Nessun altro
di
Gentleman
genere
gay
Prima ancora di vederlo, sentii il suo respiro.
Inspirava ed espirava forte, sembrava avesse fame d’aria. Mossi poco la testa, per sbirciare. Era alto una spanna più di me. Come quando si sente avvicinare una figura amica, un corpo familiare, percepii un calore, la voglia di appoggiarmi a lui. Ma che pensavo? Non era mica il posto, non l’avevo nemmeno visto in faccia, e figurati se lui…
Ripresi a guardare il quadro.
Si avvicinò. E mi convinsi che non stava davvero guardando il quadro. Sentivo, o immaginavo, i suoi occhi posarsi sulle mie spalle, indugiare sul mio collo, e poi il suo naso tendere verso i miei capelli, la sua bocca socchiudersi appena, sorpresa dal desiderio inaspettato, violento.
Stemmo lì qualche minuto. E mentre i secondi stillavano, me ne convinsi: qualcosa andava prendendo forma tra noi, un’energia materiale tra corpi.
Vidi che la sua testa si muoveva in modo impercettibile, in un lento andirivieni tra il quadro e la mia persona: tentava di soppesarmi, senza farsi sorprendere. E, non appena si rimetteva dritto, io gli davo il cambio, in un ballo di accenni e pudori.
Senza deciderlo, mi voltai di più. Avevo bisogno di vederlo di più.
Non era bello. Non nel senso comune del termine. Il viso pallido, affilato, si chinava leggermente in avanti, sporgendo dal collo sottile. Ricordava un po’ un volatile. Eppure, emanava tanto erotismo che quella breve occhiata mi aveva fatto mancare un battito al cuore.
Riappoggiai lo sguardo sul quadro, chinando un po’ la testa per dissimulare la mia emozione.
Attesi qualche secondo, prima di rigirarmi.
Ma mi tese una trappola: quando lo guardai, mi stava fissando. Il volto indecifrabile: non sorrideva, ma non era serio. Gli occhi, scuri, fondi, brillarono a mo’ di saluto.
Ero impreparato. La mia bocca deragliò in una smorfia insipida e distolsi subito lo sguardo.
Non si lasciò scoraggiare, perché sentii subito una voce nasale, ma suadente.
«Bello, no?»
«Come?»
«Il quadro. Bello, no?»
Avevo la gola secca. Tossicchiai, deglutii.
«Ah. Certo, bello, bello.»
Annuivo, spiazzato.
Il mio corpo si voltò verso di lui, già rapito.
«Ti piace Klimt?», indicava il quadro.
«Sì, sì, è il mio preferito. E a te?»
«A me no.»
Ora aveva tutta la mia attenzione.
«Come no?»
«Troppo decadente, troppo volto alla ricerca del piacere e della bellezza a ogni costo.»
Gesticolava mentre parlava. Aveva le mani affusolate, ma le dita erano nodose, vigorose. Tutta la sua figura era così, straziata tra l’esilità e la forza, sospesa tra un languore elegante e una determinazione intensa.
Stavo riprendendo il mio aplomb, tanto che riuscii a dire quasi senza farfugliare: «E che male c’è nella ricerca del piacere?»
Rise. «Davvero nulla, ma è un po’ scontato, non trovi?»
Guardai il quadro, poi la punta delle mie scarpe.
«In realtà, trovo che sia bellissimo.»
«Bellissimo…», ripeté assorto, mentre i suoi occhi si erano fissati all’altezza del mio petto. Ma fu un attimo, subito si riscosse.
«Sai», riprese, «è facile riempire un quadro di bellezza, ma se ne perde il senso. Io credo che la bellezza sia davvero potente solo quando la si scopre in posti inaspettati.»
Lo guardai perplesso. Continuò, sorridendo.
«Ma sì. L’estremo trash nelle foto di LaChapelle ne è un esempio. La bellezza vibra dove meno te la aspetti. Dove ci sono al contempo disperazione ed estasi. In una sagra di paese. Nei sobborghi delle metropoli. Nella dark di una sauna. O…»
La sua esitazione attirò la mia attenzione. Sorrise, di nuovo, in quel suo modo terribile e irresistibile. Fece l’occhiolino. Fu un attimo.
«…o nel cesso di un museo.»
Aveva appena finito di dirlo, che si era già voltato, e io ero rimasto a guardare le sue spalle che si allontanavano, già incuranti di me.
Ci misi qualche secondo a capire: era un invito. O forse no? Non ero mai stato rimorchiato così, di giorno, in un museo. Come facevo a essere sicuro? Però, quel riferimento al cesso del museo… Avrei sempre potuto andarci, e vedere. Cosa c’è di male nell’andare in bagno mentre si è al museo? Anche perché non c’è molta gente in giro, magari… Mi avviai nella direzione verso cui lo avevo visto scomparire.
La porta sbatté alle mie spalle, con un fracasso che mi parve rimbombare per tutto l’edificio. Il bagno male illuminato pareva deserto. Il silenzio rotto solo da un rigolo d’acqua che cadeva da un rubinetto dimenticato mezzo aperto. Percorsi il locale, fingendo un inutile indifferenza. Studiavo le tre porte che sembravano chiuse.
Spinsi la prima. Vuoto. Tentai la seconda. Vuoto. Arrivato alla terza, vidi che era socchiusa, e un’ombra vi sostava dietro.
Mi fermai. Finsi di girarmi per lavarmi le mani. Ma, allo specchio, vidi che la porta si era aperta di una decina di centimetri, e lui mi stava guardando. Appariva mutato: il sorriso era scomparso, per lasciare il posto a un’espressione da lupo, piena d’urgenza, di cupidigia.
Restammo così qualche secondo. A fissarci, e mentre i nostri occhi si conoscevano, si desideravano, scandagliavano la nostra reciproca brama di calore e bellezza, avevano già deciso.
Mi voltai. Lui aveva già afferrato il mio braccio e mi tirava dentro, nel baratro.
La sua mano premeva i miei capelli, mentre mi baciava. E sembrava davvero un lupo, bisognoso di succhiare e leccare via tutta l‘energia dalla mia bocca. Mentre anche io scombinavo i suoi capelli, lunghi, lisci, sentivo i nostri petti fondersi in un calore primordiale, e i nostri inguini strusciarsi, già tesi, duri.
Passai a leccare suo collo, il suo pomo d’Adamo, e aspiravo il profumo della sua pelle, che sapeva un po’ di legno e un po’ di mare. Lui, pragmatico, mi aveva già tirato fuori il cazzo, e lo stringeva con quelle dita nodose.
Poi, come se non ne potesse più, si divincolò dal nostro abbraccio, e per un attimo me ne dispiacqui. Lui forse lo percepì, perché sorrise e sussurrò, chinandosi:
«Non preoccuparti, non scappo.»
E, continuando a sorridere, osservò il mio membro duro, che sembrava stesse già per esplodere.
«Mmh, è già bagnato...», disse languido, smanioso. E ci fu qualcosa nella sua voce, un’incrinatura viziosa, che mi mozzò il fiato e mi eccitò da impazzire.
Lo ingoiò senza attendere. Iniziò a muoversi con la testa, prima lento, poi sempre più veloce, insalivando l’asta e percorrendola, con voracità, ansimando. Poggiai le dita sui suoi capelli e lo spinsi verso di me, e farlo mi mandò fuori di testa. La schiena mi si inarcò, percorsa dai brividi. Brividi, brividi e ancora brividi. Non stavo per venire, ma godevo in un modo simile, mentre sentivo il mio pene ingrossarsi allo spasimo, e tutta la mia vita raggrumarsi lì.
Con la coda dell’occhio, vidi la sua mano armeggiare sulla sua patta. Temevo di passare per egoista, quindi feci per chinarmi a mia volta, ma lui mi trattenne per i glutei. Non voleva che uscissi dalla sua bocca.
Continuava a ingoiare e far fuoriuscire, e sembrava eccitarsi a sentire il mio cazzo sempre più duro, sempre più duro. Io ormai non ragionavo più, e le mie gambe iniziavano a tremare tanto era il piacere. Sentii il primo formicolio dell’orgasmo arrivare prepotente.
Allora, all’improvviso, smise. Devo averlo guardato contrariato, perché si giustificò.
«Non voglio che finisca subito.»
Allora, lento, si rialzò e riprese a baciarmi. Nel frattempo, mi apriva la camicia. Poi passò a baciarmi il collo, i capezzoli, scese di nuovo sul pube e, mentre faceva questo, si tolse i suoi vestiti. Poi, con calma, si girò e poggiò le mani al muro.
«Ti voglio», disse, con semplicità e desiderio. Ma, subito, aggiunse: «Dentro.»
A quelle parole ebbi una contrazione inguinale. Mi misi in ginocchio, iniziai a baciargli il sedere e, in cerchi concentrici, mi avvicinai sempre di più al suo buco. Infilai la lingua. Lo sentii mugugnare, mentre iniziò a toccarsi.
Insalivai tutta la zona, entrai un poco e mi ritrassi. Lui aveva la pelle d’oca.
«Entra, cazzo», sussurrò.
Allora mi alzai, indossai una protezione, e poggiai la punta. Il suo buco si apriva e si chiudeva voluttuoso, fremeva. Entrai poco, con una leggera fatica. Ebbe un fremito di dolore, mi bloccò con le mani. Restammo un attimo sospesi, lui che mi fermava e io che provavo a spingere, incapace di controllarmi. Poi si rilassò e mi lasciò entrare.
Entrambi gememmo di piacere.
Iniziai lento, con colpi ben calibrati, ma in breve persi il controllo, e iniziai a sbatterlo con urgenza, quasi con violenza. Lui mi incitava, poggiandomi le mani sui glutei e stringendoli. Mi chinai verso di lui, e ripresi a leccargli il collo. Il mio petto e la sua schiena aderivano, sudati, tesi nello sforzo. Sentivo le mie gambe sbattere sulle sue, e a ogni colpo mi eccitavo ancora di più. Con le mani stringevo le sue spalle, magre, ma definite. Poi le staccai, con una iniziai a strizzargli un capezzolo, mentre con l’altra lo stringevo per il mento. Gli voltai con forza la testa e le nostre lingue si avvinghiarono, mentre continuavo a penetrarlo forte. Staccai la mano dal capezzolo e mi attaccai al suo cazzo. Era durissimo, ne percepivo le vene con i polpastrelli, e sentivo il sangue fluire e concentrarsi.
E poi, di nuovo, il formicolio all’inguine, la sensazione di svenire, la percezione di un piacere luminoso.
Esplodemmo. Prima io, dentro di lui, e poi lui, sulla mia mano, urlando di piacere.
Non ci staccammo. Poggiato con la testa nell’incavo tra la spalla e il collo, annusavo il suo sudore leggero, salato, mentre lui ascoltava il mio cuore battere impazzito. Rimanemmo così, abbracciati, mentre ansimavamo e rientravamo lenti nei nostri corpi.
Poi, qualcosa si spezzò. Io staccai le braccia, lui si divincolò. Ci pulimmo con la carta asciugamani. Senza dire nulla, scambiandoci sorrisi fugaci, ci ricomponemmo. Ci guardammo, un po’ imbarazzati, un po’ ancora eccitati. Stava per dire qualcosa, forse il suo nome? Ma si bloccò, e io guardai senza motivo verso la porta.
Mi trovai a bofonchiare «è stato bello», o qualche altra insulsaggine del genere. E lui sorrise, perché lo sapeva che era stato molto più di bello, ma forse non sapeva come dirlo. Avrei dovuto chiedergli di rivederci. O il suo numero. Avrei dovuto dirgli che nessun altro mi aveva dato quelle emozioni. Mai. Nessun altro.
Ma, mentre si lavava le mani, una sensazione di inadeguatezza mi assalì, e guardai il cellulare senza riuscire a dire proprio nulla.
Tentennò, forse insicuro anche lui. Ma, dopo un ultimo sorriso, uscì. La porta sbatté, e di lui rimase solo una sensazione di fragranza salata nell’aria.
Inspirava ed espirava forte, sembrava avesse fame d’aria. Mossi poco la testa, per sbirciare. Era alto una spanna più di me. Come quando si sente avvicinare una figura amica, un corpo familiare, percepii un calore, la voglia di appoggiarmi a lui. Ma che pensavo? Non era mica il posto, non l’avevo nemmeno visto in faccia, e figurati se lui…
Ripresi a guardare il quadro.
Si avvicinò. E mi convinsi che non stava davvero guardando il quadro. Sentivo, o immaginavo, i suoi occhi posarsi sulle mie spalle, indugiare sul mio collo, e poi il suo naso tendere verso i miei capelli, la sua bocca socchiudersi appena, sorpresa dal desiderio inaspettato, violento.
Stemmo lì qualche minuto. E mentre i secondi stillavano, me ne convinsi: qualcosa andava prendendo forma tra noi, un’energia materiale tra corpi.
Vidi che la sua testa si muoveva in modo impercettibile, in un lento andirivieni tra il quadro e la mia persona: tentava di soppesarmi, senza farsi sorprendere. E, non appena si rimetteva dritto, io gli davo il cambio, in un ballo di accenni e pudori.
Senza deciderlo, mi voltai di più. Avevo bisogno di vederlo di più.
Non era bello. Non nel senso comune del termine. Il viso pallido, affilato, si chinava leggermente in avanti, sporgendo dal collo sottile. Ricordava un po’ un volatile. Eppure, emanava tanto erotismo che quella breve occhiata mi aveva fatto mancare un battito al cuore.
Riappoggiai lo sguardo sul quadro, chinando un po’ la testa per dissimulare la mia emozione.
Attesi qualche secondo, prima di rigirarmi.
Ma mi tese una trappola: quando lo guardai, mi stava fissando. Il volto indecifrabile: non sorrideva, ma non era serio. Gli occhi, scuri, fondi, brillarono a mo’ di saluto.
Ero impreparato. La mia bocca deragliò in una smorfia insipida e distolsi subito lo sguardo.
Non si lasciò scoraggiare, perché sentii subito una voce nasale, ma suadente.
«Bello, no?»
«Come?»
«Il quadro. Bello, no?»
Avevo la gola secca. Tossicchiai, deglutii.
«Ah. Certo, bello, bello.»
Annuivo, spiazzato.
Il mio corpo si voltò verso di lui, già rapito.
«Ti piace Klimt?», indicava il quadro.
«Sì, sì, è il mio preferito. E a te?»
«A me no.»
Ora aveva tutta la mia attenzione.
«Come no?»
«Troppo decadente, troppo volto alla ricerca del piacere e della bellezza a ogni costo.»
Gesticolava mentre parlava. Aveva le mani affusolate, ma le dita erano nodose, vigorose. Tutta la sua figura era così, straziata tra l’esilità e la forza, sospesa tra un languore elegante e una determinazione intensa.
Stavo riprendendo il mio aplomb, tanto che riuscii a dire quasi senza farfugliare: «E che male c’è nella ricerca del piacere?»
Rise. «Davvero nulla, ma è un po’ scontato, non trovi?»
Guardai il quadro, poi la punta delle mie scarpe.
«In realtà, trovo che sia bellissimo.»
«Bellissimo…», ripeté assorto, mentre i suoi occhi si erano fissati all’altezza del mio petto. Ma fu un attimo, subito si riscosse.
«Sai», riprese, «è facile riempire un quadro di bellezza, ma se ne perde il senso. Io credo che la bellezza sia davvero potente solo quando la si scopre in posti inaspettati.»
Lo guardai perplesso. Continuò, sorridendo.
«Ma sì. L’estremo trash nelle foto di LaChapelle ne è un esempio. La bellezza vibra dove meno te la aspetti. Dove ci sono al contempo disperazione ed estasi. In una sagra di paese. Nei sobborghi delle metropoli. Nella dark di una sauna. O…»
La sua esitazione attirò la mia attenzione. Sorrise, di nuovo, in quel suo modo terribile e irresistibile. Fece l’occhiolino. Fu un attimo.
«…o nel cesso di un museo.»
Aveva appena finito di dirlo, che si era già voltato, e io ero rimasto a guardare le sue spalle che si allontanavano, già incuranti di me.
Ci misi qualche secondo a capire: era un invito. O forse no? Non ero mai stato rimorchiato così, di giorno, in un museo. Come facevo a essere sicuro? Però, quel riferimento al cesso del museo… Avrei sempre potuto andarci, e vedere. Cosa c’è di male nell’andare in bagno mentre si è al museo? Anche perché non c’è molta gente in giro, magari… Mi avviai nella direzione verso cui lo avevo visto scomparire.
La porta sbatté alle mie spalle, con un fracasso che mi parve rimbombare per tutto l’edificio. Il bagno male illuminato pareva deserto. Il silenzio rotto solo da un rigolo d’acqua che cadeva da un rubinetto dimenticato mezzo aperto. Percorsi il locale, fingendo un inutile indifferenza. Studiavo le tre porte che sembravano chiuse.
Spinsi la prima. Vuoto. Tentai la seconda. Vuoto. Arrivato alla terza, vidi che era socchiusa, e un’ombra vi sostava dietro.
Mi fermai. Finsi di girarmi per lavarmi le mani. Ma, allo specchio, vidi che la porta si era aperta di una decina di centimetri, e lui mi stava guardando. Appariva mutato: il sorriso era scomparso, per lasciare il posto a un’espressione da lupo, piena d’urgenza, di cupidigia.
Restammo così qualche secondo. A fissarci, e mentre i nostri occhi si conoscevano, si desideravano, scandagliavano la nostra reciproca brama di calore e bellezza, avevano già deciso.
Mi voltai. Lui aveva già afferrato il mio braccio e mi tirava dentro, nel baratro.
La sua mano premeva i miei capelli, mentre mi baciava. E sembrava davvero un lupo, bisognoso di succhiare e leccare via tutta l‘energia dalla mia bocca. Mentre anche io scombinavo i suoi capelli, lunghi, lisci, sentivo i nostri petti fondersi in un calore primordiale, e i nostri inguini strusciarsi, già tesi, duri.
Passai a leccare suo collo, il suo pomo d’Adamo, e aspiravo il profumo della sua pelle, che sapeva un po’ di legno e un po’ di mare. Lui, pragmatico, mi aveva già tirato fuori il cazzo, e lo stringeva con quelle dita nodose.
Poi, come se non ne potesse più, si divincolò dal nostro abbraccio, e per un attimo me ne dispiacqui. Lui forse lo percepì, perché sorrise e sussurrò, chinandosi:
«Non preoccuparti, non scappo.»
E, continuando a sorridere, osservò il mio membro duro, che sembrava stesse già per esplodere.
«Mmh, è già bagnato...», disse languido, smanioso. E ci fu qualcosa nella sua voce, un’incrinatura viziosa, che mi mozzò il fiato e mi eccitò da impazzire.
Lo ingoiò senza attendere. Iniziò a muoversi con la testa, prima lento, poi sempre più veloce, insalivando l’asta e percorrendola, con voracità, ansimando. Poggiai le dita sui suoi capelli e lo spinsi verso di me, e farlo mi mandò fuori di testa. La schiena mi si inarcò, percorsa dai brividi. Brividi, brividi e ancora brividi. Non stavo per venire, ma godevo in un modo simile, mentre sentivo il mio pene ingrossarsi allo spasimo, e tutta la mia vita raggrumarsi lì.
Con la coda dell’occhio, vidi la sua mano armeggiare sulla sua patta. Temevo di passare per egoista, quindi feci per chinarmi a mia volta, ma lui mi trattenne per i glutei. Non voleva che uscissi dalla sua bocca.
Continuava a ingoiare e far fuoriuscire, e sembrava eccitarsi a sentire il mio cazzo sempre più duro, sempre più duro. Io ormai non ragionavo più, e le mie gambe iniziavano a tremare tanto era il piacere. Sentii il primo formicolio dell’orgasmo arrivare prepotente.
Allora, all’improvviso, smise. Devo averlo guardato contrariato, perché si giustificò.
«Non voglio che finisca subito.»
Allora, lento, si rialzò e riprese a baciarmi. Nel frattempo, mi apriva la camicia. Poi passò a baciarmi il collo, i capezzoli, scese di nuovo sul pube e, mentre faceva questo, si tolse i suoi vestiti. Poi, con calma, si girò e poggiò le mani al muro.
«Ti voglio», disse, con semplicità e desiderio. Ma, subito, aggiunse: «Dentro.»
A quelle parole ebbi una contrazione inguinale. Mi misi in ginocchio, iniziai a baciargli il sedere e, in cerchi concentrici, mi avvicinai sempre di più al suo buco. Infilai la lingua. Lo sentii mugugnare, mentre iniziò a toccarsi.
Insalivai tutta la zona, entrai un poco e mi ritrassi. Lui aveva la pelle d’oca.
«Entra, cazzo», sussurrò.
Allora mi alzai, indossai una protezione, e poggiai la punta. Il suo buco si apriva e si chiudeva voluttuoso, fremeva. Entrai poco, con una leggera fatica. Ebbe un fremito di dolore, mi bloccò con le mani. Restammo un attimo sospesi, lui che mi fermava e io che provavo a spingere, incapace di controllarmi. Poi si rilassò e mi lasciò entrare.
Entrambi gememmo di piacere.
Iniziai lento, con colpi ben calibrati, ma in breve persi il controllo, e iniziai a sbatterlo con urgenza, quasi con violenza. Lui mi incitava, poggiandomi le mani sui glutei e stringendoli. Mi chinai verso di lui, e ripresi a leccargli il collo. Il mio petto e la sua schiena aderivano, sudati, tesi nello sforzo. Sentivo le mie gambe sbattere sulle sue, e a ogni colpo mi eccitavo ancora di più. Con le mani stringevo le sue spalle, magre, ma definite. Poi le staccai, con una iniziai a strizzargli un capezzolo, mentre con l’altra lo stringevo per il mento. Gli voltai con forza la testa e le nostre lingue si avvinghiarono, mentre continuavo a penetrarlo forte. Staccai la mano dal capezzolo e mi attaccai al suo cazzo. Era durissimo, ne percepivo le vene con i polpastrelli, e sentivo il sangue fluire e concentrarsi.
E poi, di nuovo, il formicolio all’inguine, la sensazione di svenire, la percezione di un piacere luminoso.
Esplodemmo. Prima io, dentro di lui, e poi lui, sulla mia mano, urlando di piacere.
Non ci staccammo. Poggiato con la testa nell’incavo tra la spalla e il collo, annusavo il suo sudore leggero, salato, mentre lui ascoltava il mio cuore battere impazzito. Rimanemmo così, abbracciati, mentre ansimavamo e rientravamo lenti nei nostri corpi.
Poi, qualcosa si spezzò. Io staccai le braccia, lui si divincolò. Ci pulimmo con la carta asciugamani. Senza dire nulla, scambiandoci sorrisi fugaci, ci ricomponemmo. Ci guardammo, un po’ imbarazzati, un po’ ancora eccitati. Stava per dire qualcosa, forse il suo nome? Ma si bloccò, e io guardai senza motivo verso la porta.
Mi trovai a bofonchiare «è stato bello», o qualche altra insulsaggine del genere. E lui sorrise, perché lo sapeva che era stato molto più di bello, ma forse non sapeva come dirlo. Avrei dovuto chiedergli di rivederci. O il suo numero. Avrei dovuto dirgli che nessun altro mi aveva dato quelle emozioni. Mai. Nessun altro.
Ma, mentre si lavava le mani, una sensazione di inadeguatezza mi assalì, e guardai il cellulare senza riuscire a dire proprio nulla.
Tentennò, forse insicuro anche lui. Ma, dopo un ultimo sorriso, uscì. La porta sbatté, e di lui rimase solo una sensazione di fragranza salata nell’aria.
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