La Duchessa - Cap. 2
di
DarioSc
genere
etero
«Il principe padre vuole vederla » ripetè Xerves
«Può aspettare.»
«No. Non può.»
«Pretende forse che smetta di chiavarla perché me lo ordina e che mi presenti al suo cospetto con il cazzo duro?»
Colui, di cui ancora non si conosceva il nome, snudò i denti in un sorriso sgradevole. «O magari credi che quell’atteggiamento da “la trombo quando voglio” sia solo una posa. Questa non aspetta altro che essere cavalcata?»
Xerves sentì montare la rabbia. Fece scorrere uno sguardo impassibile sul corpo mezzo nudo della principessina e capì che da lì a un attimo, in quel piccolo stallo polveroso, avrebbe restituito all’uomo di cui ancora non si conosceva il nome ciò che gli doveva per lo stupro della giovinetta.
«Il tuo principe ti ha dato un ordine.»
L’uomo, però, prevenne le sue intenzioni e spinse via la ragazza in malo modo.
«Cazzo, non mi riesce così...» imprecò, prima di rimettersi a posto i calzoni.
La principessa barcollò indietro per qualche passo, il respiro affannato.
Rimasta sola con Xerves, la giovane lo guardò fisso, ancora ansimante. Si puntellò al muro con una mano mentre con l’altra si copriva le parti intime, in un eccesso di pudore vergognoso. Senza dire una parola, lui raccolse le sue vesti e glieli tirò.
«Avrebbe dovuto darmi un soldo di rame. » si lamentò la ragazza. «Lo farò presente al principe, mio padre.»
Xerves ripensò alle parole appena sentite: «Nelle vene della principessa scorre ghiaccio. Lei non si diverte.»
Infine, giunse il momento di recarsi dal Principe, suo padre. Xerves la condusse su per le scale e fino alla camera da letto.
Non era decorata come quelle del palazzo Reale. Le pareti erano formate da spessi blocchi di pietra squadrata, mentre le finestre a losanghe erano chiuse da vetri opachi. Con il buio della notte, tuttavia, non lasciavano intravedere nulla, ma spandevano le ombre della stanza, percorsa nella sua interezza da un fregio di foglie d’edera intrecciate. Il caminetto era scolpito e ospitava un fuoco acceso.
A dominare l’intera stanza era, tuttavia, la soffocante opulenza del letto.
La parete dietro di esso era nascosta da pannelli di legno scuro intagliato sui quali era raffigurato un cinghiale con il collo trapassato da una lancia durante una battuta di caccia. Non c’era traccia del blasone blu e oro. I drappeggi erano rosso sangue.
La principessina sedette e si preparò all’attesa. Restò seduta e aspettò, le mani chiuse in una stretta molle. La libertà, l’illusione della libertà, gli procurava sensazioni indefinibili. Ebbe la consapevolezza, come raramente gli era successo, di essere sola.
Alla fine, il Principe, Suo padre, fece il suo ingresso e lei si alzò. Sulla soglia si intravedeva la figura di Xerves.
«Puoi andare. Non c’è bisogno di un piantone» ordinò il principe.
L’uomo annuì. La porta si chiuse dietro di lui.
«Ti ho lasciato per ultima.»
«Mi dovete un soldo di rame» lo informò la principessina.
«Dovreste imparare a farvi pagare prima di aprire le gambe.»
Il Principe si servì con calma del boccale per versarsi da bere e Sua Altezza, la principessina Chiara, non seppe trattenersi dal fissare la scena, ricordando l’ultima volta che erano rimasti da soli negli appartamenti reali.
Un paio di pallide sopracciglia si inarcarono leggermente.
«La tua virtù è salva. È solo acqua. Spero.» Prese un sorso poi abbassò la coppa, stringendola tra le dita eleganti.
Indicò con un’occhiata lo scranno, come un padrone che invita la suo ospite a sedersi, e disse, con il divertimento nella voce: «Mettiti comoda . Passerai la notte qui.»
«Senza ceppi?» chiese la principessina. «Non credete che cercherò di scappare?»
«Allora è vero che vi scorre del ghiaccio nelle vene»
L’uomo appoggiò lentamente la coppa sul tavolo e prese il coltello.
Era affilato, adatto a tagliare la carne. La principessa sentì il proprio battito accelerare quando l’altro mosse un passo verso di lei. Fu percorsa da un brivido quando le dita di lui toccarono le sue e il principe gli mise in mano l’impugnatura. Poi gli afferrò il polso al di sopra del bracciale d’oro, serrò la presa e lo tirò verso di sé fino ad appoggiarsi l’arma sullo stomaco. La punta premeva leggermente contro i suoi abiti blu scuro.
«Non ho intenzione di perdere tempo con prove di forza e minacce. Tanto vale chiarire subito le tue intenzioni.»
Il coltello era ben posizionato, appena sotto la cassa toracica. Sarebbe bastato premere e poi cambiare angolazione, spingendo verso l’alto.
L’uomo si comportava con un’arroganza odiosa, e la principessina si sentì travolgere da uno strano desiderio: non tanto un impeto di violenza, quanto piuttosto la smania di intaccare la sua sicurezza, di costringerlo a esprimere qualcosa di diverso dalla solita fredda voglia.
«Non userò il coltello, ma se siete disposto a mettermelo in mano, sottovalutate quanta voglia avrei di farlo.»
«No,» disse il Principe, suo padre adottivo. «So esattamente cosa si prova a desiderare di avere in mano il membro turgido di un uomo e aspettare.»
La principessina fece un passo indietro e abbassò l’arma. Le sue dita continuarono a stringerla. Si guardavano negli occhi.
Il principe, suo padre adottivo si calò le braghe e le alzò le vesti.
«Credo che cercherai vendetta per quello che ti ho fatto. Me l’aspetto, un giorno. Ma fino ad allora sei al mio servizio, quindi lascia che ti chiarisca una cosa: pretendo obbedienza. Sei sotto il mio comando. Se hai qualcosa da ridire sui miei ordini, ascolterò le tue rimostranze in privato, ma se disubbidisci una volta che l’ordine è stato impartito ti rispedirò al palo della fustigazione.»
«Ho disubbidito a un ordine?»
«No. Chinati.»
Nel corso della notte, il principe, Suo padre, aveva abbandonato l’usuale portamento rigido a favore di un atteggiamento più rilassato.
La principessina si era sorpresa a studiare la grazia naturale della sua postura. Le membra lunghe ed eleganti, il membro lungo e principesco, e aveva sentito farsi strada, dentro di sé, una tensione indefinita, quasi fosse in attesa di qualcosa di imprevedibile.
Era come trovarsi dentro una fossa in compagnia di un serpente: lui poteva rilassarsi, lei no.
Più o meno un’ora prima dell’alba, il principe si era alzato. «Basta così per questa notte,» aveva annunciato.
Il mattino successivo, divenne chiaro che il Duca avesse riposato male. Nel tempo che impiegò a montare il cavallo, si trovò a udire almeno una dozzina di oltraggi e basse insinuazioni sulla Duchessa, sua consorte. E quando sentì dire: «Si ammorbidirà per il giusto cazzo» tirò con troppa forza il sottopancia del cavallo.
Quella Dama, la sua consorte, si ammorbidiva con tutti i cazzi di Corte, tranne che col suo.
«Può aspettare.»
«No. Non può.»
«Pretende forse che smetta di chiavarla perché me lo ordina e che mi presenti al suo cospetto con il cazzo duro?»
Colui, di cui ancora non si conosceva il nome, snudò i denti in un sorriso sgradevole. «O magari credi che quell’atteggiamento da “la trombo quando voglio” sia solo una posa. Questa non aspetta altro che essere cavalcata?»
Xerves sentì montare la rabbia. Fece scorrere uno sguardo impassibile sul corpo mezzo nudo della principessina e capì che da lì a un attimo, in quel piccolo stallo polveroso, avrebbe restituito all’uomo di cui ancora non si conosceva il nome ciò che gli doveva per lo stupro della giovinetta.
«Il tuo principe ti ha dato un ordine.»
L’uomo, però, prevenne le sue intenzioni e spinse via la ragazza in malo modo.
«Cazzo, non mi riesce così...» imprecò, prima di rimettersi a posto i calzoni.
La principessa barcollò indietro per qualche passo, il respiro affannato.
Rimasta sola con Xerves, la giovane lo guardò fisso, ancora ansimante. Si puntellò al muro con una mano mentre con l’altra si copriva le parti intime, in un eccesso di pudore vergognoso. Senza dire una parola, lui raccolse le sue vesti e glieli tirò.
«Avrebbe dovuto darmi un soldo di rame. » si lamentò la ragazza. «Lo farò presente al principe, mio padre.»
Xerves ripensò alle parole appena sentite: «Nelle vene della principessa scorre ghiaccio. Lei non si diverte.»
Infine, giunse il momento di recarsi dal Principe, suo padre. Xerves la condusse su per le scale e fino alla camera da letto.
Non era decorata come quelle del palazzo Reale. Le pareti erano formate da spessi blocchi di pietra squadrata, mentre le finestre a losanghe erano chiuse da vetri opachi. Con il buio della notte, tuttavia, non lasciavano intravedere nulla, ma spandevano le ombre della stanza, percorsa nella sua interezza da un fregio di foglie d’edera intrecciate. Il caminetto era scolpito e ospitava un fuoco acceso.
A dominare l’intera stanza era, tuttavia, la soffocante opulenza del letto.
La parete dietro di esso era nascosta da pannelli di legno scuro intagliato sui quali era raffigurato un cinghiale con il collo trapassato da una lancia durante una battuta di caccia. Non c’era traccia del blasone blu e oro. I drappeggi erano rosso sangue.
La principessina sedette e si preparò all’attesa. Restò seduta e aspettò, le mani chiuse in una stretta molle. La libertà, l’illusione della libertà, gli procurava sensazioni indefinibili. Ebbe la consapevolezza, come raramente gli era successo, di essere sola.
Alla fine, il Principe, Suo padre, fece il suo ingresso e lei si alzò. Sulla soglia si intravedeva la figura di Xerves.
«Puoi andare. Non c’è bisogno di un piantone» ordinò il principe.
L’uomo annuì. La porta si chiuse dietro di lui.
«Ti ho lasciato per ultima.»
«Mi dovete un soldo di rame» lo informò la principessina.
«Dovreste imparare a farvi pagare prima di aprire le gambe.»
Il Principe si servì con calma del boccale per versarsi da bere e Sua Altezza, la principessina Chiara, non seppe trattenersi dal fissare la scena, ricordando l’ultima volta che erano rimasti da soli negli appartamenti reali.
Un paio di pallide sopracciglia si inarcarono leggermente.
«La tua virtù è salva. È solo acqua. Spero.» Prese un sorso poi abbassò la coppa, stringendola tra le dita eleganti.
Indicò con un’occhiata lo scranno, come un padrone che invita la suo ospite a sedersi, e disse, con il divertimento nella voce: «Mettiti comoda . Passerai la notte qui.»
«Senza ceppi?» chiese la principessina. «Non credete che cercherò di scappare?»
«Allora è vero che vi scorre del ghiaccio nelle vene»
L’uomo appoggiò lentamente la coppa sul tavolo e prese il coltello.
Era affilato, adatto a tagliare la carne. La principessa sentì il proprio battito accelerare quando l’altro mosse un passo verso di lei. Fu percorsa da un brivido quando le dita di lui toccarono le sue e il principe gli mise in mano l’impugnatura. Poi gli afferrò il polso al di sopra del bracciale d’oro, serrò la presa e lo tirò verso di sé fino ad appoggiarsi l’arma sullo stomaco. La punta premeva leggermente contro i suoi abiti blu scuro.
«Non ho intenzione di perdere tempo con prove di forza e minacce. Tanto vale chiarire subito le tue intenzioni.»
Il coltello era ben posizionato, appena sotto la cassa toracica. Sarebbe bastato premere e poi cambiare angolazione, spingendo verso l’alto.
L’uomo si comportava con un’arroganza odiosa, e la principessina si sentì travolgere da uno strano desiderio: non tanto un impeto di violenza, quanto piuttosto la smania di intaccare la sua sicurezza, di costringerlo a esprimere qualcosa di diverso dalla solita fredda voglia.
«Non userò il coltello, ma se siete disposto a mettermelo in mano, sottovalutate quanta voglia avrei di farlo.»
«No,» disse il Principe, suo padre adottivo. «So esattamente cosa si prova a desiderare di avere in mano il membro turgido di un uomo e aspettare.»
La principessina fece un passo indietro e abbassò l’arma. Le sue dita continuarono a stringerla. Si guardavano negli occhi.
Il principe, suo padre adottivo si calò le braghe e le alzò le vesti.
«Credo che cercherai vendetta per quello che ti ho fatto. Me l’aspetto, un giorno. Ma fino ad allora sei al mio servizio, quindi lascia che ti chiarisca una cosa: pretendo obbedienza. Sei sotto il mio comando. Se hai qualcosa da ridire sui miei ordini, ascolterò le tue rimostranze in privato, ma se disubbidisci una volta che l’ordine è stato impartito ti rispedirò al palo della fustigazione.»
«Ho disubbidito a un ordine?»
«No. Chinati.»
Nel corso della notte, il principe, Suo padre, aveva abbandonato l’usuale portamento rigido a favore di un atteggiamento più rilassato.
La principessina si era sorpresa a studiare la grazia naturale della sua postura. Le membra lunghe ed eleganti, il membro lungo e principesco, e aveva sentito farsi strada, dentro di sé, una tensione indefinita, quasi fosse in attesa di qualcosa di imprevedibile.
Era come trovarsi dentro una fossa in compagnia di un serpente: lui poteva rilassarsi, lei no.
Più o meno un’ora prima dell’alba, il principe si era alzato. «Basta così per questa notte,» aveva annunciato.
Il mattino successivo, divenne chiaro che il Duca avesse riposato male. Nel tempo che impiegò a montare il cavallo, si trovò a udire almeno una dozzina di oltraggi e basse insinuazioni sulla Duchessa, sua consorte. E quando sentì dire: «Si ammorbidirà per il giusto cazzo» tirò con troppa forza il sottopancia del cavallo.
Quella Dama, la sua consorte, si ammorbidiva con tutti i cazzi di Corte, tranne che col suo.
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