghe prese a volte pure a due alla volta.
Mi mandava in ecstasy, quando si distendeva sopra di me, nuda sul mio corpo nudo, infilandosi tra le mie cosce, e sussurrandomi dolcemente:
“ Ora ti cavalco io…troia !!!”
Poi, iniziava a muoversi sopra di me, e lo faceva con una tale maestria che io da sotto di lei, la osservavo, oserei dire la contemplavo, come fosse una Dea.
Sapientemente mi scalpellava il clitoride con il suo. Strisciava le sue labbra quelle della fica, sulle labbra della mia fica.
A volte si chinava su di me, mi baciava o mi colpiva le labbra con delle fugaci leccate, o giocando di seno dava il via a una specie di duello tra i suoi e i miei capezzoli.
All’inizio la cosa era puramente dolce, delicata, armoniosa, poi col scorrere dei secondi e il pompare del piacere iniziava a cavalcarmi nel vero senso della parola.
Giungevamo a sembrare quasi due carcerate ninfomani, che condividono la stessa cella dopo dieci anni di isolamento.
Se all’inizio le mie mani si abbandonavano in dolci carezze lungo tutto il profilo della sua schiena, giù fino al suo culetto, poi quel suo bel culetto lo agguantavo con le unghie aprendolo in due come fosse un’albicocca, per poi selvaggiamente profanarla con un dito o anche due.
Lei, in risposta, aumentava il ritmo di quel suo cavalcare, e la forza del suo strusciare la sua femminilità, la sua vagina, passera, fica addosso alla mia, si faceva così rude, che ad un certo punto sentivamo persino male, visto che nemmeno più i nostri umori bastavano a lubrificarci.
E dalle nostre bocche, quando non erano occupate in soffocanti baci o riempite da una tetta dell’altra, liberavamo parole, espressioni, frasi sconce degne di scaricatori e prostitute di porto.
“ Ti piace come ti scopo … troia!!!”
“ Hai la fica rovente …”
“Succhiami le tette … fammi impazzire!!!”
“Vuoi ancora un dito ? Ancora uno nel tuo bel culetto?”
“ Sei proprio una lurida lesbica … lo sai?”
“Sono la tua puttana … fammi godere!!!”
“ Ti piace la mia fica eh?”
“ Dimmelo che sono una troia … dimmelo!!!”
Ieri ho rivisto Giada, e rivederla mi ha fatto esplodere nella testa ciò che mi sussurrava in quei nostri peccaminosi momenti.
Il copriletto sotto di me era bagnato, mentre con le dita continuavo a darmi piacere. Era una vita che non mi ritrovato a giocare da sola. Da quando sono sposata con Mirco grazie a dio non ne ho più avuto il bisogno. Ma ieri, mentre ero presa in quei ricordi, mi sono resa conto che nemmeno mio marito in dieci anni di matrimonio è riuscito mai a farmi godere come mi faceva godere Giada. Ogni volta, giunte all’apice di quel nostro cavalcare, quando oramai il piacere più intenso sembrava lì per lì nell’esploderci dentro, cambiavamo posizione e ne assumevamo una che hai miei occhi pareva pure un po’ buffa.
Giada l’aveva battezza il fica-fica, e il nome calzava a pennello.
In pratica ci posizionavamo una di fronte all’altra e a cosce spalancate ci incrociavamo, sbattendoci reciprocamente il nostro sesso.
Le nostre patatine si ritrovavano congiunte, sbattute una sull’altra, e subito dopo davamo al via a dei impulsivi movimenti pelvici, strofinandoci con forza, e dando via a una quasi selvaggia danza dal sapore tribale. Sembra quasi a tratti una lotta, come se le nostre due fighette fossero state due bestioline selvagge che si affrontavano, tentando di divorarsi a vicenda.
Il piacere che provavo, anzi che provavamo era un qualcosa di indescrivibile.
Non vi sono termini così profondi, così intensi, capaci di cogliere, racchiudere appunto l’intensità di quel turbinoso vortice di piacere in cui i nostri sensi venivano risucchiati.
Quasi, quasi, ci dispiaceva l’arrivo dell’orgasmo, il compimento definitivo di quel nostro coito, perché infondo significava il dover sciogliersi, staccarsi l’una dall’altra. Mi dio quando ho goduto, quante volte ho goduto, incrociata a Giada, con la mia fica che si sbatteva, si strofinava sulla sua. Quanti orgasmi ho sentito esplodere dentro di me, nel caldo del mio ventre, all’apice di quell’incontri dal sapore tribale.
Poi, una volta scemato l’intensità ci lasciavamo cadere sul letto, distese, senza ancora sciogliersi da quel nostro incrocio di gambe, di cosce, di fiche, e rimanevamo lì, in silenzio, a guardare il soffitto e ad ascoltare ognuna il respiro dell’altra.
Era come se quei sospiri che ci gonfiavano il seno, velassero parole di reciproca gratitudine, per il reciproco piacere dato.
Comunque, ogni volta, la cosa non finiva lì.
Dopo aver ripreso fiato, ci rialzavamo, e dopo qualche bacio e qualche carezza, ci abbandonavamo in quella che è la posizione più dolce, lasciva, erotica e travolgente in assoluto.
Era sempre lei, a voler stare sopra, in quei nostri sessantanove saffici, e a me non dispiaceva affatto.
Ogni volta mi godevo il spettacolo della sua femminilità aperta, spalancata a pochi millimetri dal mio naso. Quel suo culo, sodo, caldo, reso lucido dai sudori, dai umori, che amavo accarezzare, sculacciare, a volte pure dolcemente graffiare, mentre la mia lingua spennellava in un su e giù l’interno delle sue cosce, per poi finire ogni volta con l’arare la carnalità delle gonfie labbra della sua fica.
E mentre io leccavo, assaporavo, mi sfamavo di lei, lei, Giada, leccava, assaporava e si sfamava di me. China, con la sua testa riccioluta infilata tra le mie cosce.
E così ogni volta finivamo così, una sopra l’altra a sbatterci in faccia le nostre femminilità, ad assaporare il frutto dei nostri peccaminosi piaceri.
Ieri ho rivisto Giada … per poi finire distesa sul letto a masturbarmi come una ragazzina, in balia di quei ricordi, di quei lascivi momenti, e ora, la voglia di rincontrarla, si fa sempre più insistente dentro di me …
Quasi quasi la chiamo … in testa mi stanno passando idee, pensieri, desideri, che mi vergogno a confessare persino a me stessa.
Fine.
Ci siamo incontrate nel bel mezzo della hall del New Europa Hotel.
Io ero appena arrivata in città per un congresso di architetti, lei stava appunto partendo dopo aver assistito a una tre giorni dell’associazione nazionale fisioterapeuti.
Il tutto è durato una manciata di secondi, forse un minuto, due, o poco più, il tempo di un : “Ciao che ci fai qua?” un “ti vedo bene…” e le solite frasi di rito tra due persone che non si vedono più da dieci anni.
Ma in quella nostra stretta di mano, in quel nostro incrocio di sguardi, c’era tutta la sincera contentezza di essersi ritrovate, seguito dall’amara consapevolezza che quel nostro incontro sarebbe durato poco, neanche il tempo di un caffè, visto che fuori ad aspettare Giada c’era già un taxi con il portellone del portabagagli alzato e il motore ancora acceso.
E’ durato poco quel nostro incontro, ma quel poco è bastato per far riemergere dal fondale dei miei ricordi, quei bei spensierati tempi passati, quando io e lei eravamo solo due giovani spensierate ragazze, con la voglia di divertirsi, di ridere scherzare … insomma di vivere.
E così, salendo in ascensore al terzo piano del New Europa Hotel, puntando verso la camera duecentoventotto, mi sono ritrovata nel rivivere mentalmente quei bei spensierati tempi passati.
Avevo tante amiche, tante ragazze che mi volevano bene, che amavano stare in mia compagnia, ma Giada era speciale.
Lo era lei per me, e io lo ero per lei.
Ci capivamo con uno sguardo, tra noi non c’erano ne segreti, ne bugie.
Dove andava una, andava pure l’altra.
Il problema, la paura, la felicità di una, era anche dell’altra.
Proprio l’altro giorno, ironia della sorte, mettendo a posto vecchi album fotografici, mi è passata per le mani una foto fatta insieme a lei, dentro una di quelle macchinette automatiche, durante una settimana bianca con la scuola in Trentino.
Dopo i cinque anni trascorsi insieme al liceo, nella stessa sezione, la mitica F, abbiamo scelto due strade differenti. Io architettura, lei medicina, ma grazie a dio le nostre facoltà erano nella stessa medesima città, e così io e Giada fino al conseguimento della laurea ci siamo ritrovate a condividere un piccolo appartamentino, in un condominio affittato dal primo all’ultimo piano a studenti e giovani assistenti di laboratorio.
Per la prima volta ci siamo ritrovate tutte e due fuori di casa, in una casa tutta nostra, con sì la consapevolezza che davanti a noi ci aspettavano tempi di duro studio, ma anche di totale e irrefrenabile libertà.
Ieri ho rivisto Giada, e quel nostro incontro di pochi secondi, un minuto, due, o poco più, mi ha fatto affogare letteralmente nel mare dei ricordi …
Sono quei momenti in cui pur ritrovandoti nella presente realtà, grazie alla forza dell’immaginazione alimentata dalle memorie, ci si ritrova a compiere un vero e proprio viaggio temporale, un po’ come se si salisse a bordo di una macchina del tempo.
Salendo in ascensore, attraversando il corridoio, entrando nella stanza duecentoventotto e iniziando a sistemare tutte le mie cose, mi sono ritrovata a rivivere tutti quei momenti, tutti quei giorni, oserei dire quei attimi della mia giovinezza.
Ma quando, dopo una bella doccia mi sono distesa sul morbido letto, circondata dall’azzurro delle pareti e da quel avvolgente intimo silenzio, nella mia testa, dalla mia testa, da tutto quel gorgogliare di ricordi, di quei momenti vissuti, mi sono ritrovata a riproiettarmi mentalmente, senza un perché quei attimi, quelle segrete intime esperienze, quando io e Giada ci ritrovevamo a vivere quel qualcosa che era un qualcosa in più, un qualcosa al di fuori di una semplice amicizia tra due ragazze.
Non lo so perché tra i tanti ricordi mi siano ritornate in testa quelle cose lì … quei momenti lì. Nemmeno adesso mi so dare un perché …
Quei bei tempi passati, spensierati lo erano per davvero.
Io, Giada, ma anche tutti gli altri ragazzi e ragazze, vivevamo ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, con la consapevolezza che quel tempo non sarebbe più tornato, e che sacrificarlo interamente ai doveri dello studio, voleva dire lasciar passare l’unica primavera che la vita concede .
Carpe diem … cogli l’attimo … Ora o mai più.
Dovevamo vivere … dovevamo divertirci. Soprattutto divertirci.
E divertimento era anche sesso. Anzi, soprattutto sesso.
Sesso spensierato, sesso irrefrenabile, sesso liberatorio.
Sesso vissuto ad ogni occasione, con il compagno di corso, di cui non avevi nemmeno chiesto il nome, con il boy incontrato in discoteca, o il ragazzo della pompa di benzina, oppure quello della consegna pizze.
Rudi scopate dentro il bagno di una discoteca, nel sgabuzzino di un bar.
Nel retro di un cinema, appoggiata su un vagone del luna park, o addirittura ad un palo della luce in una strada isolata.
A volte il menage si faceva più comodo, casalingo e riservato … si fa per dire.
Io e Giada dopo una pizza e due salti in discoteca ci portavamo a casa i due ragazzi, i due boyfriend’s di turno.
Ce li scopavamo… ce li scambiavamo, senza vergogna, senza tabù.
Perché alla fine era il sesso a rappresentare l’apice di quel nostro divertimento, di quel nostro vivere in piena la libertà.
Il condominio dove io e Giada abitavamo era abitato dal primo all’ultimo appartamento da studenti specializzandi e assistenti di laboratorio.
Futuri dottori, architetti, medici, avvocati, ingegneri, ma se ci salivi le scale, e se ci attraversavi i corridoi il venerdì, o il sabato sera, pareva d’essere in un squallido bordello di Budapest.
Nei fine settimana, c’era una festa organizzata in due appartamenti su tre.
I vetri vibravano dalla musica dalle otto di sera fino alle quattro di mattina.
Uscivi dall’ascensore e ti trovavi gente che si rincorreva nuda per i corridoi e che scopava appoggiata alle pareti.
Se ne facevano di cotte e di crude, e di cotte e di crude ne abbiamo fatte pure io e Giada.
Al diavolo la nostra reputazione da brave ragazze, al diavolo il rischio di essere marcate come delle scostumate, delle lolite, o peggio ancora delle puttane.
Noi volevamo divertirci, godere, vivere, e al diavolo tutto il resto.
Ma in quel momento, mentre ero distesa nuda sul letto della duecentoventotto, circondata dalle sue pareti azzurro cielo e avvolta dal suo silenzio, i ricordi che mi fluttuavano in testa non erano nemmeno legati a quelle carnali, selvagge avventure di puro sesso vissute tra giovani studenti.
Ciò che mi stava regalando un piacente brivido lungo la spina dorsale, aveva sì a che fare con i miei piaceri di donna, ma riguardava in particolare a quei piaceri vissuti dentro quell’intima sfera che io e la mia più cara intima amica c’eravamo create.
Quella cosa tra noi, quel nostro segreto, quella nostra sfera d’intimità, era nata, sbocciata, molto tempo prima che andassimo a vivere in quel piccolo appartamento, in quel condominio di studenti a due passi dalle nostre facoltà.
Di quella nostra prima volta ricordo che era estate, e che quella sera eravamo appena ritornate da una sagra di paese.
Ero andata in vacanza con lei, in montagna, ospite di suo zio. Non so come è successo, ricordo solo che ci siamo ritrovate sotto le coperte, una volta rientrate a casa, e ridevamo e scherzavamo come sempre, e se all’inizio il nostro argomento era stato su tutti quei ragazzi che avevamo visto pavoneggiarsi davanti a noi alla sagra, poi, senza un perché, forse spinte da un paio di birre che avevamo bevuto per la prima volta, siamo cadute in tematiche piuttosto boccaccesche, confidandoci a vicenda come vivevamo quei attimi di intimità, di gioco, vissuti da ogni ragazza, soprattutto in quella fase in cui si sente spinta ad esplorare il proprio corpo, alla scoperta dei piaceri da mietere. Parlando oscenamente ce ne uscimmo con delle domande del tipo :
“ Ma tu… come ti tocchi la fighetta?”
Ne sono più che certa che non era intenzione di nessuna delle due, di andare oltre a una chicchierata boccaccesca tra due adolescenti diciottenni brille, ma all’improvviso del tutto innocentemente ci siamo messe reciprocamente a toccarci a vicenda quelle nostre intimità.
Ricordo ancora oggi quel brivido intenso al solo tocco dato e ricevuto ….
Poi il resto, tutto il resto, venne da se …
E’ stata Giada la prima a baciarmi.
Tanti uomini mi hanno baciata, ma nessuno di loro è mai riuscito a trasmettermi con un bacio ciò che con un semplice bacio mi trasmetteva lei. Giada con quelle sue labbra, con il giocare della sua lingua, mi aveva saputo regalare dei brividi che mi scuotevano fino alla punta dei piedi.
Era incredibile ciò che sapeva fare …
Io, ogni volta, mi abbandonavo a lei, ritrovandomi in balia della sua bocca, delle sue labbra, della sua lingua. Mi sollevava le labbra con le sue, poi faceva scorrere fuori la sua lingua iniziando a massaggiare il mio labbro inferiore, leccandomelo dolcemente, e invitandomi tacitamente a entrare dentro di lei … a far scorrere la mia lingua sopra la sua, dentro la sua bocca.
Il resto, ciò che ne seguiva, era tutto un gioco, un avvolgente irrefrenabile gioco di labbra che si catturavano, divorano a vicenda, mentre le nostre lingue dentro le nostre bocche si scontravano tra di loro, duellavano tra di loro, si spalmavano una sull’altra, quasi come se cercassero di fondersi.
E Giada non è stata solo la prima a baciarmi, ma è stata la prima ad attaccarsi ai miei capezzoli, a succhiare dai miei seni, a leccare i miei seni.
E’ stata la prima a toccarmi il sedere, mi faceva impazzire quando mi sculacciava, o quando all’apice di quella carnale lussuria arrivava ad infilarmi un dito proprio lì, dritto nel mio culetto.
Tecnicamente parlando è stata lei pure la prima a prendermi, possedermi, farmi donna, insomma a sverginarmi.
Una zucchina tenuta stretta tra i suoi denti, me l’ha infilata dentro lentamente, per poi penetrarsi con l’altra estremità.
Sverginate tutte e due, nello stesso momento, nello stesso medesimo attimo, con la stessa zucchina che fungeva da pene, da membro, da cazzo.
E a dirla tutta, Giada è stata la prima anche a far strisciare la sua lingua, lungo il mio ventre, dentro la fossetta dell’ombelico riempiendola di saliva, per poi continuare a scendere, più giù, sempre più giù, e ancora più giù.
L’avevamo visto fare s’un giornalino porno, e la prima a voler provare a compiere quel lascivo atto a voluto essere lei.
Mio dio, mi son sentita così sporca, così deviata, quando a cosce spalancate ho visto la chioma riccia di Giada tra le mie cosce e ho percepito la sua lingua strusciare proprio lì, sulle mie intime labbra, sul mio clitoride, sulla mia bagnata gonfia, giovane fica pulsante di piacere.
Ricordo che ho chiuso gli occhi, quella sensazione di vergogna e piacere dibatteva il mio corpo, spasimavo.
Godevo, nel sentir giungere quel dirompente orgasmo, ma soffrivo perché avrei voluto fermarlo, mi vergognavo troppo di giungere a svuotare quel piacere nella bocca della mia amica.
Ricordo ancora, che all’ultimo istante, quando ero consapevole che non sarei riuscita a trattenermi, a frenare minimamente ciò che stava sopra giungendo, ho cercato di scostarla da lì, dal bel mezzo delle mie cosce, ma lei non ha voluto. Al mio gesto ha imposto resistenza rimanendo lì, con la testa ficcata tra le mie cosce, e le sue labbra avvinghiate alle labbra della mia fica e con la sua lingua che si spingeva dentro di me …
Le sono venuta in bocca, non ho potuto farci niente, e quando Giada si è rialzata, si è distesa sopra di me e mi ha baciato, dalle sue labbra per la prima volta ho assaporato il sapore della mia femminilità.
Ieri ho rivisto Giada.
E venti minuti dopo averla rivista, me ne stavo distesa sul letto della camera che avevo preso, completamente nuda, con le cosce spalancate, come se fossi stata sul lettino della mia ginecologa.
La mia mano sinistra si distendeva lungo il mio corpo, verso il basso, prodigando le dita nel bel mezzo della mia femminilità.
Mi sentivo bagnata ed eccitata come non mai.
Quei pensieri, quei ricordi nascosti per tutto quel tempo, erano riemersi prepotentemente, catturando la mia mente, impadronendosi del mio corpo.
Ed io non potevo farci niente, e andavo avanti a masturbarmi come una ragazzina in preda ad una delle sue tempeste ormonali.
Godevo nel rivivere, anche se solo mentalmente, quelle passate avventure, quando io e Giada ci abbadonevamo l’una nell’altra, trascinandoci a vicenda dentro un turbine di carnale lussurioso piacere.
Quella nostra intimità, quella nostra lussuriosa complicità era sbocciata quando ancora eravamo appena diciottenni, senza alcuna esperienza in materia di sesso, ma continuò ancora e soprattutto anche dopo, quando insieme andammo a vivere in quel condominio studentesco.
Non riuscivo nemmeno a tenere il conto di quanto sessi, membri, cazzi prendevo sul giro di una settimana. Ed erano tutti pezzi dai venti in su.
Ai poverini che non ci arrivavano alla minima soglia richiesta, toccava beccarsi una risata in faccia e ritirasi su slip e pantaloni.
Ma alla fine mi facevano godere di più i tre quattro millimetri del clitoride di Giada, che tutte quelle verghe prese a volte pure a due alla volta.
Mi mandava in ecstasy, quando si distendeva sopra di me, nuda sul mio corpo nudo, infilandosi tra le mie cosce, e sussurrandomi dolcemente:
“ Ora ti cavalco io…troia !!!”
Poi, iniziava a muoversi sopra di me, e lo faceva con una tale maestria che io da sotto di lei, la osservavo, oserei dire la contemplavo, come fosse una Dea.
Sapientemente mi scalpellava il clitoride con il suo. Strisciava le sue labbra quelle della fica, sulle labbra della mia fica.
A volte si chinava su di me, mi baciava o mi colpiva le labbra con delle fugaci leccate, o giocando di seno dava il via a una specie di duello tra i suoi e i miei capezzoli.
All’inizio la cosa era puramente dolce, delicata, armoniosa, poi col scorrere dei secondi e il pompare del piacere iniziava a cavalcarmi nel vero senso della parola.
Giungevamo a sembrare quasi due carcerate ninfomani, che condividono la stessa cella dopo dieci anni di isolamento.
Se all’inizio le mie mani si abbandonavano in dolci carezze lungo tutto il profilo della sua schiena, giù fino al suo culetto, poi quel suo bel culetto lo agguantavo con le unghie aprendolo in due come fosse un’albicocca, per poi selvaggiamente profanarla con un dito o anche due.
Lei, in risposta, aumentava il ritmo di quel suo cavalcare, e la forza del suo strusciare la sua femminilità, la sua vagina, passera, fica addosso alla mia, si faceva così rude, che ad un certo punto sentivamo persino male, visto che nemmeno più i nostri umori bastavano a lubrificarci.
E dalle nostre bocche, quando non erano occupate in soffocanti baci o riempite da una tetta dell’altra, liberavamo parole, espressioni, frasi sconce degne di scaricatori e prostitute di porto.
“ Ti piace come ti scopo … troia!!!”
“ Hai la fica rovente …”
“Succhiami le tette … fammi impazzire!!!”
“Vuoi ancora un dito ? Ancora uno nel tuo bel culetto?”
“ Sei proprio una lurida lesbica … lo sai?”
“Sono la tua puttana … fammi godere!!!”
“ Ti piace la mia fica eh?”
“ Dimmelo che sono una troia … dimmelo!!!”
Ieri ho rivisto Giada, e rivederla mi ha fatto esplodere nella testa ciò che mi sussurrava in quei nostri peccaminosi momenti.
Il copriletto sotto di me era bagnato, mentre con le dita continuavo a darmi piacere. Era una vita che non mi ritrovato a giocare da sola. Da quando sono sposata con Mirco grazie a dio non ne ho più avuto il bisogno. Ma ieri, mentre ero presa in quei ricordi, mi sono resa conto che nemmeno mio marito in dieci anni di matrimonio è riuscito mai a farmi godere come mi faceva godere Giada. Ogni volta, giunte all’apice di quel nostro cavalcare, quando oramai il piacere più intenso sembrava lì per lì nell’esploderci dentro, cambiavamo posizione e ne assumevamo una che hai miei occhi pareva pure un po’ buffa.
Giada l’aveva battezza il fica-fica, e il nome calzava a pennello.
In pratica ci posizionavamo una di fronte all’altra e a cosce spalancate ci incrociavamo, sbattendoci reciprocamente il nostro sesso.
Le nostre patatine si ritrovavano congiunte, sbattute una sull’altra, e subito dopo davamo al via a dei impulsivi movimenti pelvici, strofinandoci con forza, e dando via a una quasi selvaggia danza dal sapore tribale. Sembra quasi a tratti una lotta, come se le nostre due fighette fossero state due bestioline selvagge che si affrontavano, tentando di divorarsi a vicenda.
Il piacere che provavo, anzi che provavamo era un qualcosa di indescrivibile.
Non vi sono termini così profondi, così intensi, capaci di cogliere, racchiudere appunto l’intensità di quel turbinoso vortice di piacere in cui i nostri sensi venivano risucchiati.
Quasi, quasi, ci dispiaceva l’arrivo dell’orgasmo, il compimento definitivo di quel nostro coito, perché infondo significava il dover sciogliersi, staccarsi l’una dall’altra. Mi dio quando ho goduto, quante volte ho goduto, incrociata a Giada, con la mia fica che si sbatteva, si strofinava sulla sua. Quanti orgasmi ho sentito esplodere dentro di me, nel caldo del mio ventre, all’apice di quell’incontri dal sapore tribale.
Poi, una volta scemato l’intensità ci lasciavamo cadere sul letto, distese, senza ancora sciogliersi da quel nostro incrocio di gambe, di cosce, di fiche, e rimanevamo lì, in silenzio, a guardare il soffitto e ad ascoltare ognuna il respiro dell’altra.
Era come se quei sospiri che ci gonfiavano il seno, velassero parole di reciproca gratitudine, per il reciproco piacere dato.
Comunque, ogni volta, la cosa non finiva lì.
Dopo aver ripreso fiato, ci rialzavamo, e dopo qualche bacio e qualche carezza, ci abbandonavamo in quella che è la posizione più dolce, lasciva, erotica e travolgente in assoluto.
Era sempre lei, a voler stare sopra, in quei nostri sessantanove saffici, e a me non dispiaceva affatto.
Ogni volta mi godevo il spettacolo della sua femminilità aperta, spalancata a pochi millimetri dal mio naso. Quel suo culo, sodo, caldo, reso lucido dai sudori, dai umori, che amavo accarezzare, sculacciare, a volte pure dolcemente graffiare, mentre la mia lingua spennellava in un su e giù l’interno delle sue cosce, per poi finire ogni volta con l’arare la carnalità delle gonfie labbra della sua fica.
E mentre io leccavo, assaporavo, mi sfamavo di lei, lei, Giada, leccava, assaporava e si sfamava di me. China, con la sua testa riccioluta infilata tra le mie cosce.
E così ogni volta finivamo così, una sopra l’altra a sbatterci in faccia le nostre femminilità, ad assaporare il frutto dei nostri peccaminosi piaceri.
Ieri ho rivisto Giada … per poi finire distesa sul letto a masturbarmi come una ragazzina, in balia di quei ricordi, di quei lascivi momenti, e ora, la voglia di rincontrarla, si fa sempre più insistente dentro di me …
Quasi quasi la chiamo … in testa mi stanno passando idee, pensieri, desideri, che mi vergogno a confessare persino a me stessa.
Fine.
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