Una notte, sotto la luce di un lampione
di
GattaBianca
genere
tradimenti
Ho conosciuto Matteo, alle macchinette del caffè del Policlinico, rubando un po' di tempo a mia mamma, ma più che altro, al mio libro che come una medicina mi portava lontano con i pensieri. Volevo bere un tè caldo, anche se i corridoi e le camere dell'ospedale erano afose da far mancare l'ossigeno. Passavo più tempo possibile su una sedia a vegliare il corpo di una donna straziata, trasformata dalla malattia, la maggior pare del tempo dormiva sedata dagli antidolorifici, e quando si svegliava non mi riconosceva: il virus si era rubato anche la sua mente.
I dottori, cerimoniosi ed empatici, ci avevano detto di prepararci alla separazione che il lutto a breve ci avrebbe imposto; io non avevo più lacrime da piangere, per mio padre invece, molto cinicamente, era quasi un sollievo, un far terminare quel calvario che, andava avanti da un anno, ed il letto per scaldare: le sue ossa e le sue membra angosciate lo aveva già trovato, almeno da un anno, proprio dall'insorgere dei primi sintomi. Non doveva neppure uscire dal palazzo dove vivevano, al piano sotto al loro c'era la vedova 54enne Marta, pronta a ad alleviargli le pene, e a far certamente altro con il suo pene. Lui pensava che io non lo sapessi, ma varie volte lo avevo seguito e il suo 'rifugio sicuro' era l'appartamento di quella avvenente mora e prosperosa donna.
Solo davanti al distributore, toccandomi nelle tasche della giacca mi sono accorta che avevo dimenticato il portafoglio in camera, ad ho iniziato a sbuffare. Mi ha richiamato uno :«Scusa, te lo posso offrire io il caffè, se non ti offendi...» Girandomi indispettita, pronta a rispondere un seccato: «Grazie, ma non serve», al vedere un sorriso sereno, ed due occhi blu penetranti, quasi inebetita ho detto: «Ma io... ma io volevo un tè.» stava tirando fuori il suo bicchierino fumante, e mi ha indicato la macchinetta «Prendi quello che vuoi, tutto costa 55 centesimi, prego...», tempo di inserire il numero 33 del tè caldo, mi sono voltata per ringraziarlo e non c'era più. Tornando verso la stanza 5 dell'oncologia, una lieve aurea di spensieratezza mi ha invaso, in netto contrasto con il profondo sconforto che provavo poco prima.
Dopo un'oretta, sono passata per il mio studio, faccio l'avvocato, perché avevo dimenticato dei documenti, e camminando lungo la strada in mezzo a macchine rombanti, smog e clacson impazziti, il pensiero è tornato a quel tizio: cosa ci faceva in ospedale? Perché era scomparso così nel nulla?
Quella stessa sera ho ricevuto una telefonata da Marco il mio moroso, fino ad un mese prima avevamo convissuto a casa sua, ma nell'ultimo periodo tra liti ed incomprensioni, avevo preferito tornare nel mio appartamento. La nostra storia si era bruciata troppo rapidamente, arsa da una passione bollente all'inizio, ma che giorno dopo giorno, cedendo calore, era diventata una storia tiepida, piena di contrasti e di controsensi. Lui voleva una 'coppa aperta', nel senso che lui poteva farsi chi voleva, ma al momento che una sera uscivo, magari solo per cenare con qualcuno, iniziava la settimana della Quaresima: non mi parlava, non esistevo per lui, pronto a offendermi per ogni cosa. Non sono mai stata una santerellina, anzi, ma a differenza sua, che cambiava partner come le camicie, io preferivo avere un uomo 'cappotto' da portare almeno per una stagione intera. Però, credo, che anche le tipe che si portava a letto, dopo una o due volte, capissero di aver provato tutto ciò che il menù poteva offrire, ad anche il suo 'pisellino' non troppo sviluppato incidesse non poco, nel non rivederlo. Io invece mi vedevo almeno una volta a settimana, e non era un mistero per Marco, con Luca che mi piaceva tanto sotto le coperte, quanto poco fuori. Architetto single di successo, snob, con la puzza sotto il naso, non poteva essere più distante del mio modo di pensare, ma non di scopare. E poi aveva un bel paletto in dotazione e mi faceva divertire, mi faceva godere.
Ma se devo essere del tutto sincera, c'erano in quel periodo di desolazione altri due uomini con cui ogni tanto scaricavo le tensioni accumulate, anche per un mio capriccio di non voler essere da meno di Marco, e non dare tutta me stessa a Luca.
Insomma non mi facevo troppo pregare, se mi prendeva lo sfizio me lo toglievo.
Un po' di giorni prima mi aveva colto un insano sghiribizzo, mentre cenavo con un'amica in un ristorante, un bel uomo, sui 50 con la moglie davanti, continuava a fissarmi sotto la gonna e a sorridermi, così sono andata in bagno e sfilato il perizoma, sono tornata al tavolo, e quando ricercava le mie cosce con il suo sguardo , ho aperto le gambe e senza che nessuno se ne fosse accorto, gli ho mostrato il mio triangolo di peletti scuri.
Al caffè però, quella situazione , con uno sconosciuto che mi spiava la 'patatina' mi ha eccitato fin a bagnarmi, e gli ho fatto cenno di andare in bagno. Ho fatto cadere un po' di acqua sulla mia gonna e con la scusa che fosse salsa, sono corsa anch'io alla toilette. L'ho preso per la mano e senza parlare mi sono accucciata e ho succhiato il suo lungo cazzo fino a farlo venire nella mia bocca, senza dire nulla mi sono sciacquata le labbra, e 10 minuti dopo eravamo nei nostri rispettivi tavoli, io con un amaro ghiacciato in mano.
«Giulia, stasera ho voglia di te, passo io o vieni tu qui?» Non ne avevo proprio voglia, volevo starmene da sola e crogiolarmi nel mio dolore per mia madre, e per ricercare mentalmente un po' di sollievo negli occhi blu cobalto di quello sconosciuto delle macchinette.
«Guarda Marco, non è la serata giusta, sono stanca e stressata, e poi devo svegliarmi presto domani. Facciamo un'altra volta?»
«Vai a scoparti quel bamboccione di Luca, vero? Avere una storia aperta non vuol dire farsi un amante fisso, sai?»
«Preferiresti che facessi come te, cambiare ogni tre giorni, magari andando in peggio, con uno che non sa neppure farci?» Ho riposto mentendo, ovviamente lui sapeva solo di Luca, non degli altri. «Comunque non vedo Luca, tu divertiti. E poi forse è ora che chiudiamo questa farsa della bella coppietta perfetta all'esterno con amici e parenti, ma che fa acqua da tutte le parti quando siamo soli, e ci facciamo bastare scopacchiando in letti dove se non fossimo insieme neppure ci penseremmo di andare. Marco io mi sono stufata, ho bisogno di altro, mi sono stancata di questa messinscena, di fare l'attrice. E comunque con Luca ho chiuso i rapporti già un mese fa, non meritava quello che mi prendeva, lo facevo solo per darti fastidio, e non mi stava più bene. Ma ne riparliamo domani, ok?»
«Guarda non ti stavo nemmeno ascoltando, bon va bene, io esco con Marina... ci sentiamo. Sei proprio una stronza.»
Ho chiuso senza rispondere presa da un forza interiore incomprensibile, da una ventata di aria fresca, dall'inspiegabile voglia di rivedere quel sorriso gentile dell'ospedale. Stupita di me stessa, non capivo cosa mi stesse succedendo, sono sempre stata una persona che ponderava ogni passo, ogni mossa, come in una partita a scacchi. E a 35 anni era difficile cambiare.
Nei giorni successivi, la situazione critica ma stabile di mia madre, e la speranza di rivedere 'l'apparizione' mi destabilizzava anche dalla lettura, tra l'altro stavo leggendo "Estranei" di Yamada Taichi, libro giapponese preso a caso dove il protagonista, 47enne, incontrava i genitori morti da 12 anni, quando loro ne avevano circa 30, di certo non era il momento adatto per una trama del genere. Ma fin da bambina ho sempre preferito i libri della biblioteca a quelli nuovi, l'odore di carta vecchia, ingiallita, spesso mi facevano viaggiare con la fantasia su chi l'aveva letto prima di me, in che casa era stato, se era stato apprezzato oppure no. E poi ero convinta che fossero i testi a scegliermi, e non il contrario, infatti quando ne trovavo uno fuori ordine alfabetico o messi sbagliati, li prendevo senza pensarci. Ero fissata, al tempo, con gli autori giapponesi, che adoravo, e molti a me completamente sconosciuti, li ho piacevolmente scoperti così, non fermandomi ai soliti Haruki Murakami, Yuko Mishima, certamente grandissimi, o alla sopravvalutata Banana Yoshimoto, che sfornava libri, tra l'altro la maggior parte di pessima fattura, come il barista sotto casa faceva i caffè. Seduta in quella camera, asettica, odorosa di disinfettanti, piena di cavi e cavetti della flebo, con monitor per il battito e per la respirazione non riuscivo a stare, ansie e paure mi aggredivano di continuo. Ogni tanto camminavo in corridoio, arrivavo fino ai distributori nella speranza di poterlo ringraziare, anche se in realtà la mia era solo voglia di rivederlo, di sapere perlomeno il suo nome, e poi con l'immaginazione farcivo il resto. A volte era bello farmi accompagnare da bizzarri capricci, per colorare il grigiore che avevo costantemente dentro.
Dopo dieci giorni, mia mamma sembrava avere avuto un sussulto, era tornata quasi lucida, perlomeno per alcune ore e mi riconosceva, abbiamo parlato: la sua più grande preoccupazione erano i fiori del terrazzo. che oramai erano diventati sostanza organica. dimenticati a loro stessi al freddo ed alle gelate notturne. La cosa mi aveva dato un filo di speranza, quella che in casi così non si perde mai fino alla fine. Ma il dottore mi aveva spiegato chiaramente di non costruirci chimere sopra, che quella lurida malattia porta a: «istanti di ripresa», così li aveva chiamati, ma nel buio più pesto di un tunnel nella notte anche un fiammifero illumina come un piccolo sole. Scendendo con l'ascensore, la porta si era aperta al reparto ortopedia, un piano sotto, ed era comparso lui, con un cappotto grigio, jeans chiari e adidas, per un attimo il mio cuore ha smesso di battere, mi ha salutato, elaboravo mille cose da dirgli in battito di ciglia, ma non sono riuscita a dire niente, anche perché si è girato ed una ragazza avanzava verso di noi con le stampelle. Quando era ancora distante, non so dove ho trovato il coraggio di dirgli: «Io ti devo ancora un caffè...» e lui mi ha allungato un suo biglietto da visita dove c'era scritto: Matteo P..., psicologo, il numero dello studio e l'indirizzo di una via che conoscevo in pieno centro di Milano, a due chilometri dal mio appartamento. Ho lasciato perdere i mezzi pubblici, mi sarebbe pesata più l'attesa che il camminare per i 4 chilometri che mi dividevano da casa. Ogni mattina uscivo prima di casa e facevo una piccola deviazione per passare davanti al suo ufficio, e solo vedere il suo nome sulla targhetta dorata sui citofoni, mi faceva respirare in maniera diversa. Volevo conoscerlo a tutti i costi, sapevo certo che aveva una donna, tra l'altro molto bella, ma dovevo riuscire a bere qualcosa insieme a lui. Intanto Marco era latitante, credenda che come sempre sarei stata io a tornale all'ovile, ma con lui oramai avevo preso una decisione definitiva: basta a prenderci in giro e a giocare puerilmente con il nostro tempo.
Per molte volte ho composto il numero di quel biglietto da visita, ma avevo sempre riattaccato, fino a quando, sfrontata gli ho chiesto, quasi senza fronzoli: «dove e quando posso offrirti un caffè?» E ci siamo accordati.
Ci siamo trovati per un aperitivo, che come orario andava meglio per entrambi, in una bar in città, e quando mi sono alzata, un po' elettrizzata dai due Negroni a stomaco vuoto, spudoratamente gli ho detto che era stato bello e rilassante parlare con lui, e gli ho fatto intendere che il numero ce lo aveva. L'ho divoravo con gli occhi, era straordinariamente affascinante, dolce, delicato, mai una parola fuori posto, mai un comportamento insensato, mi sembravo immersa in un caldo abbraccio stando con lui, anche se non ci siamo neppure sfiorati. Lungo il percorso verso casa ho preso il telefono e ho disdetto la cena che avevo in programma con Marco, che non vedevo da prima di quel pomeriggio alle macchinette.
Poi un'ondata di lussuria mi ha colto e ho chiamato Luca, e la stessa sera andata a casa sua. Volevo godere pensando a Matteo, infatti senza il mio amato petting, in cui Marco eccelleva, con Luca mi sono girata a 'pecorina' e l'ho fatto entrare , così non vedendolo in faccia potevo figurami: il blu degli occhi, i bei lineamenti di Matteo dietro me, ed in poco tempo un orgasmo feroce e quasi inaspettato mi ha rapita, facendomi però ricadere in un pozzo di malinconia e malumore per quel che stavo facendo, infatti mi sono rivestita, e odiandomi me ne sono andata, perché quel modo di sfogare la mia passione, il mio desiderio per Matteo con un altro uomo, era una cosa assurda, insensata. Appena arrivata a casa dopo una doccia ancora infangata da quella vergogna che avevo provato un'ora prima, mi è arrivato un SMS da Matteo:" Anch'io sono stato bene con te, a quando vuoi...buona serata", e a quelle parole mi sono sentita ancora più sporca. Da quella sera ho tagliato i ponti con i miei 'evangelisti', come li chiamavo: Marco e Luca. Per tutto il mese successivo ci siamo visti spesso, conoscendoci di più ogni volta, ed il sapere di stare anche solo per un'ora con lui, stemperava la mia afflizione che sempre, come un'ombra, mi accompagnava per mia madre. Le ore prima di incontrarlo ero fuori di me, mi permeava un'ansia di una sua possibile disdetta all'ultimo, come da ragazzina quando aspettavo che il telefono di casa suonasse, e non volevo che rispondessero i miei al morosetto di quel periodo. Ero candidamente persa per lui, per quelle parole, che diventate frasi da quella bocca mi inebriavano di sensazioni profonde, insomma ero convulsamente innamorata. Poi il fatto che nessuno dei due parlasse mai delle nostre rispettive vita sentimentali, mi dava ancora più forza, credendo che se fosse stata qualcosa di importante me lo avrebbe perlomeno accennato.
Poi in un tiepido giorno di febbraio, quando sembrava che l'inverno volesse salutarci anticipatamente, è arrivato il triste commiato, l'estremo addio di mia mamma, che morendo in una notte di stelle lucenti in cielo, credo che abbia visto più facilmente la via verso il paradiso, l'unico posto a lei riservato, ad una donna che aveva onorato tutti i suoi compiti: di figlia, di moglie e di madre, subendo spesso ingiusti comportamenti da un marito un po' troppo 'vivier', che aveva ricercato piacere e avventure amorose, scacciando da se l'amore puro che lei aveva per lui, per l'uomo, che nonostante tutto aveva scelto e perdonato tante volte. Cose che erano lontanissime dalla mia vita e dal mio carattere, pronta sempre a ripagare con la stessa moneta un'umiliazione o una macchia, seppur piccola. In quella agitata e convulsa notte avevo mandato un sms a Matteo, e la prima persona che ho visto la mattina dopo è stata proprio lui, che mi ha abbracciato senza parlare, dandomi però tutto il conforto di cui avevo bisogno. Dopo aver espletato tutto l'iter del caso, mi sembrava di essere stata detronizzata dal mio corpo, percepivo una dimensione diversa, priva di rumori, priva di emozioni. Quando ho sentito Matteo parlare con Veronica la sua compagna, ed inventarsi un corso di due giorni fuori città, ho sperato che volesse stare con me, fino che una sua frase ha cancellato tutte le mie apprensioni: «Vuoi che ti sto vicino per un po', ma se preferisci star da sola, basta che tu me lo dica. Però se ti fa star meglio io resto con te.» Mi sono avvicinata a lui, l'ho abbracciato e con le labbra ho cercato le sue dicendogli: «Non sono sicura che il mondo giri allo stesso modo di ieri, vivo in un'astrazione mentale assurda, ma di una cosa sono certa: ti prego resta qui con me.» e Matteo con leggeri tocchi della mano mi asciugava le lacrime che perpetue scendevano sulle mie guance. Quei due giorni abbiamo vissuto imperniati in un muto e sordo dolore, fatto di piccoli gesti da parte sua di una cura, una dedizione a me, quasi indicibile. iniziavo ad amarlo con tutta me stessa, e quando rimanevo sola, un'irrazionale pensiero dominava la mia mente: avevo perso per sempre l'amore embrionale, viscerale per mia madre; ma ora avevo trovato un'amore molecolare, tutte le particelle del mio corpo sembravano ubbidire alle sue, donandomi sensazioni di pienezza mai raggiunte. Forse è questo l'amore?.
Da quei tristi giorni non è più andato via da casa mia, passando sopra e spingendo via tutti i sentimenti che lo legavano a Veronica, cercando però di non sottrarsi alle proprie colpe, tentando di trovare il modo meno doloroso per lei. Dormivamo, allacciati da oramai tante notti, senza, oltre a qualche bacio, varcare la soglia della nostra sessualità, per rispetto alle nostre perdite, e per suggellare quel momento, come se fosse giusto aspettare per godercelo appieno, con tutto l'amore che già ci circondava, anche senza. In tutti i miei rapporti precedenti il sesso era il collante, la parte trainante: con Loris, tre anni di una passione giovanile, da studenti universitari, che ogni tanto era tornata ad avvolgerci in qualche estemporaneo incontro; con Marco, frenesia, smania di bruciante ardore, spento in tradimenti e subdoli compromessi, per 'dare a vedere', per dimostrare agli altri qualcosa che neppure a noi era chiara, un tirare avanti per routine, per non spezzare la quotidianità.
Ma con Matteo era diverso io l'amavo a prescindere dalla sfera erotica, infatti la prima volta con lui ero tesa come una sedicenne, imbranata e priva di idee, cosa molto strana per me. La fame e la sete dei nostri corpi, la tentazione erotica di possederci l'un l'altra si accumulava come in una dinamo, producendo sempre più un'impaziente attesa. Una sera guardando un film, io stesa e lui seduto sul divano ho poggiato il mio viso sulle sue gambe a mo di cuscino, e mentre lui mi sfiorava i capelli ho sentito dietro la nuca, la sua forte erezione, sempre girata verso la tv ho messo la mia mano sotto la guancia, praticamente a contatto con il suo pene. Solo quel contatto ha bagnato le mie mutandine, lo volevamo entrambi. Mi sono girata verso di lui, gli ho abbassato la tuta e i boxer, fissandolo negli occhi, e sono rimasta piacevolmente basita, avevo davanti un bellissimo cazzo, lungo, non grosso, con la punta avvolta dal prepuzio, da farlo sembrare un bocciolo di rosa socchiuso. Con la mano lo toccavo e ne sentivo tutto il turgore, poi tirando indietro la pelle ho leccato le sua rosa cappella, tonda e proporzionata, in tutta la sua circonferenza, mentre lui ansimava e mi accarezzava la schiena slacciandomi il reggiseno. Mi sono alzata un attimo e mi sono spogliata tutta, e accovacciandomi tra le sue gambe ho iniziato a giocare con quel 'paletto' di almeno 23 cm, lo ciucciavo e lo succhiavo come fosse il più buon gelato della mia vita. Con la testa quando la ritraevo stringevo leggermente i denti, volevo che provasse un leggero dolore, ma poi tornando verso di lui gli facevo sentire il caldo e morbido delle mie labbra. Ero persa nel dargli più piacere possibile, ero tutta bagnata e sentivo delle solleticanti pulsioni sotto i miei peletti morbidi. Gli sono salita sopra, a cavalcioni con le gambe aperte, e da quanto era duro è entrato dentro me, tutto, fino a saziarmi, fino a riempire tutte le mie membrane interne. Lubrificata e desiderosa com'ero non ho sentito alcun fastidio, e l'ho cavalcato forte, e mi piaceva sempre più... sempre più... fino ad uno scoppio, una devastante deflagrazione mi ha accecato in quella semioscurità: lampi di luci iridescenti volteggiavano via rapidi in quell'incantata e profonda estasi, i brividi di piacere correvano veloci dalla schiena e dal mio torace fino a ritrovarsi convulsamente lì, nella mia fica bollente, e sono venuta gridando solo due parole, una ripetuta due volte, tra piccole scosse e respiri affannosi: «Go... do... Matteo, go... do...» e sono venuta in modo totalizzante, e mi sono buttata su di lui baciandolo sulle labbra quasi a ringraziarlo. La notte non ci ha visti dormire, solo le luci della mattina hanno decretato la fine di quel rito magico, e sfiniti ci siamo addormentati uno sull'altro. Oramai io vivevo di orgasmi multipli, e quando messa a 90 con la faccia appoggiata al cuscino, Matteo mi è venuto dentro, ho avuto un senso di condivisione paralizzante, mi piaceva farlo godere, adoravo che lui facesse tutto quello che voleva di me e del mio corpo. E' stato infinitamente bello. Quando a mezzogiorno ho aperto gli occhi il primo pensiero che ho avuto è stato "Dio quanto lo amo" e sono andata a preparare il caffè.
I mesi della nostra relazione si mangiavano il tempo, stavamo talmente bene insieme che non c'era cosa che potesse turbare le nostre giornate, e soprattutto le nostre nottate, poi un messaggio di Loris, nel quale mi chiedeva di vederci per un semplice aperitivo, mi ha portato a riflettere, ma alla fine ho accettato. Quella sera ci siamo incontrati in un baretto in centro, ed in sua compagni sapevo bene che gli aperitivi si sarebbero sprecati, per questo mi sono contenuta. Mi sentivo euforica avendo fatto due giri, e non volevo che Matteo mi vedesse in quelle condizioni così l'ho chiamato: «Scusa Teo, sono con delle amiche del tribunale, abbiamo bevuto un aperitivo, visto che son già le 20:00 mi fermo con loro a mangiare una pizza, non ti arrabbiare.»...«Se mi avvertivi prima non avrei comprato il sushi per cena, ok, va bene a dopo.» Sono andata con Loris a mangiare in un ristorante 'in', e lì i bicchieri di Ferrari scendevano rapidi tra una chiacchiera sul nostro passato, e le molte avventure che avevamo condiviso. Non mi sono accorta che il tempo era trascorso troppo rapido, l'effetto alcolico mi faceva dilatare tutto, ma mi stavo divertendo. Quando siamo arrivati sotto casa mia, Loris, ha parcheggiato l'auto dalla parte del mio palazzo, e forse per gioco mi ha baciata sulle labbra. Io ho contraccambiato il bacio, non pensando a nulla, poi lui si è slacciato i jeans, tirandomi fuori il cazzo, ed io non ho saputo resistere, mi sono piegata sul posto del guidatore e l'ho preso in bocca con ardore, e con parole mezze sbiascicate ho detto: «Questo è il mio regalo d'addio, ricordatelo adesso c'è Matteo», ho continuato a sbocconcellarglielo finché non mi è venuto in bocca, non mi rendevo conto neppure di quello che avevo fatto, e salutandolo, uscendo dalla macchina ho alzato lo sguardo verso la finestra della cucina, e con in mano un fazzoletto per pulirmi la bocca, ho visto l'ombra di Matteo che guardava verso di me. Con il terrore nel cuore ed una montagna di sensi di colpa ho aperto la porta di casa, e lui stava sistemando la sua roba, i suoi vestiti in una grande valigia. Zittendomi ad ogni mia ricerca di parlare, con una calma paradossale mi ha detto: «Sei stata anche sfortunata il lampione illuminava proprio la tua testa che andava su e giù. Pensa se avessi avuto la tua macchina non me ne sarei nemmeno accorto. Tu sai perfettamente quali sono i miei valori, quello che accetto e quello che detesto: la fiducia, il rispetto sono capisaldi della mia esistenza. Il giorno del funerale di tua madre Marco mi è venuto a parlare di che sei veramente, del vostro dissoluto rapporto pieno di scopate extra, di Luca l'amante dei i giorni feriali, insomma di come gestivi, o meglio regalavi il tuo corpo. Ho voluto credere, sbagliandomi di grosso, che dalla morte di tua madre, anche tu potessi crescere ed imparare i valori su cui una società dovrebbe fondarsi, ma non è stato così. Anche se riuscissi a perdonarti, in fondo gli hai fatto solo un pompino con l'ingoio, per te una quisquilia, non riuscirei più a baciarti, a toccarti, avrei sempre quell'immagine di te che torni indietro con la testa per laccargli lo sperma, quello che non ti è finito in gola. Per me sei carne guasta, l'unico rammarico è di aver perso Veronica per una nullità come te, ho un buon amico psicologo che potrebbe aiutarti. Guccini cantava, molti anni fa: "Ognuno vada dove vuole andare, ognuno invecchi come gli pare, ma non raccontare a me che cos'è la libertà", libertà non vuol dire svendersi e scoparsi mezza popolazione maschile della città, spero che un giorno te ne renderai conto. Se penso a cosa ho perso per rimanere con un pugno di sabbia in mano. E vai a lavarti i denti» e poi ridendo ha proseguito: «non serve che usi il dentifricio, quello ce l'hai già in bocca.» Ho cercato di dire qualcosa ma lui non mi ascoltava più e canticchiava le frasi di quella canzone di Guccini. «Adesso sie veramente sola, ma con le tue arti di seduzione da escort, e le tue doti manipolatorie di far credere di essere quello che non sei, non farò in tempo a portare via la mia tutta la mia roba, che ci sarà un altro con la valigia in mano. Se a te la vita piace così non vorrei mai rinascere in un tuo figlio se fossi induista. Dimenticati della mia esistenza, sono stato un ologramma, un brutto miraggio per te, ma sono magnanimo e ti auguro di cambiare in meglio.» E così piangendo divorata dai sensi di colpa e consapevole di aver distrutto la cosa più bella che avevo, gli ho visto chiudere la porta ed andarsene per sempre dalla mia vita. Un pomeriggio di una settimana dopo, suonano alla porta e aprendo vedo Veronica che mi dice: «Sono venuta a prendere la cose di Matteo, mi ha detto che le hai preparate, posso?» L'ho fatta entrare, ha preso i due borsoni di Matteo e prima di uscire ha aggiunto: «Per fortuna si è reso conto in tempo, prova ancora a cercarlo e stavolta te la vedi con me, tu meriti solo la solitudine, almeno così non fai del male al prossimo. Buona giornata». Sono andata alla finestra e, proprio nel posteggio del fattaccio, c'era la macchina di Matteo, e lui con il portellone aperto che aspettava Veronica per caricare la roba. Mi ha guardato e mi ha fatto un saluto militare, con la mano destra portata vicino alla tempia, ed io incrociando i suoi occhi blu cobalto non ho potuto far altro che piangere.
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