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JESSICA CERCA AIUTO
di Iolanda A.

La classe della professoressa Frida R., che mi aveva invitata, era una del liceo Angelo Aldani, il più periferico della città, lontano dal centro, nel quartiere operaio e popolare del Campiglio.
Nella palestra avevano messo insieme due classi femminili, ragazze tra i sedici e i diciotto anni.
Io dovevo parlare dei reati e della giustizia, cioè del mio lavoro. Oggi veleggio sui cinquanta, all’epoca ne avevo una quarantina, ben portati devo dire. Una donna normale, poco più di uno e settanta, non appariscente, tranquillizzante, un filo di make up, capelli neri sul corto che sono meno impegnativi; niente sciocchezze tipo tacchi alti, mini gonne o jeans. È che ‘devo’ essere affidabile e credibile per il mio lavoro. Ho anche degli occhi che attirano, profondi ed espressivi e qualche volta un po’ ci gioco, ma cerco di confermare sempre un’impressione carismatica, di severa gentilezza.
Infatti, quando la preside mi aprì la porta, subito si fece silenzio. “Care ragazze, oggi è qui con noi la dottoressa Liliana X, giudice dirigente del tribunale dei minori della nostra città. Ci parlerà del suo lavoro, dei reati dei minori e poi risponderà alle vostre domande…”. Il corpo insegnante, seduto in prima fila, applaudì e le ragazze fecero subito eco.
Iniziai a spiegare come stavano le cose in città, a raccontare qualche episodio, e intanto mi guardavo le ragazze sedute davanti a me. Tutte acerbe, anche quelle di altri colori – cinesi, afro-magrebine - con i vestiti delle prime civetterie, tutte con i pantaloni, molte sembravano là per caso e si guardavano intorno svagate. Le vidi più attente e vagamente eccitate quando parlai delle droghe e dei reati sessuali e di come bastasse poco per scivolare rapidamente verso le grane giudiziarie. Furono addirittura avvinte dalla parte che riguardava la violenza e le maternità indesiderate e come si potessero evitare, oppure essere assistite anche all’insaputa delle famiglie. Spiegavo semplicemente, quasi colloquiando, così quando finii era restata nell’aria ancora qualcosa da dire, qualche curiosità da approfondire.
Il fatto era che non poche di quelle ragazzine avevano in casa parenti un po’ per male e qualcuna era essa stessa una ‘ragazza difficile’. Mi chiesero molte cose, anche insospettatamente ingenue (“Se una mia amica si fa una fumatina va in carcere?”. “Conosco una che…”), insomma conoscevano l’abc della vita in presa diretta, ma erano ancora intoccate dalla vera corruzione.
Lasciai anche qualche biglietto da visita, lo faccio sempre, fa parte del mio contributo al sociale, uno stimolo a prevenire piuttosto che reprimere.
Non ho famiglia, a parte i genitori che se ne stanno tranquilli in Toscana. Non ho legami fissi e non ho uomini. Una volta, ero molto giovane, il cazzo mi piaceva, poi a poco a poco me lo sono perso. Ho smarrito il piacere dell’uomo, lo vedo e lo ‘sento’ inadeguato e ho scoperto il desiderio delle altre donne, il loro odore, la delizia del lungo godere che cresce piano, le mille implicazioni dello stare con loro. Sì, sono una fottuta lesbica e impongo il mio potere quando faccio all’amore, ma maschero bene la vera natura sessuale, nel mio ambiente la userebbero per farmi fuori.
Non avendo famiglia, aiuto i ragazzi quasi come un contrappasso alla mia anomalia sociale.

Fu circa una settimana dopo che ricevetti una telefonata in ufficio ed era questa Jessica C. (“Con la gei”, mi chiarì) che mi aveva sentita al liceo e che al telefono farfugliava una serie di frasi, e non capivo dove volesse andare a parare. Era più chiusa di un’ostrica, alla fine intuii che mi voleva parlare. Le chiesi quando e mi disse che poteva essere libera da scuola il giovedì dopo. Così la ricevetti in ufficio.
Si era messa i jeans, le sneakers coi brillantini, le sue tettine fasciate in una camicetta giusta giusta sotto una felpa qualsiasi. Era seduta davanti a me e la guardavo, stavo fotografando nella mia memoria un’adolescente un attimo prima che sbocciasse in una donna.
Menò il can per l’aia per qualche minuto: “Volevo chiederle che studi devo fare per avviarmi a una carriera di magistrato…La mia famiglia non ha molti soldi, dovrei anche mettermi a lavorare…”. Si muoveva sulla sedia come se fosse bollente, era a disagio e fuori luogo. Mi alzai, presi una sedia e mi sedetti al suo fianco. Le strinsi una mano, fredda, tenera, sudaticcia: “Tutto ciò che mi dirai resta qui tra noi…Sono tenuta al segreto”, mentii per sgelarla. Jessica stette a fissarmi per una ventina di secondi, i suoi begli occhi marroni ora non erano più così ingenui e le si stavano riempiendo di lacrime. “Vede, a casa non sto bene…”. Venne fuori che sua madre era una romena e se n’era andata e lei era restata con suo padre.
Ancora non capivo ma lei, quasi a mantenere un suo indicibile segreto, silenziosamente piangeva. Così la rassicurai e mi insinuai nella sua vita tenendola stretta a me per qualche momento: “Dai, dimmi tutto”. “Papà insiste con me…mi sta dietro…vuole che gli faccia delle cose…”. Insomma il porco se la voleva fare e glie lo metteva in mano, le toccava i seni, le stava dietro. Lei si chiudeva in camera, ma la situazione stava andando fuori controllo.
Scoprii che questo Pietro, il padre, lavorava come operaio tecnico all’azienda municipale, era uno degli italiani che si accasavano con le romene quando ancora non erano cittadine europee. Aveva conosciuta Mirian, la madre, che lavorava al mercato in un banco di verdura. Lei era restata con lui ed aveva continuato il suo lavoro fino a quando Jessica era arrivata ai tredici anni. Un giorno, tornando a casa, padre e figlia avevano scoperto che la mamma se n’era partita. Al mercato dissero che si era licenziata la settimana prima.
Trattai la cosa usando la burocrazia per convocare l’uomo, ma non aprendo nessuna pratica. Lo tenni in piedi davanti alla mia scrivania, lo richiamai ai suoi doveri, gli prospettai un futuro fosco, sotto processo, via dal lavoro, il disastro sociale. Poi lo feci sedere, lo indussi a ragionare: “Vuole rovinare se stesso e sua figlia? Impari a rispettarla. Sua figlia verrebbe posta sotto tutela…”. Lui, cominciò a darsi martellate sui coglioni: “Sì, da quando mia moglie è partita ho sbagliato tutto…Non sono come posso sembrare, sono uno per bene…”. Andò avanti per un pezzo, aveva paura vera eppure fingeva, ma promise solennemente, pensai speriamo bene.
Passò forse una settimana, poi la ragazza mi chiamò al telefono e mi disse: “Tutto bene”. Sembrava sollevata, non si sbilanciò più di tanto, però mi ripeté due o tre volte che “adesso andava tutto bene”. “Chiuditi sempre in camera. Non ti fidare troppo” le dissi e chiusi la telefonata.
Venne l’estate ed era quasi finita quando un pomeriggio l’usciere mi annunciò che c’era la signorina Jessica C. che chiedeva d’essere ricevuta. La feci entrare, stava bene la ragazzina, s’era affusolata, era pure abbronzata, portava una top turchese con pantaloni a sigaretta bianchi e scarpe con i mezzi tacchi, una bella differenza dalla prima volta.
Mi alzai, la baciai sulle guance, le chiesi come stava. “Dottoressa ho pensato tanto a lei…solo lei mi può consigliare, quest’anno sono ripetente, ma avrò la maturità e devo scegliere la facoltà”. Cominciammo a parlare, naturalmente voleva fare la giornalista, oppure, oppure…insomma qualche idea l’aveva, ma ben confusa. Come potevo darle un consiglio se neppure la conoscevo? Glie lo dissi e poi aggiunsi: “Se puoi vieni da me sabato mattina e passiamo insieme un paio d’ore”. Le diedi l’indirizzo e la congedai.
Un attimo dopo, riflettendo meglio, pensai di essere stata imprudente. Dopotutto la ragazza era da poco maggiorenne e io mi stavo interessando a lei senza parlarne col padre. Così a casa attivai il sistema di registrazione, lo stesso che avevo fatto istallare in ufficio.
Jessica C. arrivò poco dopo le nove. Nel soggiorno, che aveva anche un angolo-ufficio, le offrii un caffè con panna. La indussi a parlare, abilmente inserii nella conversazione la data e l’ora dell’incontro, la guidai praticamente verso un riassunto nel quale spiegava che mi aveva chiesto un colloquio per la scuola, che era lei che mi aveva cercata, ecc. Quindi chiusi lo spiraglio del cassetto che interrompeva automaticamente la registrazione. Lei continuò a parlare “Dottoressa che bella casa, dottoressa anche i fiori…”. Si era alzata, le feci visitare l’alloggio, che poi aveva solo tre stanze, ma certo probabilmente risaltava rispetto al suo anche per via della mia professione. Era eccitata, tutto le piaceva. Le dissi “Non chiamarmi dottoressa, chiamami Liliana”. Mi prese le mani: “Vorrei tanto esser come lei, avere la sua sicurezza e il suo gusto”. Le diedi un piccolo tenero bacio sulla guancia: “Aspetta d’avere quarant’anni…Dai dimmi qualcosa di te. Hai il ragazzo?”. “Per ora no, siamo più un gruppetto di amici e amiche…facciamo qualcosa - rise un poco vergognosa, ma allegra e complice - niente d’importante”. Le offrii dei cioccolatini ripieni, di quelli di sapori un po’ strani che si tengono in posti strategici proprio per le visite. Ne prese un paio e alla fine aveva gli angoli delle labbra macchiati di cioccolata. “Guarda hai le labbra sporche, aspetta” e col pollice le pulii piano un angolo della bocca . “…Devi essere dolce” le dissi - e il mio battito salì - ridendo le diedi un bacino sull’altro angolo. Lo interpretò come un gesto materno, mi abbracciò leggermente stringendosi un po’ a me. La cosa finì lì, mi raccontò altro di sé e delle sue aspirazioni. Mi parlò del padre che adesso stava sulle sue, del fatto che non avevano molti soldi. In certi momenti era più grande della sua età, e subito dopo sembrava una bambina. Alla fine della mattinata, quando mi salutò e ci baciammo sulle guance, mi aveva conquistata.
Nella mia solitudine era penetrata facilmente. Devo dirlo, come il cucciolo di un animale.
Devo stare attenta, devo stare attenta, devo stare attenta, mi ripetevo come un mantra.
Dalla mia mente l’eccitazione era volata come una freccia di fuoco nella fica, andai in camera, presi il mio piccolo bulbo elettrico, mi stesi sul letto a cosce aperte, lo accesi, lentamente lo infilai... In attesa, avvertii il leggero ronzio che annunciava l’ingresso nel giardino delle delizie, iniziai a fregare con la sinistra la clito e a battere piano le labbra, mi girai sul fianco sollecitando con il medio della destra l’apertura dello sfintere e finalmente iniziai a godere...

Per tre settimane non la sentii più, mi sembrava d’essermela tolta dalla testa, ero ritornata tranquillamente nel lavoro sia in sede, che in tribunale. Arrivò l’autunno e mi programmai un bel fine settimana a Ginevra. Il sabato pomeriggio sarei stata con le “sorority” della confraternita, per una rimpatriata che speravo memorabile. Venerdì lavorai fino all’ora di cena per avere il lunedì libero.
Arrivai a casa alle otto, stavo per entrare, quando sentii qualcuno che scendeva le scale: “Sono ore che l’aspetto”, disse Jessica C., la feci entrare, si girò verso di me e vidi che stava piangendo. La presi tra le braccia, sentivo il suo calore penetrarmi, lei chiuse gli occhi, le diedi piccoli baci sulle palpebre chiuse, “Non piangere, dai non piangere…” (le accarezzai il viso) “Non c’è nulla che non s’aggiusta” (Le mia labbra accarezzarono le sue) “Cos’è successo, dimmi cos’è successo…”. Smise di piangere e si strinse forte a me in silenzio, mi baciò con gratitudine, come si bacia una mamma. Si tranquillizzò. Mi raccontò che suo padre era tornato a provarci ed era pure bevuto.
Poi mi chiese di fermarsi a casa mia.”E tuo padre?”. “Gli telefono che resto a dormire da Luisa…ci è abituato”. Entrammo nel soggiorno, tirò fuori il Wuaway e chiamò il padre. Come riattaccò, aprii il cassetto e il sistema di registrazione si attivò. “Ma tu perché sei venuta da me alle otto di sera del 23 ottobre?”. Era interdetta: “Ma perché non sapevo dove andare… sono preoccupata”. “Potresti andare a dormire dalla tua amica Luisa”. “Certo, se vuole faccio così”. “Va bene, fai così”, dissi e chiusi il cassetto. “Però – continuò lei – preferisco restare qui”.
Mangiammo mozzarella e pomodori, le diedi un mio pigiama, quello con le gallinelle rosse su fondo azzurro. Mentre si cambiava in bagno, telefonai a Ginevra per disdire, “una questione di famiglia” dissi, poi mi vestii, restando in intimo e mi misi la vestaglia. Ci sedemmo davanti alla tivù, lei si era messa nuda, aveva adattato il mio pigiama che le cadeva quasi giusto, prese subito il telecomando: “Che meraviglia c’hai Sky..”, si mise a smanettare da un canale all’altro, mi raccontò della sua musica preferita, del cinema e dei vari programmi, senza averli quasi mai visti li conosceva tutti.
Si appoggiò contro di me, la sua voce divenne un mormorio e si addormentò. Mi spostai silenziosamente e andai in bagno a prepararmi per la notte. Sistemai la camera da letto, lasciandola in penombra. Poi andai a prenderla e la portai a dormire.
Ci salutammo (bacini della buona notte) e si addormentò quasi subito, lei dalla sua parte io dalla mia. Ero umida e tesa, mi toccai leggermente senza muovere il letto e così scivolai nella notte. Saranno state le due, quando la ragazzina si girò e mi abbracciò continuando a dormire. Le passai un braccio attorno alle spalle, i visi erano vicinissimi, lei respirava proprio contro il mio collo, il pigiama s’era aperto e guidava il mio sguardo sul suo piccolo seno con l’aureola molto marcata, le diedi un lieve bacio sulla guancia, lei istintivamente si strinse ancora di più e ricambiò con bacino sulla bocca, sapeva vagamente di muschio. Ci tenemmo abbracciate per quasi tutta la notte. Io ero sveglia con gli occhi chiusi. Quando lei si mosse girandosi ancor più verso di me, aprii la mia giacca del pigiama e infilai il braccio destro nella sua giacca, ora sentivo il suo piccolo seno premere contro di me e il suo calore mi faceva gonfiare la figa. Si svegliò: “Scusa”, poi scese da letto si tolse il pigiama e si rinfilò sotto le lenzuola “Fa troppo caldo, toglitelo anche tu”. Restai a seno scoperto e mi rimisi a letto. Lei tornò ad abbracciarmi, ma ora sentivo che non ero più la sua mamma. Infatti mi baciò schiacciando le sue labbra sulle mie “ Sono tanta felice di stare con te…”, aveva abolito il lei, qualcosa era cambiato. La baciai lieve sugli occhi, le mie mani erano forti e dolci sulla sua schiena, poi scesi sempre delicatamente sulle labbra, lei le socchiuse, io accennai ad entrare: così ci scambiammo il primo bacio. La ragazzina aveva la sapienza d’una donna, la sua lingua aveva l’entusiasmo della neofita. L’accarezzai per bene, mentre continuavo a baciarla, ma non toccai il suo seno, né tantomeno la sua micina. Jessica C. sospirò: “Ti voglio proprio bene…”. “Non credere di poterti comportare sempre così. Questo è un momento di tenerezza, ma io non sono tua madre…”. Prudentemente, volevo tenerla sulla corda.
La mattina la svegliai e preparai la colazione: “Forza alzati, devi filare a scuola”. “Ma sono le sette…”. “Forza alla doccia”. La tirai quasi giù dal letto e la portai in bagno, le diedi una cuffia, ne misi una anch’io e aprii la doccia. Eravamo ambedue due nude, lei protestava, io ridevo, poi rise anche lei, presi la spugna e la insaponai. Jessica C. fece lo stesso con me, tutte e due maliziosamente ci guardammo ridendo: “Guarda che praticello”, disse. “E tu, sembri un pulcino”, le tirai i peli e la stuzzicai vagamente. Poi fuori ad asciugarci.
“Io – disse all’improvviso – non sono mai stata con nessuno”. Venne decisa verso di me mi abbracciò. Fummo estranee per l’ultima volta, un attimo dopo le nostre lingue s’incontrarono e ci divorammo. Finimmo per terra sopra gli asciugamani e l’accappatoio. Scesi sui suoi seni, così teneri, così sodi, le straziai un po’ i capezzoli, la mordicchiai. Respirava forte e subito ricambiò, imparava veloce. La febbre dalla fica mi era salita alla testa, mi battevano le tempie, andai subito al sodo, le alzai le gambe e cominciai a leccarla e a mordicchiarla all’interno delle cosce, vedevo il suo pube gonfio che si offriva, la tenevo contro di me infilandole le mani nel solco del culetto. Poi allargai la sua ferita con la mano e la baciai come fosse la sua bocca, era aspra, piena d’umori, mi sembrava di bere alla fonte della vita.
Lei si lamentava piano, me la stavo lavorando alla grande, aveva la clito rilevata, armeggiai con la bocca e la lingua come se fosse un cazzetto, la succhiai e infilai guardinga un dito nella sua fica.
La mia farfallina era tutta piena di umori, qualche piccola goccia imperlava i miei peli – non ho mai voluto rasarmi più di tanto, mi sembra poco serio.
Jessicaa girò su un fianco, e mi venne addosso, si buttò in mezzo alle mie gambe, abbracciò le mie cosce e baciò e leccò, mi serrava con una forza che mi sorprese, infilava la lingua come fosse un pene, cominciavo a venire, lei liberò il braccio destro e tittillò con un dito il mio sfintere, poi decisa lo fece entrare mentre io entravo in orgasmo, sentivo le contrazioni incontrollate del mio ventre, lei strisciò su di me infilandomi la lingua in bocca…
Riconoscente le accarezzai le piccole labbra, appoggiai il dito all’ingresso della sua micetta, lei mise la sua mano sulla mia e premette forte, il dito entrò dentro senza incontrare resistenza, così capii…
Mentre godevo e l’amavo, mentre la…iniziavo, scoprivo che era una donna, probabilmente ben trafficata, ma ormai della sua truffa non m’importava più, volevo solo che godesse con me, così entrai dura con due e poi con tre dita mentre leccavo e succhiavo e non la lasciai finché non la sentii gemere forte e venire e le mie dita non furono impastate del suo fluido, le tirai fuori, glie le offrii, le succhiò e restammo abbracciate.
Incominciai a pensare al futuro. Ancora non avevo capito che lei se l’era già programmato…
Iolanda A.

scritto il
2020-09-14
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