Omega e Alfa
di
Jerry Loman
genere
pulp
OMEGA E ALFA
Sordidamente sembionti, siamo immersi nel nero più nero. Quel nero denso ed opprimente di angoscia, come il tempo che scorre in un vortice di istanti sconnessi.
E più ci immergiamo, più nuotiamo alla ricerca di un fondo che non troviamo. E mai troveremo.
L’automobile percorre l’autostrada a velocità sostenuta. La pioggia scende con impudente sciatteria nel cielo scuro di questa notte. Smaniamo, voraci come fiere, di saziarci delle sensazioni con cui siamo soliti nutrirci. Noi siamo noi. Un’unita indivisa, incapace di trascendere l’intensità atomica del nostro legame. Noi siamo uno.
Noi siamo uno anche se siamo stati allevati nella campagna bigotta della provincia collinare. Siamo uno, anche se siamo cresciuti nel sobborgo residenziale della grande metropoli.
In campagna abbiamo vissuto nella rigida ipocrisia dell’immobilismo cattolico. Papà e mamma ci hanno insegnato che la forma è più importante della sostanza. Che la famiglia è importante per l’immagine che proietta intorno a se, piuttosto che per la forza dei legami che la uniscono. Che deve essere un’immagine di onestà e di pulizia, di rigore e di stabilità.
In città abbiamo assistito alla distruzione di questo micronucleo familiare. La realtà ha sfrecciato intorno a noi, lasciandoci nel suo cono d’ombra. Abbiamo capito poco di quel che è successo. Abbiamo osservato un padre allontanarsi dalla nostra esistenza. E nostra madre impazzire poco a poco nella sua convulsa incoscienza.
Nel villaggio, freddo di inverno e fresco d’estate, siamo stati soli. Spersi nell’abulica indifferenza della famiglia. Non fosse stato per lo zio Sergio. Lui ci ha fatto sempre giocare, fin da bambini. Ci ha osservato ridere spensierati ed accarezzato la fatica di vivere, impressa nelle guance rosate. Ha spostato, lentamente, il piano del nostro stare insieme su una dimensione fisica, corporea. Ci ha sorpreso quella volta. Quel giorno che ci ha chiesto di toglierci i vestiti. Noi eravamo intimiditi, ma lo zio Sergio era sempre stato gentile. Così lo abbiamo fatto e lo abbiamo visto toccarsi quel coso. E abbiamo visto la sua faccia arrotolarsi in una smorfia spiritosa e anche un po’ impaurita. Lo zio, senza fretta, ci ha condotto in uno spazio diverso in cui noi, finalmente, eravamo necessari. Un livello astratto e materiale al tempo stesso, dove la nostra importanza trascendeva persino la reale capacità di comprenderla. Ed anche se, ogni tanto, il dolore ci sfiorava con le sue fiamme affilate, siamo stati al gioco e mai lo abbiamo tradito.
La metropoli ci ha fatto paura. Soprattutto da quella finestra in alto, sui tetti della città. La nostra casa era piccola, ma tanti, troppi, erano i mobili che mamma ci proibiva di toccare. Mamma. Orgogliosa e superba della sua pazzia. Arrivava a casa con uomini diversi. Noi eravamo gelosi. Papà si era già dissolto nella nuvola ambrata delle cose che beveva. E noi eravamo i soli, rimasti a proteggere quella povera donna dalla sua stessa follia. Un giorno ci disse che avrebbe potuto sposarsi di nuovo, se lo avesse voluto. E noi, che avevamo oramai dimenticato nostro padre, eravamo contenti. Noi, avremmo sposato mamma.
Mamma, però, continuava ad arrivare con uomini diversi. Adesso, questi, rimanevano la notte e nelle nostre lunghe veglie sentivamo le urla soffocate di mamma. Le facevano male.
Zio Sergio non lo abbiamo mai tradito. O almeno questo è quello che ci ricordiamo. Lo zio ci aveva detto che molti erano quelli che, per gelosia, avrebbero voluto che il nostro rapporto terminasse. Noi non lo avremmo voluto. Volevamo molto bene a quello zio che ci faceva stare così bene. Era un bene strano quello che provavamo. Anche se sentivamo dolore, anche se, ogni tanto, avremmo voluto non fare ciò che ci chiedeva. Il sorriso benevolo di zio Sergio era sempre lì, a farci capire che eravamo noi a fare del bene a lui.
Un giorno – non ricordiamo bene – abbiamo detto qualcosa a qualcuno. Ad una compagna di scuola o forse al parroco. Successero cose strane, grosse, troppo per noi. Al paese si raccontava che lo zio, pio uomo di chiesa, che mai donna era riuscito a sposare, si fosse sposato con Dio e lo avesse raggiunto nella lontana foresta dell’Amazzonia. Noi non sapevamo neanche dove fosse questa foresta. Eravamo tristi e spauriti.
Mamma e papà ci fecero visitare da dottori importanti, nella metropoli vicina. E, poiché era il tempo di andare alla scuola media, ci iscrissero al collegio femminile della città.
Temevamo le visite degli uomini di mamma. Sentivamo il dolore e la paura esplodere nella nostra testa. Non riuscivamo neanche più ad addormentarci, la sera. Fingevamo e poi stavamo con le orecchie bene aperte, per sentire i rumori. La cosa strana è che, gradualmente, ci abituammo a questi suoni. E dopo un po’, nelle nostre notti insonni, venne a farci visita una sensazione nuova. Strana. Quell’affare li. Si, quello da dove esce la pipì. Il pisello. Diventava più grosso. E noi cercavamo di stanarlo, di ricacciarlo indietro, ma lottando con lui, ci rendevamo conto che non avremmo mai vinto. Perché a noi questa lotta piaceva. E lottavamo fino a che, esausti, un liquido lattiginoso usciva a sporcare il lenzuolo. La prima volta che mamma vide la biancheria, non si arrabbiò, ma emise una risata alta e lunga. Molto lunga. E non disse niente, ma continuò ad impazzire sempre più come in ogni altro giorno normale.
Al collegio pensavamo a zio Sergio. Non lo avevamo dimenticato, non avevamo cessato di provare, per lui, tutto il bene che potevamo. Nell’istituto c’erano anche ragazze più grandi. Quelle che facevano il liceo. Sentivamo, origliando nei bagni, che parlavano di certe cose fatte con i ragazzi. Ci ricordavano dei giochi dello zio. Desideravamo essere come loro. Volevamo ritornare padroni di quelle torpide emozioni. La prima volta fu a tredici anni, con il fratello di una delle ragazze grandi che ci aveva preso in simpatia. In una macchina che odorava di piombo. Un pomeriggio di primavera. Ci fece molto più male dello zio. Ma, stranamente, più sentivamo dolore, più il piacere si impossessava di noi. Stavamo diventando un’altra persona. Una strana energia metamorfica si era presa la nostra mente e ci stava portando via con sé. Non potevamo farne più a meno. Cercavamo ogni occasione per stare con un ragazzo, con un uomo, anche con un vecchio. E tutti, anche se ognuno a suo modo, facevano quella strana smorfia, spiritosa ed impaurita, che faceva lo zio Sergio.
I fidanzati che si susseguivano nella nostra vita di liceale o di universitaria non erano sufficienti a lenire la brama di quell’amore assaggiato e mai dimenticato. Cercavamo occasioni diverse per vivere sensazioni sempre più forti. Iniziammo a frequentare dei posti strani. Allucinanti e psicotici. La penombra dominava tutto il resto, resa più agra dalle lame di luce che ci abbagliavano a sprazzi nella discesa negli abissi. Gli uomini si moltiplicavano. Uno, due, dieci. Altre donne. Altri corpi. Sensi ammassati in un garbuglio indistinguibile nel quale avevamo iniziato a perderci.
Una sera, per gioco, andammo in una strada. Ad aspettare, gonna corta e calze a rete, il primo sconosciuto che ci avrebbe fatto sua per pochi istanti.
Mamma morì. Restammo nell’appartamento che guardava la metropoli dall’alto. Contemplava, in un’affollata solitudine, la città. Ci dedicammo anima e corpo allo studio. E cercavamo, continuamente, nostra madre. La cercavamo nelle compagne di classe più carine, quelle vestite alla moda. Loro preferivano sempre i più grandi, i più “fighi”. Non certo noi, piccoli, magri e con la faccia da secchione. La cercavamo nelle compagne di corso, all’università. Loro preferivano quelli con la macchina e l’abbronzatura sempre stampata in faccia. Anche a dicembre.
La trovavamo sui giornalini. In cinema scarsamente frequentati, la scambiavamo per uomini non molto schizzinosi che ci assaporavano nel buio della sala. L’abbiamo cercata molto. L’abbiamo cercata anche ai bordi delle strade. Ma ogni volta che ci sembrava di averla trovata qualcosa scopriva l’enorme inganno che, giorno dopo giorno, notte dopo notte, ci inondava con la sua fallace perversità. A volte era l’accento slavo, altre il colore scuro della pelle, altre ancora quel qualcosa in più che aveva tra le gambe.
Una notte la trovammo. Una notte ci trovammo. Eravamo noi. Finalmente insieme. Non avevamo più bisogno di uno zio Sergio da amare, di una mamma da adorare. Ci eravamo ricongiunti nell’amplesso esistenziale della nostra unione.
Ma qualcosa non bastava. Non ci bastava amarci fino all’esaurimento fisico. Le scorie del passato erano oramai endemiche nel nostro sangue imputridito. Solo che adesso non sapevamo più cosa cercavamo. Ci agitavamo come serpi, quando viene sollevato il masso sotto cui hanno il nido. Impazziti. Esagerati. Continuavamo a chiedere a noi stessi più di quanto avremmo potuto rispondere.
Cominciammo a cercare diversioni. Dapprima oggetti, divise, materiali. Il nostro feticismo si impossessò di noi e delle nostre anime.
Provammo con altre coppie. In tutti il volto assumeva la grottesca espressione dello zio, in tutte l’ingordigia travolgente della pazzia di mamma. Non erano, però, come noi. Non bastavano. Anche le orge, che all’inizio sembravano distrarci dalla logorante ricerca, finivano per diventavate un esercizio fisico. Facce e membra che non riconoscevamo più, finivano confuse in un mucchio di oggetti indistinti. Inserimmo la violenza. Lampi di incosciente abbandono, alla ricerca in un dolore che annebbiasse la nostra fame sfocata.
L’automobile percorre l’autostrada a velocità sostenuta. La pioggia scende con impudente sciatteria nel cielo scuro di questa notte. Parcheggiamo. Entriamo nello stabile, vetri come ghiaccio crudele, e raggiungiamo l’ascensore. Tredicesimo piano. La chiave entra nella toppa e, senza difficoltà gira. Irrompiamo con urgenza nell’appartamento. La camera. Dov’è?
Pareti bianche e opalescenti, screzi di follia, ci accolgono. Un letto, con lenzuola immacolate. Sopra, una scatola di velluto nero, il contrasto reso dio dalla solennità del momento.
Lentamente, ma senza indecisioni, senza paura ci togliamo i vestiti. Accediamo al bagno antistante e, prima l’uno, poi l’altro, accarezziamo l’acqua di una doccia calda ed eterna.
Poi, la stanza da letto. Il letto. Schiudiamo la scatola. Lucide lame di metallo, filo sottile come la ragione che sfugge da noi. Due coltelli.
Noi li impugniamo. Solchiamo le nostre carni avide. Le vene dei polsi iniziano a scimmiottare una farsa vermiglia.
Noi ci impugniamo. Mani scivolano sui seni. I capezzoli, sporchi di sangue, inturgiditi dall’eccitazione folle di questo impudente senso unico. Labbra, lingue. Il collo è baciato, leccato, esplorato, succhiato.
La testa ci ronza. Il rumoroso silenzio che ci assale ci spaventa come mai fin’ora. Ed ora la violenta immagine dello zio che ci penetra o la rabbiosa istantanea di mamma imperlata di seme, nella notte delle notti, scompaiono.
Scompare tutto di fronte al candido contrasto tra il bianco ed il rosso. Un pene che entra in una vagina. Entra, esce, entra, esce, entra esce. Liquidi uniformi, sbiaditi, impazziti che colano, stillano, zampillano. La testa vola, mentre il ronzio è sempre più forte, così forte da annebbiare persino le sensazioni più forti.
E il momento arriva. Un urlo sovrumano, nel momento più umano che donna, che uomo, mai possa immaginare.
Ma noi non siamo uomo. Non siamo donna. Noi siamo noi.
E nell’esatto istante in cui la vita insegue il suo sogno, il sorriso tagliente della morte che insegue la vita, squarcia l’universo in un cacofonico rombo oscuro.
Noi siamo la fine che segue all’inizio. Noi siamo l’inizio che segua alla fine. Noi siamo Omega e Alfa.
Sordidamente sembionti, siamo immersi nel nero più nero. Quel nero denso ed opprimente di angoscia, come il tempo che scorre in un vortice di istanti sconnessi.
E più ci immergiamo, più nuotiamo alla ricerca di un fondo che non troviamo. E mai troveremo.
L’automobile percorre l’autostrada a velocità sostenuta. La pioggia scende con impudente sciatteria nel cielo scuro di questa notte. Smaniamo, voraci come fiere, di saziarci delle sensazioni con cui siamo soliti nutrirci. Noi siamo noi. Un’unita indivisa, incapace di trascendere l’intensità atomica del nostro legame. Noi siamo uno.
Noi siamo uno anche se siamo stati allevati nella campagna bigotta della provincia collinare. Siamo uno, anche se siamo cresciuti nel sobborgo residenziale della grande metropoli.
In campagna abbiamo vissuto nella rigida ipocrisia dell’immobilismo cattolico. Papà e mamma ci hanno insegnato che la forma è più importante della sostanza. Che la famiglia è importante per l’immagine che proietta intorno a se, piuttosto che per la forza dei legami che la uniscono. Che deve essere un’immagine di onestà e di pulizia, di rigore e di stabilità.
In città abbiamo assistito alla distruzione di questo micronucleo familiare. La realtà ha sfrecciato intorno a noi, lasciandoci nel suo cono d’ombra. Abbiamo capito poco di quel che è successo. Abbiamo osservato un padre allontanarsi dalla nostra esistenza. E nostra madre impazzire poco a poco nella sua convulsa incoscienza.
Nel villaggio, freddo di inverno e fresco d’estate, siamo stati soli. Spersi nell’abulica indifferenza della famiglia. Non fosse stato per lo zio Sergio. Lui ci ha fatto sempre giocare, fin da bambini. Ci ha osservato ridere spensierati ed accarezzato la fatica di vivere, impressa nelle guance rosate. Ha spostato, lentamente, il piano del nostro stare insieme su una dimensione fisica, corporea. Ci ha sorpreso quella volta. Quel giorno che ci ha chiesto di toglierci i vestiti. Noi eravamo intimiditi, ma lo zio Sergio era sempre stato gentile. Così lo abbiamo fatto e lo abbiamo visto toccarsi quel coso. E abbiamo visto la sua faccia arrotolarsi in una smorfia spiritosa e anche un po’ impaurita. Lo zio, senza fretta, ci ha condotto in uno spazio diverso in cui noi, finalmente, eravamo necessari. Un livello astratto e materiale al tempo stesso, dove la nostra importanza trascendeva persino la reale capacità di comprenderla. Ed anche se, ogni tanto, il dolore ci sfiorava con le sue fiamme affilate, siamo stati al gioco e mai lo abbiamo tradito.
La metropoli ci ha fatto paura. Soprattutto da quella finestra in alto, sui tetti della città. La nostra casa era piccola, ma tanti, troppi, erano i mobili che mamma ci proibiva di toccare. Mamma. Orgogliosa e superba della sua pazzia. Arrivava a casa con uomini diversi. Noi eravamo gelosi. Papà si era già dissolto nella nuvola ambrata delle cose che beveva. E noi eravamo i soli, rimasti a proteggere quella povera donna dalla sua stessa follia. Un giorno ci disse che avrebbe potuto sposarsi di nuovo, se lo avesse voluto. E noi, che avevamo oramai dimenticato nostro padre, eravamo contenti. Noi, avremmo sposato mamma.
Mamma, però, continuava ad arrivare con uomini diversi. Adesso, questi, rimanevano la notte e nelle nostre lunghe veglie sentivamo le urla soffocate di mamma. Le facevano male.
Zio Sergio non lo abbiamo mai tradito. O almeno questo è quello che ci ricordiamo. Lo zio ci aveva detto che molti erano quelli che, per gelosia, avrebbero voluto che il nostro rapporto terminasse. Noi non lo avremmo voluto. Volevamo molto bene a quello zio che ci faceva stare così bene. Era un bene strano quello che provavamo. Anche se sentivamo dolore, anche se, ogni tanto, avremmo voluto non fare ciò che ci chiedeva. Il sorriso benevolo di zio Sergio era sempre lì, a farci capire che eravamo noi a fare del bene a lui.
Un giorno – non ricordiamo bene – abbiamo detto qualcosa a qualcuno. Ad una compagna di scuola o forse al parroco. Successero cose strane, grosse, troppo per noi. Al paese si raccontava che lo zio, pio uomo di chiesa, che mai donna era riuscito a sposare, si fosse sposato con Dio e lo avesse raggiunto nella lontana foresta dell’Amazzonia. Noi non sapevamo neanche dove fosse questa foresta. Eravamo tristi e spauriti.
Mamma e papà ci fecero visitare da dottori importanti, nella metropoli vicina. E, poiché era il tempo di andare alla scuola media, ci iscrissero al collegio femminile della città.
Temevamo le visite degli uomini di mamma. Sentivamo il dolore e la paura esplodere nella nostra testa. Non riuscivamo neanche più ad addormentarci, la sera. Fingevamo e poi stavamo con le orecchie bene aperte, per sentire i rumori. La cosa strana è che, gradualmente, ci abituammo a questi suoni. E dopo un po’, nelle nostre notti insonni, venne a farci visita una sensazione nuova. Strana. Quell’affare li. Si, quello da dove esce la pipì. Il pisello. Diventava più grosso. E noi cercavamo di stanarlo, di ricacciarlo indietro, ma lottando con lui, ci rendevamo conto che non avremmo mai vinto. Perché a noi questa lotta piaceva. E lottavamo fino a che, esausti, un liquido lattiginoso usciva a sporcare il lenzuolo. La prima volta che mamma vide la biancheria, non si arrabbiò, ma emise una risata alta e lunga. Molto lunga. E non disse niente, ma continuò ad impazzire sempre più come in ogni altro giorno normale.
Al collegio pensavamo a zio Sergio. Non lo avevamo dimenticato, non avevamo cessato di provare, per lui, tutto il bene che potevamo. Nell’istituto c’erano anche ragazze più grandi. Quelle che facevano il liceo. Sentivamo, origliando nei bagni, che parlavano di certe cose fatte con i ragazzi. Ci ricordavano dei giochi dello zio. Desideravamo essere come loro. Volevamo ritornare padroni di quelle torpide emozioni. La prima volta fu a tredici anni, con il fratello di una delle ragazze grandi che ci aveva preso in simpatia. In una macchina che odorava di piombo. Un pomeriggio di primavera. Ci fece molto più male dello zio. Ma, stranamente, più sentivamo dolore, più il piacere si impossessava di noi. Stavamo diventando un’altra persona. Una strana energia metamorfica si era presa la nostra mente e ci stava portando via con sé. Non potevamo farne più a meno. Cercavamo ogni occasione per stare con un ragazzo, con un uomo, anche con un vecchio. E tutti, anche se ognuno a suo modo, facevano quella strana smorfia, spiritosa ed impaurita, che faceva lo zio Sergio.
I fidanzati che si susseguivano nella nostra vita di liceale o di universitaria non erano sufficienti a lenire la brama di quell’amore assaggiato e mai dimenticato. Cercavamo occasioni diverse per vivere sensazioni sempre più forti. Iniziammo a frequentare dei posti strani. Allucinanti e psicotici. La penombra dominava tutto il resto, resa più agra dalle lame di luce che ci abbagliavano a sprazzi nella discesa negli abissi. Gli uomini si moltiplicavano. Uno, due, dieci. Altre donne. Altri corpi. Sensi ammassati in un garbuglio indistinguibile nel quale avevamo iniziato a perderci.
Una sera, per gioco, andammo in una strada. Ad aspettare, gonna corta e calze a rete, il primo sconosciuto che ci avrebbe fatto sua per pochi istanti.
Mamma morì. Restammo nell’appartamento che guardava la metropoli dall’alto. Contemplava, in un’affollata solitudine, la città. Ci dedicammo anima e corpo allo studio. E cercavamo, continuamente, nostra madre. La cercavamo nelle compagne di classe più carine, quelle vestite alla moda. Loro preferivano sempre i più grandi, i più “fighi”. Non certo noi, piccoli, magri e con la faccia da secchione. La cercavamo nelle compagne di corso, all’università. Loro preferivano quelli con la macchina e l’abbronzatura sempre stampata in faccia. Anche a dicembre.
La trovavamo sui giornalini. In cinema scarsamente frequentati, la scambiavamo per uomini non molto schizzinosi che ci assaporavano nel buio della sala. L’abbiamo cercata molto. L’abbiamo cercata anche ai bordi delle strade. Ma ogni volta che ci sembrava di averla trovata qualcosa scopriva l’enorme inganno che, giorno dopo giorno, notte dopo notte, ci inondava con la sua fallace perversità. A volte era l’accento slavo, altre il colore scuro della pelle, altre ancora quel qualcosa in più che aveva tra le gambe.
Una notte la trovammo. Una notte ci trovammo. Eravamo noi. Finalmente insieme. Non avevamo più bisogno di uno zio Sergio da amare, di una mamma da adorare. Ci eravamo ricongiunti nell’amplesso esistenziale della nostra unione.
Ma qualcosa non bastava. Non ci bastava amarci fino all’esaurimento fisico. Le scorie del passato erano oramai endemiche nel nostro sangue imputridito. Solo che adesso non sapevamo più cosa cercavamo. Ci agitavamo come serpi, quando viene sollevato il masso sotto cui hanno il nido. Impazziti. Esagerati. Continuavamo a chiedere a noi stessi più di quanto avremmo potuto rispondere.
Cominciammo a cercare diversioni. Dapprima oggetti, divise, materiali. Il nostro feticismo si impossessò di noi e delle nostre anime.
Provammo con altre coppie. In tutti il volto assumeva la grottesca espressione dello zio, in tutte l’ingordigia travolgente della pazzia di mamma. Non erano, però, come noi. Non bastavano. Anche le orge, che all’inizio sembravano distrarci dalla logorante ricerca, finivano per diventavate un esercizio fisico. Facce e membra che non riconoscevamo più, finivano confuse in un mucchio di oggetti indistinti. Inserimmo la violenza. Lampi di incosciente abbandono, alla ricerca in un dolore che annebbiasse la nostra fame sfocata.
L’automobile percorre l’autostrada a velocità sostenuta. La pioggia scende con impudente sciatteria nel cielo scuro di questa notte. Parcheggiamo. Entriamo nello stabile, vetri come ghiaccio crudele, e raggiungiamo l’ascensore. Tredicesimo piano. La chiave entra nella toppa e, senza difficoltà gira. Irrompiamo con urgenza nell’appartamento. La camera. Dov’è?
Pareti bianche e opalescenti, screzi di follia, ci accolgono. Un letto, con lenzuola immacolate. Sopra, una scatola di velluto nero, il contrasto reso dio dalla solennità del momento.
Lentamente, ma senza indecisioni, senza paura ci togliamo i vestiti. Accediamo al bagno antistante e, prima l’uno, poi l’altro, accarezziamo l’acqua di una doccia calda ed eterna.
Poi, la stanza da letto. Il letto. Schiudiamo la scatola. Lucide lame di metallo, filo sottile come la ragione che sfugge da noi. Due coltelli.
Noi li impugniamo. Solchiamo le nostre carni avide. Le vene dei polsi iniziano a scimmiottare una farsa vermiglia.
Noi ci impugniamo. Mani scivolano sui seni. I capezzoli, sporchi di sangue, inturgiditi dall’eccitazione folle di questo impudente senso unico. Labbra, lingue. Il collo è baciato, leccato, esplorato, succhiato.
La testa ci ronza. Il rumoroso silenzio che ci assale ci spaventa come mai fin’ora. Ed ora la violenta immagine dello zio che ci penetra o la rabbiosa istantanea di mamma imperlata di seme, nella notte delle notti, scompaiono.
Scompare tutto di fronte al candido contrasto tra il bianco ed il rosso. Un pene che entra in una vagina. Entra, esce, entra, esce, entra esce. Liquidi uniformi, sbiaditi, impazziti che colano, stillano, zampillano. La testa vola, mentre il ronzio è sempre più forte, così forte da annebbiare persino le sensazioni più forti.
E il momento arriva. Un urlo sovrumano, nel momento più umano che donna, che uomo, mai possa immaginare.
Ma noi non siamo uomo. Non siamo donna. Noi siamo noi.
E nell’esatto istante in cui la vita insegue il suo sogno, il sorriso tagliente della morte che insegue la vita, squarcia l’universo in un cacofonico rombo oscuro.
Noi siamo la fine che segue all’inizio. Noi siamo l’inizio che segua alla fine. Noi siamo Omega e Alfa.
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