Chiara (parte 2)

di
genere
sentimentali

Vale la premessa degli altri miei racconti: non sono brevi e non vanno subito "al sodo". Anche per questo ho scelto la categoria "sentimentali" perché non concepisco (più) un principio di relazione bdsm senza i sentimenti. Ma c'è anche il bdsm, o almeno un suo accenno. Buona lettura a chi leggerà. Potrei fare una parte 3, ma dipende.

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La notte, ormai inoltrata, si è fatta silenziosa e sostanzialmente vuota. Chi non dorme sta rientrando da qualche festa o da un lavoro nella ristorazione: i primi con un atteggiamento ciondolante e soddisfatto, i secondi col passo svelto e la faccia stanca di chi ha lavorato mentre gli altri si divertivano e vuole mettersi a letto il prima possibile. Ogni tanto si sente avvicinarsi e poi sfumare il rumore di un’automobile, in lontananza il suono intermittente e sbavato della sirena di un’ambulanza. C’è un vecchio che ha portato fuori il cane, un canetto di taglia media, con la faccia intelligente e gli occhi espressivi che si ferma, mi guarda, muove la coda quando gli dico Ciao, poi guarda il padrone che ha proseguito la passeggiata e lo raggiunge trotterellando prima di essere rapito dall’odore di un’aiuola, più avanti. La brezza notturna è gradevole, così come il mio stare qua, appoggiato al muretto che sostiene la ringhiera di metallo della casa da cui sono uscito, in attesa che esca Chiara. Guardo brevemente la porta d’ingresso, poi torno a consultare il cellulare. C’è un messaggio del Capitano, che dice, come sempre ignorando la possibilità di una punteggiatura, Oh scusatemi stasera non sono riuscito a passare alla fine ciao ci vediamo domenica per il match. Ce n’eravamo accorti. Ma fa niente, Cap. Gli risponderò domani. Chissà come la prenderebbe, che consigli mi avrebbe dato il Cap, se gli avessi fatto la stessa domanda che ho posto prima a Michele. Mi avrebbe fatto la paternale, del tipo Con la donna di un compagno di squadra non si fa, rovini lo spogliatoio? O mi avrebbe incentivato ad andare fino in fondo, in nome della complicità che pensa ci leghi da oltre dieci anni?

Regrets collect like old friends
Here to relive your darkest moments

Nell’attesa ho messo le cuffie e ascolto la mia playlist. Sono già alla terza canzone, ma di Chiara non c’è traccia. Mi devo preparare, prendere due cose, ha detto. Pur non conoscendola per niente, immaginavo che sarebbe andata a finire così: con lei che fa una valigia da viaggio intercontinentale, mettendoci dentro molta più roba di quanto non le serva per una semplice gita fuori porta. Ma va bene così, va bene qualunque cosa, stasera. Non mi sentivo così bene, così attratto da una ragazza da parecchio tempo. Potrei provare a concentrarmi sul modo in cui affrontare questa situazione con il buon Fede, ma non è un momento di particolare lucidità e comunque non mi va. Chiara si è affidata al mio buonsenso, e io ho fatto di tutto perché si affidasse a me, in generale. Dovrò trovare un modo ma ci penserò domani. O dopodomani. Un rumore tra il metallico e l’elettrico mi annuncia che qualcuno ha attivato l’apertura del portoncino d’ingresso. Spengo la musica mentre risuonano le ultime note di Florence - un’altra rossa, lei sì britannica - mi tolgo le cuffie, mi stiracchio. Non ho più l’età per fare le due, penso. Dieci anni fa sarei stato pronto a giocare domattina alle dieci, il tempo passa. Per fortuna ho tutto domani, per recuperare. Già, domani: le ho promesso un piatto di spaghetti con le vongole in Riviera, una cosa di cui avevo voglia da tempo. Poi torneremo qua, probabilmente dormiremo insieme e domenica la saluterò per andare a giocare la partita di ritorno della Coppa. Abbiamo fatto uno a uno all’andata in casa nostra, ho segnato su un rigore che secondo me non c’era, domenica dovrò salutarla e forse lasciarla a poltrire nel mio letto, prendere la sacca e farmi trovare alle undici in punto allo stadio: poi pullman con la squadra, direzione la Bassa, per questa benedetta partita, le solite botte e le solite corse a vuoto, doccia, pullman, macchina fino a casa. Se ci penso mi cascano le braccia e anche i maroni. Ma ora, in prospettiva, c’è solo stanotte: c’è Chiara che sta scendendo le scale, ci sono le sue gambe da scoprire piano, la sua timidezza di cui eccitarmi e intenerirmi, il profumo della sua pelle e quello di shampoo dei suoi capelli che impregneranno le mie lenzuola. E va benissimo così, non c’è modo migliore di finire una serata.
Il portone si socchiude, eccola che esce, preceduta da una grossa busta di carta spessa, bianca, di quelle dei negozi di abbigliamento. É vestita come prima, ma si è messa addosso una giacchetta di jeans avvitata. E a tracolla una borsa che sembra piena fino ai limiti strutturali.
Mi vede e sorride, sorrido a mia volta.
“Dimenticato niente?” Chiedo, sperando colga la vena sarcastica.
“Non prendermi in giro. Sono una ragazza. Ho bisogno di più roba”.
“La borsa e la busta? Dai, dammela, porto io”.
Si avvicina, si alza sulle punte e mi stampa un casto bacio in bocca. Avevo dimenticato il piacere di queste cose, nelle mie ultime vicende di letto non c’era mai stato spazio per casti baci sulle punte. Stasera l’alcol mi è andato in tenerezza, oppure è lei a farmi questo effetto.
“Non serve che porti te”.
“Serve. Sono di un’altra generazione. Faccio ancora queste cose”.
Mi porge la busta, ha gli occhi allegri.
“Sei vecchio, ma non così vecchio. E ancora piacente. Grazie che porti la busta, allora.”
Avrei voglia di morderle quello splendido collo bianco latte.
“Cosa c’è dentro la busta?”
“Non guardare!”
"Se me lo dici così guardo per forza”.
“No dai, non guardare. E’ il vestito per domani. Mi porti sempre al mare?”
“Certo. Ti sei portata una cosa elegante? Guarda che io ho o jeans e magliette, o i completi da ufficio. Niente vie di mezzo”.
Non è vero, credo di possedere solo un paio di jeans. Metto quasi sempre pantaloni sportivi, ma quasi mai i jeans. E ho una marea di polo ereditate dai tempi in cui giocavo a golf.
“No niente di elegante. E mi piacerebbe vederti col completo blu da ufficio, ma saresti vestito meglio di me e non puoi, non si fa”.
Sospiro fingendo disperazione ma questi dialoghi mi mancavano, altro che.
Ci avviamo verso casa mia, lei mi segue con un passo incostante, prima accelera poi si ferma per dirmi una cosa, poi rallenta e si perde a guardare un portico, un terrazzo. E’ chiaramente eccitata, felice, fremente per la situazione inattesa, e segreta, e per quello che l’aspetta. Io sono abituato a camminare a un passo rapido e costante, bisognerà che me ne occupi, di educarla a camminare come si deve, ma c’è tempo. C’è tempo. Neanche la conosco, l’ho baciata mezz’ora fa e mi sto già proiettando nel futuro. Se continua così, prima dell’alba inizierò a maturare un desiderio di paternità, bisogna che mi calmi. Arriviamo a un semaforo lampeggiante, riesco ad afferrarla per un braccio prima che Chiara attraversi mentre sopraggiunge un ciclista lanciato a tutta velocità.
“Evitiamo di farci investire, che dici?”
Mi guarda con un’espressione birichina. La prendo per mano, attraversiamo la strada insieme.
“Scusa, ma da quando hai detto che… che vuoi guidare… intendo nella relazione… ho abbassato ogni difesa e cammino senza pensare, come se mi portassi tu”.
“É una cosa carina, ma restami comunque vicina e prima di attraversare un’occhiata la diamo lo stesso, ok?”.
Ride.
“Sei tu che vuoi guidare!”.
“E lo confermo. Appunto dico: resta vicina, e aspetta un impulso. Finire la serata al pronto soccorso, eviterei”.
“Non faccio niente senza un impulso, sissignore” risponde lei reggendomi il gioco: “o no, aspetta, come si dice?”.
“Come si dice cosa?”
“Non signore ma…” resta pensosa, lo sguardo rivolto al cielo di una che si sforza di cercare la parola giusta.
Sta pensando a quello che penso io? Alla dominazione e al suo gergo?
“Padrone? Volevi dire padrone?”
Arrossisce, abbassa lo sguardo e scoppia in una risata soffocata e imbarazzata, fermandosi di nuovo.
“Eh… sì, si dice così?”
Bentornata, erezione. Mi mancavi, da dieci minuti fa.
“Dipende da chi lo dice e in che contesto” rispondo, poi scuoto la testa: “ma dove l’hai sentito dire?”
É chiaramente in imbarazzo, con l’aria di una che l’ha detta grossa.
“Ma no, l’ho solo letto. Non me l’ha detto, cioè… non l’ho mai detto a nessuno”.
“E dove l’hai letto?”
“Ora… ora mi vergogno, però”.
“Non ti devi vergognare di niente. E comunque ne parliamo davanti a una tisana, dai. Ti va una tisana, quando arriviamo a casa, o è troppo una cosa da vecchi? Siamo quasi arrivati”.
“Mi va. È una cosa da vecchi, ma mi va” ride.
L’appartamento in cui vivo è all’ultimo piano di un palazzo costruito negli anni Quaranta. Non c’è una gran vista, ma nelle serate pulite si vedono i colli. Apro il portone e la faccio passare, entro a mia volta e richiudo. L’androne e la tromba delle scale sono bui e silenziosi, si percepisce solo il ronzio dell’ascensore fermo al pianterreno.
“Dov’è l’interruttore?” Chiede Chiara in un sussurro, per non disturbare.
“Non ci serve la luce, ti porto io”.
Ho risposto istintivamente, e mi rendo subito conto che è la risposta giusta. Faccio un passo nella sua direzione, mi incollo a lei, da dietro. Le passo il braccio libero dalla busta attorno alla vita, la traggo a me, facendomela aderire con la schiena al petto, il sedere contro il mio pube. Non le vedo, ma so che le sue gambe sono quasi contenute in mezzo alle mie. E’ una posizione che adoro: ti copro le spalle, ma ti faccio anche capire che ti tengo qua, ferma. Contro di me. Si lascia fare, lanciando solo un lievissimo mugolio di sorpresa. Le parlo in un orecchio:
“Ecco, così. Un passetto alla volta, ti porto avanti io. Non devi fare altro che farti guidare”.
Ho le narici inondate dal suo profumo, mi gira quasi la testa. Il contatto col suo corpo fresco e morbido, femminile, ha riattivato tutte le mie sinapsi erotiche. L’atmosfera rarefatta e silente, anonima, del ventre di questo palazzo, del mio palazzo, e lei tutta sola con me, al buio.
“Se fai la brava, ti porto io”.
“Devi per forza. Non vedo niente” ridacchia appena, ma si sente che anche a lei, a parte la sorpresa e l’imbarazzo, è una cosa che piace. Si è lasciata immediatamente andare, è rilassata e ubbidisce ai miei movimenti, senza scostarsi di un millimetro. Un passo avanti, poi un altro. Arriviamo all’ascensore, che purtroppo ha una lampadina che si accende quando apri la porta. Decido che può attendere. Lascio cadere la busta, me la rivolto fra le braccia e l’incollo al muro, tra il muro e me, sovrastatola e cercando subito le sue labbra. La bacio quasi con furore, restandole incollato, afferrandole il sedere con le mani e tenendola stretta contro di me, mentre mi struscio e la bacio. Respira col naso, affannata, ma non cerca di sfuggirmi. Si lascia baciare e palpeggiare, docile, accettando i miei baci e baciandomi a sua volta ogni volta in cui mi stacco per riprendere fiato.
“Aiuto” sussurra.
“É quello che ti meriti”.
"Lo penso anch’io” risponde, e dal tono di voce so che sta sorridendo: “e se arriva qualcuno?”.
“Non arriva nessuno. Ma comunque ti porto su, non ti prendo qua nell’androne”.
Percepisco un lievissimo fremito di delusione, o forse è solo una mia impressione. A un sacco di gente piace farlo nei posti in cui puoi essere scoperta, non so perché abbiano questa fantasia. A me piace invece proprio l’idea di non poter essere scoperti, l’idea di una porta chiusa a chiave, noi due dentro e il resto del mondo fuori, ignaro e distante. Son poi gusti personali.
Mi stacco, afferro il manico della busta.
“Chiudi gli occhi” le dico.
“Oh, wow”.
“É per la luce. Nell’ascensore c’è la luce. E ti sei appena abituata al buio. Lo dico per te”.
“Non mi bendi…?”
Chiara, Chiaretta, tu non hai idea di quali corde stai toccando. Di quali cassetti della memoria e dei desideri stai spensieratamente aprendo. Vuoi essere bendata? Vuoi essere legata? Ne sei sicura? Adesso ne ho voglia, ovviamente, e ho voglia di lei. Di tutta quanta lei, anche dei suoi dubbi e delle sue ingenuità.
“Vieni qua” le dico, e me la rimetto nella posizione di prima, la schiena contro il petto. Le metto una mano sugli occhi, a mo' di benda, e la trascino piano verso l’ascensore. Ne apro la porta di ferro battuto, l’odiosa lampadina si accende accecandomi per un momento, ma lei è contro di me, con la mia mano gli occhi, ubbidiente, che sorride e si lascia spingere dentro. Lascio che la porta si richiuda alle nostre spalle poi premo il pulsante del quinto piano. Con uno sferragliare meccanico si attivano le due ante automatiche e, dopo il consueto breve sobbalzo l’ascensore si mette in moto, scricchiolando e salendo grazie al suo cavo d’acciaio. Chiara è immobile, promana un afrore che attiva con sistematicità scientifica tutti i miei recettori ormonali. Dalla posizione in cui sono ho una vista che scivola dalla punta del suo naso al suo candido décolleté, perfettamente esposto. Se avessi l’altra mano libera e non occupata da questa minchia di enorme busta bianca, ce l’avrei già infilata e mi starei appropriando dell’irresistibile morbidezza dei suoi seni chiari, da damigella del Settecento. O almeno io le immagino così, le damigelle del Settecento. Probabilmente mi sbaglio, non avevano tutte i seni ben fatti, nel Settecento. Mi chino a darle un morsetto alla base della nuca, proprio dietro all’orecchio destro. Ha un brivido ed emette un mugolio di finta protesta, ma mi resta incollata. Arriviamo al piano, le ante a soffietto dell’ascensore si aprono, mi volto portandomela dietro, e spingendo il cancello dell’ascensore con la schiena. Quando la porta si richiude dopo il nostro passaggio, finalmente si spegne anche la luce. Chiara ha sempre la mia mano sugli occhi e non ha detto una parola. Arretriamo, sempre incollati, fino alla porta di casa mia. Ci muoviamo un po’ goffi, tra la busta e la sua borsa, e forse per uno che ci guardasse da fuori sembreremmo quasi buffi, ma è l’ultima cosa di cui m’importi in questo momento. Appoggio la busta per terra, mi frugo in tasca per cercare le chiavi, le estraggo, le inserisco, le faccio freneticamente ruotare nel cilindro fino all’ultimo scatto della serratura. Nel silenzio assoluto della tromba delle scale, e della notte, sono rumori fastidiosi. La trascino dentro casa sempre incollata a me come se fosse un ostaggio. E poi finalmente chiudo la porta, la chiudo piano, più piano possibile, perché in questo momento mi danno fastidio sia le luci che i rumori e vorrei che tutto fosse ovattato, che tutto fosse solo contatti sconvenienti, profumi e ombre che si cercano. Chiudo a chiave, mi metto la chiave in tasca. Chiara probabilmente non se n’è accorta, ma io me ne sono gustato ogni istante. Chiudere la porta dietro di noi, chiuderla a chiave e mettermela in tasca.
“Le scarpe” le sussurro.
“Come?”
“Le scarpe. Togli le scarpe”.
“Oh… certo” risponde lei, dopo che le ho tolto la mano dagli occhi, permettendole di muoversi. La casa è in penombra, trafitta in qua e in là da tenui raggi lunari e dal riverbero delle luci della città. C’è la quantità di luce assolutamente perfetta e presto i nostri occhi si abitueranno ancor meglio, senza bisogno di essere investiti dalla violenza di una lampadina elettrica.
“C’è la regola delle pattine?” Chiede, scherzando.
Viene da ridere anche a me.
“No, splendore. Ma ti voglio scalza”.
“Mi piace che mi chiami splendore. E se mi vuoi scalza, starò scalza”.
“Così non scappi, capisci?” Le sussurro, abbracciandola di nuovo da dietro.
“Non ho alcuna intenzione di scappare”.
Il suo sedere a contatto col mio pube, che muovo pianissimo verso l’altro, strusciandoglielo contro. Non vedevo l’ora di averla tutta sola con me, di poterla esplorare tutta, con calma. Ma voglio prolungare il momento, perché so che sarà uno dei momenti più belli, uno di quelli che resteranno per sempre nelle memorie di entrambi. La nostra prima volta. Non devo avere fretta, devo gustarmi tutto.
“Non si sa mai. Magari provi a fuggire e sono costretto a bloccarti, e tenerti qua. Tenerti tutta qua, vedi? Qua contro di me, da brava”.
“Faccio la brava…” risponde in un sussurro: “ho ubbidito. Mi sono tolta le scarpe”.
“Brava”. La bacio sul collo, poi me la giro tra le braccia e ci baciamo in bocca, l’abbraccio e mi abbraccia, finiamo di nuovo contro un muro, lei stretta tra me e la parete, mentre le nostre lingue si cercano e si trovano, imparano a conoscersi. Abbiamo lo stesso ritmo nel baciarsi, o forse sono io che le impongo il mio, fatto sta che mi sembra che Chiara baci benissimo, e di baciarla benissimo. Chissà se è davvero una faccenda di ritmo, o se è solo che la voglio, che mi piace da morire.
Calcio via anche le mie scarpe, mi stacco da lei, che rimane con la schiena addossata alla parete, ferma immobile. Adesso la vedo meglio, e vedo soprattutto il biancheggiare della pelle delle sue spalle e del suo décolleté. L’aiuto a liberarsi dalla giacchetta di jeans, poi le sbottono piano due bottoni della maglietta di cotone, dicendole di non muoversi, di stare ferma, di fare la brava. Sorride appena, si morde il labbro inferiore, ha qualche minuscolo brivido ma resta immobile, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Le scosto appena i lembi della scollatura con la punta delle dita, carezzandole l’incavo tra i due seni. Poi inizio a baciarla in bocca, sul collo e scendo giù, pianissimo, sfiorandola appena con le labbra, fino a carezzarle i seni. Ha la pelle liscia come sembrava e il profumo è quello suo, quello che ha sul collo, ma ancora più buono perché più tiepido e meno secco. Le bacio la parte superiore delle tette, senza scoprirle del tutto e carezzandole appena con le due mani, da sotto, ad afferrarle dolcemente, senza stringere. Emette un leggero rantolo, poi respira più forte con la bocca. Mi bacia tra i capelli, mi sussurra:
“Mi sembra di non avere il controllo di niente. Ma non mi fa paura… è solo.. strano”.
Sollevo la testa e la bacio sulle labbra.
“Fino a un’ora fa non ci eravamo mai sfiorati, splendore. Ci può stare. Ma non c’è fretta, sai? Ti voglio, ma non devo necessariamente correre”.
“Mi sa che… mi sa che puoi fare quello che vuoi. Non ci sto capendo molto, tranne che mi piacciono i tuoi baci e le tue mani addosso. Magari fai… fai piano, ok?”
“Sai cosa sei, tu?” Le chiedo, in tutta risposta.
“Oddio… no… sentiamo?”
“Aggraziata”.
Non credo si aspettasse questa definizione. Magari pensava a qualcosa di più porco, a una qualche dichiarazione d’intenti.
“A… aggraziata?”
“Aggraziatissima. In tutto quello che dici e fai. Ora ho capito perché mi piaci. Sei impermeabile alla volgarità. Sei graziosa anche quando sbagli a attraversare la strada. Quando chiedi di essere bendata. Quando chiedi di essere… dominata”.
“Non credo di aver mai ricevuto un complimento così bello. Nè di averti detto di voler essere dominata, ma se ti va di farlo, non mi opporrò”.
“Lo segnali con tutto il corpo in ogni momento. E poi non sei tu quella che voleva dire padrone, poco fa?”
“Adesso mi imbarazzo di nuovo”.
“Ti sto baciando e di ho appena toccato le tette. Penso che potremmo superare la fase dell’imbarazzo, che dici?”.
“Sono una ragazza timida…” lascia cadere, prima di darmi due bacetti in rapida successione. Non pensavo sapesse giocare così bene sui registri della provocazione. Le bacio di nuovo il seno.
“Dovremmo stabilire alcune regole, mi sa”, riprendo. Chiara attende in silenzio, sempre contenuta tra me e il muro, con un piccolo sorriso sulle labbra e gli occhi che seguono i movimenti lenti delle mie dita, che le carezzano piano le braccia e poi i seni. “Anzitutto il reggiseno. Il reggiseno, no. Non quando sei qua dentro con me. Puoi tenere la maglietta, puoi tenere un vestito, ma non hai alcun bisogno del reggiseno. Da ora in poi è vietato”.
“Oh… beh… se è vietato…”
Porta le mani dietro la schiena, armeggia un attimo con la chiusura, poi fa cadere le bretelline ora da una spalla, ora dall’altra, porta le braccia al petto, ne sfila il reggiseno, senza togliersi la maglietta con lo scollo a v. Poi infila una mano in mezzo ai seni e si libera del reggiseno. E me lo porge.
“Questa è una regola che mi piace, odio portare il reggiseno quando sono in casa”.
Lo appoggio sul mobiletto su cui di solito appoggio il portafoglio e le chiavi, quello dell’ingresso. Le carezzo di nuovo i seni, dall’esterno del vestito, prendendomi tutto il tempo che ci vuole per metterla a suo agio, per farla sciogliere. Le sfioro un capezzolo, finalmente libero. Le tette le stanno su, sono naturali, morbide e piene, ma ben sollevate. Non saprei dirne la dimensione esatta in taglie, ma sono della misura che mi piace, non troppo grandi né troppo piccole. Non vedo l’ora di toglierle la maglietta. E tutto il resto.
“La vuoi ancora, la tisana?” Le chiedo.
“Mi sa di no… Ma fai piano, ok?”
Ci baciamo.
“Regola numero due: anche le mutandine sono vietate. Così come i pantaloni. Qua da me puoi mettere la gonna, puoi mettere i calzini, puoi mettere vestiti corti o lunghi, felpe e simili, in base a quanto sei freddolosa… ma niente reggiseno, niente pantaloni né mutandine. Devi essermi sempre accessibile”.
“Accessibile?”
“Esattamente. E sentirti offerta. Anzi, esserlo”.
“Credo che mi piaccia”.
“Penso anch’io. Ripetimi le prime due regole”.
“Mi… mi stai dominando?”
Ha ragione, non l’abbiamo formalizzato. Non era neanche mia intenzione farlo, ma sta succedendo tutto in maniera naturale, quasi senza che me ne accorgessi.
“Direi proprio di sì”.
“Ah… è così che funziona?”.
Rido, mi allontano di qualche centimetro per ritrovare il pieno controllo di me.
“Come se non lo sapessi. Furfantella. Hai pure detto che l’hai letto, smetti di fare la finta innocente. Cosa hai letto, quella immane boiata delle sfumature di grigio?”
Ride. “L’hai letto? Ammettilo”.
“Mi vergogno! Ma sì, l’ho letto”.
“Dimmi che non ti è piaciuto, ti prego”.
“Non mi è piaciuto, padrone” ride.
“Non era dominazione questa, era davvero una domanda, splendore”.
“Ah… beh… la scrittura no. Non mi è piaciuta. Però il contesto… cioè erano anni che… che questa cosa un po’ la percepivo istintivamente, che mi sarebbe piaciuto provare…”
“Amore mio” mi è uscito così, amore mio, gratis: “quell’immane boiata soft-core anglosassone basata su meri rapporti di classe non definirà in alcun momento la nostra relazione, e su questo sono categorico”. L’ho detto in un sol fiato e con un tono così inutilmente paternalistico, che mi scappa da ridere anche a me.
“Signorsì signore” risponde lei: “Ma perché classista? Ad anglosassone ci arrivo”.
“Perché lui è ricco, dai. Ricco e viziato, lei giovane e squattrinata. E non c’è niente di una vera relazione… tra un dominante e una sottomessa… cioè sembra il teatro dei pupi, dai. Tutti piatti, tutti che fanno cose. Allora piuttosto Secretary”.
“Secretary?”.
“Il film. Con quella bella e intelligente, come si chiama? Quell’attrice che ha il fratello che è attore anche lui”.
“Devo ingelosirmi?”
“Dai, come si chiamano. Gillen-qualcosa”.
“Maggie Gyllenhaal?”
“Lei. Brava”.
Siamo ancora uno di fronte all’altra, nella penombra del mio ingresso, e stiamo parlando di cinema e letteratura erotica. Forse sto esagerando.
“Dai, vieni” le dico e la prendo per mano. Mi segue fino in soggiorno, l’abbraccio da dietro portandola di fronte alla finestra: “si vedono i colli, stasera, guarda”
“E’ bello. Ma tu ne stai approfittando per distrarmi e toccarmi le tette”.
É esattamente ciò che sto facendo, in effetti. Da dietro mi viene anche più naturale. La bacio sul collo, senza smettere di toccarla, si lascia fare e sussurra solo “è un bel film?”.
“Secretary?” Rispondo, interrompendo un attimo il palpeggiamento, per poi riprendere più piano: “sì, non è male. E più che altro descrive un rapporto D/s senza schematismi e facendo capire che non c’è uno che comanda, frusta e se ne frega, ma che sono due persone che hanno bisogno l’una dell’altra, indipendentemente dai ruoli. Che è fondamentalmente una storia d’amore. Altrimenti è solo ginnastica, no?”.
“Non so… non l’ho mai fatto. Tu sembri più… esperto”.
Eccome se lo sono. Di fallimenti, senza dubbio. Di storie nate male, o mai nate, di giochi con corde e manette, con frustini e con gente per cui non provavo niente, o che non provava niente per me. Un baratro di delusioni che mi hanno fatto allontanare da un universo in cui ero entrato con l’entusiasmo dei miei vent’anni, allora. I sedicenti master incapaci di usare un congiuntivo, quelli con la panza, quelli che volevano farsi dare del lei, quelli che si sentivano belli virili con l’estetica tutta cuoio tipo gay di San Francisco, le tipe volgari e assatanate, quelle brutte che non trovano niente di meglio che il bdsm, quelle che volevano farsi pagare e un paio di matte vere, nel senso proprio tecnico, da cui ero fuggito appena possibile. Le poche serate carine e le molte serate squallide. Centinaia d’immagini e di momenti di fondamentale imbarazzo, più per loro che per me. Una sola storia bella, ma impossibile, con l’unica sottomessa che mi sia mai stata antropologicamente compatibile. Eccome, se sono esperto, mia splendida Chiara. Preziosa, deliziosa Chiara.
“Solo un po’. Ma non si tratta di essere esperti, alla fine. E’ un fatto di sentimenti. Tutto qua. O funziona o non funziona”.
“Io spero che funzioni, tra di noi” si volta e mi bacia in bocca: “abbiamo fatto un gran casino, deve funzionare”.
Sorrido, scuoto la testa: “Cazzo, sì. E tu mi piaci un sacco. E non vorrei mandare tutto a puttane”.
Una nuvoletta le passa sugli occhi: “In che senso?”
“Che non so se voglio davvero che costruiamo una relazione così. E non so se lo vuoi tu. Ma possiamo esplorarlo. E comunque non ti sei ancora uniformata alla regola numero due”.
“Oh… merito una punizione?”.
Sospiro: “non mi provocare, splendore”. Le do una piccola sculacciata, poi un’altra, ma piano, e finisco subito per palparle il sedere.
“Devo ricordarmi di essere disubbidiente più spesso” ride Chiara, accettando di buon grado il contatto. Poi solleva l’orlo della gonna, v’infila sotto le mani e - senza mostrarmi granché, anche perché qua dentro è quasi buio - afferra l’elastico degli slip, lo allarga e li abbassa fino alle ginocchia, per poi lasciarli cadere per terra, attorno alle caviglie e ai piedi scalzi.
“Guai a te se ti muovi” le sussurro. Obbedisce.
Riprendo a baciarle il collo da dietro, e a stringerla contro di me. Sapere che adesso è nuda, sotto la gonna e la maglietta di cotone, ha riacceso un desiderio difficilmente controllabile. M’inginocchio dietro di lei, le ginocchia appoggiate ai lati dei suoi piedi e prendo a carezzarle le caviglie, e poi su, le gambe, le ginocchia e finalmente le sue splendide cosce bianche, che bramo da ore. Ma non oltre. Non la scopro fino in fondo. Le faccio sollevare un piede, poi l’altro e la libero dagli slip, lasciando che la gonna scenda di nuovo a coprirla fin quasi alle ginocchia. Mi rialzo, incollandomi di nuovo contro di lei, da dietro. Le faccio ruotare la testa e la bacio in bocca mentre le infilo la mano destra sotto la maglietta, le carezzo il ventre, piatto ma morbido e poi salgo su e le tocco per la prima volta le tette, nude sotto al palmo della mia mano aperta. Si lascia fare tutto, ma poi riesce a voltarsi e ad incollarsi a me, guardandomi in faccia. Cerca le mie labbra, si fa baciare ancora più intensamente e profondamente e lascia che la stringa a me e le tocchi il sedere. Me la prendo in braccio, si avvinghia a me con braccia e gambe mentre la porto sul divano, ve l’adagio e poi mi metto sopra di lei, tra le sue gambe, e la bacio di nuovo, mentre mi tolgo la t-shirt. Mi carezza le spalle e i capelli mentre le sollevo la maglietta e prendo a baciarle e leccarle le tette, che sono bianche e rosa come speravo fossero, e con l’aureola chiara e i capezzoli morbidi, poco pronunciati. Le bacio il ventre e infine scendo a prendermi tutto il profumo e il sapore delle sue cosce e di quello che c’è in mezzo. La bacio, la lecco. E’ buona. Lei solleva le ginocchia in aria, emette dei mugolii e delle timide proteste, ma l’unica cosa che ascolto, ormai, e che m’interessa, sono le vibrazioni del suo corpo. La lecco per tutto il tempo necessario a iniziare a capire come le piace essere leccata e mi tolgo i pantaloni, e i boxer aderenti, solo alla sua ennesima supplica di farlo, di prenderla.
“Vieni su! Prendimi e basta, ti prego. Voglio… voglio che mi prendi adesso…”
Le entro dentro con facilità, non vedeva l’ora come non la vedevo io. Ci baciamo e la sua richiesta “Metti un profilattico?” È annegata dai miei baci e dai miei sussurri. Le blocco i polsi sopra la testa con la sola mano sinistra mentre con la destra le carezzo e palpeggio il sedere, o la coscia sinistra, da sotto, mi muovo sempre più forte dentro di lei dicendole “Mai… con te mai… non lo metterò mai”.
Sbarra gli occhioni, stupita ma poi sorride dicendo “Prendo la pillola… ma sei cattivo…” ma ormai è fuori controllo anche lei, e non si torna indietro.
Le esplodo dentro mentre la sto baciando, scosso da almeno tre colpi che mi percorrono la schiena e le gambe. Il miglior orgasmo da anni e anni. Non avrei rinunciato a venirle dentro per niente al mondo. Proseguo a muovermi fino a quando mi bacia e mi dice: “Sono… sono già venuta prima… diverse volte, in realtà… già quando mi leccavi e anche quando sei entrato” e sorride. E fa bene, altrimenti sarei andato avanti per disciplina e per il piacere di darle un orgasmo.
“Sei… bravissimo”.
É evidentemente una serata in cui la mia autostima deve raggiungere nuove vette.
“Sei splendida. Sei una cosa incredibile, e inattesa” le dico, tra un respiro affannato e l’altro. Ci baciamo.
“Ora ti porto a letto, lasciami il tempo di riprendermi” aggiungo, crollandole addosso con tutto il peso.
Ride, mi bacia la fronte imperlata di sudore e mi carezza i capelli.
“Fammi quel che vuoi. Non c’è fretta. Non ho le forza neanche io.
Lo sai, comandi tu”.
scritto il
2025-01-15
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