Cécile

di
genere
etero

Cécile, che non ha mai avuto un uomo e che ho conosciuto vergine... "Questione di pelle" diceva: orrore della grana ruvida, grossolana, delle epidermidi maschili. Cécile, così a lungo ostile a ogni idea di penetrazione.
"Adoro i baci," diceva "baciami, non farmi male".
Ho incominciato ad ammaestrarla. Non potrò finire la mia opera.

Era venuta per seguire dei corsi di teatro che tenevo i lunedì e i mercoledì sera in un laboratorio.
Possedeva quello squisito ritegno tipico delle persone molto timide e che spesso contraddistingue i grandi attori. E anche un'obbedienza... E quella pelle da bruna irlandese - deliziosa porcellana, di grana finissima.
E vuota. Lei era affascinante per il suo vuoto. Aveva una profonda consapevolezza della vacuità delle cose e degli esseri umani, e anche di se stessa. Un sentimento di inutilità di stare al mondo. Un nulla. Era venuta chiedendo al teatro di riempire quella conchiglia vuota. Dietro quel suo sorriso luminoso c'era un baratro - e la s'intuiva china sul proprio vuoto interiore, affascinata dall'idea di precipitarvi dentro. Era tendenzialmente una suicida. Nel diciassettesimo secolo sarebbe stata una mistica, destinata a un lungo martirio, dilaniata tra tutti i mali del mondo, riflessi di quelli del Cristo.
Un blocco di marmo - un'Antigone in carne e ossa, appena più florida dell'eroina isterica e anoressica di Anouilh. Un mercoledì tutti gli allievi dovevano presentarsi alla lezione con una scena, non necessariamente un monologo, liberamente scelta e imparata a memoria. Lei ha preparato un dialogo di Antigone con Creonte, e mi ha pregata di esser io Creonte, quello che sostiene i compromessi, che cerca di irretire, di tentare l'inflessibile fanciulla.
Non c'era niente di innocente in lei, e mentre recitava con tranquillità, fissandomi con i suoi occhi di un azzurro cupo, tutti avevano la percezione che stesse accadendo qualcosa che oltrepassasse, e di molto, il teatro.
Quella sera l'ho accompagnata a casa - abitava ancora con i genitori -, abbiamo camminato a lungo sotto la pioggia di Parigi, sentivo un delicato profumo sprigionarsi dai suoi capelli umidi, e stavo vicinissima a lei solo per esser raggiunta dal suo odore. "Per tutto quel tempo, " mi ha poi confidato " aspettavo che mi prendessi la mano, che mi fermassi, che mi stringessi a te". Era così evidente che ho preferito far finta di nulla: non la desideravo, era un periodo in cui non desideravo nessuno, ma ero affascinata da quella serena vacuità. Dava l'impressione di aver già fatto, a diciassette anni, tabula rasa di tutto, di aver perduto ogni speranza.
L'ho baciata sulla guancia, fugacemente, davanti al portone di casa sua - affondando per un istante il mio viso fra suoi pesanti boccoli bruni e zuccherini.
"Vieni in teatro, se puoi, domani sera: devo provare".

È venuta, ovviamente, molto tardi - erano andati via tutti e stavo per rassegnarmi a tornare a casa sola. Ero sul palcoscenico a maledirmi per averla attesa, e mi accingevo a spegnere le luci di scena quando mi è parso di vedere una figura, in fondo, nel corridoio centrale.
Ho chiesto chi fosse.
Lei si è avvicinata, senza dir niente.
"Sono contenta che tu sia venuta" le ho detto. "Sali?".
È venuta verso di me con una lentezza esasperante, come se ogni suo movimento si decomponesse. Sempre in silenzio. È avanzata sulla scena, ancora tre metri, gli occhi bassi, poi ha sollevato la testa, due metri, non sorrideva, era rigida e seria, un metro, una distanza propizia per parlare, sessanta centimetri, una distanza da amica, da confidente, trenta centimetri, il movimento si decomponeva sempre più, una distanza a cui si può solo sussurrare, e poi mi sono ritrovata di colpo nel suo profumo, e ci siamo baciate per la prima volta, nel centro della scena - casualmente io ero vestita di rosso, e lei di nero. La piccola Antigone, fresca dell'odore della notte, del profumo della pioggia, ha posato le sue labbra sulle mie, e sono stata io a cercarle la lingua. Lei tremava lievemente, i suoi denti hanno urtato i miei, sapeva baciare a stento.
Ho immerso le mani nei suoi capelli, lei ha affondato il viso nel mio collo, non sapeva più cosa fare. Le ho preso la testa fra le mani, l'ho guardata a lungo, le ho sorriso, ma lei era sempre così seria... L'ho nuovamente baciata, accarezzandole con la punta delle dita i piccoli seni rotondi, nudi sotto il body attillato, le ho tolto la minuscola giacca nera, le ho accarezzato le spalle, quella sua pelle da statua, e la punta dei seni. L'ho nuovamente baciata, e questa volta è stata lei a cercare la mia lingua, sempre tremando.
L'ho spogliata con delicatezza - fino a scoprire una livida statua che emergeva nel centro del palcoscenico da un mucchio di straccetti neri. L'ho distesa sulla scena, nella polvere della scena, l'ho accarezzata tutta, poi sono scesa tra le sue cosce, con la guancia appoggiata su quel cuscino di un nero profondo come quello dei suoi capelli, e che profumava di fiori freschi. Sebbene fosse vergine, non ha esitato un istante, ha offerto il ventre alla mia bocca e ai miei sguardi. Mi sono un po' stupita di scoprirla vergine, ma era già bagnata, ho dischiuso il fiore tra le mie dita, l'ho sfiorato con la lingua, si è tesa come un arco ed è venuta, subito, premendomi forte la nuca e facendomi sprofondare nel suo sesso. Ho imparato presto che non le piaceva esser toccata dopo l'orgasmo, voleva soltanto il peso della mia testa sul ventre. Poi sono risalita per baciarla ancora, per stringerla a me. Non una parola, non una menzogna. Alla fine mi sono rialzata e lei giaceva ai miei piedi, in mezzo ai suoi abiti stazzonati, così bianca da essere teatrale, persino troppo. Aveva chiuso gli occhi - vedevo, sotto la sua pelle, esplodere brividi che poi lentamente si spegnevano.
"Allora..." ho mormorato - così, per dire qualcosa, per tornare alla realtà. Mi ha guardata - quella mia alta figura rossa ritta sopra di lei, come un carnefice in adorazione. Le ho teso la mano:
"Vieni".
Si è alzata, si è stretta a me, totalmente mia.
Siamo uscite - Parigi uggiosa, Parigi risplendente di luci opache.
"Devo tornare a casa" mi ha detto.
"Subito?".
"Sì, subito".
"Domani, allora?".
"Non so".
Le tenevo la mano, e sentivo che era già lontana.
"Domani?".
"Non posso...".
"Domani?".
Era come un ordine e, al tempo stesso, una supplica.
"Quando? ".
"Alle sei, a casa mia".
"Verrò" ha mormorato.
Sulla soglia di casa sua l'ho baciata ancora una volta, e di nuovo l'ho sentita fondersi sotto la mia bocca, l'ho spinta contro il portone, le ho accarezzato i seni, le mie mani sono scivolate fino ai suoi jeans scuri, le ho slacciato la cintura, l'ho sbottonata rapidamente, le ho strappato i gancetti del body, le ho immerso le dita nel sesso e lei si è inarcata, gemendo. La palpavo brutalmente, la graffiavo, nell'orgasmo ha urlato. A lungo ho lasciato la mano, immobile, conficcata come un artiglio nella sua fica spalancata e stillante.
"Domani" ho ripetuto. E sono andata via, senza voltarmi. Alle mie spalle ho sentito il rumore del portone che si apriva, il pesante tonfo quando si è richiuso, ho sollevato il viso verso la pioggia, e ho annusato a lungo le mie dita che profumavano di quell'odore di primavera zuccherina.
scritto il
2010-01-03
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