Due matrimoni

di
genere
corna

Premessa: mi piace scrivere a lungo, e non andare subito "al sodo". Le parti esplicite ci sono, ma non ho fretta di arrivarci. Racconto quindi inadatto a chi cerca subito descrizioni anatomiche e simili. A tutte le altre e gli altri, buona lettura. Ne ho scritti altri, dovesse piacere.

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Non ci volevo neanche venire, qua. Se c’è una cosa che mi scoccia, quasi più che lavorare, è andare ai matrimoni. E non contano l’età o la qualità degli invitati, mi scoccia comunque. Doversi preparare, vestire bene, stare ore e ore ad assistere a un evento irrilevante in mezzo a gente di cui tutto sommato non t’importa niente. In questo caso, mettici anche il viaggio di andata e quello di ritorno, in auto, perché per questo matrimonio è toccato persino farsi due ore di auto per arrivare qua, nel mezzo della più insignificante campagna francese, perché Sylvie, la futura sposa, l’amica di mia moglie, viene da qua e ha imposto al futuro marito di sposarsi qua. Lui è greco. Immagino la gioia della famiglia greca che è dovuta andare all’aeroporto di Atene, volare tre o quattro ore per arrivare allo Charles De Gaulle ieri sera, treno per la Stazione Nord, letto in albergo a buon prezzo, e due ore di macchina stamattina per venire in Piccardia, cioè nel nulla cosmico. La Piccardia non emette le vibrazioni della regione parigina, non è la Loira con la sua storia, non è la Borgogna né lo Champagne coi loro vini e la loro borghesia di campagna, non ha neanche la dignità di una Normandia: è una specie di Nord che non ce l’ha fatta neppure a diventare Nord. Montdidier, un paesino rurale nel mezzo della campagna, con un solo hotel gestito da una famiglia rumena che non si capisce come sia finita a Montdidier, le cui camere sono tutte occupate dai parenti degli sposi. Ho miracolosamente trovato una piccola casa in affitto per stasera, dato che la festa finirà tardi e sarà inevitabilmente alcolica e mettersi in viaggio subito dopo per tornare a Parigi sarebbe poco prudente. Arriviamo nella piazza del comune - dove ci sono anche le panetterie, la posta, l’immancabile locanda e le ancor più essenziali macelleria e il negozio di formaggi e terrine di vario tipo. La chiesa in cui si celebrerà la seconda parte del matrimonio - come da tradizione giacobina - è qualche strada più in là, ben separata dal Comune. La signora del bed & breakfast ci aspetta proprio davanti all’edificio del Comune, esattamente sotto la bandiera tricolore. E anche lei appare francese e di campagna, fin nel midollo. Ci precede in auto per un paio di minuti e poi ci fa cenno di parcheggiare davanti a una villetta, la stessa che appariva nelle foto sul sito. Espletate le normali procedure e dopo averci recitato una lunga lista d’informazioni irrilevanti, ci saluta lasciandoci un mazzo di chiavi e un post-it con dei numeri di telefono d’emergenza. Finalmente soli, ci spogliamo e iniziamo a prepararci. Io il solito completo blu scuro e la cravatta argentata, d’ordinanza per i matrimoni, Ilaria un vestito di un blu meno scuro del mio, che le lascia scoperte le spalle e verrà completato da uno scialle, corto fino a sopra il ginocchio, calze autoreggenti nere (che non mette mai, non so perché oggi si sia concessa questa eccezione) e scarpe molto luminose, sui toni dell’argento brillante. Mentre mi sistemo la cravatta indugio con lo sguardo sul culo di mia moglie, bianco latte e ben fatto, pieno senza essere grosso. Il suo biancheggiare assieme alla parte alta delle cosce, in contrasto con il nero delle calze, mi risulta quasi ipnotico. Avrei voglia di mordere. O anche solo toccare. O meglio ancora, toglierle anche la culottina nera semi-trasparente e finta innocente, con una fantasia a pois, che si è appena infilata.
“Wow, oggi non lesiniamo niente, vedo…” le butto là.
“Dici che dovrei essere più castigata? Alla fine, che metto le autoreggenti, lo vedi solo te…” risponde con una buona dose d’ingenuità, vanificata dal sorriso malizioso che l’accompagna.
“Sei bona come il pane”.
“Scemo. Non mi piaccio, lo sai”.
Sempre il solito discorso. Che poi è vero che lei magari non si sente una modella, ma dire che non si piace non ha alcun senso. Sa benissimo di avere un corpo molto attraente, con una terza di seno fresca e sostenuta - alla fine Ilaria ha solo 27 anni, due meno di me… - gambe ben disegnate e un visino grazioso, contornato da capelli neri a caschetto. La pelle naturalmente chiara, liscia e senza imperfezioni completano il quadro di una ragazza assolutamente appetibile per chiunque. E a parlare non è solo il mio amore, dato che l’ho sposata meno di un anno fa, ma anche gli sguardi che mi capita d’intercettare da parte di uomini che passano per strada, le mezze frasi che le dicono i colleghi e il giudizio dei miei amici, tutti universalmente concordi nel dire che, nel gioco delle coppie, ho pescato molto bene. Il vestito di oggi, poi, le calza a pennello. La stanza da letto in questa casa in affitto è piccola e poco luminosa, ma tanto non ci passeremo molto tempo da svegli. Prevedo che stanotte arriveremo qua stanchi e mezzi ubriachi, ci spoglieremo in fretta, faremo - spero di averne la forza - l’amore e poi ci addormenteremo come sassi fino a domattina.

Usciamo verso le dodici e trenta, direzione il Comune. La cerimonia avrà luogo inizialmente in Comune, dove l’amica di Ilaria contrarrà matrimonio davanti allo stato francese, una cosa rapida, ci hanno detto; proseguirà poi con la cerimonia in chiesa, come sempre lunga e noiosa e infine ci sarà un breve rinfresco per tutti gli invitati, prima che il gruppo più ristretto - una settantina di persone - si sposti verso una una specie di complesso di case rurali adibito a sala da festa, per la cena e la festa vera e propria. Insomma, siamo partiti per almeno dodici ore d’inferno e di socialità forzata e il mio umore, nonostante l’orgoglio di accompagnarmi a una ragazza così carina (e colta, e simpatica, e…), è decisamente poco gioviale. Non sono un asociale, ma questo genere di eventi mondani mi mettono sempre a disagio e so che mi si vede in faccia, che vorrei essere altrove, e ciò non fa che aumentare il mio disagio, in una spirale negativa attenuata, talvolta, solo dall’alcol.

La sala delle cerimonie del comune di Montdidier è esattamente come ti aspetteresti una sala delle cerimonie del comune di Montdidier: graziosa, piccola, con un impianto audio vetusto, illuminazione non adatta ai servizi fotografici e sedie in parte scombinate per un pubblico che in gran parte è comunque costretto a restare in piedi per la carenza di sedie.

A parte salutare gli sposi e i genitori di lei - che vedo oggi per la prima volta - riusciamo a far conoscenza con un paio di coppie e altre due o tre persone sparse, prima che i discorsi e le formalità amministrative abbiano inizio. La sensazione è che ci sia un numero quasi uguale di giovani della nostra età e vecchi di altre generazioni e pochi bambini - e che comunque il nocciolo duro della festa vera e propria, quella riservata agli invitati come noi, sia soprattutto costituito da gente della nostra età: sui trenta, poco più o poco meno. Parliamo brevemente con un paio di coppie conosciute a Parigi, amici della sposa che abbiamo incrociato una o due volte e poi lo scampanellio che annuncia il nostro turno c’invita a entrare. Arrivati in sala, e dopo aver lasciato che i parenti e gli anziani prendessero posto, ci sediamo a nostra volta, trovando miracolosamente due sedie libere in un angolo della sala, vicino a una colonna. Lascio che Ilaria si segga per prima, poi mi seggo accanto a lei. Alla sua destra è seduto un tizio che ho già visto un paio di volte a qualche festa e che mi è sempre stato istintivamente sui coglioni, non so bene perché. Forse per la barbetta nera finto-incolta, gli occhi scuri un po’ furbetti, due o tre tatuaggi messi sempre strategicamente in mostra, il modo di vestirsi da fighetto parigino, l’appartamento in un quartiere centrale, i racconti dei viaggi in giro per il mondo… insomma il prototipo di quello che ce l’ha fatta o crede di avercela fatta o è figlio di papà e non fa niente per nasconderlo. Ci ha visto arrivare e ci ha salutato col solito sorriso da stronzetto, al quale ho dovuto mio malgrado replicare con un sorriso e una stretta mano. Adesso che ci penso, la seconda volta che l’avevamo incrociato a casa di qualcuno (o forse era a casa sua? Non ricordo), tornando a casa io e Ilaria avevamo avuto anche una piccola discussione: mi ero risentito, o forse un po’ ingelosito, perché entrando in cucina dopo una chiacchierata con altre persone, l’avevo vista chiacchierare con sto tipo - François, si chiama - davanti a una finestra in un angolo della stanza, con tanto di sorrisi e sigarette. E quando mi ero avvicinato per farmi vedere ed eventualmente accendermi una sigaretta con loro (era l’obiettivo iniziale del mio viaggio in cucina) ero stato accolto da entrambi - anche Ilaria - con relativa freddezza, il che mi aveva lasciato addosso una sensazione sgradevole. Più tardi le avevo fatto notare, scherzosamente, che il tipo mi stava antipatico e lei aveva ribattuto dicendo che no, dai, alla fine è simpatico, “non è banale”. Su non è banale mi ero incazzato e avevamo finito per discutere: non un vero e proprio litigio, ma una discussione fastidiosa, prima di andare a letto. Niente di grave, ovviamente, ma rivederlo mi riporta subito alla mente quei momenti - e l’idea che Ilaria si sieda accanto a lui peggiora ulteriormente il mio umore.

Inizia il rito civile, con le varie formule, i brevi discorsi degli uni e degli altri, e io sono già annoiato, per non dire il fastidio di sapere che questo scemo di François può guardare, come lo sto facendo io, le belle gambe di mia moglie, accavallate distrattamente ora che il vestito le è risalito verso l’alto, e addirittura parlarle senza ch’io senta quel che dice: complice l’obbligo di fare silenzio, le poche battute che tutti si scambiano sono scambiate sottovoce, e trovo irritante che il tizio abbia già detto quattro o cinque cose a mia moglie, quasi in un orecchio: e ancor più irritante che lei abbia dapprima sorriso, e in un’occasione addirittura riso, mettendosi una mano sulla bocca per evitare di far rumore. Cosa le potrà mai aver detto di così divertente, quel deficiente? Se c’era un modo per iniziare male il ciclo di noiose cerimonie, feste e festicciole che ci attendono, l’ho appena pescato dal mazzo della mala sorte.
La cerimonia prosegue ed io spero che finisca il prima possibile. François ed Ilaria hanno ancora scambiato qualche parola all’apparenza divertita e, non appena i due protagonisti della giornata vengono proclamati sposi di fronte alla République, ci alziamo tutti.
“La chiesa è qua vicino” dice François, non appena siamo nell’atrio del comune: “facciamo due passi insieme, no? Non vorrete mica prendere la macchina…?”.
Non faccio neanche in tempo a trovare una scusa, che Ilaria ha già risposto per tutti e due: “Ma certo, siamo venuti a piedi, è tutto a walking distance qua…”.
In sé ha ragione, ma m’infastidiscono sia l’anglicismo che l’idea di dover fare due passi a piedi con questo tizio… col rischio che poi, arrivando in chiesa insieme, si resti insieme anche durante la funzione: e poi, cosa? Andiamo a cena allo stesso tavolo? Lo riaccompagniamo a Parigi? Credo che Ilaria si renda conto del mio fastidio da un paio di occhiate che le rivolgo, di sottecchi, perché mentre passeggiamo verso la chiesa in mezzo alla fiumana d’invitati mi si avvicina per chiedermi se va tutto bene.
Tutto bene un cazzo, mi verrebbe da dire, ma mi trattengo:
“Sì sì, tutto ok”.
Troppo laconico.
“Sei sicuro? Hai la faccia nera”.
“Non ce l’ho nera”.
“Beh un po’ sì, ti sei incupito”.
“No non è niente, mi passa, una cosa da niente”.
Le s’illuminano gli occhi, sorride.
“E’ per François?” Chiede Ilaria abbassando al voce per non farsi sentire da lui, che cammina con gli altri verso la chiesa, pochi passi dietro di noi.
Già il fatto che lo chiami per nome mi fa incazzare.
“Mi sta sui coglioni, non è niente”.
“Ma perché? Dai! É simpatico”
Cristo, dì anche che non è banale ed è la volta buona che litighiamo. Faccio una smorfia: “vabbè basterebbe non passare l’intera giornata con lui, magari”.
“Eddai, amore” riprende lei: “eravamo seduti accanto al comune. Siamo qua da pochissimo!”
“Dico solo che non vorrei passarci la giornata, tutto qua”.
Lei ride.
“Ma mica sei geloso? Dai!”
Non lo so cosa sono, e comunque se fossi geloso non lo ammetterei. Provo ad abbozzare: “Ma che geloso, dai, chiudiamola qua”, ma dalla mia espressione dev’essere stato chiaro che per me tanto chiusa non è. Lei mi dà un bacio su una guancia, sorride e camminiamo insieme, in silenzio, verso la chiesa.
Una costruzione in gotico fiammeggiante come praticamente ovunque in Francia, né brutta né bella. Prendiamo posto tra gli ultimi banchi, per non doverci sorbire l’intera funzione e poter sgattaiolare fuori alla bisogna. La cerimonia dura troppo, come sempre: discorsi degli sposi, discorsi dei testimoni, discorsi di amici vari, due o tre discorsi e sbrodolamenti del prete, in latino (in latino! Pure lefevriano?)… non se ne può più. A un certo punto Ilaria mi fa “amore non reggo più, devo fare pipì, vado al bar qua fuori, riferendosi a un minuscolo bar ricavato in quella che sembra una vecchia scuderia, con le travi a vista, non lontano dalla chiesa, all’angolo della piccola piazza. La faccio passare davanti a me, rimarcando ancora una volta la forma snella ma femminile delle sue gambe e il buon profumo che promana, e invidiando i momenti di libertà che si sta guadagnando dalla lagna in corso qua dentro. Provo, per rispetto, a non tirar fuori il cellulare e a concentrarmi su qualunque altra cosa, per far passare il tempo. Nel frattempo gente di cui non m’importa niente parla, parla, parla… e Ilaria non è ancora rientrata. Alla fine guardo fugacemente l’ora sul telefono, sono le quattro meno dieci e lei è stata fuori, ad occhio e croce, almeno dieci minuti. Mi sembra che si stia prendendo una pausa un po’ troppo lunga, penso: e rido tra me e me. Ok, mi dico, basta. Vado anche io. Alla peggio fumo una sigaretta aspettando che torni, ma non ce la faccio più di stare su questo banco di legno a sentire letture di testi sacri e discorsi in francese.
Colgo il momento in cui due oratori paiono sul punto di alternarsi al microfono e con movimenti agili e veloci guadagno l’uscita. Mentre sto tirando fuori il pacchetto di sigarette e contemporaneamente riabituandomi alla luce esteriore… la vedo. Appoggiata al muretto di cinta del piccolo giardino antistante alla chiesa. Fuma una sigaretta, chiacchiera e ride. Con François. E non con François e altre persone, né in un modo distratto o annoiato: no, è da sola con François e sta parlando con lui con grande partecipazione e interattività. Lui dice qualcosa e lei ride, poi lei dice qualcosa e lui tira un’altra boccata di fumo dalla sua sigaretta. E stanno dicendo cose talmente interessanti o divertenti che non si sono neanche accorti di me, a una decina di metri di distanza. In un decimo di secondo sento una palla di piombo rovente che mi si pianta sullo stomaco e nella mia testa si delineano due possibilità: andare là e spezzare questo idilliaco momento di cazzeggio, con o senza scenata, oppure restare in disparte a osservare. Ma a osservare cosa? E dove? La risposta la danno le mie gambe, che quasi impercettibilmente e al di fuori dal mio controllo arretrano di qualche passo, riportandomi nell’ombra dello spazio compreso tra il portale della chiesa e la seconda porta di legno, quella che dà direttamente sulla navata centrale. Con la sigaretta ancora spenta e ancora in mano. Perché non sono uscito? Per timidezza? Per pavidità? Per una sorta di perverso desiderio di vedere senza essere visto? Per farmi un dossier da usare stasera per litigare meglio? Non lo so. So solo che adesso loro di sicuro non mi possono vedere mentre io sì, io posso vedere loro. Loro due. Che continuano a chiacchierare come se niente fosse anche dopo aver finito la sigaretta, nonostante che siano ormai quasi venti minuti che Ilaria manca dalla funzione, e in teoria era uscita solo a fare pipì. É proprio una conversazione godibile, sembrano quasi amici di lunga data, o colleghi. E, per quanto mi riguarda, François, quel bastardo, le sta sin troppo vicino. Niente di allarmante, sia chiaro, ma le si è piantato davanti e ogni tanto si avvicina per poi allontanarsi, senza mai smettere di chiacchierare. Vedo le gambe della mia donna e so che in questo momento lui - se le volesse guardare, le vedrebbe anche meglio di me e questa cosa rischia di farmi ribollire il sangue, ma riesco a controllarmi. Poi lei accende una seconda sigaretta e lui fa altrettanto: non hanno alcuna intenzione di sbrigarsi, a quanto pare. Li osservo basito mentre riprendono a ridere e fumare, insieme e da soli. Voglio dire, m’incazzerei anche se fossero in quattro o cinque, ma dopo la conversazione di poco fa, vai a fumare non una, ma due sigarette… da sola con lui? E ci chiacchieri godendotela, appoggiata a un muretto e fregandotene del tempo che passa? Come si suol dire, non credo ai miei occhi, o meglio ci credo perfettamente ma non me capacito. E dopo qualche minuto, altri minuti come quelli già trascorsi, Ilaria si toglie lo scialle dalle spalle e mostra a quel bastardo il taglio del suo vestito da cerimonia: non so cosa gli dica, ma gli sta mostrando il vestito, sempre ridendo. Niente di che, ma credo che lui gli abbia detto qualcosa di buffo, perché lei lo guarda e sorride di nuovo, poi fa un giro su se stessa, sempre ridendo, prima di indossare nuovamente lo scialle. Un cazzo di giro completo, ha fatto. E lui guardava. Che cazzo gli hai fatto vedere, il taglio del vestito? Che ha guardato lui, quando giravi? Le gambe, il vestito, il culo? Sento che mi tremano le mani, e forse anche le gambe e che mi si è accelerato il battito. Inghiotto e continuo a osservarli. Adesso parlano, e Ilaria ha spento la propria sigaretta e sembra volersi incamminare verso il portale della chiesa. Attendo un altro momento prima di retrocedere ulteriormente per evitare di essere visto. Sì, lei sembra averlo salutato e si sta effettivamente incamminando verso il punto in cui mi trovo. Scompaio nell’ombra del piccolo androne e poi dentro, tornando rapidamente a prendere posto al nostro banco, in fondo a destra. E poi aspetto. Meno di un minuto, aspetto, prima che lei faccia ritorno.
“Ci hai messo un bel po’” le sussurro, facendola passare.
“C’era un sacco di fila, al bagno di quel baretto. E una che non usciva più”.
Inghiotto a secco.
“Hai fumato?”
Sorride.
“Sì, papà, perché?”
Non mi sembra una battuta particolarmente divertente ma cerco di salvare le apparenze senza partire subito in quarta. Anzitutto perché siamo in una chiesa, e poi perché ho bisogno di capire meglio cosa si è messa in testa di raccontarmi. Dato che sa benissimo che mi arrabbierei moltissimo se sapessi… beh, quello che so. E infatti sono arrabbiato e devo fare di tutto per nascondere il tremore che mi ha invaso le mani. Balbetto, poi mi schiarisco la voce: “Quante ne hai fumate?”
“Una, perché? Serio, amore, perché mi chiedi? Mi andava una sigaretta, mi sono messa fuori al sole. Non mi andava di rientrare subito”.
Devo chiederglielo? E cosa? E come?
Ci provo, con il massimo tatto che riesco a concepire in questo frangente:
“C’era tutta la comunità di fumatori, là fuori, immagino. Peccato non essere uscito a mia volta…”
Una voragine mi si apre nelle viscere quando lei, con un’aria del tutto tranquilla e innocente, e senza la punta di un’esitazione, risponde: “Oh no, macché. L’ho fumata da sola, non c’era un cane, là fuori”.
Ok, quindi è tutto chiaro. Lei non sa che io so e ha deciso di non dirmelo. Pur non avendo fatto niente di male. E quindi le cose sono due: o sa che io mi incazzerei, e ovviamente lo sa, e non vuole dirmelo perché crede che la mia gelosia sia una colossale idiozia e non le va neanche di discutere… o… oppure cosa? Oppure che cazzo di ragione ha per non dirmi che ha fumato non una ma probabilmente tre sigarette con quello stronzo? E che non era affatto da sola?
“Ah… ok” mi sento sussurrare. Ho deciso di chiuderlo così, questo round. Tenendo in mano tutte le carte. Anche se mi fa schifo e un po’ paura l’idea di avere carte che mia moglie non conosce, e che mia moglie ha carte, e cose che ha appena fatto, che io non conosco o non dovrei conoscere. Che secondo lei non conosco. Guardo lo scialle e il vestito, le gambe. É bella, diamine. É bella e, per la prima volta da quando l’ho sposata, mi sembra vagamente distante. Non estranea, certo, ma è come se fosse passata una nuvola veloce, di punto in bianco, nel cielo terso che avevo osservato per mesi.

- §§§ -

“Che palle, però! Possibile che non ti vada mai di ballare?” Dice lei.
E ha ragione, non sono di grande compagnia quando si tratta di ballare. Non credo di saperlo fare un granché bene. Dopo il rinfresco, l’aperitivo ristretto, l’interminabile cena per gli ospiti più cari, tra i quali ahimè siamo finiti anche noi, dopo il taglio della torta, dopo i primi cicchetti di “digestivi”… è arrivato il fatidico momento del ballo. Dei balli. Un momento che aborro, ma aborro è dire poco.
“Lo sai che non mi va, dai. L’ho sempre detto” rispondo, leggermente stizzito.
Ma lei lo è di più.
“Ma non potresti fare un’eccezione? Che noia, dai. Mi fai ballare uno o due balli, stiamo un po’ con gli altri invece che qua in disparte, come i vecchi”.
“Non mi va. Odio ballare, lo sai”.
“Ma due balli. Non tutta la sera!” Risponde esasperata: “cosa ti costa farmi questo favore?”
Beh, per cominciare avresti potuto non raccontarmi cazzate sulle sigarette fumate fuori dalla chiesa e avresti anche potuto evitare di fare tutte queste conversazioni con un tipo che sai che mi sta antipatico, non trovi? É ciò che le vorrei rispondere, ma mi mordo la lingua.
“Un ballo. Massimo due” dico solo.
Ricompare l’ombra di un sorriso ad increspare le sue belle labbra naturali.
“Dai!” Dice trionfante, alzandosi. La seguo verso la pista da ballo, che altro non è che una parte del prato un po’ in penombra, in cui stanno ballando una trentina di persone al ritmo di robetta e robaccia anni Ottanta e Novanta messa dal dj, un collega/amico parigino dello sposo. Ilaria ha un bel culo, perlomeno. Iniziamo a ballare, io male e con un profondo senso d’imbarazzo, lei più sorridente e via via più rilassata. Passano un paio di pezzi e poi le faccio un cenno per farle capire che io mi fermo qua, che vado a prendere da bere. Mi guarda con l’aria delusa, si avvicina e mi parla in un orecchio: “Ma non puoi restare per una volta?”. Sento il suo alito tiepido e appena alcolico.
“No, non mi va”. Adesso sono stato sgarbato e ostinato più di quanto non vorrei, ma è più forte di me. Non tanto per il ballo in sé, ma per i non detti del pomeriggio.
La sua espressione s’indurisce per un momento, poi torna semplicemente stanca e annoiata: “Sei noioso quando fai così”.
Non reggo più: “Eh, sai, non ho il brio di François, perché non balli con lui?”
Mi guarda come se avessi detto la più grande castroneria della storia, o una frase offensiva. Scuote la testa e mi dice: “Sei un cretino. Vai, vai a bere. Io ballo con le ragazze. Ci vediamo dopo” e ciò detto, si volta e raggiunge un gruppetto di donne e ragazze che stanno ballando e hanno formato un piccolo cerchio.
Mi verrebbe voglia tornare indietro e andarla a prendere, oppure di riavvicinarmi e mettermi a ballare, ma il mio orgoglio me lo impedisce. Incazzato anche più di prima, sia con lei che con me stesso, giro a mia volta i tacchi e vado verso l’open bar, a cercare qualcosa di forte.
Bevo due o tre bicchieri di whiskey e lascio sbollire l’incazzatura fumando un paio di sigarette prima di riavvicinarmi alla pista da ballo. L’alcol fa l’effetto che mi aspettavo facesse. Se Ilaria sta ancora ballando, penso, stavolta vado e ballo anche io. E fanculo l’orgoglio. La cerco con lo sguardo, e non la trovo. Lascio che gli occhi si abituino alla semi-oscurità e la cerco di nuovo. Niente. Vedo il gruppetto con cui stava ballando prima e mi concentro su di loro, ma non ci sono. Continuo a sondare le varie zone della pista da ballo, ma non c’è traccia di mia moglie.
Decido di spostarmi, forse c’è qualcosa o qualcuno che la copre? Passano due minuti e finalmente, eccola là. Che balla una specie di musica tra la dance e il caraibico, una con un ritmo sincopato e festaiolo tipo taratà, taratà, taratà, come tutti i pezzi di quel genere, tutti in battere e levare, tutti ugualmente stupidi e orecchiabili. Lo balla con un certo trasporto, leggermente accaldata e molto più sciolta di prima. Sinuosa, anzi anche un po’ sexy. Non volgare, né spudoratamente provocante, ma in un modo diciamo disinvolto, spostando avanti e indietro, su e giù i fianchi, con un sorriso sulle labbra, come se fosse perfettamente consapevole di ballare bene e di muoversi bene, in maniera femminile.
Dietro di lei, vicino a lei fin quasi al punto da sfiorarla, balla François, altrettanto bene e con identica espressione.
Non stanno ballando assieme ad altra gente né stanno ballando l’uno di fronte all’altra, a debita distanza e facendo qualche passo buffo mentre ciascuno guarda timidamente altrove.
No, no.
Stanno ballando quasi incollati, lui dietro di lei, e stanno ballando insieme. Loro due insieme. Ilaria non ha lo scialle, ha le gote arrossate e la pelle bianca delle braccia e delle spalle si staglia nei brevi momenti in cui viene sfiorata da una lama di luce. Resto a guardarli nell’ombra, immobile, incapace di fare qualsiasi altra cosa. Il pezzo finisce e ne comincia un altro nello stesso stile. Loro rallentano, poi François sembra dirle qualcosa in un orecchio e lei pare sorridere e annuire, guardarsi attorno senza evidentemente incrociare il mio sguardo per poi rimettersi a ballare come prima. Con il tizio quasi incollato, e un’ottima intesa ritmica. Io sono un blocco di ghiaccio. Finisce il ballo, durante il quale non hanno scambiato una parola, poi lei si volta verso di lui e gli dice qualcosa in un orecchio indicando qualcosa più o meno nella direzione del bar. Lui le appoggia una mano tra le scapole, annuisce e si accende una sigaretta. Ilaria lo guarda, lui si abbassa e le dice qualcosa in un orecchio, facendo un gesto del tipo “io resto qua”. Lei dice qualcosa a sua volta, poi si allontana dirigendosi effettivamente verso il bar. Cerco di schiacciarmi contro un albero ai lati del prato eletto a pista da ballo in modo che non mi veda. Precauzione eccessiva dato che lei non guarda neppure in quella direzione e tira dritta verso il bancone del bar, una ventina di metri più in là, verso il cono di luce delle lampade colorate. Mi riprendo e la seguo, cercando di sorpassarla nell’ultimo tratto, senza essere visto, per farmi trovare là. Dopo un minuto trascorso a far finta di niente, mi sento sfiorare una spalla.
É Ilaria: “Sempre qua?” Chiede. Ha un mezzo sorriso, piuttosto seccato. O forse deluso.
“Beh, sì” è l’unica cosa che mi viene da dire.
“Vieni a ballare, per favore?”
“N… Non mi va”. Non so perché ho risposto così, forse perché mi sento umiliato, offeso a morte. Forse perché sono geloso e incazzato nero. Adesso litigheremo, lo so. Lo vedo nella sua espressione, che è mutata da annoiata a adirata. Ma poi torna annoiata, come successo prima. E non litighiamo. Anzi. Sorride, un sorriso stanco e mi fa: “Che barba. Io ho voglia di ballare ancora. Ci vediamo qua tra un po’?”. Non ha insistito. Un tempo ne sarei stato felice. Adesso… beh, insomma.
“O… ok” “dico.
“Ok” dice lei.
Si volta, beve il bicchiere di liquido arancione che aveva in mano, lo posa sul bancone e torna verso la pista da ballo.

Quando la ritrovo, ovviamente, non è andata a ballare con le altre ragazze. E’ tornata dov’era prima. E François sorride, le offre la mano, le fa fare una piroetta. Lei si guarda attorno, ma senza smettere di sorridere a sua volta. Scambiano qualche parola dicendosela l’un l’altro direttamente nell’orecchio e poi ricominciano a ballare, con lui che stavolta non si limita a starle dietro come prima, sfiorandola, ma le appoggia le due mani, aperte, ai lati della vita prima di dirle qualcosa, da dietro, nell’orecchio destro. Lei si appoggia con le spalle al suo petto, ride e risponde qualcosa che François non capisce. Si china nuovamente verso di lei e Ilaria getta la testa all’indietro inclinandola verso di lui e ripetendola, stavolta nel suo orecchio proteso. In tutto questo lui non le ha tolto le mani dai fianchi. Mia moglie sembra accorgersene, le afferra entrambe con le sue, se ne libera senza fretta e poi si allontana di un passo o due dal suo cavaliere, e si guarda attorno, con il chiaro intento di capire chi c’è attorno, e dove. Ma non può vedere me, che sono nel punto più ombreggiato e sul lato opposto rispetto al bar. Dove non c’è nessuno. François le parla, lei le fa cenno di aspettare, si guarda ancora attorno. Dopo un po’ scrolla le spalle e si volta verso di lui, indicando il bar con il pollice, dietro le proprie spalle. Lui scrolla a sua volta le spalle e le porge le mani. Ilaria le guarda, si guarda un’ultima volta attorno e poi vi appoggia le proprie, coi palmi aperti rivolti verso il basso, lasciando che lui le afferri e le faccia fare un paio di passi di danza e l’ennesima piroetta prima di riprendere la posizione di prima, con la schiena di mia moglie contro il suo petto, la bocca a pochi centimetri da un orecchio d’Ilaria, il naso che sfiora e a volte affonda tra i capelli mentre le dice qualcosa. E ballano. Prima in maniera più meccanica, poi via via più disinvolta, come li ho visti prima. Più di prima. Più vicini, più sinuosi, più concentrati - o forse naturalmente portati a muoversi all’unisono, su e giù, avanti e indietro. É lui che la guida, ma lei non si limita a farsi portare in giro: sorride, le gote accaldate e l’aria intensa di chi sta ballando con trasporto, gli occhi socchiusi, le braccia sollevate vicino al viso o sopra la testa, mentre François la tiene saldamente per la vita. Contro di sé. E adesso ripete, chiarissimamente, uno, due, tre quattro, come a contare i passi. Uno due tre quattro, uno due tre quattro, uno due tre quattro, e a ogni cifra associano un movimento che fanno insieme. Ormai quasi incollati. Lui le stacca le mani dalla vita e le solleva a sua volta ai lati di quelle d’Ilaria, che continua a ballare e a muoverle sinuosamente, a ritmo, disegnando con la punta delle dita dei piccoli arabeschi nell’aria vicino al proprio viso. Le braccia dell’uomo la contengono in uno spazio delimitato, dietro, dal suo corpo e ai lati dalle sue braccia e dalle sue gambe. Le gambe di mia moglie sono infatti in mezzo alle sue, i piedi in mezzo a quelli dell’uomo, la schiena completamente aderente al suo petto e al suo torace, e… il sedere al suo pube. Non c’è altro modo di dirlo, sta succedendo proprio questo. Uno due tre quattro, uno due tre quattro, uno due tre quattro. Su e giù, sempre più insieme, fino a quando François non la cinge completamente tra le braccia, tenendosela stretta contro il petto e tra le gambe. E Ilaria chiude gli occhi e sorride. Uno due tre quattro, uno due tre quattro. Non è più un ballo, è dry humping. Il suo pacco contro il culo di mia moglie. La musica rallenta, poi si ferma del tutto, e inizia un nuovo pezzo, basato su un'altra ritmica, ma loro continuano a ballare sulla propria: uno due tre quattro, uno due tre quattro, uno due tre quattro. Poi rallentano e François le parla. Ilaria ascolta, senza dire niente. Sorride, però. Lui dice qualcos’altro, lei scuote un po’ la testa, dicendo forse no, o qualcosa di simile. Ma ridendo. Non si staccano, non smettono di “ballare” in quel modo che non è già più ballare. Lei volta la testa nella sua direzione e - ammesso ch’io riesca a leggere il labiale, e non è detto - articola una frase strascicata, del tipo: “non è così che si balla questo pezzo”. Lo ripete due volte, poi una terza. Ha detto proprio questo, o comunque qualcosa di molto simile. Senza smettere di ballare così, però, né provare a scostarsi. Rallentano fino a fermarsi, ma senza staccarsi, poi lui torna a parlarle in un orecchio dopo averle scostato i capelli con la punta del naso. Ilaria sorride, lui parla a lungo, ogni tanto lei ride più forte, poi sorride di nuovo. Tra le sue braccia, incollata a lui, dopo avergli concesso un contatto prolungato e non casuale, né delicato, con la propria intera schiena, e il proprio sedere. Poi apre gli occhi e guarda verso il bar, si guarda intorno, ma senza staccarsi. Del resto lui non sembra intenzionato a liberarla dall’abbraccio. Anzi sì… lo fa, la lascia libera di scostarsi di qualche centimetro. I centimetri indispensabili a permetterle di afferrare l’orlo del vestito e tirarlo su, fino all’elastico ricamato della autoreggenti. Lui si scosta dello spazio minimo indispensabile a guardarle le gambe, tutte intere, e le cosce nude al di sopra del bordo delle autoreggenti. Lei si guarda ancora intorno, due o tre volte, con aria preoccupata ma divertita. Lui le dice qualcosa, poi l’afferra per un braccio e afferra a sua volta l’orlo del vestito, sollevandolo un altro po’ e scoprendole completamente il culo, coperto dalla culotte nera di pizzo, semitrasparente. Non c’è alcun dubbio che le stia guardando il culo. E che lei glielo lasci fare. Se la trae addosso, nella posizione di prima, ma stavolta col vestito sollevato, sul retro. Chi li vedesse da davanti vedrebbe solo due che stanno incollati, ma dalla mia postazione posso vedere che Ilaria e François sono sì due che stanno incollati, ma lei ha il vestito sollevato fino alla vita, delle calze autoreggenti, le cosce bianche e il sedere appoggiato contro il suo pube. Uno due tre quattro, uno due tre quattro, di nuovo. Poi arretrano, arretrano senza staccarsi nella mia direzione. Si stanno allontanando dagli altri e dalla luce. Mi nascondo ancor meglio, senza perderli di vista. Finiscono dietro un albero, e mia moglie finisce in un attimo tra François e l’albero, le braccia appoggiate al tronco, il sedere e la schiena a lui. Poi tutto succede al rallentatore, e nel più assoluto silenzio, perché non sento più la musica né niente. In compenso vedo benissimo, come se fosse un video in HD. Ilaria afferra il proprio vestito e lo tiene sollevato, lui fa un passo indietro, impugna con le dita l’elastico dei suoi slip neri di pizzo e lo tira verso il basso. Ilaria solleva prima un piede, poi l’altro e lascia che lui glieli sfili prima di metterseli in tasca mentre lei resta così, a culo nudo, il vestito sollevato, tra l’uomo e un albero, in una zona quasi completamente buia. François si slaccia la cintura, sbottona i pantaloni, li apre e lascia che gli scivolino fino alle caviglie, poi si china abbassandosi i boxer. Ha il cazzo ritto, duro. Si sputa in mano, lo afferra e lo dirige verso mia moglie. Lei inarca la schiena, allargando appena le gambe. François si abbassa un po’ flettendo le ginocchia e poi le entra dentro. Così, senza profilattico né niente. Le entra in figa. E comincia. Come prima. Uno due tre quattro, uno due tre quattro, uno due tre quattro. Lei si aggrappa al tronco, inarcando la schiena, offrendosi. Non so quanto dura, ma Ilaria ha la bocca socchiusa in un’espressione di piacere, e lui pure. Uno due tre quattro, uno due tre quattro, uno due tre quattro. Lei ha un orgasmo, uno due tre quattro, uno due tre quattro, ce l’ha anche lui. Non è uscito. Le è appena venuto dentro. Uno due tre quattro, uno due tre quattro, sempre più piano, mentre lui le parla nell’orecchio. Poi si fermano. Ilaria reclina la testa verso di lui, dice qualcosa e poi François le incolla la bocca alla bocca e cominciano a limonare, sempre più profondamente, sempre più umidamente e in maniera sensuale, mentre lui ricomincia a muoversi e adesso le ha infilato le mani nella scollatura del vestito, e le sta palpando le tette. Uno due tre quattro, uno due tre quattro, uno due tre quattro, uno due tre quattro. Lo fanno di nuovo, senza neanche una pausa. Le viene dentro un’altra volta, mentre limonano. Smette di muoversi ma non di limonarla. Poi si stacca. Si tira su i boxer e i pantaloni senza essersi pulito, e lo stesso fa lei, con le mutandine che l’uomo le ha appena restituito. Non hanno niente con cui pulirsi, evidentemente. E quindi in questo momento, o tra breve, lo sperma di François inizierà piano a colare dalla figa di mia moglie, sulle sue mutandine nere e lungo la parte interna delle cosce. Lei lascia che il vestito le ricada di nuovo fino a oltre metà coscia, fin sopra le ginocchia. Si riassesta i capelli, sembra chiedergli se è presentabile François pare risponderle di sì. Si baciano un’ultima volta, brevemente, in bocca; poi lui fa capolino da dietro l’albero per sincerarsi non li abbia visti nessuno.
Già.
Nessuno.
Non li ha visti assolutamente nessuno, tranne me.
Ilaria attende saggiamente il via libera, poi, prima l’uno e poi l’altra, abbandonano il nascondiglio e si dirigono verso la zona più illuminata, verso la pista da ballo. Ricominciano a ballare, rimanendo stavolta a debita distanza, ma scambiando ogni tanto poche parole e sguardi che ovviamente - dato ciò a cui ho appena assistito - non fatico a definire complici.

Io resto là, appoggiato a un altro albero, al buio, e provo a rimettere insieme i pezzi del mio cuore, del mio fegato e in generale di tutto quello che credevo assodato, normale, solido nella mia esistenza. Ho appena assistito, incredulo, al tradimento di mia moglie. La ragazza che ho sposato meno di un anno fa ha appena fatto sesso con un conoscente, che peraltro io già odiavo, dietro a un albero, di notte, alla festa del matrimonio di un’amica. Con suo marito presente, poco distante. Cosa posso fare? Cosa dovrei fare? Piangere, picchiarlo, lasciarla stasera davanti a tutti? Prendere la machina subito e tornarmene a Parigi? Sono troppo ubriaco e sconvolto per essere lucido. Provo a ritrovare un minimo di raziocinio, respiro profondamente, mi guardo intorno e poi mi siedo per terra, la schiena appoggiata all’albero, e fumo una sigaretta. Ho un groppo in gola e lo stomaco in subbuglio. Ne fumo un’altra. Poi mi alzo, sistemo giacca e pantaloni e faccio il giro largo, barcollando appena, per tornare al bancone del bar della festa, dove ordino l’ennesimo whiskey. Mi era un po’ la testa, per più di una ragione. Il barman - come tutti i barman - è anche un fine psicologo: gli basta uno sguardo per capire che qualcosa non va:
“Tutto bene, amico?” Mi chiede.
“Tutto bene”.
“Sicuro? Vuoi che ti chiami un taxi?”
“Ho affittato una casa a due passi da qua, ti ringrazio. Torno a piedi. Ma non è l’alcol… sono solo… incazzato nero”.
“Eh, le donne…” dice lui, con un mezzo sorriso dai risvolti tristi: “Se serve qualcosa, dimmi pure” aggiunge, facendo l’occhiolino e prima di servire altra gente.
Già, le donne.
Una in particolare.
Mia moglie.
Ilaria.
Quella di cui non l’avrei mai detto.
Quella di cui mi fidavo.

“Che fai?” Mi chiede, lupus in fabula.
Ha un’espressione distesa, sorridente.
“Non ti annoi a stare qua da solo a bere, invece che ballare?”, chiede.
La guardo in faccia, e penso che cinque minuti fa stava scopando con un altro. Che è sicuramente ancora bagnata dei propri umori, e del suo sperma. Mi sorprende la sua capacità di far finta di niente, e un po’ anche la mia.
“Lo sai come sono fatto: e poi, sono stanco. Mi sa che vado a casa a riposare”.
Sorride e si avvicina per abbracciarmi. Con la massima freddezza, glielo lascio fare. Non so se percepisca il mio disagio né come l’interpreti, ma non lo dà a vedere: mi abbraccia, e dice: “vuoi che venga con te?”.
“Non importa. Se ti stai divertendo con… con le ragazze… ti aspetto a casa. Davvero. Credo di aver bisogno di togliermi le scarpe e stendermi un po’. Scusami”.
Scusami? Mi sto scusando, io? Cosa sono diventato?
“Non ti preoccupare, amore”.
Amore.
Ma certo.
Amore.
“Ti dispiace se resto un pochino qua? E vengo dopo? E’ un paesino sicuro, non credo sia pericoloso se torno tra un’oretta, da sola”.
“Non ti preoccupare. Tengo il cellulare acceso, tanto. Se hai bisogno mi chiami, ok?”
Mi bacia: “Grazie, sei un angelo. A dopo!”.
La guardo allontanarsi verso la pista da ballo. Non sembra minimamente turbata, né in debito. E’ come se fosse riuscita a rimuovere completamente quanto appena fatto, o se fosse in grado di conviverci senza alcun problema. Cosa ha in mente di fare? La seguo a debita distanza. Ovviamente va da François, gli dice qualcosa e lui sorride prima di farle un cenno indicando la zona del bar. Li seguo con lo sguardo, bevono un bicchiere insieme, poi si mettono a parlare. Lo fanno a lungo, almeno cinque o dieci minuti, fino a che lui non si alza e si dirige verso l’uscita. Lei fa lo stesso, ma si sofferma a salutare le amiche, e resta a debita distanza da lui, come se si fossero salutati. Ma non sembrava si fossero salutati - anche se chiaramente non avrebbero potuto baciarsi in bocca davanti a tutti, mi sembra strano non si siano salutati neppure con un bacio sulle guance.
Mi avvio guardingo verso l’uscita, salutando distrattamente le poche facce conosciute, poi mi siedo fuori, su un muretto al buio, qualche metro più in là rispetto all’uscita. Fumo l’ennesima sigaretta, ormai me ne restano quattro o cinque, e mi metto in attesa. Ho deciso che aspetterò cinque minuti, e poi me ne andrò a casa. Non che ormai abbia granché da scoprire, ma ho un tarlo che mi chiede di verificare. Possibile che si siano semplicemente decisi a salutarsi e dirsi addio? Fumo ancora una sigaretta, ormai ho la gola che brucia.
Esce François, una sigaretta in bocca, e si avvia, lentamente, verso una delle stradine che portano verso il centro del villaggio, ma poi si ferma, una ventina di metri distante dall’arco di pietra che segnala l’ingresso dell’aia dei casolari in cui si sta consumando la festa. Ho il cuore che batte forte e tengo lo sguardo incollato all’uscita. Con passo relativamente agile, come se l’alcol non l’avesse particolarmente invalidata, ecco uscire anche Ilaria, con tanto di borsetta e scialle. Devo stare attento ed essere veloce, perché le ho detto che sarei andato a casa e sono l’unico ad avere le chiavi. Se sta tornando a casa, bisognerebbe riuscissi a superarla in qualche modo, senza essere visto, ed arrivarci prima di lei. Idea peregrina: le si avvia, guardinga, nella stessa direttrice scelta da François, che è uscita da un cono d’ombra e le va incontro. Si riconoscono, si fanno un cenno d’intesa. Parlano un attimo, restando uno di fronte all’altra, e poi si avviano verso destra, lungo una strada stretta e deserta. Mi metto a mia volta in movimento, restando a distanza di sicurezza. Loro passeggiano parlando a bassa voce, come fossero amici e, da quando li ho visti fare… quello che hanno fatto… non si sono neppure sfiorati. La strada che hanno preso non dovrebbe portare nella direzione del B&B che abbiamo affittato, ma non va neppure nella direzione opposta, così, mentre li seguo provando a non perderli di vista né essere visto, cerco di orientarmi su google map. Restando a questa distanza dovrei essere in grado, quando si separeranno, di infilarmi in uno dei due o tre vicoli che si aprono sulla destra da qua ai prossimi duecento metri e arrivare a casa prima d’Ilaria. La notte è fresca ma non fredda, e soprattutto calma. Dopo i bagordi e la musica del matrimonio le mie orecchie si stanno riabituando a sollecitazioni più normali, riacquisendo la capacità di sentire anche rumori più minuti e distanti. Naturalmente non posso sentire ciò che si dicono, ma sembra una conversazione tranquilla, casuale, di quelle che fai mentre ti sposti da un punto a un altro, sei stanco e a fine serata. A un certo punto rallentano e François indica una casa di pietra sulla sinistra, con un minuscolo giardino davanti e sul lato destro dell’abitazione, protetto da un muretto basso, anch’esso di pietra. La parte di giardino sulla destra sembra essere occupata da un albero di mele, o qualcosa del genere, mentre a sinistra il muro della casa è immediatamente limitaneo alla proprietà di fianco ad essa. La strada è silenziosa e tutte le case sembrano disabitate, o semplicemente occupate da gente che dorme. Del resto è l’una di notte, e questo villaggio di campagna non sembra abitualmente invaso da giovani festaioli. Mi nascondo dietro una delle poche auto parcheggiate lungo la stradina, un vecchio furgoncino bianco della Renault, di quelli che a Parigi ormai non potrebbero neppure più circolare, con della ruggine accanto alla maniglia del portellone posteriore e un paraurti il cui aspetto rivela una certa vetustà. Loro due parlano, poi si accendono una sigaretta e continuano a parlare, François appoggiato al muretto di pietra della casa e Ilaria davanti a lui, a circa un metro di distanza. Non riesco davvero a capire come possa aver passato una giornata intera a parlare a quel tipo: posso capire… oddio, non posso proprio capire, ma diciamo lo stesso che posso capire… andarci, fare… farci sesso: alla fine è alto, asciutto, non è brutto, anzi. I tatuaggi, il modo di fare sicuro di sé. Posso capire che in un momento di idiozia o di non so che, ci finisci a ballare, a strusciarti, a… non riesco neanche a dirlo. Ma non capisco come tu possa trovarlo simpatico e parlarci a lungo, ridendo, concedendogli proprio l’esclusiva della tua attenzione più volte nel corso di un’intera giornata. Sono quasi più geloso di questa roba che del resto. Mi manda fuori di testa, che lei si senta a suo agio e divertita e attratta… beh sì, attratta da uno così. Attratta, perché se non lo fosse non si sarebbe data a lui. Anche per farmi un dispetto, anche per sentirsi bella, anche perché lui ci avrà sicuramente provato e magari l’ha lusingata, o sedotta o non so che… ma comunque non è andata con un altro, ha scelto lui. Quello che più detestavo in questo posto. O forse lo detestavo perché istintivamente sentivo qualcosa? Ad ogni modo parlano, parlano e ridono, parlano di nuovo. Tranquillamente, finalmente senza doversi preoccupare di non essere visti, dato che non sanno né s’immaginano che io so, e sono qua. Ma parlano e basta. Per fortuna. Guardo di nuovo su google maps: forse, infilandomi in un vicolo a sinistra e circumnavigando un paio di case, potrei arrivare alle loro spalle, sul lato destro della casa, riuscendo ad avvicinarmi un po’ e togliendomi dalla strada. Per quanto io sia distante, è comunque un’area illuminata e chiunque, uscendo dalla festa e passando di qua, mi vedrebbe nascosto dietro a un furgoncino. Non posso restare a lungo in questa posizione. Attendo un momento in cui sembrano guardare altrove e mi lancio nel vicolo a sinistra, percorrendolo fino in fondo, giro a destra e sempre camminando il più veloce possibile ma provando a non far troppo risuonare i miei passi, riconosco il retro della casa di pietra, vedo il muretto alla sua sinistra (la destra dal punto in cui l’osservavo in precedenza). Mi fermo ad ascoltare: si sente la voce d’Ilaria che parla piano, calmamente. Non posso sentire ciò che dice. Decido in un attimo: scavalco il muretto e m’intrufolo nel giardino della casa, dove in effetti ci sono un prato d’erba tagliata di fresco, un paio di cespugli che al buio non riconosco e un vecchio albero di mele, dal tronco relativamente corto e bitorzoluto e dalla chioma abbastanza folta, potato in modo da facilitare la produzione e la raccolta delle mele, come si faceva un tempo e si fa tutt’ora in campagna: con meno rami nella parte centrale, in modo da creare una specie di vaso di vegetazione facilmente accessibile ed esposta alla luce solare. Mi ci metto dietro, immobilizzandomi per evitare di fare rumore. Adesso è François che parla, e dato il silenzio e la maggior prossimità mi sembra di sentire qualche parola. “America”, “lavoro”, “e comunque”. O magari non ha detto proprio così, ma ad ogni modo non sono parole da cui possa dedurre qualcosa. Tendo l’orecchio. La luna fa capolino da una nuvola e investe con un raggio questo lato del giardino, ma io sono comunque ben nascosto.
“…E poi è tardi” mi sembra dire lei.
“Non così tardi” è la sua risposta. Adesso li sento. Non perfettamente, ma li sento.
“E’ l’una. Devo andare”.
Fanno una pausa. Poi François:
“Ilaria, è l’ultima volta che ci vediamo, ovviamente. Magari capiterà di sentirsi, ma mi pare chiaro che oggi sia andata così e che non doveva succedere. Ma è successo. Allora, che cambia?”
Che cambia cosa?, penso.
“É tardi, Franck”.
Perché cazzo lo chiama Franck? Perché cazzo questa intimità informale? I nomignoli, i diminutivi. Mi ribolle il sangue.
“A che ora avevi detto…?”
“Avevo detto un’oretta”.
“E allora hai un’oretta”.
Adesso capisco. Ed è una coltellata. Lui, a meno non abbia completamente travisato il senso di quanto ho appena sentito, le sta chiedendo di… di fermarsi un’oretta? A fare cosa, a prendere un tè? E lei non ha neanche detto no, che basta. Ha detto che è tardi. L’unica cosa che mi rassicura è avergli sentito dire che è l’ultima volta che si vedono. L’ha detto lui, non lei, ma l’ha detto.
“Ma che senso avrebbe?” Chiede intanto mia moglie.
“Che senso ha avuto prima? Niente, è stato bello”.
Silenzio.
“Appunto. É andata così: un errore, una cosa che non avremmo dovuto fare. Ma è stato bello. Lasciamo che resti così”.
“Ilaria, ti ho dato appuntamento fuori, sei venuta. Siamo sgattaiolati qua di nascosto da tutti. Perché venire se volevi solo salutare? Ci potevamo salutare là”.
Sentilo, come insiste! Sto infame.
“Volevo salutarti con più calma. Fare queste due chiacchiere e chiarire anche che… che è stato molto bello, e intenso, ma che appunto… beh… sono sposata”.
“Mi è chiaro e non ti chiedo niente, infatti. Ma è l’una di notte, siamo qua da soli, per la prima volta, non c’è il rischio di essere visti da nessuno. Ci possiamo salutare, o ci possiamo… salutare”.
Figlio di puttana.
Insistente, infame e figlio di puttana.
“Cosa cambierebbe?” Chiede lei, invece di mandarlo a quel paese.
“La calma, il fatto di avere un ultimo momento… boh, perché pretendi che razionalizzi? Ne ho semplicemente voglia. Tu no?”
“Non… non dico di no. Non dico che non ne ho voglia” sussurra Ilaria e anche se non la vedo bene, so che ha un mezzo sorriso sulle labbra.
“E allora?”
“Non so, Franck. E’ successo, adesso… sarebbe più…”
“Più cosa? Più calmo? Più pulito? Senza ansia? Più bello?”
“Perché? Sarebbe più bello?” Chiede lei, ridendo.
“Molto più bello” dice lui, ridendo a sua volta. Parlano piano, in maniera complice. Non mi sono mai sentito tanto geloso e impotente in vita mia.
“E perché?”
Ci sta flirtando. Mia moglie sta flirtando con lui. Di nuovo.
E’ una chiacchierata sdrucciola, un piano inclinato su cui Ilaria si lascia scivolare.
“Perché non siamo ad una festa, dietro a un albero, con l’ansia che ci veda qualcuno. Perché non ne puoi più delle tue scarpe eleganti. Perché ci salutiamo e restiamo con un ricordo in più. A me pare ovvio”.
“Ovvio, addirittura?”.
“Ovvio. Dai.”
“É super tardi”.
“Dai”.
Mi sporgo appena, nella speranza che non mi vedano.
Ilaria sorride e lo guarda, lui è in piedi davanti a lei. Fa un passo verso di lui. Scuote la testa, sospira, poi lo spinge piano dopo avergli messo le mani sul petto:
“Lasciami andare a casa”.
“Non ci vuoi andare, a casa” sussurra lui: “non subito”.
Stanno parlando piano, li sento appena. E infatti non sento quello che dice lei, ma vedo che sorride e guarda in terra, poi a destra e a sinistra. Fa ancora mezzo metro nella sua direzione, fin quasi ad annullare la distanza. Lui le passa un braccio dietro la schiena, si china verso di lei e la bacia in bocca, si stacca.
Ilaria scuote ancora la testa, poi la solleva verso di lui, guardandolo negli occhi.
“Stiamo facendo una scemenza” sussurra.
Lui sorride.
Si baciano di nuovo, un po’ più a lungo.
“Poi mi mandi a casa. Giura”.
“Giuro” risponde l’uomo.
Si baciano di nuovo, lui adesso l’ha abbracciata e se la stringe addosso. Poi inizia a spostarsi, tenendosela contro. Retrocede piano, apre il cancelletto basso di legno, senza guardarlo, e continua a retrocedere fino alla porta di casa.
“Siamo facendo una scemenza”, ripete lei.
François non risponde. La porta con sé, se la porta dentro. Quando l’uscio si chiude, non sento più niente. Nessuna luce si accende e io non so che fare a parte torcermi le mani, stare male e macerare. dentro. Poi mi sembra di sentire lo scricchiolio di una scala di legno e faccio quello che non facevo neanche da ragazzo. Mi arrampico sul melo, veloce nonostante il modo in cui sono vestito, l’ora tarda e l’alcol ingurgitato. Il primo piano della casa non è un vero primo piano, sembra più un mezzanino. Non devo salire così in alto, per fortuna. Altrimenti stanotte è la volta che mi ammazzo. Senza neanche volerlo fare. Per fortuna la luce della luna investe la finestra che dà sul giardino, ma non illumina me. Se ho fortuna, non mi vedrà nessuno. Ma ho bisogno di molta fortuna per vedere a mia volta, perché la casa è al buio. François non ha acceso alcuna luce. La stanza è illuminata dalla luna e sembra occupata da un letto e da un armadio, forse è quella giusta. Ma forse loro non stanno venendo qua, non ho sento alcun rumore di scale, o ce n’è un’altra uguale dall’altro lato. E comunque… cosa faccio quassù? Cosa penso di vedere? Cosa voglio vedere? Non è tutto chiarissimo?
E invece eccoli. Staccati, che parlano, dopo essere entrati in camera. In questa camera. Illuminati dalla luce della luna, li vedo bene. Vedo tutto, mentre loro si guardano e parlano. Quando hanno varcato la soglia della stanza Ilaria ha sollevato un piede, armeggiato un po’ restando in equilibrio, ha poi ritrovato la posizione normale e ripetuto l’operazione. Un attimo dopo la vedo buttare per terra le scarpe. Se l’è tolte. Viene verso la finestra, guarda fuori. Oddio, adesso mi vedrà? O sono così in ombra, nascosto tra i rami, da risultarle invisibile? Non sembra notare niente, non guarda neppure un momento nella mia direzione, come se desse l’albero per scontato e trovasse più interessante guardare altrove: il cielo, il prato, le altre case. Un attimo dopo arriva anche lui, l’afferra per le spalle e le parla da dietro, in un orecchio. Ilaria sorride, si volta verso di lui. Parlano un po’, poi lui le accarezza i capelli, e mia moglie sorride e lo lascia fare, poi sembra carezzargli a sua volta il petto. Cerca i bottoni della camicia, nel disfa uno o due, gli passa le mani fra i capelli mentre lui si china e la bacia in bocca. Non un bacio come quello di prima: un bacio lungo, profondo, con la lingua. Hanno gli occhi chiusi e stanno limonando, incollati, e François le sta carezzando le spalle nude, la schiena, il sedere. Incrociano più volte i nasi cambiando posizione ma quasi senza staccarsi, le labbra aderenti all’altro, le lingue in bocca. Posso immaginare quanto gli stia piacendo, a François, essere riuscito a convincerla a salire su, a togliersi le scarpe, a restare finalmente da sola con lui. Da sola sul serio, non come oggi. Anche se sono stati da soli tutto il giorno, in un certo senso. Ma adesso sono da soli in un posto che sanno - o meglio, pensano di sapere - solo loro. Se non li avessi seguiti, del resto, non avrei mai potuto trovarli. Nessun altro può immaginarsi che mia moglie e François sono nella casa affittata da lui, a quest’ora, e si stanno baciando. Che lui le ha appena fatto scendere la zip posteriore, e che il suo vestito è caduto a terra. Che Ilaria non ha smesso di baciarlo, anzi, gli ha sbottonato ancora un po’ la camicia, freneticamente, mentre lui le slacciava il reggiseno riuscendo finalmente a vederla in topless, con la massima calma, indisturbato, in una camera da letto in penombra, tutta sola con lui, con le tette bianche e i capezzoli rosa che finiscono subito preda delle sue mani e della sua bocca. Lei lo carezza e lo bacia in testa, lui le succhia i seni, poi il collo, e le palpeggia il sedere, coperto ormai solo dalle mutandine che del resto le ha già sfilato poco fa. Se la porta verso il centro della stanza, grazie François, grazie mille: così posso proprio vedere bene. Che fortuna, che ho. Uno schiaffo dietro l’altro, una coltellata dietro l’altra, me le prendo tutte. Le tue mani sul suo culo, sulla sua schiena nuda, le tue mani che s’intrufolano dentro l’elastico delle autoreggenti facendole scendere, prima una e poi l’altra. Lei che ti aiuta a togliere la camicia, che ti carezza e bacia un braccio, nella parte del tatuaggio, quella muscolosa. Tu che le succhi le tette, poi di siedi sul letto mettendola in braccio, a cavalcioni, pube contro pube, mentre ricominciate a baciarvi. Non più di nascosto dietro a un albero, ma con la massima calma, su un letto, in una casa, e non da dietro, di corsa, ma prendendo tutto il tempo necessario ad eccitarvi e ritrovare confidenza, conoscere senza fretta l’uno il fisico dell’altra, sussurrando non so cosa, ma che importanza ha, ormai? Guardandovi negli occhi. Ilaria finisce di liberarsi dalle calze mentre lui le bacia le tette e il collo, poi in bocca, con la lingua, come prima. Fa perno sul coccige e la ribalta sul letto, poi ci sale a sua volta, restando in mezzo alla sue gambe e iniziando a slacciarsi i pantaloni. Lei lo guarda sorridendo, languidamente stesa sul letto dopo aver scostato le coperte e trovato il contatto col lenzuolo pulito. Le tette nude, morbide, illuminate da un raggio di luna. Se ne carezza distrattamente una. Le mutandine nere sono ormai ultima barriera, l’ultimo brandello di stoffa su un corpo bellissimo e nudo dalla testa ai piedi. François si toglie i pantaloni, lei resta così, con le gambe aperte e lui in mezzo, che è rimasto con solamente i boxer addosso e si china nuovamente verso mia moglie, per baciarle il collo e poi scendere verso le tette. Ilaria gli passa le dita fra i capelli e lo guarda fare, sorridendo e mordendosi il labbro inferiore. Non dice niente, anzi collabora appieno, inarcando appena la schiena, quando lui le afferra l’elastico degli slip e glieli abbassa lungo le cosce, fino alle ginocchia e poi oltre, sollevandole le gambe dopo averle afferrate per le caviglie e spogliandola definitivamente. Le spalanca di nuovo le cosce e inizia subito a leccarla: lei sembra protestare, ma è tanto per fare scena, tanto per rispettare le convenzioni. Lui la lecca, la bacia, la succhia tra le cosce bianche, ben fatte, quelle che amo. Ilaria ha un piede appoggiato al materasso e un altro a mezz’aria, con una mano di François a tenerle su la gamba dopo averla afferrata sotto il ginocchio. Le spalle larghe dell’uomo si muovono al ritmo delle sue leccate. Lei le carezza, gli accarezza di nuovo i capelli, poi solleva all’improvviso entrambe le gambe provando a stringerle e portarle al petto, ha un paio di sussulti, socchiude per un attimo sia gli occhi che la bocca con un’espressione stupida e felice. La riconosco, quell’espressione e quella serie di piccoli sussulti: è un suo orgasmo. Gli ha appena concesso uno dei suoi orgasmi clitoridei, quelli che la lasciano illanguidita, svuotata di forza, con la figa sensibile e umida e completamente offerta. Lui risale baciandola, fino a incollarle le labbra alla bocca e riprendere a baciarla, inondandola la bocca del suo stesso sapore. Si struscia piano tenendo ancora addosso i boxer, mentre lei lo abbraccia, ma per poco. Un attimo dopo François si libera anche di quelli e resta nudo, sopra di lei, tra le sue gambe. La penetra in un colpo solo, dopo aver ripreso a baciarla. Le afferra i polsi e glieli blocca contro il materasso, sopra la testa. Inizia a pompare, a farsela. Si sta scopando mia moglie, limonandola, leccandola dove vuole e come vuole. Per tutto il tempo che vuole, senza ansie né fastidi. Lei lo ha accolto fra le sue cosce aperte e adesso ce l’ha dentro, lo sente duro, fare su e giù. Sta godendo, lo so, perché è già sensibilizzata dall’orgasmo di prima e perché François ci sa fare, e a lei François piace. Piace davvero. Altrimenti non ci sarebbe finita a letto, e stavolta a letto nel senso letterale del termine. Tutta nuda, da sola, con lui e non per una sveltina di nascosto a una festa, ma per farlo con calma, guardandosi e cercandosi, baciandosi e parlando liberamente, abbracciati, per la prima volta per bene, senza pensare ad altro. Loro due e basta, in una stanza in penombra. Lui si muove con sempre maggior forza, come a prendersi tutto quanto, a ficcarglielo bene in fondo, scuotendola a ogni colpo. Ilaria ha la bocca aperta a cercare aria, si lecca per un attimo un labbro e tiene gli occhi chiusi: probabilmente sta mugolando mentre quello che fino a qualche ora fa era sostanzialmente un estraneo la prende fino in fondo, senza profilattico, dopo averla sedotta a una festa in cui c’ero anch’io. Sostanzialmente davanti a me. Se l’è semplicemente presa senza che io reagissi, e adesso se la gode. Si gode mia moglie. Si scopa mia moglie. Se la scopa per bene. E le viene dentro, prima o dopo che sia venuta lei, non posso saperlo. Ma che lui venga, si vede benissimo. Non è uscito, anzi: è entrato più che poteva. Le è venuto più dentro possibile, e resta là, muovendosi sempre più piano. Si baciano languidamente, piano, leccandosi vicendevolmente le labbra e la lingua. Poi lui afferra le coperte, sempre senza uscire, e se le tira addosso, fino alle spalle, coprendo entrambi. Si soleva appena appoggiandosi sui gomiti e restandole sopra, dentro, e la bacia di nuovo. Poi dice qualcosa e lei ride e risponde qualcosa. Si baciano di nuovo, più piano, poi la testa di lui scompare sotto le coperte, e dal gonfiore capisco che le sta baciando il collo, o forse le tette. Lei ride e lo carezza, dice qualcos’altro, e sorride. Passa qualche minuto poi lui riemerge dalle coperte e riprende a limonarla. Parlano ancora, brevemente. Ilaria si volta piano tra le sue braccia offrendogli la schiena, facendosi abbracciare e incollare al materasso, con una guancia contro il cucino, mentre François le bacia la nuca e il collo, il caschetto di capelli neri adagiato sul guanciale. E ricomincia pian piano a muoversi, da dietro, sopra di lei. Dall’espressione stupita e intensa di lei, è evidente che le è entrato di nuovo dentro, e non so dove: la sta prendendo come prima, nella passera, o le è addirittura entrato… in culo? In quel suo culo bianco e delicato, ben fatto e adesso completamente offerto? Ilaria non lo vuole quasi mai fare con me, ma non mi stupirebbe che, in questa serata incredibile e folle, in cui è saltata qualsiasi regola, sia arrivata al punto da dargli il culo. Da dargli letteralmente tutto, da fargli fare quello che un uomo vuole, da una ragazza così carina. Limonarla, spogliarla, prenderla senza profilattico, e venirle dentro. E poi voltarla e forse addirittura farci sesso anale. Incularla. Non so se François si sta inculando mia moglie, là sotto le coperte, ma so che io ho una vergognosa, riprovevole, sconveniente erezione. Invece di voler morire, sento solo un vago desiderio sessuale e una perversa voglia di continuare a guardare. Un’ancor più perversa, incomunicabile e vergognosissima voglia di pensare che François in questo momento si sta inculando mia moglie. Dato che è ormai tutto chiaro, dato che non ci ho fatto niente fino ad ora, non avrebbe senso combattere contro l’evidenza: la mia gelosia sconfina in un perverso, sinora sconosciuto desiderio che quello che sta accadendo, accada. Lui si muove dietro di lei, dentro di lei. Ilaria socchiude le labbra, contenuta fra il corpo massiccio di François e il materasso. Il letto oscilla appena su e giù, o forse avanti e indietro, mentre lui le si muove dentro. So che lei ha le gambe fra quelle di lui ed è tutta nuda, nella sua piena disponibilità. Darei qualunque cosa per poter sollevare le coperte e vedere tutto, vedere ancor di più. Lui le morde il collo, la spalla sinistra, poi la bacia in bocca senza fermarsi, anzi accelerando. Rispetto a poco fa, quando lo facevano con trasporto e intensità, ma quasi con dolcezza, adesso lui se la sta prendendo con forza: se la sta letteralmente sbattendo. E so, perché la conosco, che a lei piace. Come a molte. Il maschio che ti vuole, che ti prende, che non si sa controllare quando ti ha fra le braccia, fra le mani. So che si sente bellissima, e che lo è. So che lui si sta godendo ogni momento, senza alcuna fretta, ed è consapevole che Ilaria è sposata con un altro, ma in questo momento è solo sua.
Completamente sua.
Scendo dall’albero.
Ormai non c’è molto da vedere, e prima o poi Ilaria tornerà al nostro B&B, per non destare sospetti. Ho ancora un’erezione e credo che dovrò andare a casa, sconfitto, a occuparmene. Mentre lei è là, tutta nuda con lui, e forse è venuta, o forse sta per venire, o forse aspetta che venga lui. Prima di farlo un’altra volta, magari. Dicendogli “sono tua”, magari, come le piace dire anche a me.
E poi salutarsi, e tornare suo malgrado da me, in quel piccolo e umido bel and breakfast che sarà la nostra casa fino a domattina.
E mi troverà a letto, che faccio finta di dormire.
scritto il
2025-01-13
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