Siblings (parte 1)

di
genere
incesti

La brezza dell’oceano frustava la superficie dell’acqua, fendeva la cresta delle onde, destinate a infrangersi sugli scogli e originava quella nebbia umida e salata che Elizabeth amava sentire sul viso nelle calde giornate estive. Certo, il termometro difficilmente superava mai i 70°F (20°C), nel Maine settentrionale, ma per qualche ragione alla ragazza era sempre piaciuto quel contatto nebuloso che le inzaccherava le guance, quell’aroma salmastro che le risaliva le narici e quel vento deciso che le correva fra le ciocche ramate.
Elizabeth O’Neal aveva tredici anni ed era in larga parte considerata come il più bel fiore sbocciato in paese negli ultimi anni. Anche qui ci sarebbe da precisare che a Cape Irving vivevano a stento duemila persone, il che potrebbe far passare questa valutazione come meno degna di nota, quando invece, considerato che, in contesti del genere, tutti conoscono tutti, essa assume ancor più rilevanza. Lizzy, come la chiamava chi la conosceva meglio, sfoggiava una lunga chioma accesa da fiamme che danzavano fra le più variegate sfumature a seconda dei capricci della luce, due occhi d’un ambrato talmente denso e dolciastro che parevano fossero stati colmati da una colata di miele, il naso all’insù delle fanciulle impertinenti ed una lieve spruzzata di lentiggini su una maschera d’alabastro perfettamente cesellata a foggia di goccia. Il suo corpo aveva cominciato a svilupparsi pochi anni prima ma già lasciava intravedere le forme di una donna; risalendo la linea delle lunghe gambe sottili della ragazza si poteva infatti intravedere la dolce flessione dei fianchi che andavano a serrarsi strettamente in vita e, quando la felpa indossata non era particolarmente larga, si poteva persino indovinare la forma dei seni, ancora acerbi ma già più che presenti.
Amava le felpe, Lizzy, tenendola al caldo la facevano sentire al sicuro, protetta, come quando, da piccola, correva da suo padre dopo essersi sbucciata un ginocchio in giardino e lui la prendeva in braccio, stringendola con una forza tale da suggerire, alla mente di una bambina, di trovarsi nella sicura tutela di un gigante invincibile, che non avrebbe mai permesso che nulla le accadesse. Ci aveva pensato la vita, cinque anni prima, a farle capire quanto stupida fosse quella fantasia. Un giorno, il suo gigante l’aveva salutata dalla poppa della Lady Foam, il peschereccio sulla quale lavorava e con il quale ciclicamente prendeva il mare. Lizzy ricordava ancora la chioma nera di suo padre, lunga fino alle spalle, garrire nel vento, i suoi occhi azzurri definire sottili rughe d’espressione nello stringersi al delinearsi dell’ultimo sorriso. Non lo aveva mai più rivisto. Però ricordava ancora l’uragano che, le avevano detto, glielo aveva portato via. Come dimenticare quel vento, talmente forte da scuotere persino le pareti della loro casa, o sua madre che aveva portato lei e suo fratello nel seminterrato, li aveva ammantati con la coperta più pesante che possedevano e li aveva stretti forte al suo petto, nella speranza che, prima o poi, il peggio passasse.
Già, suo fratello, più grande di lei di appena un anno e più alto di non più d’un paio di pollici, quello stesso giorno era diventato l’unico uomo rimasto nella sua vita. La frequenza dei tipici litigi e le gelosie dell’infanzia era crollata esponenzialmente fra loro, lasciando spazio ad un rapporto più caloroso e protettivo. Certo, Jasper la prendeva ancora in giro e fingeva di indispettirsi quando lei usava le sue cose, ma non si arrabbiava mai sul serio con lei ed era sempre molto protettivo nei suoi confronti, specie a scuola, che fino all’anno precedente, prima che lui cominciasse l’high school, avevano condiviso, dove nessun ragazzino poteva pensare di avvicinarsi a lei e dove nessuna ragazzina si permetteva di sparlare alle sue spalle, pena l’ira del quarterback della squadra d’istituto, al terzo anno nettamente la figura più popolare di tutto il corpo studenti.
Apparteneva a lui la felpa che Elizabeth indossa in quel momento, mentre scrutava le onde, accese dal fuoco ancor più vivido di un sole che, al tramonto, si immergeva inesorabile nei flutti atlantici. Grigia e morbida, con lo stemma della Grey Rock High School marcato in oro sul petto, era talmente larga che la ragazza poteva infilarci le ginocchia all’interno, in modo da riscaldare anche le gambe, coperte solo dai sottili shorts verdi e bianchi da cheerleader che lasciavano il retro delle sue cosce a diretto contatto con la fredda superficie degli scogli. Attese che l’ultimo raggio dell’astro morente si spegnesse nel mare prima di voltarsi e fare ritorno a casa. Era, quello, una sua sorta di rituale: le piaceva osservare i tramonti e le piaceva farlo sulla riva. Una parte di lei scrutava con timoroso rispetto quell’indomabile manifestazione della natura mentre un’altra, più piccola ma che pure esisteva, sognava, non si sa quanto consciamente, di avvistare all’orizzonte, proprio allo spegnersi dell’ultima luce, un’imbarcazione di ritorno verso riva.
Casa era un edificio a due piani costruito a meno di cento metri dal mare e ad un miglio dall’abitazione umana a loro più prossima, con pareti di legno verniciato di rosso incrostato dalla salsedine a cui erano ancora appese vecchie reti da pesca. Lizzy notò che la tavola era stata sparecchiata da poco dai piatti della cena che aveva consumato circa un’ora prima con suo fratello e sua madre. Quest’ultima si era accoccolata sul divano infeltrito e si trovava assorta nella lettura di un vecchio romanzo alla tremolante luce di varie candele profumate. La ragazza la osservò appoggiandosi con una spalla allo stipite della porta.
A trentacinque anni mozzava ancora il fiato, una donna all’apice della propria bellezza, proprio a un passo dal lento appassire che l’avrebbe condotta alla vecchiaia ma ancora irradiata dalla luce che la aveva accesa nella più tenera gioventù. I capelli erano di pura fiamma, come quelli della figlia, sebbene talora dalle sfumature più scure e dai riflessi più cupi, il viso era più definito di quello morbido di Lizzy, con zigomi e mascella che parevano levigati da uno scultore rinascimentale, e gli occhi, nonostante tutte le lacrime versate erano ancora accesi nella solita sfumatura acquamarina per quanto, a volte, la profondità dello sguardo che restituivano suggeriva la stanchezza che celavano.
Alice Dickinson, maritata O’Neal, si accorse della presenza della figlia e alzò gli occhi dal libro che stava leggendo, incontrando quelli di lei.
“Com’era il mare, tesoro?” le chiese
“Freddo, si sta alzando il vento” rispose lei alzando le spalle
“In paese dicono che stanotte ci sarà una tempesta”
Bastarono quelle parole per far correre un gelido brivido lungo la colonna vertebrale di Lizzy. Se avesse mai amato i temporali, avrebbe dovuto essere stato in un passato molto lontano. Non poteva più essere così, non da allora.
“Come sempre” Fece una pausa per guardare con attenzione “È il libro della tua bis-bis-bisnonna quello?”
“Sì, non mi stanco mai delle sue poesie. Ne ricordi qualcuna?”
Elizabeth fece mente locale alzando gli occhi come per leggere qualcosa di vergato sul soffitto, si sforzò fino a ritrovare le parole che cercava in qualche meandro della sua mente e recitò:
“Se io potrò impedire, a un cuore di spezzarsi, non avrò vissuto invano… credo”
“Corretto” le sorrise la donna sul divano.
Lizzy non aveva mai capito la passione di sua madre per la poesia, in particolare per quelle di quella donna che dicevano essere una loro antenata e che forse era stata famosa più di cento anni prima, tuttavia sapeva quanto lei ci tenesse al fatto che quella conoscenza passasse a sua figlia così come a lei era stata infusa da sua madre, perpetrandosi di generazione in generazione per via matriarcale.
“Dov’è Jasper?”
“In camera credo, guardava un film al computer”
“Vado su anch’io allora, buonanotte mamma”
“Dormi bene, tesoro”
La voce raggiunse Elizabeth mentre già stava salendo le scale. La camera che condivideva con suo fratello era in fondo al corridoio del piano superiore, interamente ricoperto da tappetti, all’estremo opposto rispetto a dove si trovava quella dei loro genitori, da tempo occupata solo da sua madre. L’unica fonte della luce nell’ambiente, in quel momento, proveniva da un abatjour color corallo appollaiata al fianco del letto più vicino al muro. Chiunque avrebbe potuto intuire, dalla mensola montata al di sopra, ricolma di cimeli sportivi e dal muro tappezzato dalle foto di barche, che quel letto, ad una piazza emmezza, apparteneva a suo fratello, mentre quello di Lizzy era staccato al centro della stanza.
Jasper se ne stava sdraiato supino, il computer in grembo, il volto, nella semioscurità, definito dalla luce del monitor. La ragazza si fermò per un istante a risalire con lo sguardo la dura superficie della sua mascella liscia e squadrata, ad inerpicarsi sugli alti zigomi, incorniciati dai capelli arruffati, neri come una notte senza luna, fino agli occhi di un blu talmente profondo da poterci annegare. Sopra i jeans larghi indossava solo una canottiera bianca che metteva in mostra il suo ampio petto, per quanto ancora scarno a causa della crescita repentina, le sue larghe spalle, e le braccia affusolate talmente definite da poter scorgere ad ogni minimo movimento le sottili fibre muscolari guizzare sotto la pelle.
“Ehy” la salutò lui senza nemmeno alzare lo sguardo.
“Che guardi?” gli rispose la sorella acciambellandosi nel proprio letto
“Erin Brockovich, è per la scuola”
“I tuoi compiti delle vacanze sono guardare dei film?”
“Devo scrivere un saggio sulla responsabilità sociale dei cittadini, stupida. E poi c’è Julia Roberts”
“Quindi?”
“Quindi è un bella figa”
“Jasper, ha cinquant’anni…”
“Non qui. Quando ha girato questo era più o meno dell’età di mamma”
“E tu ti scoperesti nostra madre?” gli chiese lei di getto con un sorriso malizioso senza accorgersi di quanto accusatorio il suo tono dovesse suonare. Essendo cresciuti nella stessa stanza non era raro che i due parlassero piuttosto apertamente dell’attrazione dell’uno verso questa o quell’altra celebrità, ma suggerire così apertamente la concretizzazione di un complesso di Edipo era decisamente ben oltre quanto fossero soliti esplorare.
Con un movimento fluido Jasper le tirò un cuscino che la colpì dritta in faccia lasciandola a bocca aperta.
“Ah, sì?” fece lei, agguantando il proprio guanciale e brandendolo come un’arma “Hai voglia di lottare”
Si gettò sul fratello ridendo e cercando di colpirlo al volto con la sua arma improvvisata ma lui, da atleta, fu ben più lesto nell’allontanare il fragile portatile che teneva in grembo, girarsi su un fianco e schivare il colpo. Lo slancio di lei era tale che, avendo mancato il bersaglio, finì per caracollare sul letto, di schiena. Come un felino, Jasper si avventò su di lei per disarmarla mentre la sorella cercava di divincolarsi mettendogli le ginocchia intorno al bacino per limitare i suoi movimenti e cercando di ferirlo con il solletico una volta trovatasi priva di migliori strumenti d’offesa. La lotta durò giusto qualche manciata di secondi prima che il ragazzo riuscisse ad avere la meglio afferrando i polsi della sorella ed inchiodandoli al letto mentre con il proprio corpo le teneva divaricate le gambe, in modo che non potessero colpirlo.
Per più di un momento, i due si ritrovarono uno piegato sull’altra, con i rispettivi petti che, gonfiandosi ritmicamente a causa del respiro pesante quasi si sfioravano a vicenda e con i visi ad una distanza ancora inferiore tanto che, se esisteva almeno un pollice di distanza fra le loro labbra, avrebbero potuto essere gli occhi a baciarsi.
Come detto, passò più di un momento in questa situazione, in cui entrambi ebbero il tempo di osservare le orecchie dell’altro arrossarsi, non necessariamente per lo sforzo, prima che Jasper prese la parola sussurrando con la voce rotta dal fiatone:
“Ho vinto, sorellina”
“Non ancora” lo ribeccò lei, allungandosi con l’unica parte mobile rimastale a disposizione, il collo, e leccandogli rapidamente le labbra carnose. Il fratello schizzò via, con la schiena contro il muro cercando di pulirsi il viso con il dorso della mano.
“Ahhh, che schifo” si lamentava
“Ora ho vinto” esultò lei festante, prima di riafferrare il portatile “Dai vediamo il film”
I due restarono accoccolati fianco a fianco nel letto di lui mentre la luce, proveniente dalla finestra della camera diminuiva gradualmente fino a scomparire. Giacere al fianco caldo di suo fratello, con la felpa di lui addosso le piacque. A breve si sentì al sicuro, più a casa di quanto si sentisse mai. Si abbandonò a quella sensazione, lasciando Erin Brockovic come niente più di un indistinto sottofondo fin quando, ad un tratto, si addormentò.
Sognò che si trovava su una barca, erano soli in mare aperto, lei e Jasper, sotto un tiepido sole mitigato da una leggera brezza. Erano anche nudi e, soprattutto, bellissimi. Si stiracchiavano alla luce come pigri gatti randagi, spalmandosi una sopra l’altro, scivolando l’uno sull’altra, rotolando addirittura, mentre si scambiavano scorze di agrumi, passandosele con soffici baci. Poi d’un tratto, il sognò cambiò. Il sole sparì, nubi oscure presero in ostaggio il cielo ruggendo minacce. I fulmini squarciarono l’aria detonando roboanti tuoni. Si levò un vento talmente potente da sollevare il mare intero. Elizabeth vide suo fratello cercare di liberare la barca dall’acqua che stava imbarcando, decisamente in mano. D’un tratto, un muro si sollevò in mezzo alla burrasca, o meglio, un’onda. Di dimensione colossali, quella regina dei flutti si abbatté sulla loro imbarcazione, spezzandola di netto. La ragazza riemerse dall’apnea nel mezzo del mare, illesa ed aggrappata ad un relitto… ma sola. Di suo fratello non c’era traccia alcuna. Forse l’oceano poteva aver restituito lei, ma di certo sembrava essersi preso lui. Alzò gli occhi al cielo per gridare la sua disperazione ma tutto ciò che vide fu il lampo e poi…
Il tuono esplose una frazione di secondo prima che Lizzy aprisse gli occhi. Le ci volle qualche istante per fare mente locale e capire dove si trovasse. Dal letto di suo fratello poteva vedere la finestra della camera, bersagliata da migliaia di goccioloni che sembravano mimare il suono di una mitragliatrice. I rimbombi delle nubi riempivano l’aria, anticipati da fuggevoli bagliori della durata di un battito di ciglia, come se una divinità dispettosa accendesse il sole solo per un attimo prima di rigettare costantemente il mondo nell’oscurità, ma il suono più terribile era l’ululato del vento. Stridulo e costante, faceva accapponare la pelle fino ad insinuarsi all’interno delle ossa. Lizzy aveva sempre odiato le tempeste, ma questa volta non aveva paura. Sapeva di trovarsi nel letto del fratello. Si era sempre rifugiata lì ogni volta che il cielo era sceso in guerra, da che aveva memoria, e per ora non le era successo nulla di male.
Guardò la sveglia per capire che ora fosse: le due spaccate. Doveva essersi addormentata mentre guardava quel film con Julia Roberts. A quel punto forse la tempesta era già iniziata e, sapendo che probabilmente sarebbe ritornata, suo fratello non aveva ritenuto opportuno spostarla di peso. Jasper doveva averle tirato su le coperte fino al collo e si era coricato al suo fianco. Voltando il collo, Lizzy lo trovò. Si era sfilato la canottiera e con ogni probabilità anche i jeans, visto che di solito dormiva con nient’altro che le mutande addosso. Subito, lei percepì uno strano calore, che si disse dovuto al sonno. Si sedette sul materasso e sfilò gli shorts con cui era entrata in quel letto, rimanendo in intimo anche lei e soprattutto si liberò dalla pesante felpa della Grey Rock High School. Sotto non portava niente. Non teneva mai il reggiseno in casa, ma non era un problema. Condividendo la stessa camera era capitato che fratello e sorella si cambiassero l’uno alla presenza dell’altra, lanciandosi nulla più che sfuggevoli sguardi esplorativi in tralice.
Guardando dall’alto il fratello poté notare quanto magro fosse, gli passò una mano sul petto ossuto facendola poi scivolare sul fianco. Al tatto, poteva quasi contargli le costole. Ci avrebbe pensato il football a riempire quello scheletro in crescita di ossa e nervi con i muscoli, nessun dubbio. Ma quello che più colpì Lizzy del corpo di Jacob fu il calore, accompagnato da quel pregante odore di uomo capace di svegliare qualcosa di sopito dentro di lei e non ancora particolarmente esplorato. Di colpò si scoprì a desiderare di averlo attorno a sé, come se, in qualche modo potesse indossare la sua pelle. Sdraiandosi in modo da dargli la schiena, afferrò un braccio di suo fratello e, girandolo, se lo fece scivolare su un fianco. Jasper, nel sonno, si adattò a quella posizione, adagiando la testa nell’incavo del collo di lei, tanto che Lizzy poteva sentire il suo caldo respiro sulla gola. La mano del ragazzo, con grande sorpresa di lei, guidata puramente dall’istinto, risalì il profilo del suo fianco e si aggrappò con dolcezza al seno sinistro della sorella, il quale combaciava alla perfezione con il palmo di Jasper. Nell’avvertire quel contatto, sublimato dalla stretta sul giovane capezzolo rosato dell’indice e del medio del ragazzo, subito lei lo sentì inturgidirsi, ma non fu l’unica cosa che avvertì.
Essendosi entrambi girati su un fianco, il bacino di Jasper era a contatto con il culo di Elizabeth e, forse per la vicinanza forse per il sonno, qualcosa si era smosso nell’intimità di lui. La ragazza percepì distintamente la virilità del fratello premere dura sulle cosce di lei, così come sentì il calore e l’umidità che sgorgavano dal cuore del suo sesso. Era una sensazione nuova, in quell’intensità, e quasi paradisiaca. Così come l’istinto aveva guidato la mano di Jasper sul suo seno, guidò anche Lizzy nel muovere il bacino in maniera tale da strusciarlo sul pene del fratello che, pienamente eretto ed incontenibile, non poté che svettare fuori dalle mutande, scivolare fra i glutei divaricati di lei ed insinuarsi a contatto con il bottone del suo massimo piacere, celato solo dal leggero strato dell’intimo.
Mossa da null’altro che dalla spasmodica ricerca di quel piacere appena scoperto, Lizzy continuò a muoversi avanti e indietro, e più si strusciava più godeva, accompagnando lo sfregare delle lenzuola col martellante sciabordio della pioggia sul vetro. Il calore continuava a crescere tanto da farle credere che, a un certo punto, avrebbe preso fuoco dall’interno, il fiato le si faceva sempre più corto, come nella lotta con i cuscini e, mentre inarcava il collo, alla ricerca di ossigeno, si stringeva la mano del fratello sul petto con la propria. Il culmine di quel godimento sopraggiunse presto, quando dopo l’ennesimo movimento sinuoso sentì qualcosa contrarsi nel suo basso ventre, accompagnato da una scossa che le discese le gambe fino a far contrarre le dita dei piedi e le risalì la schiena fino a spegnerle, per una frazione di secondo, il cervello.
Pensò, per un istante, di essere morta. Ma decise anche che se quello era morire, lo avrebbe accettato volentieri. Poi, gradualmente, tornò alla realtà. I suoi muscoli si rilassarono ed il suo petto smise di contrarsi così rapidamente. Quello che avvertì con maggiore sorpresa fu una forte sensazione di calore e umidità sull’interno delle sue cosce, su proprio ventre, e pesino sulle lenzuola. Allungò una mano e scoprì che erano effettivamente piene di un liquido che, alla flebile luce della sveglia, appariva caldo, argenteo e viscoso. Lizzy non era una bambina e sapeva come funzionava un uomo. Non le ci volle molto a capire di cosa si trattasse, ma la sonnolenza che il suo primo vero orgasmo da donna le aveva indotto non le consentì di rifletterci più di tanto. Si accoccolò di nuovo nella stretta di suo fratello, la mano coperta di sperma vicino alla propria bocca. Mentre chiudeva gli occhi non sentì più il rumore della tempesta, percepiva solo Jasper, che aveva il sapore salato del mare.
scritto il
2021-12-26
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