Chiara (parte 1)
di
Le Parisien
genere
sentimentali
Rinnovo il caveat del primo racconto (Due Matrimoni): sono verboso, non è un racconto breve. In questo caso, poi, le parti esplicite sono poche, e arriveranno più numerose nella seconda parte (con risvolti bdsm). Racconto quindi inadatto a chi cerca subito descrizioni anatomiche e simili. A tutte le altre e gli altri, buona lettura.
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Nel suo ultimo romanzo, qualche mese prima di morire, John Le Carré descrive una partita di badminton e le cosce bianche di una giocatrice. Cosce snelle ma morbide, dai riflessi lattiginosi che evocano capelli rossi, efelidi, turbe adolescenziali. Un femminilità dall’eco vittoriana a cui il protagonista e lo scrittore non possono che indulgere, in un turbine di ricordi e immagini appena accennate ma cariche di sensualità. Cerco spesso una legittimazione alta, letteraria, alla morbosità con cui guardo certe donne, certe ragazze. Non che senta il bisogno di giustificarmi, tantomeno con me stesso, ma m’inorgoglisce condividere con uno scrittore o un grande regista l’attenzione quasi feticistica per alcuni dettagli: una caviglia sottile, la forma aggraziata di una nuca, le spalle scoperte da uno chignon, il pallore delle cosce, del collo, l’aureola rosa chiaro attorno ai capezzoli dei seni delle rosse.
Chiara non ha i toni rosso fuoco delle irlandesi: ha capelli mossi, lunghi appena sopra le spalle, che tendono al biondo veneziano, ma si vede che è geneticamente rossa, ultimo anello di una stirpe in cui i rossi e le rosse hanno avuto un ruolo geneticamente rilevante. Ha qualche lentiggine sul naso, uno sguardo azzurro temperato, di candore britannico, il collo bianco e affusolato dalla pelle liscia. Ha mani non troppo affusolate ma agili e femminili, che muove, come il resto del corpo, in maniera a volte incerta ma aggraziata, non priva di un’istintiva eleganza, e porta solo un’anellino al medio della destra, lo smalto rosso sulle unghie, troppo corte, di una che se le mangia. Un paio di scarpe décolleté con un tacco ragionevole, la gonna svolazzante, corta un palmo sopra il ginocchio. Dalla maglietta a maniche corte con una scollatura a v abbottonata fin quasi in cima in segno di morigeratezza s’intuiscono le forme generose di un seno morbido, pieno ma fresco. Lo immagino candido come il resto del corpo, il suo addome, i fianchi, il sedere, che mi figuro avvolto da un’innocente culotte di cotone bianco, o rosa pallido come i seni. Come le cosce, quei pochi centimetri visibili delle sue cosce bianche da cui non riesco a distogliere lo sguardo adesso che Chiara sta parlottando con un’amica ed è seduta a qualche metro da me, sul divano, un bicchiere di plastica in mano riempito di un liquido dall’inquietante tonalità blu puffo. Stiamo veramente bevendo da schifo stasera, e spero che tra un po’, quando le nostre ospiti se ne saranno dimenticate, potrò avvicinarmi al frigo dove mi attendono le due bottiglie di bianco che ho portato io, stapparne una e bere quella.
Chiara ha fatto il Classico e studia lettere antiche. Una Facoltà dal sicuro sbocco professionale, com’è noto. L’ho già vista a un paio di feste perché è la ragazza di uno che gioca a calcio nella mia squadra. Uno magrolino, simpatico, un bravo ragazzo che gioca alto a destra, non sempre titolare. Più giovane di me e degli altri senatori della squadra, quelli che ormai non hanno più voglia di allenarsi tre volte a settimana e prendere botte la domenica e vanno avanti per la diaria, l’abitudine e le birrette del dopo partita. Più vecchio di quelli appena arrivati dagli juniores. Forse un po’ troppo un bravo ragazzo, Federico, piuttosto taciturno ma sorridente, di quelli che fanno quello che dice il mister senza rompere i coglioni a nessuno. Comunque anche lei sembra una ragazza a posto, con occhi azzurri, grandi, che paiono sempre stupiti, labbra a volte increspate in un sorriso un po’ infantile e una voce dal timbro alto ma melodico e non sgraziato. Ogni tanto ha le occhiaie da biblioteca, si vede che è una che studia, come il suo ragazzo. Lo prendevano un po’ per il culo, all’inizio, nello spogliatoio, perché arriva sempre agli allenamenti con la sacca della squadra e uno zaino con dentro i libri di storia, di filosofia. Lo chiamano tutti Dottore: dottore passa sta palla, dottore torna che è tuo quello! Chiamavano dottore anche me, fino a qualche anno fa, ma ormai a 35 anni, che vuoi? Mi sono laureato oltre dieci anni fa, lavoro da nove, non sono più Il Dottore. Fino a quando non c’è da chiedermi una cosa sulla finanza, sulle banche, sui soldi in generale, perché in quel caso ritorno dottore e chiedono tutti a me, vogliono le consulenze gratuite. Lavoro in sala di mercato per una banca d’investimenti, i miei compagni di squadra pensano che sappia tutto di qualunque argomento economico e io faccio il possibile per consigliarli senza prendermi troppe responsabilità. Compratevi la casa, dico, compratevi il garage, la seconda casa se avete già la prima. Tanto, nella squadra, quello che guadagna di più prenderà mille-e-otto al mese e ha due figli. Non penso abbiano tutti ‘sti soldi da investire, questa mandria di bucanieri della Prima categoria. Bucanieri della Prima categoria, loro. Perché io avevo la famiglia alle spalle, mia madre che rompeva i coglioni che dovevo studiare, perché io, venendo dalla provincia, sono arrivato in Eccellenza allenandomi lo stretto necessario e controvoglia, fumando e bevendo senza esagerare (fino a poco tempo fa) ma senza far vita da atleta, e mi avevano anche fatto dei provini in vista di un’eventuale Primavera di squadre di A verso i 16 anni, e poi per entrare nel giro della serie C quando avevo 17-18 anni. Avessi avuto dei genitori ignoranti adesso magari starei finendo la carriera in qualche squadra di merda in serie B, tipo il Vicenza, il Crotone o l’Entella, con dieci gol e cinque assist all’anno nelle ultime due stagioni, una dignitosa zona salvezza conquistata intorno alla trentaquattresima giornata. Per fortuna che ho avuto genitori normali, tutto sommato.
Comunque.
Comunque adesso ho voglia di fumare una sigaretta e di bere un bicchiere del mio bianco friulano, ed è anche una scusa per smettere di guardare le cosce nude, e bianche, della tipa di un mio compagno di squadra. E’ fatta proprio bene, Chiara. Sarà che le altre volte l’ho guardata di striscio, sarà che sembrava più stondata, per non dire paffutella, invece quel poco di burro che ha addosso è tutto nei punti giusti, quelli da mordere. O magari sarà che non l’avevo mai vista coi tacchi e la gonna corta… Ma me ne accorgo solo ora, penso, mentre mi avvio verso la cucina sperando di non trovarci una delle padrone di casa ed evitare la figura di quello che si apre proprio la bottiglia che ha portato lui.
Che poi, dovessero vedermi, capirai.
Mi guardo attorno, non ci sono padrone di casa, solo un tipo mezzo storto che sta parlando con una cavalla bionda tinta con netta ricrescita, di dieci centimetri più alta di lui, tacchi inclusi. E parlano con una certa intensità sostando a un centimetro dal frigo. Sorrido affabilmente, chiedo permesso, passo in mezzo, apro il frigo e tiro fuori una delle mie due bocce di Ribolla gialla.
“Bevete bianco?”, chiedo.
Mi guardano, si guardano, io guardo lui, poi guardo lei, lei mi guarda, poi guarda lui. Il tutto, avvolto da un grave silenzio. C’è molta suspence, mentre dall’altra stanza giunge l’eco vellutato di Glory Box dei Portishead.
“Vabbè io stappo”, chioso con piglio volitivo mentre afferro il cavatappi e inizio a incidere la capsula di stagnola con il coltellino: “voi fate il cazzo che vi pare”.
Forse mi è uscita un po’ rude. Sorrido di fronte alla loro espressione atterrita, correggo il tiro:
“Intendo, pardon, che io ve lo consiglio, ma non vi obbligo”.
La cavalla si riscuote un attimo dall’apparente trance, accenna un sorriso equino:
“Dài, io lo prendo, che beviamo?”
“Ribolla gialla”.
“Rivòglia gialla?” Nitrisce.
"Ribolla, con la b. Vino friulano. Fidati, buono”.
Ne verso la giusta quantità a entrambi, me ne riempio un bicchiere da osteria della bassa friulana alle ore 23, facciamo cin cin, io mi chiamo Ernesto dice lui, io Giovanna dice lei. Piacere, sorrido, chiedo permesso e mi congedo, rendendomi conto che non mi sono presentato: ormai ho infilato la porta, adesso non sto a tornare indietro apposta.
Mentre passo dalla sala dirigendomi verso il balcone commetto l’errore di tirar fuori il pacchetto di morbide dalla tasca dei jeans. Adesso arriverà immancabile quello che mi chiede una paglia, sicuro. Azzero la visione periferica e punto deciso verso l’esterno. Raggiungo il terrazzo dove c’è una coppia che sta limonando. Salutano neanche troppo imbarazzati, rispondo al saluto, per mio conto affatto imbarazzato.
“Scusate”, dico, facendo l’occhiolino e accennando alle sigarette: era un’emergenza”.
Ridacchiano imbarazzati, per cortesia, e poi sento il rumore dei loro ingranaggi cerebrali mentre si chiedono se devono parlare con me oppure tra di loro, ed eventualmente di cosa, o magari riprendere a sbaciucchiarsi, o rientrare.
“Fate come se non ci fossi. Cioè, nei limiti. Io bevo e fumo, e guardo la strada, che mi piace”.
La strada è silenziosa, le famiglie coi figli sono in gran parte già trasmigrate verso le residenze estive o sui colli per il weekend, come avviene sempre, da maggio in poi. In città sono rimasti gli studenti universitari, i pochi operai scampati a chiusure e delocalizzazioni, i migranti e i calciatori squattrinati. Noi abbiamo ancora due partite per chiudere la stagione, forse tre se arriviamo in finale in coppa. Speriamo di no. Poi, liberi tutti.
Questo è l’ultimo anno che gioco, avevo detto in agosto al raduno, e l‘ho ripetuto a tutti fino ad aprile, poi a fine aprile il presidente mi ha chiamato nel suo ufficio che puzza di sigari freddi, ma non cubani, eh, sigari toscani di quelli da dieci euro al pacchetto. Mi fa: Dottore, devi restare un altro anno. Lui mi chiama ancora Dottore: ha settant’anni, la terza media e una fabbrica di laminati, che è anche lo sponsor di maglia della squadra. Ci lavorano in tre della prima squadra, due impiegati e uno proprio in officina, come operaio. Il Pres chiama Dottore tutti quelli che hanno almeno fatto un po’ di liceo. Chi ha fatto il tecnico no, solo i licei. Non so per l’Artistico, non abbiamo mai avuto gente che veniva dall’Artistico. Ha preso sta squadra quando aveva quarant’anni e un figlio di dieci, che ci ha giocato fino a quando ne aveva 17, col numero 17 sulle spalle, e dicono tutti che giocava bene, che era forte forte, che correva come una spia, poi un venerdì 17, di sera, non è tornato a casa, si è spalmato su un platano sulla via Emilia a 90 all’ora in moto, non aveva neanche bevuto: il numero 17, pensa le coincidenze. Pensa la scaramanzia. Il Pres comunque ha tenuto la squadra come fosse in missione per conto di Dio, e giochiamo tutti gli anni un memorial a nome del figlio a fine agosto e guai se non t’impegni, il Pres rompe il cazzo: va giocato a tutta, per lui, in piena preparazione estiva, neanche fosse il Trofeo Berlusconi. “Devi restare per far crescere questa rosa”, mi fa. Lo ha detto con la serietà dolorosa, anzi, indolenzita, che il Pres mette in tutto quello che fa e che dice. Io stavo per scoppiare a ridergli in faccia ma ho fatto uno sforzo, sono rimasto serissimo e gli ho detto che non ce la faccio più a fare tre allenamenti a settimana, che sono vecchio ormai e sono ancora scapolo, che non esco mai, con tutti i weekend impegnati dal calcio, che sta squadra mi rovinerà la vita, che forse è già fottuta comunque.
Ha detto che, se resto, posso fare due allenamenti a settimana.
Gli ho detto allora sì, ma a pari stipendio e pari bonus. Ha fatto la faccia indignata per alcuni secondi e poi si è rassegnato e ha detto ok, ci parlo io col mister, sei un rabbino del cazzo ma ok, Dottore, due allenamenti a parità di stipendio. A quanto pare è un po’ antisemita, il Pres. Comunque ci siamo dati la mano, quindi l’anno prossimo mi tocca giocare un altro anno, fino a oltre trentasei anni, ormai più vecchio di tutti gli arbitri e anche di molti dei mister. Con in squadra dei duemiladue, dei duemilatre che i primi giorni di raduno ti danno del lei. Vabbè.
Antonio, il capitano, è più vecchio di me, ha quarant’anni: lo conosco e ci gioco da venti. Prima contro, e ce le siamo date come criminali a ogni incrocio, poi dieci anni fa ci siamo trovati nella stessa squadra, in Prima categoria: al raduno le prime parole che mi ha rivolto sono state: “non fare lo stronzo anche qua”. Quella stagione ho messo un ventello condito da una decina di assist e siamo saliti in Promozione. In febbraio eravamo già amici. L’anno dopo la società fa un bel mercato e mette su una discreta squadrina su cui comunque nessuno avrebbe puntato per nient’altro che un’agevole salvezza: io faccio un’altra stagione come Cristo comanda, era il periodo in cui avevo ancora voglia di allenarmi, ventiquattro gol, assist e tutto il resto, e saliamo di nuovo, in Eccellenza, con dodici punti di distacco sulla seconda, ché a marzo eravamo già campioni, praticamente. A maggio lui mi amava alla follia e mi avrebbe difeso col proprio corpo anche dal cartello di Medellin. Da quel momento in poi, inseparabili: guai ad andare in una squadra che non accettasse anche lui. Ci sarebbe rimasto malissimo. Difensore centrale di uno e novanta per ottantacinque chili, palestrato e abbronzato sempre, anche in dicembre nella nebbia degli allenamenti serali a meno cinque. Secondo me va avanti altri due tre anni, è in formissima, pensa quasi solo al calcio, ormai lo conoscono, temono e rispettano su qualunque campo della regione. Temono, soprattutto. Ha la sicurezza dei veterani e picchia sempre di più, ma con malizia, non prende più un rosso veniale da anni. Solo i rossi strettamente necessari e quelli esteticamente o moralmente irrinunciabili. Prima delle partite nello spogliatoio mette “We’re gonna win” di Bryan Adams, per caricarci. Gli sbarbi lo guardano come uno che ha messo Gigliola Cinquetti in una serata trap, ma è il Capitano che decide cosa si ascolta prima della partita e comunque se uno degli sbarbi provasse a dire una parola prenderebbe gli schiaffi, mentre tra noi vecchi nessuno se la sente di dirgli che non è necessario, Bryan Adams. Ci resterebbe male. Il Capitano è un figlio di puttana in campo ma appena fuori è un ragazzo sensibile. E’ uno dei tre che lavora in ditta dal Pres, alla contabilità, perché ha fatto Ragioneria. Ha una Giulia nera metallizzata con lo spoiler e le minigonne, i cerchi cromati, sempre tirata a lucido come lui, e una ragazza magrissima che si chiama anche lei Giulia, e secondo me è stata (o è tuttora) anoressica ma nessuno ha il coraggio di chiederlo al Capitano, e a me in ogni caso non importa assolutamente niente delle vite altrui, neanche di quella del Capitano: quindi se aspettano che chieda io, aspettano ancora un po’. Non hanno figli, probabilmente perché non ci riescono, ma anche quelle son cose che non mi riguardano. Comunque, aveva detto che sarebbe passato a fare un saluto con la sua Giulia cromata e la sua Giulia anoressica, però per ora non si sono visti.
Le proprietarie di casa, che poi sono affittuarie, sono due napoletane di cui una non è male e sta con il nostro terzino destro, che è di là con lei, sempre attaccati l’uno all’altra come cozze. L’altra tipa è brutta e se ti avvicini senti che un po’ puzza anche, o forse è solo suggestione, non so, comunque non credo stia con nessuno, ma in queste cose non si sa mai: le sorprese, a volte. E’ il suo compleanno e, siccome non credo abbia molti amici, la sua compagna di casa ha chiesto al suo moroso d’invitare anche qualcuno della squadra, meglio se single, ci saranno molte amiche, gli ha detto di dire. Ed eccomi qua, a questa festa di sbarbi, tutti minimo dieci anni meno di me. Figa, poco o niente: tranne Chiara che è occupata. Sarebbe dovuto venire anche il Capitano, ma per adesso non si è visto. Sarebbe dovuto venire anche Mick, ma quel pervertito di Mick è in ritardo anche agli allenamenti, figurarsi stasera. E quindi sono qua, da solo, bevo e fumo. Dico pervertito, ma Mick non lo è più di me. Anche lui è single, in parte per per scelta in parte per necessità: diciamo che anche lui rifugge l’ora grave delle responsabilità e delle scelte e il superamento della linea d’ombra. E’ single e gli piacciono le donne e in quel frangente non si risparmia, diciamo. Ha un anno meno di me ed è quindi quello con cui mi capita di uscire più spesso, del giro della squadra. “Portami nei posti in cui andate voi trader”, mi dice, “dove ci sono le troie di lusso”. Ha questa immagine un po’ romanzata degli analisti delle sale mercato, tipo Wolf of Wall Street. Mai vista una troia di lusso in vita mia, o perlomeno non nella mia immediata disponibilità. Mai andato a puttane in vita mia, neanche. Mick mi sa di sì, oserei dire con una qualche regolarità, tipo anche adesso, magari, appena prima di venire. Anche lui è laureato, però in Scienze politiche. Lavora a una biblioteca universitaria, contratto biennale con una coop, perché per ora non ha trovato altro. Fa le foto col cellulare alle tipe che vanno in biblioteca, niente di sconcio, ma le fa di nascosto, poi me le fa vedere: “te la scoperesti questa? E questa? Guarda questa che culetto, questa è single”. Allora provaci, gli dico, lui fa sì con la testa e poi ci prova davvero e all’allenamento dopo dice che se l’è fatta: non so se è vero, ma ci può stare perché è belloccio, Mick, ci sa fare e si vede che è porco. E alle ragazze piace, specie a quelle con velleità culturali-intellettuali sui ventidue-ventitré anni, il trentacinquenne belloccio, allenato, che pensi sia un po’ un fallito, e tutto sommato è vero, ma è anche porco. Il brivido della trasgressione, l’interclassismo, queste cazzate qua. Anche lui (come me e a differenza del Capitano) va ormai avanti per inerzia e perché quei tre-quattrocento euro in nero in più al mese gli fanno comodo, con quello che tira su dal naso. Per fortuna che in Prima non fanno l’antidoping. Interno nel 4-4-2, anche se lui si definisce mezzala ma non si capisce che mezzala sia, visto che a centrocampo giochiamo a quattro con due ali pure e in mezzo un carpentiere, in senso figurato non letterale, e lui, che ha un calcio più educato di un carpentiere, ma non di molto, non fa gli inserimenti, non copre particolarmente gli spazi liberati dall’ala, non si scambia col terzino. Inutile discuterci: non è che a Mick importi poi molto del ruolo e del calcio in generale. Figurati a me.
Scruto la strada e tendo l’orecchio a captare il segnale dell’avvicinamento di una macchina, sperando che arrivi Mick per parlare in maniera un po’ sguaiata della fauna femminile della festa, o almeno il Capitano, con cui toccherebbe parlare della prossima partita (“che è l’unica che conta, raga. Una alla volta, raga, una alla volta”) ma sarebbe comunque meglio che le conversazioni sul nulla fatte con le poche facce note che conosco a sta festa. Finisco la sigaretta ma ho ancora mezzo bicchiere di vino, fuori si sta bene e la musica - adesso un classico Springsteen - arriva al giusto volume. Decido di accenderne un’altra. Mentre pensavo ai fatti miei la coppietta che prima limonava se n’è andata e adesso noto con la coda dell’occhio un’altra coppia che parla in un angolo del terrazzo. Riconosco la voce di lei e - voltandomi appena - li inquadro meglio. Chiara, con le sue cosce bianche che, ora che è in piedi e la gonna si è abbassata, sono coperte al mio sguardo ma non scomparse dalla mia mente; e un tipo che non è Federico. Mi metto ad ascoltarli cercando di non dare nell’occhio. Sembra stiano chiacchierando di cinema, o meglio lui parla e lei sorride e annuisce e si sfiora appena i capelli. Federico, il suo ragazzo e nostra ala destra, se non erro ha un esame importante e ci aveva preannunciato che sarebbe arrivato dopo. Lui a casa a studiare e lei qua a farsi intortare da sto coglione che le parla di cinema, penso. Come se fossero fatti miei. Non lo sono, ma mi scoccia che lei… che lei cosa? Che la ragazza di uno che gioca con noi e che conosco appena parli con uno sconosciuto a una festa? Che poi per quello che ne so io non è neanche uno sconosciuto, magari è il fratello. Ma non sembra il fratello, anche a voler fare le anime candide sembra più uno che ci sta provando. Ma sono comunque fatti loro.
Per un attimo incrocio lo sguardo di Chiara, che forse mi ha sorriso, finisco il vino in una sorsata e mi concentro sugli ultimi tiri di sigaretta, guardando giù in strada. Tra le chiome delle betulle che punteggiano il viale alberato sotto casa s’intravede un movimento e infine emerge dalla penombra, entrando nel cono di luce di un lampione, la sagoma familiare di Michele. Mick. Finalmente. Alza la testa e mi vede. Gli faccio un cenno, al quale risponde con un cenno. Suona al citofono, mi guarda e dopo una decina di secondi in cui non succede niente mi fa un gesto tipo “vammi ad aprire” al quale rispondo mimando con la mano il più tradizionale atto di autoerotismo maschile, senza spostarmi di un millimetro. Ride, poco prima di scomparire dentro la pancia della villetta. Qualcuno alla fine deve avergli aperto. E’ una casa di tre piani, il pianterreno occupato dai proprietari che però hanno una casa in Liguria e non ci sono quasi mai, e il secondo dalle due ragazze napoletane. Al terzo non c’è nessuno: sarebbe un pied-à-terre per il figlio di quelli del pianterreno che però fa, credo, il chimico in Svizzera e anche lui non c’è mai. Tutte queste cose non le so perché mi sono informato, visto che non me ne frega assolutamente niente delle vicissitudini che riguardano traiettorie esistenziali diverse dalla mia: me le ha spiegate Roby, il terzino destro, quello che sta con una delle napoletane, mentre l’altro giorno non potevo fuggire perché facevamo la solita doccia tiepida-tendente-al-freddo dopo un’ora e mezza di allenamento, perché il Pres non ha mai installato delle caldaie decenti. E finché è maggio-giugno va ancora bene, ma in dicembre gennaio febbraio è una cosa infame. Per cinquecento euro al mese, ogni volta rischiare la polmonite. Mentre mi volto per assistere all’ingresso di Mick dalla porta di casa, mi passano davanti l’esperto di cinema e Chiara, che mi sorride e saluta. La bacio su entrambe le guance anche se non ricordo che ci sia mai stata questa confidenza tra di noi e infatti lei arrossisce mentre il cinefilo resta un attimo interdetto prima di congedarsi in silenzio. Chiara è avvolta da un buon profumo di bagnoschiuma, morbido come i suoi contorni.
“Ehi”, dice.
“Ehi”, rispondo: “Come va?"
“Dai, bene. Mi manca solo un esame in questa sessione, ed è quasi pronto. E tu?”
“Così, dai. Nell’attesa che finisca sto campionato. Anche te non starai aspettando altro, no? Almeno con Fede andate da qualche parte il weekend”.
Sorride.
“La dura vita di noi veline, donne di calciatori… ormai sono abituata. E la tua ragazza? Ah no, è vero…” si corregge prima che sia io a doverlo fare.
“Sei al corrente della mia drammatica situazione sentimentale? O dovrei dire assente?”.
Mi pare che arrossisca di nuovo ma sorride ancora.
“Certo, me l’ha detto Federico”.
“Che pettegolo”.
“Ma no, mi ha parlato un sacco di te…”
“Addirittura? E che ti ha detto? Cose orribili?”
“Ma no, anzi. Ti vuol bene. Dice che sei l’unico normale nella squa…”
Si ferma e si morde le labbra, rendendosi conto di aver detto forse una cosa di troppo. É buffa. Rido.
“Stai serena, ha perfettamente ragione. Siamo in due o tre normali là dentro”.
“…Dio, pensavo di aver fatto una gaffe… sai, una cosa classista…”
“Classista?”, la guardo, stupito da questa sua sensibilità marxiana.
“S… sì, cioè… sai, che sono normali solo i due o tre che hanno…”
“Che hanno studiato?” le chiedo, con finta severità: “in effetti sì, è classista”.
“Oddio… mi sa che sto peggiorando le cose”.
Mi metto a ridere di gusto. È graziosa, mentre si incarta in questo tentativo di scartarsi. Le osservo per qualche istante il collo bianco, le braccia lisce. È un cioccolatino che metterei volentieri in bocca.
"Le stai peggiorando, in effetti. Ma non lo dirò a nessuno”, continuo, mentre fa la sua comparsa sulla soglia del terrazzo il mitico Mick.
“Uè, vecchio maiale”, esordisce, perché gli piace mettere a proprio agio le persone: “Chiara, ciao. Come va? Non parlare con questo qua che è un vecchio di merda. Tieniti stretta la tua ala destra”.
“Benvenuto Mick, amico mio squisito. Anch’io sto bene, e tu?” rispondo.
Ridacchiamo imbarazzati tutti e tre. Scambiamo altre due o tre parole, poi Chiara dice che deve rientrare per andare a sincerarsi che in camera sua sia tutto ok. La guardo stupito.
“Ma come, tu abiti qua?”
“Da stasera! Ho finito il trasloco oggi”.
"Ah, avevo capito che qua ci abitavano le due napoletane. Cioè, la tipa di…”
“Fino a ieri. Da una settimana Michela, l’altra ragazza, è andata a vivere da un’altra parte. E qua subentro io. La festa è per questo”.
“Ma non era il compleanno di ‘sta Michela?”
“Ma no, quello era un mese fa!”
“Ma che cazzo aveva capito Roby? Le ho anche preso un libro”, chiedo ridendo a Mick, che ride a sua volta.
“Ah boh, lo sai com’è fatto”.
“Vabbè niente. Boh, allora come si dice? Benvenuta a casa tua? Dopo ti do il libro. Auguri”.
“Che libro è?”
“L’avrai letto. Un giallo svedese, della vecchia scuola però”.
“Non ho letto niente di gialli svedesi” ammette lei.
“Sarà una prima volta”.
“Grazie" sorride radiosa mentre si accomiata e rientra nel soggiorno.
Mi volto verso Mick: è vestito bene come al solito, coi jeans giusti, le scarpe giuste, la t-shirt giusta comprata durante un viaggio a San Francisco. Tira fuori una cannetta da un pacchetto di sigarette in cui era circondata da altre sorelle allestite in precedenza e mi fa l’occhiolino.
“Così, appena arrivato?”, gli chiedo senza aver smesso di ridacchiare da prima.
“Ah, senti. L’affronti tu questa festa senza drogarti?”
“Sei appena arrivato e già ti lamenti. Vado a prendere un bicchiere di vino anche per te, perché sono una persona fondamentalmente buona. Tu aspettami qua”.
“Porta la boccia. Ne ho portate due di bianco”.
“Ottima idea. Anch’io. Che hai portato tu?”
“Chardonnay, prosecco, cazzo ne so. Dieci euro a bottiglia, figa”.
“Perché sono uguali, notoriamente. Il prosecco ha persino la bottiglia diversa. Quanta ignoranza e quanta omosessualità”. Non sono omofobo, comunque: solo conformista. In squadra si usa, e non sono uno da condurre battaglie culturali in spogliatoio.
"Eh sì, sì, vai a prendere il vino e torna che ora te la devo raccontare, la mia omosessualità”.
Sospiro per finta e torno dentro sorridendo e dirigendomi verso la cucina.
In cucina, immobili nella stessa posizione in cui li avevo lasciati, tipo stabat mater, vigono il tipo storto e la cavalla, come se il tempo avesse continuato a trascorrere per tutti tranne che per loro. Cenno d’intesa da parte mia, cenno equino da parte sua, si scostano, apro il frigo, estraggo la Ribolla che nessuno ha toccato:
“Altro giro, altra corsa?” Come all’ippodromo, mi stava venendo da dire ma mi son morso la lingua: “Vi è piaciuto?"
“Ottimo, davvero” dice il tipo.
“Ottimo. Rivòlla, hai detto?” chiede lei
“No, Ribolla, con la b”. Le verso un bel bicchiere e uno importante anche a lui, controllo la bottiglia portandola all’altezza degli occhi. Ne resta un bicchiere abbondante, non di più. Me lo secco attaccandomi direttamente al collo della bottiglia in un unico movimento e di fronte alla loro perplessità: “sono un enologo” dico con fermezza, nella speranza che questo li rassicuri o almeno li confonda. “Beh, ne apro un’altra. Ci sono anche due bottiglie di Chardonnay, o forse di prosecco, o di qualunque altra cosa, comunque si spera bianco, le ha portate un mio amico. Aprite pure e continuate col bianco, che è meglio di qualunque cosa possiate bere qua a parte quella bottiglia di rum che c’è lassù ma non so se è per stasera” finisco, indicando una bottiglia di un caraibico ambrato appoggiato su una mensola della cucina: "consiglio amichevole”.
Faccio loro l’occhiolino e li lascio, un po’ interdetti, alle loro conversazioni che presumo interessantissime, dopo aver stappato l’altra Ribolla e afferrato un bicchiere per Mick.
Passo di nuovo dalla sala, dove noto Chiara sul divano di prima, intenta a parlare di nuovo col cinefilo di prima. Mi vede, mi sorride, le sorrido, il tipo mi guarda, senza però sorridere, passo oltre.
Mick mi accoglie con un paio di insulti, prende il suo bicchiere, se lo fa riempire, mi guarda riempire il mio. Appoggio la bottiglia sul davanzale di una finestra mentre lui accende la canna. Fa un paio di tiri e poi me la porge.
“Erba di un amico. Non fa venire mal di testa”.
“Sperém” rispondo.
“Fidati, coglione. Ti ho mai fatto fumare porcherie?”
"Fammici pensare. Duecento volte? Dov’eri, comunque?”
"Arrivo sempre tardi così mi si nota di più. Non è necessario, eh, perché sono il più bello sempre e comunque. Ma aiuta. Buono sto bianco, che è?”
“Ribolla gialla”.
“Rivolta gialla? Che è, una roba anticolonialista cinese?”
"Ma che cazzo avete tutti con la Ribolla Gialla stasera? Ribolla, che ci vuole a pronunciarla?”
“Ma che cazzo ne so. Comunque, scommettiamo che me ne porto a casa una?”
“Di bottiglie?”
“Di tipe”.
“Che vuoi scommettere? Stai calmino che qua son tutte o ragazze di compagni di squadra o sorelle di cugini di nipoti di compagni di squadra, o tipo minorenni. Vedi di non far dei casini.
“…Dice quello che si stava intortando la Chiaretta quando sono arrivato”, ride.
“Olé. Non dire cazzate”.
“Sono arrivato con lei che ti diceva ‘vieni ti faccio vedere camera mia di là’”.
"Sei un coglione”.
"Perché non ti piacerebbe, ovviamente”.
“Cazzo c’entra? Sta con Fede”.
“Ma ha un bel culetto, o no? Dai!”
“Ma sì. Non solo quello”.
“Eh infatti. Bel bocconcino. Secondo me poi ci sta”, risatina porca.
“Sei un coglione parte seconda. Ma non avevi qualcosa da raccontare?”
“Ah sì, sì… ti ricordi quella che ti avevo detto, quella moretta in biblio…”
E inizia il consueto racconto della sue gesta erotiche. Chiacchieriamo mentre la festa si protrae quasi in nostra assenza e noi privatizziamo la bottiglia di Ribolla qua sul terrazzo. La temperatura si è ulteriormente abbassata rispetto a un’ora fa e adesso si sta veramente bene, la città è ancora più silenziosa e l’alcol e la stanchezza di una settimana iniziano a cullarmi in maniera gradevole. Mick si va ormai addentrando negli aspetti più tecnicamente ginecologici dell’amplesso e lo lascio fare, senza rovinargli il ritmo del racconto e il momento di gloria. E’ solo dopo che ha finito ed è rimasto per qualche minuto a contemplare le luci a distanza e a crogiolarsi nelle mie domande-complimento standard (vere o rifatte? Solo una botta o doppietta? Le hai fatto male? E così via) che sembra ridestarsi per un attimo dal torpore tiepido delle rimembranze, e m’interrompe.
“Oh, ma il Capitano dove cazzo è? Non doveva venire anche lui?”
“Doveva. Chi l’ha visto Rai tre”.
“Lo chiamo?”
"No! Cazzo chiami, magari sarà con la tipa”.
“Ah beh, che culo allora”, risponde. Ridiamo. “Anche Fede però manca, no?”
“Sì. Aveva un esame”, faccio io.
“Vero. Vabbè: vado a pisci… ehm, vado alla toilette”.
"Perché ti sei corretto alla fine?”
“Mi sto raffinando. Faccio un corso di galateo adesso”.
“Ah, ecco. Mi sembrava, infatti, di trovarti molto più signorile”, sorrido mimando con le mani la forma di un cappello a cilindro abbassato in segno di deferenza.
"Suca forte. Vado”.
Mi volto e faccio due passi lungo il terrazzo per sgranchirmi le gambe. Dalla finestra sul cui davanzale è appoggiato il vino butto un occhio dentro e vedo Chiara seduta al solito divano, con il solito cinefilo davanti, che adesso le sta parlando praticamente in un orecchio, le ginocchia che sfiorano quelle di lei. Eh no, cazzo. Non così davanti a mezza squadra: che poi non è vero, siamo in tre o quattro compreso un duemilasei di origine colombiana che fa pratica da un idraulico e che ho visto adesso e non si capisce cosa sperasse di ottenere venendo, che si aggira con aria annoiata e persa. Speriamo non mi veda. Ma comunque, non puoi fare la puttanella davanti agli amici del tuo ragazzo. Per giunta con un fighetto moscio come questo. Mi sto innervosendo, senza una ragione tranne la morale patriarcale dello spogliatoio di una squadra di calcio di livello regionale. Ma siamo quel che siamo fino a quando non lo siamo più, non è vero? E in ogni caso le cosce di nuovo parzialmente scoperte di Chiara, il suo sorriso un po’ meno compito di prima, il modo in cui gli parla e lascia che lui le parli… mi stimolano due riflessioni contrapposte.
La primà è: dai Chiara, ricomponiti. Non si fa.
La seconda: ho voglia di sentire il profumo che hai fra le cosce. E anche il sapore.
Sono consapevole che il primo sia un concetto magari un po’ retrivo, ma in linea con la morale comune, mentre il secondo è più problematico: se ti incazzi con Chiara perché si fa intortare da un tizio invece di restare al capezzale al suo studiosissimo compagno (nonché mio compagno, di squadra), non puoi contemporaneamente pensare che quello che in realtà vorresti adesso è toglierle di dosso quella gonna e abbassarle gli slip per fruire per intero…
“Che guardi? Chiara?"
La voce di Mick, che mi mostra una bottiglia di Sauvignon, mi riporta sulla terra. Rido.
“Ho fatto centro? Vedi che sei un maiale?”, ride anche lui.
“Hai fatto centro ma la stavo guardando perché, cazzo dai, sta parlando…”
“…Con quel tipo da un’ora”, mi interrompe Michele: “Infatti. L’ho notato anch’io. Cazzo, davanti agli amici del suo tipo”.
"Ah, ecco, non l’ho notato solo io, allora”, chiedo, in parte sollevato.
"Ma certo che no. Da un’ora blablabla gnegnegne con quel tizio”.
“Comunque anche Fede non è normale, dai. Venerdì sera, anche se stai preparando un esame magari vieni alla festa e basta no? Sono quasi le undici. Stai studiando alle undici del venerdì?”
“E infatti lei si vendica e si fa intortare da uno a caso”.
“Avendolo saputo…”, rido mentre ci servo gli ultimi due bicchieri di Ribolla per far posto al suo Sauvignon.
"Te l’ho detto che sei un maiale. E comunque su di lei ti capisco”.
“Eh, dai. Onesto, non te la faresti?”
“Ma scherzi? Certo che si".
"Cioè dai… ha proprio quella pelle chiara… l’aria innocente. Le gambe fatte bene, un bel culetto morbido…”
“Belle tette piene, secondo me una terza abbondante, per non dire una quarta, che su una così è tutto bonus…”, continua lui.
“Eh sì. Oh, che maiali che siamo comunque. É la tipa di un amico”.
Ridiamo.
“Beh dai. Se non lo fosse, la becchi così per strada mentre torna a casa, non la spingi dentro il furgone?”, chiede Mick con un tono leggermente diverso, meno ironico di prima, avvicinandosi e buttandole un’occhiata dalla finestra. “Così, con quell’aria da brava ragazza…”
“Sul… furgone?”, chiedo, incuriosito dall’apertura che mi pare Mick stia lasciando ad un mio potenziale commento. Abbiamo parlato a lungo di donne e di sesso, ma non mi pare di avergli mai confidato la mia attrazione per questo genere di fantasie. O forse gli ho raccontato che ho avuto qualche esperienza bdsm.
“Ti sconvolge?”, chiede.
“Non credo. Voglio capire se ho capito bene, però”.
L’aria è mossa adesso da una gradevole brezza notturna e abbiamo entrambi già bevuto un po’ troppo, oltre ad aver fumato una canna in due. Mick continua:
“Eh, dai. Il furgone. Le passi vicino col furgone, apri la porta scorrevole, uno scende e la spinge a bordo”.
Voleva proprio dire questo, quindi. Mi piace. Non è assolutamente un discorso che andrebbe fatto, ma da un anno abbiamo una confidenza che forse ci permette di farlo. Mick ha lasciato la frase in sospeso, come un amo al quale c’è da capire se abboccherò o no. Tocca a me fare l’eventuale passo avanti.
“Capisco. Lei si divincola un po’, ma è talmente sorpresa che non fa neanche in tempo a dire una parola. E comunque le metti una mano sulla bocca.”
Michele sorride con una nota vagamente tetra, mi guarda negli occhi.
“E’ chiaro. Non le devi dare il tempo di reagire. Oplà, dentro, richiudi il portellone laterale e te la porti dove ti pare a te”.
La guardiamo. Qua fuori non c’è quasi illuminazione mentre dentro è tutto acceso, di sicuro non ci può vedere mentre continua a parlare fitto fitto con il tipo, che adesso le ha anche appoggiato una mano su una spalla. Ci sta proprio provando, il figlio di puttana.
“E’ carina”, fa Michele. Ed è la definizione più giusta, e più stridente con quello che abbiamo appena immaginato di farle. E quindi la migliore.
“Innocente. Ha quest’aria innocente che mi piace un sacco”, ammetto.
“Anche a me piace. E anche il modo in cui si veste. Non se la tira, ma sa di essere sexy e si valorizza. E’ fatta apposta…”
“Tra l’altro profuma di bagnoschiuma”.
“Che ne sai?”, ridacchia, guardandomi: “l’hai annusata?”
“L’ho baciata sulle guance. E’ profumata. Liscia liscia”.
“Che porco che sei. Secondo te, è liscia dappertutto?”
“Intendi, sotto?”
“No no, intendo proprio la figa”.
“Beh… può darsi sia tutta liscia”.
“Deve”.
“Secondo me o è liscia liscia, che sarebbe il top, oppure ha un po’ di peluzzi biondi, che francamente non danno neanche fastidio”.
“Hai ragione. Ci stanno bene anche un po’ di peluzzi biondi o rossi, ma tenuti bene”.
“Ah, sicuro. Curàti”.
Ridacchiamo grevi. Qualcuno sta uscendo sul terrazzo e ci riporta alla realtà. Accendo un’altra sigaretta mentre Michele versa a entrambi un bicchiere di bianco. Scambiamo qualche parola con le due ragazze che sono uscite a fumare. Amiche di qualcuno che non conosciamo, chiaramente uscite in missione vediamo-sti-due-tipi-là-fuori-se-sono-interessanti-oppure-no. Dopo cinque minuti non abbiamo già più niente da dirci anche se ho la sensazione che loro sarebbero rimaste a chiacchierare un altro po’. Rientriamo in sala, e passiamo di crocchio in crocchio chiacchierando con i pochi volti conosciuti e sorseggiando quel che passa il convento. Ancora nessuna traccia né di Federico né del Capitano, che a questo punto sicuramente non viene. Io e Michele, come se ci fossimo coordinati per farlo, nel frattempo non perdiamo d’occhio Chiara, proprio come fa il tipo che parla di cinema, che ormai l’ha completamente privatizzata. Sono insieme da un paio d’ore, a parlare fitto fitto, a ridere, a dirsi cose nell’orecchio: lui ci sta apertamente provando e lei lo lascia fare, senza alcun ritegno. Sarà l’alcol, sarà che non c’è il suo ragazzo, ma Chiara si comporta come una che aspetta solo di essere baciata e non capisco perché il tipo non l’abbia ancora fatto.
"Vado a sentire che cazzo si dicono”, mi sussurra Mick passandomi accanto, come se mi avesse letto nel pensiero un’altra volta.
Si avvicina con nonchalance al divano su cui i due piccioncini sono seduti e, dando loro le spalle, si mette a guardare i libri sugli scaffali di una piccola libreria che occupa un angolo della sala. E’ veramente a un passo da loro ma la musica è piuttosto alta e soprattuto stanno parlando spesso l’uno nell’orecchio dell’altra. Non so se Mick riuscirà a captare qualcosa. Chiara ha le gote appena arrossate dal caldo e forse dall’alcol, il vestito più stropicciato di due ore fa, è seduta in maniera meno compita di prima, più rilassata. Si vede che si sente a suo agio, che ha abbassato le difese e si preoccupa meno di quanto accade attorno a lei. E’ molto desiderabile. Chissà se può avvertire i miei occhi percorrerle le caviglie, le gambe, su fino alle cosce mezze scoperte dall’orlo del vestito che si è via via rialzato, poi sulla forma delle tette che premono sotto la maglietta appena scollata. Vorrei sbottonarle altri due o tre bottoni e allargare con le dita i lembi della V per guardarle da vicino le tette e sentire il profumo della sua pelle appena accaldata. La chiacchierata con Mick mi ha instillato sto pensiero fisso, e ormai il mio focus è Chiara, Chiara presa e portata da qualche parte. Contro la sua volontà. Non mi è nuova, questa fantasia. Ce l’avevo anche al liceo, ma anche prima, forse già alle medie: mi ha sempre eccitato l’idea di prendere una ragazza, di tenerla ferma, bloccarla contro un muro. Giocavo a nascondino o a guardie e ladri con le ragazzine della mia età per il piacere di trovarle. Avere l’oggetto dei miei pensieri a un paio di metri, vedere mentre si scioglie e il vino la rende più indifesa, mi eccita in maniera dolorosa. Ho un’erezione che va e viene da oltre un’ora. Il tipo continua ad appoggiarle una mano ora sulla spalla ora su un braccio, e lei immobile, che non si sposta di un millimetro, non cerca di districarsi dalla conversazione. Si sono alzati un paio di volte e poi si sono rimessi a sedere da qualche parte, a parlare in solitaria. Le percorro il collo bianco con lo sguardo, e poi il mento, la bocca socchiusa. Il nasino tondo, piccolo, leggermente schiacciato. Quando arrivo agli occhi mi sta guardando anche lei. Ha un lieve sorriso e l’espressione d’infantile sorpresa che le capita spesso di assumere. Le faccio l’occhiolino. Arrossisce e sorride, abbassando lo sguardo e poi tornando ad ascoltare - non so con quanta attenzione - il tipo che le sta parlando. Io non ho abbassato lo sguardo: vederla arrossire e sapere che ne sono stato responsabile mi ha dato un brivido di eccitazione che mi ha scosso fisicamente. Digrigno i denti. Le tengo gli occhi incollati addosso e vedo che lei lo sente, lo sa, prova un crescente imbarazzo. Si gira un paio di volte con un mezzo sorriso per controllare se la sto ancora guardando, incrocia il mio sguardo, arrossisce di nuovo, distoglie lo sguardo. Dopo un minuto non resiste più, si alza con una scusa qualsiasi e va verso la toilette. Decido di continuare a seguirla ostentatamente con lo sguardo, contenendo a fatica l’impulso di seguirla in senso letterale, di andarle dietro e infilarmi in bagno con lei e… Nel frattempo Mike mi ha raggiunto e mi sta parlando a voce abbastanza bassa perché possa essere il solo a sentirlo:
“Bel culetto, eh?”
“Molto. Gran voglia di vederlo scoperto. La sto guardando fissa da un paio di minuti, se n’è accorta e non ha retto, si è dovuta alzare e andare in bagno. Ha le gote rosse, è in imbarazzo”.
“Andiamola ad aspettare fuori dalla porta”.
Rido.
“Cazzo, dovremmo. Peccato ci siano trenta persone e si configuri l’ipotesi di reato. Hai sentito qualcosa di quello che si dicevano?”
“Pezzi e bocconi. Libri, roba del genere. Lui fa il lumacone e lei gli dà corda. Ci sta provando e lei ci sta”.
Tecnicamente, la stiamo stalkerando. Uno l’ascolta, uno la guarda. Ci consultiamo tra di noi, la teniamo sotto osservazione, la bracchiamo. Siamo probabilmente già oltre il moralmente lecito e ai limiti del codice penale. Ma non riesco a fermarmi:
“Dici davvero che cede?”
“Ah, se quel coglione di Fede non viene, stasera lei finisce per farsi limonare da sto fighetto qua. Ci scommetto quel che vuoi”.
“Cazzo no, piuttosto me la limono io”, dico, e tutto sommato non è più uno scherzo. Perché ormai lo penso e lo posso tranquillamente ammettere anche con me stesso.
“Aspetta il tuo turno” ridacchia Mick.
Nel frattempo Chiara è ricomparsa in sala e si guarda attorno. L’altro stronzetto è sempre al solito posto e la cerca a sua volta con gli occhi, nella speranza d’incrociare il suo sguardo e farle un qualche cenno e magari ripartire con un’ora di chiacchiericcio. No, non mi va. Riempio rapidamente un secondo bicchiere di vino e faccio due passi nella sua direzione, fino ad intercettarla, frapponendomi tra lei e il tipetto. Mi guarda con un bel sorriso, un po’ incerto. Le mostro i due bicchieri di vino che tengo in mano:
“E ti offro una sigaretta. Prendiamo una boccata d’aria?”
Ci pensa mezzo secondo.
“Oh, ok. Grazie”.
Mick mi fa spazio con la punta di un sorriso, io la faccio passare avanti e la seguo sul terrazzo fissandole le gambe e il culo: pochi istanti dopo sono da solo con lei, tra lei e la porta, nella parte un po’ meno illuminata del terrazzo dov’era un paio d’ore fa.
"Che fine ha fatto Federico?”, le chiedo, passandole il bicchiere.
“Non… non viene più, ha scritto. Ha studiato fino a un’ora fa, ha mal di testa… lo conosci, è fatto così. Non è un gran festaiolo”.
“E ti lascia sola soletta a una festa?”, le chiedo, sorridendo ma senza perdere il contatto coi suoi occhi. Non riesce a sostenere a lungo il mio sguardo, si vede che la imbarazza.
“Beh, si fida”, risponde arrossendo.
“E fa bene?” Sta cadendo in trappola. Sta giocando al gioco a cui voglio che giochi.
"Beh… sì, perché?”
“Sei una bella ragazza. Non dirmi che nessuno ci prova”.
Mi guarda di sfuggita, mentre le accendo la sigaretta che le ho appena offerto. Arrossisce ma sorride, si vede che il complimento l’ha colta di sorpresa ma le ha fatto piacere.
“Sai come va… C’è sempre qualcuno che ci prova, alle feste”, risponde: “ma io mi comporto sempre bene”.
“Come stasera?”
Non mollo la presa, ci sto prendendo gusto a cuocerla a fuoco lento, a tenerla sotto pressione.
"P… perché?”
“Il piccoletto è tuo fratello?”
Mi guarda con occhi stupiti. L’ho detto apposta così, per abbassarlo. Per abbassare anche lei, farla sentire in colpa e, per giunta, per uno che non vale la pena.
“Il… piccoletto?"
“Ci parli da due ore”.
“E’… un amico… scusa, perché?”
“Ah, sì? Lo conosci da molto?”
"Da molto… cioè da molto no…”
"Da quanto?”
“Boh, non so, un mese?”
“Un mese?”
“Forse meno… non so. Che importanza ha?”, sorride imbarazzata.
Rido. Aspiro una boccata di fumo, la risputo. Bevo un sorso di bianco. Sorrido bonariamente:
“Se non lo sai tu… Comunque, ti ha fatto un bel comizietto, no?”
Si rende conto che sto spingendo il gioco troppo oltre, sia per durata che per intensità. Sa che non ho il diritto di farlo, né abbiamo questa confidenza. Ma non sa come uscirne senza essere scortese. La vedo, la sento la difficoltà. Non si aspettava questa conversazione.
"Scusa… in che senso?”
“Sono due ore che fa lezione. Non ti sei stancata?”
“Beh… cioè no, parliamo entrambi. Non mi fa.. lezione”.
“E di che parlate? Vi raccontate dei segreti?”
E’ un piacere che imparo appena a conoscere, intenso e irresistibile, quello di osservarla dibattersi nel tentativo scomposto di costruire una sorta di difesa. Non sa come fare a tracciare per terra la linea oltre la quale non mi sarebbe consentito andare. E’ in imbarazzo, l’ho messa in una posizione per uscire dalla quale servirebbero risposte o evasioni anche fisiche che lei, qua e adesso, non sa dare, non sa darsi.
“Boh… del più e del meno”.
“Nell’orecchio?"
“C… come dici?”
“Parlate del più e del meno dicendolo nell’orecchio? Perché ti guardavo, prima. E non so che ti ha detto lui a un certo punto, ma”, mi avvicino a lei, le passo il braccio dietro sinistro la schiena in modo che non possa arretrare, appoggiandole il palmo della mano, aperto, tra le scapole. Mi chino verso il suo orecchio sinistro, con la destra le scosto appena i capelli e le lascio scivolare le parole, sussurrate una alla volta, direttamente nell’orecchio, sfiorandolo appena con le labbra: “te lo ha detto così. Ora, io di solito se dico una cosa nell’orecchio a una ragazza carina come te, è per dirle una cosa del tipo: ‘fai la brava’”.
Ho potuto avvertire il fremito che le ha percorso i muscoli mentre la toccavo per la prima volta e le dicevo queste precise parole, con calma, separandole l’una dall’altra e allontanandomi in seguito pianissimo, le narici inondate dal profumo dei suoi capelli e della sua pelle. Chiara si tiene una mano nell’altra e ha i piedi uno vicino all’altro, le punte che si toccano. Si guarda le scarpe, mentre risponde.
“Non… non mi ha parlato nell’orecchio” è l’unica bugia che riesce a articolare.
“Ah, no? Dici che ho visto male?”
“N… no, ma magari una volta. C’è la musica dentro”.
“Una volta sola?”
“Boh due. Non so. Una o due”.
Sorrido.
“Ehi, tranquilla. Sto scherzando”, le dico, provando a far scendere la tensione. E’ un gioco sottile, in cui devi toglierle appigli, non darle punti di riferimento.
Mi affaccio alla porta del salotto, cerco con lo sguardo Mick, che mi vede. Gli faccio un cenno e pochi istanti dopo, sul terrazzo, siamo in tre. Io, lui e Chiara. Che adesso sorride ma non sa se può fidarsi oppure no, sempre più confusa, stranita, e incerta sul da farsi.
"Hey Mick, stavo facendo quattro chiacchiere con Chiaretta. Io dico una cosa, e lei ne dice un’altra. Magari tu puoi risolvere il dubbio?”.
“Certo, ditemi pure”, sogghigna lui, reggendomi istintivamente il gioco.
“Vedi, a me è parso che Chiara, nel parlare con quel ragazzetto con cui parla da un paio d’ore, non so se hai presente”.
“Quello bassetto?”, aggiunge Mick, neanche ci fossimo messi d’accordo.
“Esatto. Lui. Ecco, io dicevo che li ho visti diverse volte, tipo quindici o venti, parlarsi nell’orecchio, ma tipo così”, e, riavvicinandomi a Chiara, la traggo a me con un lieve scossone, mi chino verso il suo orecchio e le sussurro di nuovo ‘Sto scherzando, rilassati’. Ha un altro brivido, più contenuto di quello di prima, ma è evidente che non sia per niente a proprio agio.
“Ma certo” esulta lui: “Almeno dieci volte”.
Messa all’angolo, sembra per un attimo rianimarsi. Si morde delicatamente un labbro, fa un sospiro e poi dice:
“Ok… ok. Scusate, ma se sono due, cinque, o venti… a voi cosa cambia?”
Ridacchiamo entrambi.
“Beh…”, risponde Mick: “Stiamo scherzando, dai. Si fa per parlare…”
"E poi conosciamo il tuo ragazzo”, ci metto il carico.
“Ma… non ho fatto niente di male. Stavamo solo… parlando…”
“Ah beh, certo. Quindi per fare un esempio non c’è problema se ti parlo cosi:” nel dirlo, mi avvicino al suo orecchio, l’avvolgo con un braccio e stavolta la traggo proprio a me, fino a quando i nostri corpi non si sfiorano, tuffo il viso in mezzo ai suoi capelli spostandoli appena con il naso. La tengo ferma col braccio che le ho passato dietro la schiena al suo timido tentativo di ritrarsi e, sfiorandole l’orecchio ancora una volta con le labbra, ma stavolta più a lungo, continuo: “sei uno splendore. Dico sul serio. E stiamo scherzando, stai tranquilla. Anzi, scusa. Ora smetto, davvero.”
Non si è spostata di un centimetro, ma quando i nostri sguardi s’incrociano di nuovo sento che qualcosa è cambiato. Lei ha l’aria un po’ più sollevata, ma anche più indifesa. Aver varcato la soglia del contatto fisico e averle fatto capire che mi piace ha spostato il baricentro del rapporto da ‘lontani conoscenti’ verso ‘abbiamo un problema’. E’ il momento di far scendere la pressione.
“Rientriamo?”, propongo.
“Volentieri” risponde lei, abbozzando un sorriso di circostanza.
Michele ci via strada all’interno e veniamo investiti dalla luce, dalla musica e dalle voci eccitate dei presenti. Michele davanti, Chiara mi cammina davanti con passo incerto e sincopato. Gli occhi e le orecchie ci mettono un po’ ad abituarsi al nuovo contesto. Non ci ha notato nessuno, fatta forse eccezione per il coglioncello che ci stava provando con Chiara poco fa. Si volta verso di lei e ha l’istinto di fare un qualche gesto, ma il mio “avanti” sussurrato da dietro la convince immediatamente a far finta di niente e a non incrociare il suo sguardo. Preceduti da Michele arriviamo in cucina, dove - incredibile a dirsi - lo storto e la cavalla stanno ancora parlando e si sono spostati di pochi centimetri rispetto alle posizioni iniziali. Mi riconoscono e mi salutano entrambi con particolare calore. Si vede che per loro, ormai, siamo amici.
"Venuto a cercare il Ribolla?”, chiede lui con una strizzatina d’occhio, dopo aver evidentemente ereditato il ruolo di portavoce della coppia.
“Mi sa che non ce n’è più, di quello. Ehi Chiara, di chi è quel rum?”
“Ah… me l’hanno regalato ma io non bevo rum, e l’ho messo là nella speranza che qualcuno lo bevesse… vi va?”
“Se lo assaggi anche tu, altrimenti non lo stiamo ad aprire, dai”.
“Ma io… non lo bevo il rum”.
“Lo conosci?”
“Non benissimo e…”
“Allora lo provi, dai. Voi, ragazzi, ci state?”, chiedo ai due, dato che la risposta di Michele sarebbe scontata. Mi risponde lo Storto:
“Volentieri, ci fidiamo”.
“Vedi, Chiara? Loro si fidano. Fidati anche tu” ne approfitto, certo che lei possa cogliere i differenti piani dialettici.
Trova in una credenza dei bicchieri da shot, li riempio uno a uno. È un onesto rum ambrato, un Diplomatico di sette anni. Il suo aroma caldo e grasso, con note lignee direbbero in tv, si sprigiona in gola attorno alla lingua e risale nel naso trasportato dal vapore dell’alcol. L’inconfondibile, deliziosa “botta” della prima sorsata dei superalcolici non dozzinali.
Beviamo, anche Chiara a piccolissimi sorsi, e ci mettiamo a chiacchierare in cerchio, amabilmente, tutti e cinque. Non so quanto tempo passi prima di vedere il cinefilo fare capolino sulla soglia della cucina. Appoggio discretamente una mano dietro la schiena di Chiara, e il gesto le basta a capire che non è il caso si faccia invitare ad andare altrove. Lui ci vede parlottare, sente l’improvvisa freddezza che promana adesso dalla sua concupita e capisce che non è più aria. Fa una faccia stizzita e saluta tutti annunciando che è stanco e che sta andando a casa. Lo salutiamo, anche Chiara in maniera abbastanza distante. Tempo due minuti e anche la cavalla spiega che ha voglia di andare a casa, assist perfetto per lo storto che trionfante le chiede: “Ti posso accompagnare?” e incassa il prevedibile assenso. E bravo Storto, da stasera il Fantino. Ci salutano con affetto e l’eccitazione maliziosa di quelli che se ne vanno insieme da una festa dopo esserci arrivati separati, afferrano le proprie giacchette estive, le infilano e si congedano per sempre dalla mia vita.
Non sono i soli: la festa si va lentamente svuotando, ormai è tardi, sono quasi le due. Si avverte distintamente che Chiara è in preda a una crescente inquietudine: ‘e ora? Resto di nuovo sola con questi due?’
Ma Michele si stiracchia e ci annuncia che sta per tornare a casa. Dalla sala si odono i versi di una vecchia canzone di Cliff Richards.
You tell me that you love me, baby
Then you say you don't
You tell me that you'll come on over
Then you say you won’t
"Vuoi un passaggio?”, mi chiede.
“Torno a piedi, sono a venti minuti da casa. Mi farà bene fare due passi. Ma sei sicuro di poter guidare, tu?”
“Ma sì, ho guidato in condizioni peggiori. É che ho ricevuto un messaggino da un’amica…” risponde lui facendomi l’occhiolino.
Adesso è Chiara, da brava ragazza, a intervenire:
“Non è meglio… se chiami un taxi?”
“Tranquilla. Lui lo sa”, risponde Mick indicandomi con un gesto del mento: “se non fossi in grado di guidare non guiderei”.
Scuoto la testa:
“Secondo me è meglio se non guidi, ma se dici di sentirti apposto, sei grande e vaccinato”.
“Sto benissimo. Solo bisogno di prendere una boccata d’aria".
Ci salutiamo, lo accompagno alla porta mentre Chiara ripone i bicchierini nel lavello e sembra interessarsi ad altre piccole faccende di cucina.
“Oh, ti sto lasciando campo libero”, mi sussurra lui mandando un’occhiata verso la cucina: “Non fare il gay”.
“Cazzo faccio, Mick? Mi fermo qua, no?”
“Ma sei scemo? A questo punto dimmi che non te la vuoi portare a letto. Dillo”.
“Ma certo che vorrei, ma è la ragazza del Dottore. Che cazzo di consigli mi dai, Mick. Tu devi dirmi no, cazzo, non farlo”.
“Te la sei lavorata per benino, è ubriaca, probabilmente ci sarebbe stata con un altro, se spingi un po’ te la fai. Poi vedi tu. Io sono per il libero arbitrio”.
“Grazie Mick, sempre utilissimo”.
"Buona notte. Voglio le foto”, sussurra con un mezzo sorriso laido prima di congedarsi.
Torno in cucina, proprio mentre Chiara sta per uscirne dopo averla risistemata un po’ grossolanamente. Mi guarda e si ferma, un attimo prima di finirmi addosso. Sorride appena.
Ha le gote arrossate, è un filo accaldata dall’alcol e dalla serata, i vestiti che indossa, maglietta e gonna, hanno l’aspetto tipico dei vestiti a fine serata: un po’ stropicciati, stanchi come i suoi occhi. Le labbra no, le labbra sono belle come prima, e in generale questo suo aspetto un po’ meno compito, un po’ più trasandato e disinvolto, quest’aria assieme imbarazzata per la situazione, un po’ illanguidita dall’alcol, stanca e incerta, mi piacciono ancora di più. E mi piace il profumo di rum e di sigaretta che le si è incollato addosso mischiandosi al tepore della sua pelle, che immagino delicata e palpitante sotto la maglietta, sotto la sua gonna leggera. Così come mi piace il silenzio che sta ritrovando l’appartamento, mentre dal salone e dal terrazzo giungono le voci, finalmente basse, dei pochi superstiti della festa. La musica, al volume minimo, è solo un lontano sciabordio a cui non fare caso.
"Dobbiamo finire di fare il discorso di prima”, attacco.
“Che… che discorso?” Chiede lei, che forse sperava di esserne ormai fuori.
“Sul parlarsi nell’orecchio”.
“Dai… ancora?”, risponde, cercando con lo sguardo e forse con la mente un appiglio che le permetta di tirarsi fuori da una discussione che, qui e ora, sarebbe per lei estremamente scivolosa. Pericolosa.
Ne ho abbastanza.
L’afferro per le spalle, la spingo di nuovo dentro la cucina. La incollo con le spalle al muro, vicino al frigorifero. Mi chino verso di lei e le incollo le labbra alle labbra. Fa per muoversi ma la tengo ferma con entrambe le mani. Mugola qualcosa, per qualche istante, poi sento che la tensione che le attraversava braccia e spalle si allenta, un poco alla volta e poi di colpo. Prova ancora a mugolare qualcosa ma poi la sento socchiudere le labbra, c’infilo la lingua, la bacio a fondo. Non le lascio il tempo di riflettere, di fare qualcosa, di approntare una qualunque difesa, non le lascio neanche il tempo di respirare. Continuo a baciarla finché non si arrende e lascia che le nostre lingue s’incontrino, si sfiorino, si carezzino. Quando mi stacco ho in bocca il suo sapore, nelle narici il profumo della sua pelle. Ha gli occhioni stupiti, se non proprio spaventati. Non sa che dire, ma sembra voler socchiudere le labbra per dire qualcosa. La bacio di nuovo, stavolta con più calma e minor foga, con sistematicità. Mugola ancora qualcosa ma poi cede, anche quando le passo una mano dietro la schiena e la traggo a me, incollandomi a lei e tenendola ferma, schiacciata tra me e il muro. La bacio a lungo e quando mi stacco, stavolta, lei ha sempre gli occhioni da cerbiatta, ma sembra meno impaurita di prima. Forse stranita, forse incerta sul da farsi, ma sembra aver avuto modo di riprendere fiato e coscienza di sé.
“Che… che fai?” mi chiede, in un sussurro.
“Non si vede?”
“Ho un ragazzo…”
“Mi sono rotto i coglioni”.
“C.. come?” chiede, di nuovo stupita, ma sempre sottovoce. Senza fare uno scandalo. Senza attirare l’attenzione degli altri, di là.
“Mi sono rotto i coglioni di guardarti e basta. É dall’inizio della serata che ti guardo”.
“L’ho notato” dice. “Pensavo fosse per cazziarmi che parlavo con Lorenzo”.
“Che mi frega di quel nanetto, dai. Ci saresti stata?”
“Con chi? Con Lorenzo? Beh, no”.
“Dì la verità”.
“No”.
"La verità, ho detto”.
“No!” protesta, ma senza alzare la voce: “non dico non mi facesse piacere che ci provava un po’, non è possibile che Fede non ci sia mai. Non viene a un festa. É come se non gliene importasse niente se vado alle feste da sola”.
“Ma non ci saresti andata”.
“No, con Lorenzo no. Hai ragione, è noiosissimo”.
Rido. Mi chino di nuovo su di lei, interrompendola mentre sta provando a dire:
“Ma adesso noi come fa…”
La bacio di nuovo, più forte di prima, tenendola ferma, bloccata. Stavolta le bacio anche il collo, la spalla destra, di nuovo il collo e poi la limono ancora, a lungo, mentre finalmente le tocco una coscia, poi entrambe, e poi le metto una mano sul culo. E’ perfettamente morbido e pieno, della dimensione e della consistenza giuste, proprio come lo immaginavo. Ci stacchiamo con una leccatina in punta di lingue. Lei sembra confusa quanto prima, in balia degli eventi. Non le lascio il tempo di farmi domande:
“Ti voglio”.
"Dio… che casino” risponde, accettando un altro bacio, poi un altro ancora. Non ho smesso di carezzarle le cosce e soffermarmi ogni tanto sul sedere. Si schernisce: “Dai… fai piano… ti prego” aggiunge.
“Se mi supplichi così mi ecciti ancora di più”.
“Ti prego, davvero…”
Mi stacco dalla parete portandola con me, le faccio fare una serie di passi quasi di danza, in mezzo alla cucina, senza scollarmi da lei e senza smettere di sbaciucchiarla. Posso la mano destra sotto la sua gonna, su dal retro della coscia sinistra fino all’orlo degli slip, poi sopra, fino all’elastico, e infine lo scosto e le infilo la mano dentro le mutandine, da dietro, e le tocco il culo, delicatamente nudo al contatto col mio palmo aperto.
“Fermo… dai!” protesta senza convinzione: “sono ubriaca e ne stai approfittando”, sussurra. Ma sorride.
“Assolutamente. E adesso tu vieni con me, di là”.
"No dai, fermiamoci. Ti prego”.
“Ti ho già detto che se mi supplichi mi piaci anche di più”.
“Ho un ragazzo… sei suo amico…” fa per mettermi le mani sul petto, come a riacquistare le distanze.
Le afferro i polsi e glieli porto dietro la schiena, bloccandoli con la mano sinistra. Me la incollo di nuovo contro il corpo, e con la destra le carezzo di nuovo la coscia sinistra, il sedere, fuori e dentro gli slip, mentre la bacio con rinnovata passione e determinazione. Lei si scioglie da ogni tensione, ricambia i baci, si fa tenere, si lascia carezzare.
“Stai ferma e fai la brava. Tu non devi pensare a niente, tranne che a fare quello che ti dico e stare calma. Calmissima. Devi lasciarmi fare”.
“Ma cosa diranno le mie amiche… ho un ragazzo… e…”
“E niente. Devi fare la brava, adesso, capito? Ti voglio oltre ogni ragionevole limite, e stasera ti prendo”.
“Ma… così?” chiede lei, forse per prendere tempo. Fatto sta che non ha gridato né ha provato a divincolarsi, non davvero. É in balia di quello che le faccio, è sicuramente brilla, è anche confusa, ma essere presa così, in maniera brutale, essere baciata senza avere scelta, di sicuro le ha fatto tremare le gambe e non di paura.
Mi fa sesso e tenerezza insieme.
"Chiaretta, stai tranquilla, ok? Non c’è assolutamente niente di cui tu debba preoccuparti. Mi piaci sul serio. Non è un capriccio di una sera”.
La parola magica. Il concetto magico. L’apriti sesamo di ogni animale di sesso femminile. Non voglio scoparti, oh no, no, no. Voglio sposarti. Voglio una famiglia numerosa e geneticamente sana. E se te lo dico, ti puoi fidare.
Mi stacco da lei, la squadro da capo a piedi, con la sua gonnellina svolazzante, le scarpe col tacco, la maglietta un po’ stropicciata e gli occhi belli ma stanchi, la pelle candida, le gambe morbide e affusolate, come le braccia, le labbra rosse, socchiuse e increspate in una smorfia di preoccupazione mentre si passa nervosamente una mano nei capelli biondo ramato.
"Vieni, forza”, le dico, porgendole la mano. Mi offre la sua, e si lascia trascinare rapidamente verso camera sua.
Sgattaioliamo così veloci che nessuno ci ha visto né sentito. Tempo cinque secondi e la porta di camera sua si è già richiusa alle nostre spalle. Giro la chiave nella serratura, lei ha un attimo di sorpresa, ma poi capisce che è anche nel suo interesse che nessuno entri all’improvviso. L’attacco alla porta, le solevo il mento e la bacio in bocca mentre ricomincio a carezzarle il sedere.
“Dai… fermo…” dice, più per fare scena che sul serio.
"E’ dall’inizio della serata che ti ho messo gli occhi addosso. E ho voglia di vedere due cose: le tue cosce bianche, che sono sesso allo stato puro, distillato, e queste tette che sembrano di panna montata”.
Mi guarda, arrossisce. Gli piace piacermi, è evidente. Ma si sente in colpa, e ha altri mille pensieri che le affollano il cervello. Non solo devo rassicurarla, ma lo voglio. É troppo carina. Ed è una brava ragazza. Ho un debole per le brave ragazze.
“Sei un porco” sorride.
“E tu sei un bocconcino che non mi sfuggirà”.
“E se mi mettessi a gridare?” chiede, con una punta di malizia.
“Ti tapperei la bocca e ti legherei le mani, e poi ti spoglierei lo stesso”.
Mi guarda con una punta di dubbio: è chiaro che si chiede se lo farei davvero, e quante opzioni le restino, e se è in grado di fermarsi o di non fermarsi, e non pentirsi, e in genere di gestire questa cosa. Ed è chiaro anche che è lusingata, ed eccitata. Calo di nuovo su di lei, con passione ma in pieno controllo la bacio in bocca e poi decido che devo andare un filo più piano, per non spaventarla.
“Vuoi che torniamo di là?”, le chiedo.
“Insieme?”
“No, prima tu e poi io, a debita distanza temporale. Così non pensano che…”
"Ma che facciamo? Cioè, ok, è successa questa cosa. Che non doveva succedere… e…”
“Secondo me doveva. Deve proprio. Mi piaci Chiara, lo ripeto. Non l’avrei fatto con te, se fosse solo per fare sesso”.
“Beh anche tu… mi piaci. Quando Fede mi aveva detto che eri single non ci credevo. Gli ho chiesto se eri gay…”
“Ma grazie”.
"Prego. Ma non sembri gay, ma sei carino, età giusta, sportivo”.
“Età giusta è il complimento che terrò per sempre nel cuore. Mi vuoi sposare?”
“Sì” sorride, sorridiamo.
“Guarda che ormai hai detto sì”.
“E tu l’hai proposto” ride adesso apertamente. Ha i denti dell’arcata superiore un filo distanziati l’uno dall’altro, forse gliene manca uno e hanno spostato gli altri così, da piccola. Non so. Ma è un difetto della categoria deluxe dei difetti sexy. Ti viene ancora più voglia di baciarla.
Infatti la bacio di nuovo.
“Dai, dobbiamo andare di là” le dico, facendo la parte di quello responsabile. Anni di esperienza. L’età giusta.
“Prima io o prima tu?”
“Forse prima io, se esco dalla cucina con una bottiglia di bianco non desterò i sospetti di nessuno, ormai sanno chi è l’alcolizzato qua dentro”.
Ride, e per la prima volta mi bacia di sua iniziativa. Ok dice, vengo tra cinque minuti. Passo dalla toilette e mi rinfresco. Mi hai strapazzata, aggiunge un po’ civettuola.
E non hai visto niente, penso. Le do un bacetto, socchiudo la porta, il campo è libero, vado. Sgattaiolo in cucina, dove per fortuna non c’è nessuno. Apro il frigo e - miracolo - c’è ancora una bottiglia di bianco. Sembra pessimo, uno dei sedicimila chardonnay economici che affollano i banconi dei supermercati, ma a quest’ora e a una festa di studenti universitari sarebbe velleitario pretendere un vino naturale. Che è ciò che mi andrebbe adesso. Bello acidino, bello secco, un po’ salato alla fine. Ne ho in mente uno, devo averne ancora una bottiglia in frigo. A casa però. Vabbè. Stappiamo sta roba.
Faccio il mio ingresso in sala con in bocca il sapore - orrendo - di questo bianco del supermercato, euro due e novanta in offerta, mi ci gioco le palle. C’è ancora la musica ed è persino migliorata, ci sono le due ragazze che erano uscite prima sul terrazzo a conoscere me e Mick, c’è uno che non so chi sia che sta rullando una canna davanti a loro che lo guardano, c’è l’altra padrona di casa che mi guarda e sorride (sa? Non sa? E se sa, che ne pensa? Ma soprattutto: che cazzo mi frega?). Le sorrido e sollevo la bottiglia. Cerca con lo sguardo un bicchiere, non lo trova. Le faccio il gesto di aspettare, e scompaio nonostante lei stia cercando di dirmi una cosa tipo ma-no-non-preoccuparti-aspetta-faccio-io, vado in cucina, sciacquo un calice che sembra relativamente pulito sotto l’acqua fredda, lo faccio sgocciolare e glielo porto. Lo afferra ringraziandomi fin troppo, evidentemente disabituata alle basilari cortesie.
“Mmmm ottimo” esclama, confermando la prima impressione che mi ero fatto di lei, di una che, in un blind test, potrebbe serenamente bere l’acqua usata per sciacquare i bicchieri e poi un Blanc-de-noirs Grand cru senza rilevare particolari differenze nell’analisi organolettica.
“Eh sì, è uno Chardonnay. Ti ho guardata e mi sono detto: a lei piace lo Chardonnay”.
Sorride lusingata guardandosi la punta delle scarpe.
“Ti stai divertendo, stasera?” mi chiede.
Non sai quanto, vorrei rispondere, ma mi limito ad annuire e aggiungere:
“Bella casa! Ma dov’è finita la tua nuova coinquilina? Non eravamo qua per festeggiare lei?”
Si noti la classe con cui ho sviato le indagini. Neanche la P2 degli anni migliori.
“Ah boh! É scomparsa. La vado a cercare?”
“Ma no dai, magari è in bagno” mi stupisco dell’abilità con cui sto gestendo questa conversazione, a quest’ora, con un’erezione perché il mio cazzo è ancora rimasto a poco fa e sta chiaramente pensando Allora quand’è che si va?, una discreta dose di alcol, qualche canna e la stanchezza dei miei lunghi anni. “Le avevo portato un libro, ‘spè che lo vado a prendere, al massimo poi glielo dai tu”.
“Ma che pensiero cariiiiino” dice lei, sempre più stupita che un amico di una sua amica che gioca a calcio sia capace di simili galanterie ed attenzioni. Il fatto che io pensassi di doverlo regalare a lei e che quindi, tecnicamente, stia riciclando il suo regalo per un’altra, naturalmente, non può sfiorarla e non la sfiora.
Le verso ancora un po’ di quel “delizioso” Chardonnay, ne verso, ahimè, altrettanto a me per pura inerzia e poi mi avvio verso la sala d’ingresso dove ho appoggiato, su una cappelliera, il regalo in attesa di consegnarlo. Svuoto il bicchiere in un solo colpo e senza respirare, per evitare di percepirne il bouquet aromatico, e mentre afferro il libro Chiara esce dal bagno. Si è rinfrescata la faccia, ma ha sempre l’aria stanca, ma graziosa. Anzi proprio bella. Le sorrido, anche lei mi sorride ma è incerta sul da farsi, non avevamo detto di non tornare di là insieme, pensa. Le faccio un cenno come a dire è tutto OK, è tutto sotto controllo. Si avvia verso il soggiorno e quando mi incrocia, di nascosto da tutti gli altri, le do una palpatina al culo. Mi guarda con aria indignata, poi recupera un sorriso gioviale ed entra in soggiorno. Un attimo dopo arrivo io, facendo l’occhiolino alla sua compagna di casa, che stava per l’appunto per dirle che io ero andato a prendere eccetera eccetera.
Ne approfitto per porgerle il regalo e dirle Tieni, Chiara, avevo pensato a una scemenza, giusto così, per il trasloco, magari non ti piace. Sta per scoppiare a ridere ma mi regge il gioco e finge stupore, dice Ma non dovevi, e io Ma certo che dovevo figurati non è niente, e lei Ma che cos’è, e io Uranio arricchito, no scherzo, scartalo dai, e lei Oooooh ma è un libro… ma che autore è, come si pronuncia, ah, ma sono due autori, ah ah ah e io Eh sì sono svedesi ah ah ah…
Insomma, una recitazione perfetta.
Nessuno onestamente potrebbe intuire che cinque minuti fa l’avevo attaccata al muro, me la stavo limonando e le avevo infilato la mano dentro le mutandine.
L’amica guarda il libro, dice:
“Oh, ma io li conosco, loro! Sono tra i miei autori preferiti!”.
Ecco perché avevo scelto questo libro. Mi avevano detto che le piacevano i gialli svedesi. Che tra parentesi piacciono anche a me. Soprattutto quelli di Sjöwall e Wahlöö. Che non so come si pronuncino. Chiara mi guarda e sta per esplodere, ha capito tutto quello che è successo, rifatto tutto il percorso mentale, e si vede che fa fatica a non ridere scompostamente, io resto dignitoso guardando altrove, la compagna di casa mi guarda con rinnovato interesse e stima, accompagnata nello sguardo dagli altri tre astanti, le due tipe e quello che rullava una canna, che nel frattempo avevano preso a seguire la conversazione. Li guardo, mi fanno tutti un cenno di assenso, come a dire Ma che bravo che porti i libri a casa di studentesse, zio, che intuito. Riguardo Chiara e stavolta mi ricordo che ho una voglia matta di spogliarla, e lei capisce anche questo, arrossisce, sorride e dice:
“Mi offri anche una sigaretta?”
La mossa è giusta, perché la sua compagna di casa non fuma perché dice che fa male e non intende accompagnarci e restare immersa in una nuvola cancerogena. Dice proprio così, nuvola cancerogena. Vorrei ribattere ma penso che sia molto meglio abbozzarla e uscire finché non ci segue nessuno. Quando siamo sul terrazzo raggiungiamo l’angolino più discosto dalla porta, quello che ci permette di controllare chi viene e chi va senza essere visti. Accendo una sigaretta e gliela passo, poi mi accendo la mia. Sorride.
“Hai visto che attrice?”
“E io, allora?”
“Anche tu, notevole. Dai, il libro che era effettivamente per lei…"
Ridiamo, finalmente liberi di farlo.
“Vabbè, poi glielo presti”.
Ride di gusto.
“Tecnicamente è lei che lo presta a me”.
Rido anche io. Ora che si è sciolta ha anche le risposte pronte. Mi piace. Mi guardo attorno, non c’è nessuno sulla soglia. Scendo verso il suo viso, lei mi aspettava: chiude gli occhi e socchiude le labbra, ci scambiamo due o tre bacetti e poi un bacio lungo, con la lingua. Sa di sigaretta.
“Cavolo, sei carino”.
“Tu pure”.
“Ma stiamo facendo un casino, eh?”
“Eh, dipende”.
“Dipende da cosa?”
“Da molte cose” dico, fumando un altro tiro, soffiando via il fumo e poi baciandola di nuovo. Si fa baciare, anzi ricambia.
“Tipo?” mi dice, quasi sottovoce e quasi tra le labbra, mentre ci stacchiamo.
"Da come la gestiamo, da cosa vogliamo fare da domattina”.
“E cosa vogliamo fare?”
“Eh, ci conosciamo appena. Anzi, zero. Però mi piaci, davvero. Non l’avrei fatto per una scopata. Oddio, la vali senza dubbio, eh. Ma vali di più. Sei molto più che una scopata”.
“Quanto di più?” chiede, con una punta di paura. Quella che conosco, quella dell’abbandono. La sindrome delle ragazze carine con i ragazzi più grandi. Io ti sto dando tutta me stessa: e tu?
“Una storia vera e propria in più. Poi sulla durata non saprei, non abbiamo ancora parlato di niente, non abbiamo ancora neanche fatto l’amore”.
Ha gli occhi che brillano. Una storia vera e propria è in assoluto la cosa che complica di più le cose, con Federico, tra noi due, con la sua compagna di casa, etc. Ma Chiara non me la darebbe - e io voglio che me la dia, lo voglio molto e subito - se non in cambio di una prospettiva complicata. Che due persone possano semplicemente fare l’amore e poi boh, non è nelle sue corde attuali. E ci sta. E comunque, cinismo a parte, neppure io avrei voglia di una botta e via. Non con lei.
“Una storia vera e proprio” ripete le mie parole.
“Eh sì”.
“Tipo passare del tempo insieme”.
“Certo”.
“Tipo andare ai musei insieme?"
Non so perché le venga naturale associare una relazione ai musei, ma certo, perché no?
“Beh sì. I musei, un weekend al mare. Ho la macchina”.
So che quello è un atout importante per una ragazza della sua età. Il maschio che ti porta fuori porta. Il senso di libertà che volendo domattina prendiamo e partiamo, andiamo a Civitanova Marche. E’ umano. Ci siamo passati tutti.
Infatti Chiara sorride.
“Dove mi porti?”
“A Civitanova Marche”.
“Scemo”.
"Cos’hai contro le Marche?”
“Niente, mai stata”.
“Ma sai che, forse, neanche io?”
“E allora perché proprio Civitanova Marche?” ride
La bacio. Due volte.
“Perché sei bella” rispondo. E la bacio di nuovo.
“Sei scemo” sussurra, e mi bacia, venendomi vicino con il corpo. Ne sento l’afrore femminile, delicato, e il leggero tepore. Vuole essere abbracciata. Mi guardo attorno, non c’è ancora nessuno, l’abbraccio e lei si lascia andare, incollandosi a me. Sento i suoi seni schiacciati contro il mio petto. Le carezzo il sedere, la bacio languidamente tenendola stretta. Quando riapro gli occhi e mi stacco i suoi sono ancora chiusi, e sorride. Ti stai prendendo una bella sbandata, eh?, penso. Non so se rivolto a lei o a me stesso. Le do un altro bacetto, me ne rende due. Ho un’erezione imperiale.
“Come facciamo?” mi chiede, riscuotendosi un attimo.
“Ti fidi di me? E no, non è la frase del film. Ti fidi un po’”?
"Certo. Non starei limonando con te se non mi piacessi e se non volessi fidarmi”.
“Allora dammi il tempo di capire bene, di fare il punto, ok? Adesso ho in mente una sola cosa, e cioè che mi piaci e che ti voglio e che voglio stare da solo con te”.
“Anch’io voglio stare da sola con te. Ma come si fa? Che casino. Che stronza che sono”.
“Lasciamici pensare. E non farti venire sensi di colpa. Ho insistito io. Lo stronzo, nel caso, sono io. Ma non c’è da essere stronzi, io non ho una tipa da un po’, ma di tipe con cui sfogarmi ne trovo. Con te è diverso” picchiare un altro po’ sul chiodo, in modo che entri bene in profondità. Lei è rassicurata, sempre di più. Lo farebbe solo in cambio di una cosa seria, ovvio. E le piaccio ‘da cosa seria': più grande, più esperto, auto-munito Aggiungici che sa che ho anche studiato e che conosco autori che non conosce lei, che studia letteratura. É il tipo di storia complicata che una come lei sogna di notte, dai. Non potevo non piacergli.
“La sai gestire, tu?”
“Sì. Se mi lasci gestire, sì”.
“Non chiedo altro. Io sono proprio in confusione. Già non so gestirmi, gestire in genere. Se per una volta c’è qualcuno che sa…”
“A me piace, gestire”.
Mi guarda con un’espressione diversa, incerta.
“Gestire questo genere di cose?”
“Gestire, nella relazione. O anche una relazione”.
“Gestire tipo tutto? Cosa?” ha uno sguardo improvvisamente luminoso, ma al tempo stesso timoroso. Non la devo spaventare con tutti i discorsi D/s che mi vengono in mente, ma devo farle capire che può fidarsi di un uomo più adulto, che ha voglia di prendersi delle responsabilità. La voglio rassicurare, ma la voglio anche convincere ad abbassare la guardia.
"Sarebbe un discorso molto lungo. E lo faremo, quando vuoi. Verrà naturalmente dopo un po’ penso. È un fatto di caratteri. Diciamo che c’è chi ama che l’altro prenda l’iniziativa, che lo guidi un po’, e a volte l’altro ama guidare. E a volte funziona”.
"Quella che vorrebbe essere guidata sono io?” chiede, arrossendo.
“Non ti conosco così bene. Non so. Però a istinto, sì”.
“Beh…” guarda un attimo altrove, poi mi guardategli occhi, arrossisce e poi abbassa lo sguardo: “sembra una cosa carina. Quando c’è questa compatibilità”.
“Eh sì. Ma accade di rado”.
“Io non ho la patente” ride Chiara.
“Io sì” dico, tornando serio. E la bacio, sussurrandole: "E se serve ti metto anche la cintura, così non mi scappi”.
Sento un fremito nel suo corpo, di nuovo incollato al mio.
“Sul serio, non ce l’ho. Credo neanche quella per le coppie, non solo quella per l’auto” dice timidamente e quasi tra sé.
Finalmente l’hai detto. È una cosa che rende dolorosa la mia erezione. Perché una ragazza così carina e colta mi fa sesso, ma se ci aggiungi che ha proprio l’aria timida e innocente mi fa ancora più sesso, e se poi ci metti anche che è consapevole di essere timida e ammette di non voler guidare ma di voler essere guidata, in una relazione… beh… mi vien solo voglia di sbatterti qui e ora. E poi coccolarti, un sacco.
La afferro per le spalle, me la metto davanti ed è trepida e sexy, profumata e dannatamente attraente, con i suoi occhioni blu, il nasino, la bocca da baci, le cosce bianche, i seni morbidi e un corpo portentosamente ben fatto e proporzionato, elegante e slanciato nonostante sia piuttosto piccola, forse uno e sessantacinque. Un pasticcino alla crema. Le faccio alzare il mento sfiorandolo con due dita, per guardarla negli occhi:
“Se davvero sei una che preferisce essere guidata, diventa tutto ancora più interessante”.
“Non l’ho mai trovato, uno che sapesse guidare. Che volesse, forse. Che sapesse, nessuno. Che meritasse la mia stima e la mia ammirazione, per guidare me, nessuno. Ma Dio solo sa quanto sono stanca di dover guidare me stessa e spesso anche una relazione, e quanto mi piacerebbe potermi riposare”.
E’ un bel modo di metterla.
“Stai tranquilla ok? Lasciati andare. E’ come ballare, lasciati condurre”.
“Magari! Anche ballare, mi piace. Tu sai?”
“Un po’, ma solo balli classici”.
“Tipo?”
“Il Valzer”.
Ride.
“Sei scemo”.
“No , davvero. Davvero so ballare il valzer”.
Mi guarda incerta se credermi o no.
“Giuro”.
“Davvero? Non mi prendi in giro?”
“No, davvero. Non chiedermi perché, è una lunga storia di bali di debuttanti, ma ho fatto un corso”.
Mi guarda stupita, attratta. Il valzer non se l’aspettava. E’ a un passo dallo scivolare tra le mie braccia.
“Mi… mi insegni? Mi porti a ballare il valzer?”
“Con un vestito da valzer tu saresti la più bella del mondo. Non scherzo. Hai la pelle così deliziosamente chiara e un’espressione perennemente sorpresa, e bella. Sembri fatta apposta per essere fatta ruotare, leggera, in un vestito bianco, al crepuscolo dell’impero austroungarico.
Mi bacia, quest’ultima frase l’ha stesa. Si vede così e s’immagina bellissima. La sto facendo sentire bellissima. E lo è, diamine, e in questo preciso istante ha dimenticato il senso di colpa ed è eccitata e felice. Anch’io sono eccitato.
“Non è che mi stai prendendo in giro solo per portarmi a letto?” chiede all’improvviso, mentre una nuvoletta di delizioso broncio le attraversa il viso.
“Io scherzo sempre, ho spesso un tono leggero. Ma adesso non sto scherzando. Tu saresti davvero perfetta nella Vienna di fine Ottocento. Avrei voluto conoscerti allora. Staremmo benissimo insieme”.
“Tu saresti perfetto. Non ti conosco ma hai mille letture, si sente. Non me lo aspettavo. Sei colto, sei.. insolito. Nel modo di parlare, mi prendi alla sprovvista. Sei carino... Dio, sto parlando troppo”.
“Io credo che io e te dovremmo andare a casa mia, e domani dovremmo andare al mare, mangiare un piatto di spaghetti con le vongole e poi tornare a casa mia. Penso che sia il programma più giusto. E visto che mi hai chiesto di guidare, è ciò che faremo. Riviera, we’re coming”.
“E’ un bellissimo programma. Ma come facciamo… ad andare via insieme? E poi, la prima sera….?”
“Ah no, niente storie. Tu stasera dormi con me. Perché domattina ti svegli riposata e struccata accanto a me, e sono certo sia il momento in cui sei più bella. Su cosa facciamo stanotte, sono disposto a negoziare”.
Sorride. Mi dà un bacetto.
“Sei scemo, oppure sei un gentleman. Oppure mi prendi in giro e io ci resterò malissimo”.
“Sono sia scemo che gentleman, ma non ti prendo in giro. Seriamente, Chiara: non ho più tempo per queste cose. Se mi serve sesso, non ci incollo diecimila parole”.
“Mi porti da te?”.
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Nel suo ultimo romanzo, qualche mese prima di morire, John Le Carré descrive una partita di badminton e le cosce bianche di una giocatrice. Cosce snelle ma morbide, dai riflessi lattiginosi che evocano capelli rossi, efelidi, turbe adolescenziali. Un femminilità dall’eco vittoriana a cui il protagonista e lo scrittore non possono che indulgere, in un turbine di ricordi e immagini appena accennate ma cariche di sensualità. Cerco spesso una legittimazione alta, letteraria, alla morbosità con cui guardo certe donne, certe ragazze. Non che senta il bisogno di giustificarmi, tantomeno con me stesso, ma m’inorgoglisce condividere con uno scrittore o un grande regista l’attenzione quasi feticistica per alcuni dettagli: una caviglia sottile, la forma aggraziata di una nuca, le spalle scoperte da uno chignon, il pallore delle cosce, del collo, l’aureola rosa chiaro attorno ai capezzoli dei seni delle rosse.
Chiara non ha i toni rosso fuoco delle irlandesi: ha capelli mossi, lunghi appena sopra le spalle, che tendono al biondo veneziano, ma si vede che è geneticamente rossa, ultimo anello di una stirpe in cui i rossi e le rosse hanno avuto un ruolo geneticamente rilevante. Ha qualche lentiggine sul naso, uno sguardo azzurro temperato, di candore britannico, il collo bianco e affusolato dalla pelle liscia. Ha mani non troppo affusolate ma agili e femminili, che muove, come il resto del corpo, in maniera a volte incerta ma aggraziata, non priva di un’istintiva eleganza, e porta solo un’anellino al medio della destra, lo smalto rosso sulle unghie, troppo corte, di una che se le mangia. Un paio di scarpe décolleté con un tacco ragionevole, la gonna svolazzante, corta un palmo sopra il ginocchio. Dalla maglietta a maniche corte con una scollatura a v abbottonata fin quasi in cima in segno di morigeratezza s’intuiscono le forme generose di un seno morbido, pieno ma fresco. Lo immagino candido come il resto del corpo, il suo addome, i fianchi, il sedere, che mi figuro avvolto da un’innocente culotte di cotone bianco, o rosa pallido come i seni. Come le cosce, quei pochi centimetri visibili delle sue cosce bianche da cui non riesco a distogliere lo sguardo adesso che Chiara sta parlottando con un’amica ed è seduta a qualche metro da me, sul divano, un bicchiere di plastica in mano riempito di un liquido dall’inquietante tonalità blu puffo. Stiamo veramente bevendo da schifo stasera, e spero che tra un po’, quando le nostre ospiti se ne saranno dimenticate, potrò avvicinarmi al frigo dove mi attendono le due bottiglie di bianco che ho portato io, stapparne una e bere quella.
Chiara ha fatto il Classico e studia lettere antiche. Una Facoltà dal sicuro sbocco professionale, com’è noto. L’ho già vista a un paio di feste perché è la ragazza di uno che gioca a calcio nella mia squadra. Uno magrolino, simpatico, un bravo ragazzo che gioca alto a destra, non sempre titolare. Più giovane di me e degli altri senatori della squadra, quelli che ormai non hanno più voglia di allenarsi tre volte a settimana e prendere botte la domenica e vanno avanti per la diaria, l’abitudine e le birrette del dopo partita. Più vecchio di quelli appena arrivati dagli juniores. Forse un po’ troppo un bravo ragazzo, Federico, piuttosto taciturno ma sorridente, di quelli che fanno quello che dice il mister senza rompere i coglioni a nessuno. Comunque anche lei sembra una ragazza a posto, con occhi azzurri, grandi, che paiono sempre stupiti, labbra a volte increspate in un sorriso un po’ infantile e una voce dal timbro alto ma melodico e non sgraziato. Ogni tanto ha le occhiaie da biblioteca, si vede che è una che studia, come il suo ragazzo. Lo prendevano un po’ per il culo, all’inizio, nello spogliatoio, perché arriva sempre agli allenamenti con la sacca della squadra e uno zaino con dentro i libri di storia, di filosofia. Lo chiamano tutti Dottore: dottore passa sta palla, dottore torna che è tuo quello! Chiamavano dottore anche me, fino a qualche anno fa, ma ormai a 35 anni, che vuoi? Mi sono laureato oltre dieci anni fa, lavoro da nove, non sono più Il Dottore. Fino a quando non c’è da chiedermi una cosa sulla finanza, sulle banche, sui soldi in generale, perché in quel caso ritorno dottore e chiedono tutti a me, vogliono le consulenze gratuite. Lavoro in sala di mercato per una banca d’investimenti, i miei compagni di squadra pensano che sappia tutto di qualunque argomento economico e io faccio il possibile per consigliarli senza prendermi troppe responsabilità. Compratevi la casa, dico, compratevi il garage, la seconda casa se avete già la prima. Tanto, nella squadra, quello che guadagna di più prenderà mille-e-otto al mese e ha due figli. Non penso abbiano tutti ‘sti soldi da investire, questa mandria di bucanieri della Prima categoria. Bucanieri della Prima categoria, loro. Perché io avevo la famiglia alle spalle, mia madre che rompeva i coglioni che dovevo studiare, perché io, venendo dalla provincia, sono arrivato in Eccellenza allenandomi lo stretto necessario e controvoglia, fumando e bevendo senza esagerare (fino a poco tempo fa) ma senza far vita da atleta, e mi avevano anche fatto dei provini in vista di un’eventuale Primavera di squadre di A verso i 16 anni, e poi per entrare nel giro della serie C quando avevo 17-18 anni. Avessi avuto dei genitori ignoranti adesso magari starei finendo la carriera in qualche squadra di merda in serie B, tipo il Vicenza, il Crotone o l’Entella, con dieci gol e cinque assist all’anno nelle ultime due stagioni, una dignitosa zona salvezza conquistata intorno alla trentaquattresima giornata. Per fortuna che ho avuto genitori normali, tutto sommato.
Comunque.
Comunque adesso ho voglia di fumare una sigaretta e di bere un bicchiere del mio bianco friulano, ed è anche una scusa per smettere di guardare le cosce nude, e bianche, della tipa di un mio compagno di squadra. E’ fatta proprio bene, Chiara. Sarà che le altre volte l’ho guardata di striscio, sarà che sembrava più stondata, per non dire paffutella, invece quel poco di burro che ha addosso è tutto nei punti giusti, quelli da mordere. O magari sarà che non l’avevo mai vista coi tacchi e la gonna corta… Ma me ne accorgo solo ora, penso, mentre mi avvio verso la cucina sperando di non trovarci una delle padrone di casa ed evitare la figura di quello che si apre proprio la bottiglia che ha portato lui.
Che poi, dovessero vedermi, capirai.
Mi guardo attorno, non ci sono padrone di casa, solo un tipo mezzo storto che sta parlando con una cavalla bionda tinta con netta ricrescita, di dieci centimetri più alta di lui, tacchi inclusi. E parlano con una certa intensità sostando a un centimetro dal frigo. Sorrido affabilmente, chiedo permesso, passo in mezzo, apro il frigo e tiro fuori una delle mie due bocce di Ribolla gialla.
“Bevete bianco?”, chiedo.
Mi guardano, si guardano, io guardo lui, poi guardo lei, lei mi guarda, poi guarda lui. Il tutto, avvolto da un grave silenzio. C’è molta suspence, mentre dall’altra stanza giunge l’eco vellutato di Glory Box dei Portishead.
“Vabbè io stappo”, chioso con piglio volitivo mentre afferro il cavatappi e inizio a incidere la capsula di stagnola con il coltellino: “voi fate il cazzo che vi pare”.
Forse mi è uscita un po’ rude. Sorrido di fronte alla loro espressione atterrita, correggo il tiro:
“Intendo, pardon, che io ve lo consiglio, ma non vi obbligo”.
La cavalla si riscuote un attimo dall’apparente trance, accenna un sorriso equino:
“Dài, io lo prendo, che beviamo?”
“Ribolla gialla”.
“Rivòglia gialla?” Nitrisce.
"Ribolla, con la b. Vino friulano. Fidati, buono”.
Ne verso la giusta quantità a entrambi, me ne riempio un bicchiere da osteria della bassa friulana alle ore 23, facciamo cin cin, io mi chiamo Ernesto dice lui, io Giovanna dice lei. Piacere, sorrido, chiedo permesso e mi congedo, rendendomi conto che non mi sono presentato: ormai ho infilato la porta, adesso non sto a tornare indietro apposta.
Mentre passo dalla sala dirigendomi verso il balcone commetto l’errore di tirar fuori il pacchetto di morbide dalla tasca dei jeans. Adesso arriverà immancabile quello che mi chiede una paglia, sicuro. Azzero la visione periferica e punto deciso verso l’esterno. Raggiungo il terrazzo dove c’è una coppia che sta limonando. Salutano neanche troppo imbarazzati, rispondo al saluto, per mio conto affatto imbarazzato.
“Scusate”, dico, facendo l’occhiolino e accennando alle sigarette: era un’emergenza”.
Ridacchiano imbarazzati, per cortesia, e poi sento il rumore dei loro ingranaggi cerebrali mentre si chiedono se devono parlare con me oppure tra di loro, ed eventualmente di cosa, o magari riprendere a sbaciucchiarsi, o rientrare.
“Fate come se non ci fossi. Cioè, nei limiti. Io bevo e fumo, e guardo la strada, che mi piace”.
La strada è silenziosa, le famiglie coi figli sono in gran parte già trasmigrate verso le residenze estive o sui colli per il weekend, come avviene sempre, da maggio in poi. In città sono rimasti gli studenti universitari, i pochi operai scampati a chiusure e delocalizzazioni, i migranti e i calciatori squattrinati. Noi abbiamo ancora due partite per chiudere la stagione, forse tre se arriviamo in finale in coppa. Speriamo di no. Poi, liberi tutti.
Questo è l’ultimo anno che gioco, avevo detto in agosto al raduno, e l‘ho ripetuto a tutti fino ad aprile, poi a fine aprile il presidente mi ha chiamato nel suo ufficio che puzza di sigari freddi, ma non cubani, eh, sigari toscani di quelli da dieci euro al pacchetto. Mi fa: Dottore, devi restare un altro anno. Lui mi chiama ancora Dottore: ha settant’anni, la terza media e una fabbrica di laminati, che è anche lo sponsor di maglia della squadra. Ci lavorano in tre della prima squadra, due impiegati e uno proprio in officina, come operaio. Il Pres chiama Dottore tutti quelli che hanno almeno fatto un po’ di liceo. Chi ha fatto il tecnico no, solo i licei. Non so per l’Artistico, non abbiamo mai avuto gente che veniva dall’Artistico. Ha preso sta squadra quando aveva quarant’anni e un figlio di dieci, che ci ha giocato fino a quando ne aveva 17, col numero 17 sulle spalle, e dicono tutti che giocava bene, che era forte forte, che correva come una spia, poi un venerdì 17, di sera, non è tornato a casa, si è spalmato su un platano sulla via Emilia a 90 all’ora in moto, non aveva neanche bevuto: il numero 17, pensa le coincidenze. Pensa la scaramanzia. Il Pres comunque ha tenuto la squadra come fosse in missione per conto di Dio, e giochiamo tutti gli anni un memorial a nome del figlio a fine agosto e guai se non t’impegni, il Pres rompe il cazzo: va giocato a tutta, per lui, in piena preparazione estiva, neanche fosse il Trofeo Berlusconi. “Devi restare per far crescere questa rosa”, mi fa. Lo ha detto con la serietà dolorosa, anzi, indolenzita, che il Pres mette in tutto quello che fa e che dice. Io stavo per scoppiare a ridergli in faccia ma ho fatto uno sforzo, sono rimasto serissimo e gli ho detto che non ce la faccio più a fare tre allenamenti a settimana, che sono vecchio ormai e sono ancora scapolo, che non esco mai, con tutti i weekend impegnati dal calcio, che sta squadra mi rovinerà la vita, che forse è già fottuta comunque.
Ha detto che, se resto, posso fare due allenamenti a settimana.
Gli ho detto allora sì, ma a pari stipendio e pari bonus. Ha fatto la faccia indignata per alcuni secondi e poi si è rassegnato e ha detto ok, ci parlo io col mister, sei un rabbino del cazzo ma ok, Dottore, due allenamenti a parità di stipendio. A quanto pare è un po’ antisemita, il Pres. Comunque ci siamo dati la mano, quindi l’anno prossimo mi tocca giocare un altro anno, fino a oltre trentasei anni, ormai più vecchio di tutti gli arbitri e anche di molti dei mister. Con in squadra dei duemiladue, dei duemilatre che i primi giorni di raduno ti danno del lei. Vabbè.
Antonio, il capitano, è più vecchio di me, ha quarant’anni: lo conosco e ci gioco da venti. Prima contro, e ce le siamo date come criminali a ogni incrocio, poi dieci anni fa ci siamo trovati nella stessa squadra, in Prima categoria: al raduno le prime parole che mi ha rivolto sono state: “non fare lo stronzo anche qua”. Quella stagione ho messo un ventello condito da una decina di assist e siamo saliti in Promozione. In febbraio eravamo già amici. L’anno dopo la società fa un bel mercato e mette su una discreta squadrina su cui comunque nessuno avrebbe puntato per nient’altro che un’agevole salvezza: io faccio un’altra stagione come Cristo comanda, era il periodo in cui avevo ancora voglia di allenarmi, ventiquattro gol, assist e tutto il resto, e saliamo di nuovo, in Eccellenza, con dodici punti di distacco sulla seconda, ché a marzo eravamo già campioni, praticamente. A maggio lui mi amava alla follia e mi avrebbe difeso col proprio corpo anche dal cartello di Medellin. Da quel momento in poi, inseparabili: guai ad andare in una squadra che non accettasse anche lui. Ci sarebbe rimasto malissimo. Difensore centrale di uno e novanta per ottantacinque chili, palestrato e abbronzato sempre, anche in dicembre nella nebbia degli allenamenti serali a meno cinque. Secondo me va avanti altri due tre anni, è in formissima, pensa quasi solo al calcio, ormai lo conoscono, temono e rispettano su qualunque campo della regione. Temono, soprattutto. Ha la sicurezza dei veterani e picchia sempre di più, ma con malizia, non prende più un rosso veniale da anni. Solo i rossi strettamente necessari e quelli esteticamente o moralmente irrinunciabili. Prima delle partite nello spogliatoio mette “We’re gonna win” di Bryan Adams, per caricarci. Gli sbarbi lo guardano come uno che ha messo Gigliola Cinquetti in una serata trap, ma è il Capitano che decide cosa si ascolta prima della partita e comunque se uno degli sbarbi provasse a dire una parola prenderebbe gli schiaffi, mentre tra noi vecchi nessuno se la sente di dirgli che non è necessario, Bryan Adams. Ci resterebbe male. Il Capitano è un figlio di puttana in campo ma appena fuori è un ragazzo sensibile. E’ uno dei tre che lavora in ditta dal Pres, alla contabilità, perché ha fatto Ragioneria. Ha una Giulia nera metallizzata con lo spoiler e le minigonne, i cerchi cromati, sempre tirata a lucido come lui, e una ragazza magrissima che si chiama anche lei Giulia, e secondo me è stata (o è tuttora) anoressica ma nessuno ha il coraggio di chiederlo al Capitano, e a me in ogni caso non importa assolutamente niente delle vite altrui, neanche di quella del Capitano: quindi se aspettano che chieda io, aspettano ancora un po’. Non hanno figli, probabilmente perché non ci riescono, ma anche quelle son cose che non mi riguardano. Comunque, aveva detto che sarebbe passato a fare un saluto con la sua Giulia cromata e la sua Giulia anoressica, però per ora non si sono visti.
Le proprietarie di casa, che poi sono affittuarie, sono due napoletane di cui una non è male e sta con il nostro terzino destro, che è di là con lei, sempre attaccati l’uno all’altra come cozze. L’altra tipa è brutta e se ti avvicini senti che un po’ puzza anche, o forse è solo suggestione, non so, comunque non credo stia con nessuno, ma in queste cose non si sa mai: le sorprese, a volte. E’ il suo compleanno e, siccome non credo abbia molti amici, la sua compagna di casa ha chiesto al suo moroso d’invitare anche qualcuno della squadra, meglio se single, ci saranno molte amiche, gli ha detto di dire. Ed eccomi qua, a questa festa di sbarbi, tutti minimo dieci anni meno di me. Figa, poco o niente: tranne Chiara che è occupata. Sarebbe dovuto venire anche il Capitano, ma per adesso non si è visto. Sarebbe dovuto venire anche Mick, ma quel pervertito di Mick è in ritardo anche agli allenamenti, figurarsi stasera. E quindi sono qua, da solo, bevo e fumo. Dico pervertito, ma Mick non lo è più di me. Anche lui è single, in parte per per scelta in parte per necessità: diciamo che anche lui rifugge l’ora grave delle responsabilità e delle scelte e il superamento della linea d’ombra. E’ single e gli piacciono le donne e in quel frangente non si risparmia, diciamo. Ha un anno meno di me ed è quindi quello con cui mi capita di uscire più spesso, del giro della squadra. “Portami nei posti in cui andate voi trader”, mi dice, “dove ci sono le troie di lusso”. Ha questa immagine un po’ romanzata degli analisti delle sale mercato, tipo Wolf of Wall Street. Mai vista una troia di lusso in vita mia, o perlomeno non nella mia immediata disponibilità. Mai andato a puttane in vita mia, neanche. Mick mi sa di sì, oserei dire con una qualche regolarità, tipo anche adesso, magari, appena prima di venire. Anche lui è laureato, però in Scienze politiche. Lavora a una biblioteca universitaria, contratto biennale con una coop, perché per ora non ha trovato altro. Fa le foto col cellulare alle tipe che vanno in biblioteca, niente di sconcio, ma le fa di nascosto, poi me le fa vedere: “te la scoperesti questa? E questa? Guarda questa che culetto, questa è single”. Allora provaci, gli dico, lui fa sì con la testa e poi ci prova davvero e all’allenamento dopo dice che se l’è fatta: non so se è vero, ma ci può stare perché è belloccio, Mick, ci sa fare e si vede che è porco. E alle ragazze piace, specie a quelle con velleità culturali-intellettuali sui ventidue-ventitré anni, il trentacinquenne belloccio, allenato, che pensi sia un po’ un fallito, e tutto sommato è vero, ma è anche porco. Il brivido della trasgressione, l’interclassismo, queste cazzate qua. Anche lui (come me e a differenza del Capitano) va ormai avanti per inerzia e perché quei tre-quattrocento euro in nero in più al mese gli fanno comodo, con quello che tira su dal naso. Per fortuna che in Prima non fanno l’antidoping. Interno nel 4-4-2, anche se lui si definisce mezzala ma non si capisce che mezzala sia, visto che a centrocampo giochiamo a quattro con due ali pure e in mezzo un carpentiere, in senso figurato non letterale, e lui, che ha un calcio più educato di un carpentiere, ma non di molto, non fa gli inserimenti, non copre particolarmente gli spazi liberati dall’ala, non si scambia col terzino. Inutile discuterci: non è che a Mick importi poi molto del ruolo e del calcio in generale. Figurati a me.
Scruto la strada e tendo l’orecchio a captare il segnale dell’avvicinamento di una macchina, sperando che arrivi Mick per parlare in maniera un po’ sguaiata della fauna femminile della festa, o almeno il Capitano, con cui toccherebbe parlare della prossima partita (“che è l’unica che conta, raga. Una alla volta, raga, una alla volta”) ma sarebbe comunque meglio che le conversazioni sul nulla fatte con le poche facce note che conosco a sta festa. Finisco la sigaretta ma ho ancora mezzo bicchiere di vino, fuori si sta bene e la musica - adesso un classico Springsteen - arriva al giusto volume. Decido di accenderne un’altra. Mentre pensavo ai fatti miei la coppietta che prima limonava se n’è andata e adesso noto con la coda dell’occhio un’altra coppia che parla in un angolo del terrazzo. Riconosco la voce di lei e - voltandomi appena - li inquadro meglio. Chiara, con le sue cosce bianche che, ora che è in piedi e la gonna si è abbassata, sono coperte al mio sguardo ma non scomparse dalla mia mente; e un tipo che non è Federico. Mi metto ad ascoltarli cercando di non dare nell’occhio. Sembra stiano chiacchierando di cinema, o meglio lui parla e lei sorride e annuisce e si sfiora appena i capelli. Federico, il suo ragazzo e nostra ala destra, se non erro ha un esame importante e ci aveva preannunciato che sarebbe arrivato dopo. Lui a casa a studiare e lei qua a farsi intortare da sto coglione che le parla di cinema, penso. Come se fossero fatti miei. Non lo sono, ma mi scoccia che lei… che lei cosa? Che la ragazza di uno che gioca con noi e che conosco appena parli con uno sconosciuto a una festa? Che poi per quello che ne so io non è neanche uno sconosciuto, magari è il fratello. Ma non sembra il fratello, anche a voler fare le anime candide sembra più uno che ci sta provando. Ma sono comunque fatti loro.
Per un attimo incrocio lo sguardo di Chiara, che forse mi ha sorriso, finisco il vino in una sorsata e mi concentro sugli ultimi tiri di sigaretta, guardando giù in strada. Tra le chiome delle betulle che punteggiano il viale alberato sotto casa s’intravede un movimento e infine emerge dalla penombra, entrando nel cono di luce di un lampione, la sagoma familiare di Michele. Mick. Finalmente. Alza la testa e mi vede. Gli faccio un cenno, al quale risponde con un cenno. Suona al citofono, mi guarda e dopo una decina di secondi in cui non succede niente mi fa un gesto tipo “vammi ad aprire” al quale rispondo mimando con la mano il più tradizionale atto di autoerotismo maschile, senza spostarmi di un millimetro. Ride, poco prima di scomparire dentro la pancia della villetta. Qualcuno alla fine deve avergli aperto. E’ una casa di tre piani, il pianterreno occupato dai proprietari che però hanno una casa in Liguria e non ci sono quasi mai, e il secondo dalle due ragazze napoletane. Al terzo non c’è nessuno: sarebbe un pied-à-terre per il figlio di quelli del pianterreno che però fa, credo, il chimico in Svizzera e anche lui non c’è mai. Tutte queste cose non le so perché mi sono informato, visto che non me ne frega assolutamente niente delle vicissitudini che riguardano traiettorie esistenziali diverse dalla mia: me le ha spiegate Roby, il terzino destro, quello che sta con una delle napoletane, mentre l’altro giorno non potevo fuggire perché facevamo la solita doccia tiepida-tendente-al-freddo dopo un’ora e mezza di allenamento, perché il Pres non ha mai installato delle caldaie decenti. E finché è maggio-giugno va ancora bene, ma in dicembre gennaio febbraio è una cosa infame. Per cinquecento euro al mese, ogni volta rischiare la polmonite. Mentre mi volto per assistere all’ingresso di Mick dalla porta di casa, mi passano davanti l’esperto di cinema e Chiara, che mi sorride e saluta. La bacio su entrambe le guance anche se non ricordo che ci sia mai stata questa confidenza tra di noi e infatti lei arrossisce mentre il cinefilo resta un attimo interdetto prima di congedarsi in silenzio. Chiara è avvolta da un buon profumo di bagnoschiuma, morbido come i suoi contorni.
“Ehi”, dice.
“Ehi”, rispondo: “Come va?"
“Dai, bene. Mi manca solo un esame in questa sessione, ed è quasi pronto. E tu?”
“Così, dai. Nell’attesa che finisca sto campionato. Anche te non starai aspettando altro, no? Almeno con Fede andate da qualche parte il weekend”.
Sorride.
“La dura vita di noi veline, donne di calciatori… ormai sono abituata. E la tua ragazza? Ah no, è vero…” si corregge prima che sia io a doverlo fare.
“Sei al corrente della mia drammatica situazione sentimentale? O dovrei dire assente?”.
Mi pare che arrossisca di nuovo ma sorride ancora.
“Certo, me l’ha detto Federico”.
“Che pettegolo”.
“Ma no, mi ha parlato un sacco di te…”
“Addirittura? E che ti ha detto? Cose orribili?”
“Ma no, anzi. Ti vuol bene. Dice che sei l’unico normale nella squa…”
Si ferma e si morde le labbra, rendendosi conto di aver detto forse una cosa di troppo. É buffa. Rido.
“Stai serena, ha perfettamente ragione. Siamo in due o tre normali là dentro”.
“…Dio, pensavo di aver fatto una gaffe… sai, una cosa classista…”
“Classista?”, la guardo, stupito da questa sua sensibilità marxiana.
“S… sì, cioè… sai, che sono normali solo i due o tre che hanno…”
“Che hanno studiato?” le chiedo, con finta severità: “in effetti sì, è classista”.
“Oddio… mi sa che sto peggiorando le cose”.
Mi metto a ridere di gusto. È graziosa, mentre si incarta in questo tentativo di scartarsi. Le osservo per qualche istante il collo bianco, le braccia lisce. È un cioccolatino che metterei volentieri in bocca.
"Le stai peggiorando, in effetti. Ma non lo dirò a nessuno”, continuo, mentre fa la sua comparsa sulla soglia del terrazzo il mitico Mick.
“Uè, vecchio maiale”, esordisce, perché gli piace mettere a proprio agio le persone: “Chiara, ciao. Come va? Non parlare con questo qua che è un vecchio di merda. Tieniti stretta la tua ala destra”.
“Benvenuto Mick, amico mio squisito. Anch’io sto bene, e tu?” rispondo.
Ridacchiamo imbarazzati tutti e tre. Scambiamo altre due o tre parole, poi Chiara dice che deve rientrare per andare a sincerarsi che in camera sua sia tutto ok. La guardo stupito.
“Ma come, tu abiti qua?”
“Da stasera! Ho finito il trasloco oggi”.
"Ah, avevo capito che qua ci abitavano le due napoletane. Cioè, la tipa di…”
“Fino a ieri. Da una settimana Michela, l’altra ragazza, è andata a vivere da un’altra parte. E qua subentro io. La festa è per questo”.
“Ma non era il compleanno di ‘sta Michela?”
“Ma no, quello era un mese fa!”
“Ma che cazzo aveva capito Roby? Le ho anche preso un libro”, chiedo ridendo a Mick, che ride a sua volta.
“Ah boh, lo sai com’è fatto”.
“Vabbè niente. Boh, allora come si dice? Benvenuta a casa tua? Dopo ti do il libro. Auguri”.
“Che libro è?”
“L’avrai letto. Un giallo svedese, della vecchia scuola però”.
“Non ho letto niente di gialli svedesi” ammette lei.
“Sarà una prima volta”.
“Grazie" sorride radiosa mentre si accomiata e rientra nel soggiorno.
Mi volto verso Mick: è vestito bene come al solito, coi jeans giusti, le scarpe giuste, la t-shirt giusta comprata durante un viaggio a San Francisco. Tira fuori una cannetta da un pacchetto di sigarette in cui era circondata da altre sorelle allestite in precedenza e mi fa l’occhiolino.
“Così, appena arrivato?”, gli chiedo senza aver smesso di ridacchiare da prima.
“Ah, senti. L’affronti tu questa festa senza drogarti?”
“Sei appena arrivato e già ti lamenti. Vado a prendere un bicchiere di vino anche per te, perché sono una persona fondamentalmente buona. Tu aspettami qua”.
“Porta la boccia. Ne ho portate due di bianco”.
“Ottima idea. Anch’io. Che hai portato tu?”
“Chardonnay, prosecco, cazzo ne so. Dieci euro a bottiglia, figa”.
“Perché sono uguali, notoriamente. Il prosecco ha persino la bottiglia diversa. Quanta ignoranza e quanta omosessualità”. Non sono omofobo, comunque: solo conformista. In squadra si usa, e non sono uno da condurre battaglie culturali in spogliatoio.
"Eh sì, sì, vai a prendere il vino e torna che ora te la devo raccontare, la mia omosessualità”.
Sospiro per finta e torno dentro sorridendo e dirigendomi verso la cucina.
In cucina, immobili nella stessa posizione in cui li avevo lasciati, tipo stabat mater, vigono il tipo storto e la cavalla, come se il tempo avesse continuato a trascorrere per tutti tranne che per loro. Cenno d’intesa da parte mia, cenno equino da parte sua, si scostano, apro il frigo, estraggo la Ribolla che nessuno ha toccato:
“Altro giro, altra corsa?” Come all’ippodromo, mi stava venendo da dire ma mi son morso la lingua: “Vi è piaciuto?"
“Ottimo, davvero” dice il tipo.
“Ottimo. Rivòlla, hai detto?” chiede lei
“No, Ribolla, con la b”. Le verso un bel bicchiere e uno importante anche a lui, controllo la bottiglia portandola all’altezza degli occhi. Ne resta un bicchiere abbondante, non di più. Me lo secco attaccandomi direttamente al collo della bottiglia in un unico movimento e di fronte alla loro perplessità: “sono un enologo” dico con fermezza, nella speranza che questo li rassicuri o almeno li confonda. “Beh, ne apro un’altra. Ci sono anche due bottiglie di Chardonnay, o forse di prosecco, o di qualunque altra cosa, comunque si spera bianco, le ha portate un mio amico. Aprite pure e continuate col bianco, che è meglio di qualunque cosa possiate bere qua a parte quella bottiglia di rum che c’è lassù ma non so se è per stasera” finisco, indicando una bottiglia di un caraibico ambrato appoggiato su una mensola della cucina: "consiglio amichevole”.
Faccio loro l’occhiolino e li lascio, un po’ interdetti, alle loro conversazioni che presumo interessantissime, dopo aver stappato l’altra Ribolla e afferrato un bicchiere per Mick.
Passo di nuovo dalla sala, dove noto Chiara sul divano di prima, intenta a parlare di nuovo col cinefilo di prima. Mi vede, mi sorride, le sorrido, il tipo mi guarda, senza però sorridere, passo oltre.
Mick mi accoglie con un paio di insulti, prende il suo bicchiere, se lo fa riempire, mi guarda riempire il mio. Appoggio la bottiglia sul davanzale di una finestra mentre lui accende la canna. Fa un paio di tiri e poi me la porge.
“Erba di un amico. Non fa venire mal di testa”.
“Sperém” rispondo.
“Fidati, coglione. Ti ho mai fatto fumare porcherie?”
"Fammici pensare. Duecento volte? Dov’eri, comunque?”
"Arrivo sempre tardi così mi si nota di più. Non è necessario, eh, perché sono il più bello sempre e comunque. Ma aiuta. Buono sto bianco, che è?”
“Ribolla gialla”.
“Rivolta gialla? Che è, una roba anticolonialista cinese?”
"Ma che cazzo avete tutti con la Ribolla Gialla stasera? Ribolla, che ci vuole a pronunciarla?”
“Ma che cazzo ne so. Comunque, scommettiamo che me ne porto a casa una?”
“Di bottiglie?”
“Di tipe”.
“Che vuoi scommettere? Stai calmino che qua son tutte o ragazze di compagni di squadra o sorelle di cugini di nipoti di compagni di squadra, o tipo minorenni. Vedi di non far dei casini.
“…Dice quello che si stava intortando la Chiaretta quando sono arrivato”, ride.
“Olé. Non dire cazzate”.
“Sono arrivato con lei che ti diceva ‘vieni ti faccio vedere camera mia di là’”.
"Sei un coglione”.
"Perché non ti piacerebbe, ovviamente”.
“Cazzo c’entra? Sta con Fede”.
“Ma ha un bel culetto, o no? Dai!”
“Ma sì. Non solo quello”.
“Eh infatti. Bel bocconcino. Secondo me poi ci sta”, risatina porca.
“Sei un coglione parte seconda. Ma non avevi qualcosa da raccontare?”
“Ah sì, sì… ti ricordi quella che ti avevo detto, quella moretta in biblio…”
E inizia il consueto racconto della sue gesta erotiche. Chiacchieriamo mentre la festa si protrae quasi in nostra assenza e noi privatizziamo la bottiglia di Ribolla qua sul terrazzo. La temperatura si è ulteriormente abbassata rispetto a un’ora fa e adesso si sta veramente bene, la città è ancora più silenziosa e l’alcol e la stanchezza di una settimana iniziano a cullarmi in maniera gradevole. Mick si va ormai addentrando negli aspetti più tecnicamente ginecologici dell’amplesso e lo lascio fare, senza rovinargli il ritmo del racconto e il momento di gloria. E’ solo dopo che ha finito ed è rimasto per qualche minuto a contemplare le luci a distanza e a crogiolarsi nelle mie domande-complimento standard (vere o rifatte? Solo una botta o doppietta? Le hai fatto male? E così via) che sembra ridestarsi per un attimo dal torpore tiepido delle rimembranze, e m’interrompe.
“Oh, ma il Capitano dove cazzo è? Non doveva venire anche lui?”
“Doveva. Chi l’ha visto Rai tre”.
“Lo chiamo?”
"No! Cazzo chiami, magari sarà con la tipa”.
“Ah beh, che culo allora”, risponde. Ridiamo. “Anche Fede però manca, no?”
“Sì. Aveva un esame”, faccio io.
“Vero. Vabbè: vado a pisci… ehm, vado alla toilette”.
"Perché ti sei corretto alla fine?”
“Mi sto raffinando. Faccio un corso di galateo adesso”.
“Ah, ecco. Mi sembrava, infatti, di trovarti molto più signorile”, sorrido mimando con le mani la forma di un cappello a cilindro abbassato in segno di deferenza.
"Suca forte. Vado”.
Mi volto e faccio due passi lungo il terrazzo per sgranchirmi le gambe. Dalla finestra sul cui davanzale è appoggiato il vino butto un occhio dentro e vedo Chiara seduta al solito divano, con il solito cinefilo davanti, che adesso le sta parlando praticamente in un orecchio, le ginocchia che sfiorano quelle di lei. Eh no, cazzo. Non così davanti a mezza squadra: che poi non è vero, siamo in tre o quattro compreso un duemilasei di origine colombiana che fa pratica da un idraulico e che ho visto adesso e non si capisce cosa sperasse di ottenere venendo, che si aggira con aria annoiata e persa. Speriamo non mi veda. Ma comunque, non puoi fare la puttanella davanti agli amici del tuo ragazzo. Per giunta con un fighetto moscio come questo. Mi sto innervosendo, senza una ragione tranne la morale patriarcale dello spogliatoio di una squadra di calcio di livello regionale. Ma siamo quel che siamo fino a quando non lo siamo più, non è vero? E in ogni caso le cosce di nuovo parzialmente scoperte di Chiara, il suo sorriso un po’ meno compito di prima, il modo in cui gli parla e lascia che lui le parli… mi stimolano due riflessioni contrapposte.
La primà è: dai Chiara, ricomponiti. Non si fa.
La seconda: ho voglia di sentire il profumo che hai fra le cosce. E anche il sapore.
Sono consapevole che il primo sia un concetto magari un po’ retrivo, ma in linea con la morale comune, mentre il secondo è più problematico: se ti incazzi con Chiara perché si fa intortare da un tizio invece di restare al capezzale al suo studiosissimo compagno (nonché mio compagno, di squadra), non puoi contemporaneamente pensare che quello che in realtà vorresti adesso è toglierle di dosso quella gonna e abbassarle gli slip per fruire per intero…
“Che guardi? Chiara?"
La voce di Mick, che mi mostra una bottiglia di Sauvignon, mi riporta sulla terra. Rido.
“Ho fatto centro? Vedi che sei un maiale?”, ride anche lui.
“Hai fatto centro ma la stavo guardando perché, cazzo dai, sta parlando…”
“…Con quel tipo da un’ora”, mi interrompe Michele: “Infatti. L’ho notato anch’io. Cazzo, davanti agli amici del suo tipo”.
"Ah, ecco, non l’ho notato solo io, allora”, chiedo, in parte sollevato.
"Ma certo che no. Da un’ora blablabla gnegnegne con quel tizio”.
“Comunque anche Fede non è normale, dai. Venerdì sera, anche se stai preparando un esame magari vieni alla festa e basta no? Sono quasi le undici. Stai studiando alle undici del venerdì?”
“E infatti lei si vendica e si fa intortare da uno a caso”.
“Avendolo saputo…”, rido mentre ci servo gli ultimi due bicchieri di Ribolla per far posto al suo Sauvignon.
"Te l’ho detto che sei un maiale. E comunque su di lei ti capisco”.
“Eh, dai. Onesto, non te la faresti?”
“Ma scherzi? Certo che si".
"Cioè dai… ha proprio quella pelle chiara… l’aria innocente. Le gambe fatte bene, un bel culetto morbido…”
“Belle tette piene, secondo me una terza abbondante, per non dire una quarta, che su una così è tutto bonus…”, continua lui.
“Eh sì. Oh, che maiali che siamo comunque. É la tipa di un amico”.
Ridiamo.
“Beh dai. Se non lo fosse, la becchi così per strada mentre torna a casa, non la spingi dentro il furgone?”, chiede Mick con un tono leggermente diverso, meno ironico di prima, avvicinandosi e buttandole un’occhiata dalla finestra. “Così, con quell’aria da brava ragazza…”
“Sul… furgone?”, chiedo, incuriosito dall’apertura che mi pare Mick stia lasciando ad un mio potenziale commento. Abbiamo parlato a lungo di donne e di sesso, ma non mi pare di avergli mai confidato la mia attrazione per questo genere di fantasie. O forse gli ho raccontato che ho avuto qualche esperienza bdsm.
“Ti sconvolge?”, chiede.
“Non credo. Voglio capire se ho capito bene, però”.
L’aria è mossa adesso da una gradevole brezza notturna e abbiamo entrambi già bevuto un po’ troppo, oltre ad aver fumato una canna in due. Mick continua:
“Eh, dai. Il furgone. Le passi vicino col furgone, apri la porta scorrevole, uno scende e la spinge a bordo”.
Voleva proprio dire questo, quindi. Mi piace. Non è assolutamente un discorso che andrebbe fatto, ma da un anno abbiamo una confidenza che forse ci permette di farlo. Mick ha lasciato la frase in sospeso, come un amo al quale c’è da capire se abboccherò o no. Tocca a me fare l’eventuale passo avanti.
“Capisco. Lei si divincola un po’, ma è talmente sorpresa che non fa neanche in tempo a dire una parola. E comunque le metti una mano sulla bocca.”
Michele sorride con una nota vagamente tetra, mi guarda negli occhi.
“E’ chiaro. Non le devi dare il tempo di reagire. Oplà, dentro, richiudi il portellone laterale e te la porti dove ti pare a te”.
La guardiamo. Qua fuori non c’è quasi illuminazione mentre dentro è tutto acceso, di sicuro non ci può vedere mentre continua a parlare fitto fitto con il tipo, che adesso le ha anche appoggiato una mano su una spalla. Ci sta proprio provando, il figlio di puttana.
“E’ carina”, fa Michele. Ed è la definizione più giusta, e più stridente con quello che abbiamo appena immaginato di farle. E quindi la migliore.
“Innocente. Ha quest’aria innocente che mi piace un sacco”, ammetto.
“Anche a me piace. E anche il modo in cui si veste. Non se la tira, ma sa di essere sexy e si valorizza. E’ fatta apposta…”
“Tra l’altro profuma di bagnoschiuma”.
“Che ne sai?”, ridacchia, guardandomi: “l’hai annusata?”
“L’ho baciata sulle guance. E’ profumata. Liscia liscia”.
“Che porco che sei. Secondo te, è liscia dappertutto?”
“Intendi, sotto?”
“No no, intendo proprio la figa”.
“Beh… può darsi sia tutta liscia”.
“Deve”.
“Secondo me o è liscia liscia, che sarebbe il top, oppure ha un po’ di peluzzi biondi, che francamente non danno neanche fastidio”.
“Hai ragione. Ci stanno bene anche un po’ di peluzzi biondi o rossi, ma tenuti bene”.
“Ah, sicuro. Curàti”.
Ridacchiamo grevi. Qualcuno sta uscendo sul terrazzo e ci riporta alla realtà. Accendo un’altra sigaretta mentre Michele versa a entrambi un bicchiere di bianco. Scambiamo qualche parola con le due ragazze che sono uscite a fumare. Amiche di qualcuno che non conosciamo, chiaramente uscite in missione vediamo-sti-due-tipi-là-fuori-se-sono-interessanti-oppure-no. Dopo cinque minuti non abbiamo già più niente da dirci anche se ho la sensazione che loro sarebbero rimaste a chiacchierare un altro po’. Rientriamo in sala, e passiamo di crocchio in crocchio chiacchierando con i pochi volti conosciuti e sorseggiando quel che passa il convento. Ancora nessuna traccia né di Federico né del Capitano, che a questo punto sicuramente non viene. Io e Michele, come se ci fossimo coordinati per farlo, nel frattempo non perdiamo d’occhio Chiara, proprio come fa il tipo che parla di cinema, che ormai l’ha completamente privatizzata. Sono insieme da un paio d’ore, a parlare fitto fitto, a ridere, a dirsi cose nell’orecchio: lui ci sta apertamente provando e lei lo lascia fare, senza alcun ritegno. Sarà l’alcol, sarà che non c’è il suo ragazzo, ma Chiara si comporta come una che aspetta solo di essere baciata e non capisco perché il tipo non l’abbia ancora fatto.
"Vado a sentire che cazzo si dicono”, mi sussurra Mick passandomi accanto, come se mi avesse letto nel pensiero un’altra volta.
Si avvicina con nonchalance al divano su cui i due piccioncini sono seduti e, dando loro le spalle, si mette a guardare i libri sugli scaffali di una piccola libreria che occupa un angolo della sala. E’ veramente a un passo da loro ma la musica è piuttosto alta e soprattuto stanno parlando spesso l’uno nell’orecchio dell’altra. Non so se Mick riuscirà a captare qualcosa. Chiara ha le gote appena arrossate dal caldo e forse dall’alcol, il vestito più stropicciato di due ore fa, è seduta in maniera meno compita di prima, più rilassata. Si vede che si sente a suo agio, che ha abbassato le difese e si preoccupa meno di quanto accade attorno a lei. E’ molto desiderabile. Chissà se può avvertire i miei occhi percorrerle le caviglie, le gambe, su fino alle cosce mezze scoperte dall’orlo del vestito che si è via via rialzato, poi sulla forma delle tette che premono sotto la maglietta appena scollata. Vorrei sbottonarle altri due o tre bottoni e allargare con le dita i lembi della V per guardarle da vicino le tette e sentire il profumo della sua pelle appena accaldata. La chiacchierata con Mick mi ha instillato sto pensiero fisso, e ormai il mio focus è Chiara, Chiara presa e portata da qualche parte. Contro la sua volontà. Non mi è nuova, questa fantasia. Ce l’avevo anche al liceo, ma anche prima, forse già alle medie: mi ha sempre eccitato l’idea di prendere una ragazza, di tenerla ferma, bloccarla contro un muro. Giocavo a nascondino o a guardie e ladri con le ragazzine della mia età per il piacere di trovarle. Avere l’oggetto dei miei pensieri a un paio di metri, vedere mentre si scioglie e il vino la rende più indifesa, mi eccita in maniera dolorosa. Ho un’erezione che va e viene da oltre un’ora. Il tipo continua ad appoggiarle una mano ora sulla spalla ora su un braccio, e lei immobile, che non si sposta di un millimetro, non cerca di districarsi dalla conversazione. Si sono alzati un paio di volte e poi si sono rimessi a sedere da qualche parte, a parlare in solitaria. Le percorro il collo bianco con lo sguardo, e poi il mento, la bocca socchiusa. Il nasino tondo, piccolo, leggermente schiacciato. Quando arrivo agli occhi mi sta guardando anche lei. Ha un lieve sorriso e l’espressione d’infantile sorpresa che le capita spesso di assumere. Le faccio l’occhiolino. Arrossisce e sorride, abbassando lo sguardo e poi tornando ad ascoltare - non so con quanta attenzione - il tipo che le sta parlando. Io non ho abbassato lo sguardo: vederla arrossire e sapere che ne sono stato responsabile mi ha dato un brivido di eccitazione che mi ha scosso fisicamente. Digrigno i denti. Le tengo gli occhi incollati addosso e vedo che lei lo sente, lo sa, prova un crescente imbarazzo. Si gira un paio di volte con un mezzo sorriso per controllare se la sto ancora guardando, incrocia il mio sguardo, arrossisce di nuovo, distoglie lo sguardo. Dopo un minuto non resiste più, si alza con una scusa qualsiasi e va verso la toilette. Decido di continuare a seguirla ostentatamente con lo sguardo, contenendo a fatica l’impulso di seguirla in senso letterale, di andarle dietro e infilarmi in bagno con lei e… Nel frattempo Mike mi ha raggiunto e mi sta parlando a voce abbastanza bassa perché possa essere il solo a sentirlo:
“Bel culetto, eh?”
“Molto. Gran voglia di vederlo scoperto. La sto guardando fissa da un paio di minuti, se n’è accorta e non ha retto, si è dovuta alzare e andare in bagno. Ha le gote rosse, è in imbarazzo”.
“Andiamola ad aspettare fuori dalla porta”.
Rido.
“Cazzo, dovremmo. Peccato ci siano trenta persone e si configuri l’ipotesi di reato. Hai sentito qualcosa di quello che si dicevano?”
“Pezzi e bocconi. Libri, roba del genere. Lui fa il lumacone e lei gli dà corda. Ci sta provando e lei ci sta”.
Tecnicamente, la stiamo stalkerando. Uno l’ascolta, uno la guarda. Ci consultiamo tra di noi, la teniamo sotto osservazione, la bracchiamo. Siamo probabilmente già oltre il moralmente lecito e ai limiti del codice penale. Ma non riesco a fermarmi:
“Dici davvero che cede?”
“Ah, se quel coglione di Fede non viene, stasera lei finisce per farsi limonare da sto fighetto qua. Ci scommetto quel che vuoi”.
“Cazzo no, piuttosto me la limono io”, dico, e tutto sommato non è più uno scherzo. Perché ormai lo penso e lo posso tranquillamente ammettere anche con me stesso.
“Aspetta il tuo turno” ridacchia Mick.
Nel frattempo Chiara è ricomparsa in sala e si guarda attorno. L’altro stronzetto è sempre al solito posto e la cerca a sua volta con gli occhi, nella speranza d’incrociare il suo sguardo e farle un qualche cenno e magari ripartire con un’ora di chiacchiericcio. No, non mi va. Riempio rapidamente un secondo bicchiere di vino e faccio due passi nella sua direzione, fino ad intercettarla, frapponendomi tra lei e il tipetto. Mi guarda con un bel sorriso, un po’ incerto. Le mostro i due bicchieri di vino che tengo in mano:
“E ti offro una sigaretta. Prendiamo una boccata d’aria?”
Ci pensa mezzo secondo.
“Oh, ok. Grazie”.
Mick mi fa spazio con la punta di un sorriso, io la faccio passare avanti e la seguo sul terrazzo fissandole le gambe e il culo: pochi istanti dopo sono da solo con lei, tra lei e la porta, nella parte un po’ meno illuminata del terrazzo dov’era un paio d’ore fa.
"Che fine ha fatto Federico?”, le chiedo, passandole il bicchiere.
“Non… non viene più, ha scritto. Ha studiato fino a un’ora fa, ha mal di testa… lo conosci, è fatto così. Non è un gran festaiolo”.
“E ti lascia sola soletta a una festa?”, le chiedo, sorridendo ma senza perdere il contatto coi suoi occhi. Non riesce a sostenere a lungo il mio sguardo, si vede che la imbarazza.
“Beh, si fida”, risponde arrossendo.
“E fa bene?” Sta cadendo in trappola. Sta giocando al gioco a cui voglio che giochi.
"Beh… sì, perché?”
“Sei una bella ragazza. Non dirmi che nessuno ci prova”.
Mi guarda di sfuggita, mentre le accendo la sigaretta che le ho appena offerto. Arrossisce ma sorride, si vede che il complimento l’ha colta di sorpresa ma le ha fatto piacere.
“Sai come va… C’è sempre qualcuno che ci prova, alle feste”, risponde: “ma io mi comporto sempre bene”.
“Come stasera?”
Non mollo la presa, ci sto prendendo gusto a cuocerla a fuoco lento, a tenerla sotto pressione.
"P… perché?”
“Il piccoletto è tuo fratello?”
Mi guarda con occhi stupiti. L’ho detto apposta così, per abbassarlo. Per abbassare anche lei, farla sentire in colpa e, per giunta, per uno che non vale la pena.
“Il… piccoletto?"
“Ci parli da due ore”.
“E’… un amico… scusa, perché?”
“Ah, sì? Lo conosci da molto?”
"Da molto… cioè da molto no…”
"Da quanto?”
“Boh, non so, un mese?”
“Un mese?”
“Forse meno… non so. Che importanza ha?”, sorride imbarazzata.
Rido. Aspiro una boccata di fumo, la risputo. Bevo un sorso di bianco. Sorrido bonariamente:
“Se non lo sai tu… Comunque, ti ha fatto un bel comizietto, no?”
Si rende conto che sto spingendo il gioco troppo oltre, sia per durata che per intensità. Sa che non ho il diritto di farlo, né abbiamo questa confidenza. Ma non sa come uscirne senza essere scortese. La vedo, la sento la difficoltà. Non si aspettava questa conversazione.
"Scusa… in che senso?”
“Sono due ore che fa lezione. Non ti sei stancata?”
“Beh… cioè no, parliamo entrambi. Non mi fa.. lezione”.
“E di che parlate? Vi raccontate dei segreti?”
E’ un piacere che imparo appena a conoscere, intenso e irresistibile, quello di osservarla dibattersi nel tentativo scomposto di costruire una sorta di difesa. Non sa come fare a tracciare per terra la linea oltre la quale non mi sarebbe consentito andare. E’ in imbarazzo, l’ho messa in una posizione per uscire dalla quale servirebbero risposte o evasioni anche fisiche che lei, qua e adesso, non sa dare, non sa darsi.
“Boh… del più e del meno”.
“Nell’orecchio?"
“C… come dici?”
“Parlate del più e del meno dicendolo nell’orecchio? Perché ti guardavo, prima. E non so che ti ha detto lui a un certo punto, ma”, mi avvicino a lei, le passo il braccio dietro sinistro la schiena in modo che non possa arretrare, appoggiandole il palmo della mano, aperto, tra le scapole. Mi chino verso il suo orecchio sinistro, con la destra le scosto appena i capelli e le lascio scivolare le parole, sussurrate una alla volta, direttamente nell’orecchio, sfiorandolo appena con le labbra: “te lo ha detto così. Ora, io di solito se dico una cosa nell’orecchio a una ragazza carina come te, è per dirle una cosa del tipo: ‘fai la brava’”.
Ho potuto avvertire il fremito che le ha percorso i muscoli mentre la toccavo per la prima volta e le dicevo queste precise parole, con calma, separandole l’una dall’altra e allontanandomi in seguito pianissimo, le narici inondate dal profumo dei suoi capelli e della sua pelle. Chiara si tiene una mano nell’altra e ha i piedi uno vicino all’altro, le punte che si toccano. Si guarda le scarpe, mentre risponde.
“Non… non mi ha parlato nell’orecchio” è l’unica bugia che riesce a articolare.
“Ah, no? Dici che ho visto male?”
“N… no, ma magari una volta. C’è la musica dentro”.
“Una volta sola?”
“Boh due. Non so. Una o due”.
Sorrido.
“Ehi, tranquilla. Sto scherzando”, le dico, provando a far scendere la tensione. E’ un gioco sottile, in cui devi toglierle appigli, non darle punti di riferimento.
Mi affaccio alla porta del salotto, cerco con lo sguardo Mick, che mi vede. Gli faccio un cenno e pochi istanti dopo, sul terrazzo, siamo in tre. Io, lui e Chiara. Che adesso sorride ma non sa se può fidarsi oppure no, sempre più confusa, stranita, e incerta sul da farsi.
"Hey Mick, stavo facendo quattro chiacchiere con Chiaretta. Io dico una cosa, e lei ne dice un’altra. Magari tu puoi risolvere il dubbio?”.
“Certo, ditemi pure”, sogghigna lui, reggendomi istintivamente il gioco.
“Vedi, a me è parso che Chiara, nel parlare con quel ragazzetto con cui parla da un paio d’ore, non so se hai presente”.
“Quello bassetto?”, aggiunge Mick, neanche ci fossimo messi d’accordo.
“Esatto. Lui. Ecco, io dicevo che li ho visti diverse volte, tipo quindici o venti, parlarsi nell’orecchio, ma tipo così”, e, riavvicinandomi a Chiara, la traggo a me con un lieve scossone, mi chino verso il suo orecchio e le sussurro di nuovo ‘Sto scherzando, rilassati’. Ha un altro brivido, più contenuto di quello di prima, ma è evidente che non sia per niente a proprio agio.
“Ma certo” esulta lui: “Almeno dieci volte”.
Messa all’angolo, sembra per un attimo rianimarsi. Si morde delicatamente un labbro, fa un sospiro e poi dice:
“Ok… ok. Scusate, ma se sono due, cinque, o venti… a voi cosa cambia?”
Ridacchiamo entrambi.
“Beh…”, risponde Mick: “Stiamo scherzando, dai. Si fa per parlare…”
"E poi conosciamo il tuo ragazzo”, ci metto il carico.
“Ma… non ho fatto niente di male. Stavamo solo… parlando…”
“Ah beh, certo. Quindi per fare un esempio non c’è problema se ti parlo cosi:” nel dirlo, mi avvicino al suo orecchio, l’avvolgo con un braccio e stavolta la traggo proprio a me, fino a quando i nostri corpi non si sfiorano, tuffo il viso in mezzo ai suoi capelli spostandoli appena con il naso. La tengo ferma col braccio che le ho passato dietro la schiena al suo timido tentativo di ritrarsi e, sfiorandole l’orecchio ancora una volta con le labbra, ma stavolta più a lungo, continuo: “sei uno splendore. Dico sul serio. E stiamo scherzando, stai tranquilla. Anzi, scusa. Ora smetto, davvero.”
Non si è spostata di un centimetro, ma quando i nostri sguardi s’incrociano di nuovo sento che qualcosa è cambiato. Lei ha l’aria un po’ più sollevata, ma anche più indifesa. Aver varcato la soglia del contatto fisico e averle fatto capire che mi piace ha spostato il baricentro del rapporto da ‘lontani conoscenti’ verso ‘abbiamo un problema’. E’ il momento di far scendere la pressione.
“Rientriamo?”, propongo.
“Volentieri” risponde lei, abbozzando un sorriso di circostanza.
Michele ci via strada all’interno e veniamo investiti dalla luce, dalla musica e dalle voci eccitate dei presenti. Michele davanti, Chiara mi cammina davanti con passo incerto e sincopato. Gli occhi e le orecchie ci mettono un po’ ad abituarsi al nuovo contesto. Non ci ha notato nessuno, fatta forse eccezione per il coglioncello che ci stava provando con Chiara poco fa. Si volta verso di lei e ha l’istinto di fare un qualche gesto, ma il mio “avanti” sussurrato da dietro la convince immediatamente a far finta di niente e a non incrociare il suo sguardo. Preceduti da Michele arriviamo in cucina, dove - incredibile a dirsi - lo storto e la cavalla stanno ancora parlando e si sono spostati di pochi centimetri rispetto alle posizioni iniziali. Mi riconoscono e mi salutano entrambi con particolare calore. Si vede che per loro, ormai, siamo amici.
"Venuto a cercare il Ribolla?”, chiede lui con una strizzatina d’occhio, dopo aver evidentemente ereditato il ruolo di portavoce della coppia.
“Mi sa che non ce n’è più, di quello. Ehi Chiara, di chi è quel rum?”
“Ah… me l’hanno regalato ma io non bevo rum, e l’ho messo là nella speranza che qualcuno lo bevesse… vi va?”
“Se lo assaggi anche tu, altrimenti non lo stiamo ad aprire, dai”.
“Ma io… non lo bevo il rum”.
“Lo conosci?”
“Non benissimo e…”
“Allora lo provi, dai. Voi, ragazzi, ci state?”, chiedo ai due, dato che la risposta di Michele sarebbe scontata. Mi risponde lo Storto:
“Volentieri, ci fidiamo”.
“Vedi, Chiara? Loro si fidano. Fidati anche tu” ne approfitto, certo che lei possa cogliere i differenti piani dialettici.
Trova in una credenza dei bicchieri da shot, li riempio uno a uno. È un onesto rum ambrato, un Diplomatico di sette anni. Il suo aroma caldo e grasso, con note lignee direbbero in tv, si sprigiona in gola attorno alla lingua e risale nel naso trasportato dal vapore dell’alcol. L’inconfondibile, deliziosa “botta” della prima sorsata dei superalcolici non dozzinali.
Beviamo, anche Chiara a piccolissimi sorsi, e ci mettiamo a chiacchierare in cerchio, amabilmente, tutti e cinque. Non so quanto tempo passi prima di vedere il cinefilo fare capolino sulla soglia della cucina. Appoggio discretamente una mano dietro la schiena di Chiara, e il gesto le basta a capire che non è il caso si faccia invitare ad andare altrove. Lui ci vede parlottare, sente l’improvvisa freddezza che promana adesso dalla sua concupita e capisce che non è più aria. Fa una faccia stizzita e saluta tutti annunciando che è stanco e che sta andando a casa. Lo salutiamo, anche Chiara in maniera abbastanza distante. Tempo due minuti e anche la cavalla spiega che ha voglia di andare a casa, assist perfetto per lo storto che trionfante le chiede: “Ti posso accompagnare?” e incassa il prevedibile assenso. E bravo Storto, da stasera il Fantino. Ci salutano con affetto e l’eccitazione maliziosa di quelli che se ne vanno insieme da una festa dopo esserci arrivati separati, afferrano le proprie giacchette estive, le infilano e si congedano per sempre dalla mia vita.
Non sono i soli: la festa si va lentamente svuotando, ormai è tardi, sono quasi le due. Si avverte distintamente che Chiara è in preda a una crescente inquietudine: ‘e ora? Resto di nuovo sola con questi due?’
Ma Michele si stiracchia e ci annuncia che sta per tornare a casa. Dalla sala si odono i versi di una vecchia canzone di Cliff Richards.
You tell me that you love me, baby
Then you say you don't
You tell me that you'll come on over
Then you say you won’t
"Vuoi un passaggio?”, mi chiede.
“Torno a piedi, sono a venti minuti da casa. Mi farà bene fare due passi. Ma sei sicuro di poter guidare, tu?”
“Ma sì, ho guidato in condizioni peggiori. É che ho ricevuto un messaggino da un’amica…” risponde lui facendomi l’occhiolino.
Adesso è Chiara, da brava ragazza, a intervenire:
“Non è meglio… se chiami un taxi?”
“Tranquilla. Lui lo sa”, risponde Mick indicandomi con un gesto del mento: “se non fossi in grado di guidare non guiderei”.
Scuoto la testa:
“Secondo me è meglio se non guidi, ma se dici di sentirti apposto, sei grande e vaccinato”.
“Sto benissimo. Solo bisogno di prendere una boccata d’aria".
Ci salutiamo, lo accompagno alla porta mentre Chiara ripone i bicchierini nel lavello e sembra interessarsi ad altre piccole faccende di cucina.
“Oh, ti sto lasciando campo libero”, mi sussurra lui mandando un’occhiata verso la cucina: “Non fare il gay”.
“Cazzo faccio, Mick? Mi fermo qua, no?”
“Ma sei scemo? A questo punto dimmi che non te la vuoi portare a letto. Dillo”.
“Ma certo che vorrei, ma è la ragazza del Dottore. Che cazzo di consigli mi dai, Mick. Tu devi dirmi no, cazzo, non farlo”.
“Te la sei lavorata per benino, è ubriaca, probabilmente ci sarebbe stata con un altro, se spingi un po’ te la fai. Poi vedi tu. Io sono per il libero arbitrio”.
“Grazie Mick, sempre utilissimo”.
"Buona notte. Voglio le foto”, sussurra con un mezzo sorriso laido prima di congedarsi.
Torno in cucina, proprio mentre Chiara sta per uscirne dopo averla risistemata un po’ grossolanamente. Mi guarda e si ferma, un attimo prima di finirmi addosso. Sorride appena.
Ha le gote arrossate, è un filo accaldata dall’alcol e dalla serata, i vestiti che indossa, maglietta e gonna, hanno l’aspetto tipico dei vestiti a fine serata: un po’ stropicciati, stanchi come i suoi occhi. Le labbra no, le labbra sono belle come prima, e in generale questo suo aspetto un po’ meno compito, un po’ più trasandato e disinvolto, quest’aria assieme imbarazzata per la situazione, un po’ illanguidita dall’alcol, stanca e incerta, mi piacciono ancora di più. E mi piace il profumo di rum e di sigaretta che le si è incollato addosso mischiandosi al tepore della sua pelle, che immagino delicata e palpitante sotto la maglietta, sotto la sua gonna leggera. Così come mi piace il silenzio che sta ritrovando l’appartamento, mentre dal salone e dal terrazzo giungono le voci, finalmente basse, dei pochi superstiti della festa. La musica, al volume minimo, è solo un lontano sciabordio a cui non fare caso.
"Dobbiamo finire di fare il discorso di prima”, attacco.
“Che… che discorso?” Chiede lei, che forse sperava di esserne ormai fuori.
“Sul parlarsi nell’orecchio”.
“Dai… ancora?”, risponde, cercando con lo sguardo e forse con la mente un appiglio che le permetta di tirarsi fuori da una discussione che, qui e ora, sarebbe per lei estremamente scivolosa. Pericolosa.
Ne ho abbastanza.
L’afferro per le spalle, la spingo di nuovo dentro la cucina. La incollo con le spalle al muro, vicino al frigorifero. Mi chino verso di lei e le incollo le labbra alle labbra. Fa per muoversi ma la tengo ferma con entrambe le mani. Mugola qualcosa, per qualche istante, poi sento che la tensione che le attraversava braccia e spalle si allenta, un poco alla volta e poi di colpo. Prova ancora a mugolare qualcosa ma poi la sento socchiudere le labbra, c’infilo la lingua, la bacio a fondo. Non le lascio il tempo di riflettere, di fare qualcosa, di approntare una qualunque difesa, non le lascio neanche il tempo di respirare. Continuo a baciarla finché non si arrende e lascia che le nostre lingue s’incontrino, si sfiorino, si carezzino. Quando mi stacco ho in bocca il suo sapore, nelle narici il profumo della sua pelle. Ha gli occhioni stupiti, se non proprio spaventati. Non sa che dire, ma sembra voler socchiudere le labbra per dire qualcosa. La bacio di nuovo, stavolta con più calma e minor foga, con sistematicità. Mugola ancora qualcosa ma poi cede, anche quando le passo una mano dietro la schiena e la traggo a me, incollandomi a lei e tenendola ferma, schiacciata tra me e il muro. La bacio a lungo e quando mi stacco, stavolta, lei ha sempre gli occhioni da cerbiatta, ma sembra meno impaurita di prima. Forse stranita, forse incerta sul da farsi, ma sembra aver avuto modo di riprendere fiato e coscienza di sé.
“Che… che fai?” mi chiede, in un sussurro.
“Non si vede?”
“Ho un ragazzo…”
“Mi sono rotto i coglioni”.
“C.. come?” chiede, di nuovo stupita, ma sempre sottovoce. Senza fare uno scandalo. Senza attirare l’attenzione degli altri, di là.
“Mi sono rotto i coglioni di guardarti e basta. É dall’inizio della serata che ti guardo”.
“L’ho notato” dice. “Pensavo fosse per cazziarmi che parlavo con Lorenzo”.
“Che mi frega di quel nanetto, dai. Ci saresti stata?”
“Con chi? Con Lorenzo? Beh, no”.
“Dì la verità”.
“No”.
"La verità, ho detto”.
“No!” protesta, ma senza alzare la voce: “non dico non mi facesse piacere che ci provava un po’, non è possibile che Fede non ci sia mai. Non viene a un festa. É come se non gliene importasse niente se vado alle feste da sola”.
“Ma non ci saresti andata”.
“No, con Lorenzo no. Hai ragione, è noiosissimo”.
Rido. Mi chino di nuovo su di lei, interrompendola mentre sta provando a dire:
“Ma adesso noi come fa…”
La bacio di nuovo, più forte di prima, tenendola ferma, bloccata. Stavolta le bacio anche il collo, la spalla destra, di nuovo il collo e poi la limono ancora, a lungo, mentre finalmente le tocco una coscia, poi entrambe, e poi le metto una mano sul culo. E’ perfettamente morbido e pieno, della dimensione e della consistenza giuste, proprio come lo immaginavo. Ci stacchiamo con una leccatina in punta di lingue. Lei sembra confusa quanto prima, in balia degli eventi. Non le lascio il tempo di farmi domande:
“Ti voglio”.
"Dio… che casino” risponde, accettando un altro bacio, poi un altro ancora. Non ho smesso di carezzarle le cosce e soffermarmi ogni tanto sul sedere. Si schernisce: “Dai… fai piano… ti prego” aggiunge.
“Se mi supplichi così mi ecciti ancora di più”.
“Ti prego, davvero…”
Mi stacco dalla parete portandola con me, le faccio fare una serie di passi quasi di danza, in mezzo alla cucina, senza scollarmi da lei e senza smettere di sbaciucchiarla. Posso la mano destra sotto la sua gonna, su dal retro della coscia sinistra fino all’orlo degli slip, poi sopra, fino all’elastico, e infine lo scosto e le infilo la mano dentro le mutandine, da dietro, e le tocco il culo, delicatamente nudo al contatto col mio palmo aperto.
“Fermo… dai!” protesta senza convinzione: “sono ubriaca e ne stai approfittando”, sussurra. Ma sorride.
“Assolutamente. E adesso tu vieni con me, di là”.
"No dai, fermiamoci. Ti prego”.
“Ti ho già detto che se mi supplichi mi piaci anche di più”.
“Ho un ragazzo… sei suo amico…” fa per mettermi le mani sul petto, come a riacquistare le distanze.
Le afferro i polsi e glieli porto dietro la schiena, bloccandoli con la mano sinistra. Me la incollo di nuovo contro il corpo, e con la destra le carezzo di nuovo la coscia sinistra, il sedere, fuori e dentro gli slip, mentre la bacio con rinnovata passione e determinazione. Lei si scioglie da ogni tensione, ricambia i baci, si fa tenere, si lascia carezzare.
“Stai ferma e fai la brava. Tu non devi pensare a niente, tranne che a fare quello che ti dico e stare calma. Calmissima. Devi lasciarmi fare”.
“Ma cosa diranno le mie amiche… ho un ragazzo… e…”
“E niente. Devi fare la brava, adesso, capito? Ti voglio oltre ogni ragionevole limite, e stasera ti prendo”.
“Ma… così?” chiede lei, forse per prendere tempo. Fatto sta che non ha gridato né ha provato a divincolarsi, non davvero. É in balia di quello che le faccio, è sicuramente brilla, è anche confusa, ma essere presa così, in maniera brutale, essere baciata senza avere scelta, di sicuro le ha fatto tremare le gambe e non di paura.
Mi fa sesso e tenerezza insieme.
"Chiaretta, stai tranquilla, ok? Non c’è assolutamente niente di cui tu debba preoccuparti. Mi piaci sul serio. Non è un capriccio di una sera”.
La parola magica. Il concetto magico. L’apriti sesamo di ogni animale di sesso femminile. Non voglio scoparti, oh no, no, no. Voglio sposarti. Voglio una famiglia numerosa e geneticamente sana. E se te lo dico, ti puoi fidare.
Mi stacco da lei, la squadro da capo a piedi, con la sua gonnellina svolazzante, le scarpe col tacco, la maglietta un po’ stropicciata e gli occhi belli ma stanchi, la pelle candida, le gambe morbide e affusolate, come le braccia, le labbra rosse, socchiuse e increspate in una smorfia di preoccupazione mentre si passa nervosamente una mano nei capelli biondo ramato.
"Vieni, forza”, le dico, porgendole la mano. Mi offre la sua, e si lascia trascinare rapidamente verso camera sua.
Sgattaioliamo così veloci che nessuno ci ha visto né sentito. Tempo cinque secondi e la porta di camera sua si è già richiusa alle nostre spalle. Giro la chiave nella serratura, lei ha un attimo di sorpresa, ma poi capisce che è anche nel suo interesse che nessuno entri all’improvviso. L’attacco alla porta, le solevo il mento e la bacio in bocca mentre ricomincio a carezzarle il sedere.
“Dai… fermo…” dice, più per fare scena che sul serio.
"E’ dall’inizio della serata che ti ho messo gli occhi addosso. E ho voglia di vedere due cose: le tue cosce bianche, che sono sesso allo stato puro, distillato, e queste tette che sembrano di panna montata”.
Mi guarda, arrossisce. Gli piace piacermi, è evidente. Ma si sente in colpa, e ha altri mille pensieri che le affollano il cervello. Non solo devo rassicurarla, ma lo voglio. É troppo carina. Ed è una brava ragazza. Ho un debole per le brave ragazze.
“Sei un porco” sorride.
“E tu sei un bocconcino che non mi sfuggirà”.
“E se mi mettessi a gridare?” chiede, con una punta di malizia.
“Ti tapperei la bocca e ti legherei le mani, e poi ti spoglierei lo stesso”.
Mi guarda con una punta di dubbio: è chiaro che si chiede se lo farei davvero, e quante opzioni le restino, e se è in grado di fermarsi o di non fermarsi, e non pentirsi, e in genere di gestire questa cosa. Ed è chiaro anche che è lusingata, ed eccitata. Calo di nuovo su di lei, con passione ma in pieno controllo la bacio in bocca e poi decido che devo andare un filo più piano, per non spaventarla.
“Vuoi che torniamo di là?”, le chiedo.
“Insieme?”
“No, prima tu e poi io, a debita distanza temporale. Così non pensano che…”
"Ma che facciamo? Cioè, ok, è successa questa cosa. Che non doveva succedere… e…”
“Secondo me doveva. Deve proprio. Mi piaci Chiara, lo ripeto. Non l’avrei fatto con te, se fosse solo per fare sesso”.
“Beh anche tu… mi piaci. Quando Fede mi aveva detto che eri single non ci credevo. Gli ho chiesto se eri gay…”
“Ma grazie”.
"Prego. Ma non sembri gay, ma sei carino, età giusta, sportivo”.
“Età giusta è il complimento che terrò per sempre nel cuore. Mi vuoi sposare?”
“Sì” sorride, sorridiamo.
“Guarda che ormai hai detto sì”.
“E tu l’hai proposto” ride adesso apertamente. Ha i denti dell’arcata superiore un filo distanziati l’uno dall’altro, forse gliene manca uno e hanno spostato gli altri così, da piccola. Non so. Ma è un difetto della categoria deluxe dei difetti sexy. Ti viene ancora più voglia di baciarla.
Infatti la bacio di nuovo.
“Dai, dobbiamo andare di là” le dico, facendo la parte di quello responsabile. Anni di esperienza. L’età giusta.
“Prima io o prima tu?”
“Forse prima io, se esco dalla cucina con una bottiglia di bianco non desterò i sospetti di nessuno, ormai sanno chi è l’alcolizzato qua dentro”.
Ride, e per la prima volta mi bacia di sua iniziativa. Ok dice, vengo tra cinque minuti. Passo dalla toilette e mi rinfresco. Mi hai strapazzata, aggiunge un po’ civettuola.
E non hai visto niente, penso. Le do un bacetto, socchiudo la porta, il campo è libero, vado. Sgattaiolo in cucina, dove per fortuna non c’è nessuno. Apro il frigo e - miracolo - c’è ancora una bottiglia di bianco. Sembra pessimo, uno dei sedicimila chardonnay economici che affollano i banconi dei supermercati, ma a quest’ora e a una festa di studenti universitari sarebbe velleitario pretendere un vino naturale. Che è ciò che mi andrebbe adesso. Bello acidino, bello secco, un po’ salato alla fine. Ne ho in mente uno, devo averne ancora una bottiglia in frigo. A casa però. Vabbè. Stappiamo sta roba.
Faccio il mio ingresso in sala con in bocca il sapore - orrendo - di questo bianco del supermercato, euro due e novanta in offerta, mi ci gioco le palle. C’è ancora la musica ed è persino migliorata, ci sono le due ragazze che erano uscite prima sul terrazzo a conoscere me e Mick, c’è uno che non so chi sia che sta rullando una canna davanti a loro che lo guardano, c’è l’altra padrona di casa che mi guarda e sorride (sa? Non sa? E se sa, che ne pensa? Ma soprattutto: che cazzo mi frega?). Le sorrido e sollevo la bottiglia. Cerca con lo sguardo un bicchiere, non lo trova. Le faccio il gesto di aspettare, e scompaio nonostante lei stia cercando di dirmi una cosa tipo ma-no-non-preoccuparti-aspetta-faccio-io, vado in cucina, sciacquo un calice che sembra relativamente pulito sotto l’acqua fredda, lo faccio sgocciolare e glielo porto. Lo afferra ringraziandomi fin troppo, evidentemente disabituata alle basilari cortesie.
“Mmmm ottimo” esclama, confermando la prima impressione che mi ero fatto di lei, di una che, in un blind test, potrebbe serenamente bere l’acqua usata per sciacquare i bicchieri e poi un Blanc-de-noirs Grand cru senza rilevare particolari differenze nell’analisi organolettica.
“Eh sì, è uno Chardonnay. Ti ho guardata e mi sono detto: a lei piace lo Chardonnay”.
Sorride lusingata guardandosi la punta delle scarpe.
“Ti stai divertendo, stasera?” mi chiede.
Non sai quanto, vorrei rispondere, ma mi limito ad annuire e aggiungere:
“Bella casa! Ma dov’è finita la tua nuova coinquilina? Non eravamo qua per festeggiare lei?”
Si noti la classe con cui ho sviato le indagini. Neanche la P2 degli anni migliori.
“Ah boh! É scomparsa. La vado a cercare?”
“Ma no dai, magari è in bagno” mi stupisco dell’abilità con cui sto gestendo questa conversazione, a quest’ora, con un’erezione perché il mio cazzo è ancora rimasto a poco fa e sta chiaramente pensando Allora quand’è che si va?, una discreta dose di alcol, qualche canna e la stanchezza dei miei lunghi anni. “Le avevo portato un libro, ‘spè che lo vado a prendere, al massimo poi glielo dai tu”.
“Ma che pensiero cariiiiino” dice lei, sempre più stupita che un amico di una sua amica che gioca a calcio sia capace di simili galanterie ed attenzioni. Il fatto che io pensassi di doverlo regalare a lei e che quindi, tecnicamente, stia riciclando il suo regalo per un’altra, naturalmente, non può sfiorarla e non la sfiora.
Le verso ancora un po’ di quel “delizioso” Chardonnay, ne verso, ahimè, altrettanto a me per pura inerzia e poi mi avvio verso la sala d’ingresso dove ho appoggiato, su una cappelliera, il regalo in attesa di consegnarlo. Svuoto il bicchiere in un solo colpo e senza respirare, per evitare di percepirne il bouquet aromatico, e mentre afferro il libro Chiara esce dal bagno. Si è rinfrescata la faccia, ma ha sempre l’aria stanca, ma graziosa. Anzi proprio bella. Le sorrido, anche lei mi sorride ma è incerta sul da farsi, non avevamo detto di non tornare di là insieme, pensa. Le faccio un cenno come a dire è tutto OK, è tutto sotto controllo. Si avvia verso il soggiorno e quando mi incrocia, di nascosto da tutti gli altri, le do una palpatina al culo. Mi guarda con aria indignata, poi recupera un sorriso gioviale ed entra in soggiorno. Un attimo dopo arrivo io, facendo l’occhiolino alla sua compagna di casa, che stava per l’appunto per dirle che io ero andato a prendere eccetera eccetera.
Ne approfitto per porgerle il regalo e dirle Tieni, Chiara, avevo pensato a una scemenza, giusto così, per il trasloco, magari non ti piace. Sta per scoppiare a ridere ma mi regge il gioco e finge stupore, dice Ma non dovevi, e io Ma certo che dovevo figurati non è niente, e lei Ma che cos’è, e io Uranio arricchito, no scherzo, scartalo dai, e lei Oooooh ma è un libro… ma che autore è, come si pronuncia, ah, ma sono due autori, ah ah ah e io Eh sì sono svedesi ah ah ah…
Insomma, una recitazione perfetta.
Nessuno onestamente potrebbe intuire che cinque minuti fa l’avevo attaccata al muro, me la stavo limonando e le avevo infilato la mano dentro le mutandine.
L’amica guarda il libro, dice:
“Oh, ma io li conosco, loro! Sono tra i miei autori preferiti!”.
Ecco perché avevo scelto questo libro. Mi avevano detto che le piacevano i gialli svedesi. Che tra parentesi piacciono anche a me. Soprattutto quelli di Sjöwall e Wahlöö. Che non so come si pronuncino. Chiara mi guarda e sta per esplodere, ha capito tutto quello che è successo, rifatto tutto il percorso mentale, e si vede che fa fatica a non ridere scompostamente, io resto dignitoso guardando altrove, la compagna di casa mi guarda con rinnovato interesse e stima, accompagnata nello sguardo dagli altri tre astanti, le due tipe e quello che rullava una canna, che nel frattempo avevano preso a seguire la conversazione. Li guardo, mi fanno tutti un cenno di assenso, come a dire Ma che bravo che porti i libri a casa di studentesse, zio, che intuito. Riguardo Chiara e stavolta mi ricordo che ho una voglia matta di spogliarla, e lei capisce anche questo, arrossisce, sorride e dice:
“Mi offri anche una sigaretta?”
La mossa è giusta, perché la sua compagna di casa non fuma perché dice che fa male e non intende accompagnarci e restare immersa in una nuvola cancerogena. Dice proprio così, nuvola cancerogena. Vorrei ribattere ma penso che sia molto meglio abbozzarla e uscire finché non ci segue nessuno. Quando siamo sul terrazzo raggiungiamo l’angolino più discosto dalla porta, quello che ci permette di controllare chi viene e chi va senza essere visti. Accendo una sigaretta e gliela passo, poi mi accendo la mia. Sorride.
“Hai visto che attrice?”
“E io, allora?”
“Anche tu, notevole. Dai, il libro che era effettivamente per lei…"
Ridiamo, finalmente liberi di farlo.
“Vabbè, poi glielo presti”.
Ride di gusto.
“Tecnicamente è lei che lo presta a me”.
Rido anche io. Ora che si è sciolta ha anche le risposte pronte. Mi piace. Mi guardo attorno, non c’è nessuno sulla soglia. Scendo verso il suo viso, lei mi aspettava: chiude gli occhi e socchiude le labbra, ci scambiamo due o tre bacetti e poi un bacio lungo, con la lingua. Sa di sigaretta.
“Cavolo, sei carino”.
“Tu pure”.
“Ma stiamo facendo un casino, eh?”
“Eh, dipende”.
“Dipende da cosa?”
“Da molte cose” dico, fumando un altro tiro, soffiando via il fumo e poi baciandola di nuovo. Si fa baciare, anzi ricambia.
“Tipo?” mi dice, quasi sottovoce e quasi tra le labbra, mentre ci stacchiamo.
"Da come la gestiamo, da cosa vogliamo fare da domattina”.
“E cosa vogliamo fare?”
“Eh, ci conosciamo appena. Anzi, zero. Però mi piaci, davvero. Non l’avrei fatto per una scopata. Oddio, la vali senza dubbio, eh. Ma vali di più. Sei molto più che una scopata”.
“Quanto di più?” chiede, con una punta di paura. Quella che conosco, quella dell’abbandono. La sindrome delle ragazze carine con i ragazzi più grandi. Io ti sto dando tutta me stessa: e tu?
“Una storia vera e propria in più. Poi sulla durata non saprei, non abbiamo ancora parlato di niente, non abbiamo ancora neanche fatto l’amore”.
Ha gli occhi che brillano. Una storia vera e propria è in assoluto la cosa che complica di più le cose, con Federico, tra noi due, con la sua compagna di casa, etc. Ma Chiara non me la darebbe - e io voglio che me la dia, lo voglio molto e subito - se non in cambio di una prospettiva complicata. Che due persone possano semplicemente fare l’amore e poi boh, non è nelle sue corde attuali. E ci sta. E comunque, cinismo a parte, neppure io avrei voglia di una botta e via. Non con lei.
“Una storia vera e proprio” ripete le mie parole.
“Eh sì”.
“Tipo passare del tempo insieme”.
“Certo”.
“Tipo andare ai musei insieme?"
Non so perché le venga naturale associare una relazione ai musei, ma certo, perché no?
“Beh sì. I musei, un weekend al mare. Ho la macchina”.
So che quello è un atout importante per una ragazza della sua età. Il maschio che ti porta fuori porta. Il senso di libertà che volendo domattina prendiamo e partiamo, andiamo a Civitanova Marche. E’ umano. Ci siamo passati tutti.
Infatti Chiara sorride.
“Dove mi porti?”
“A Civitanova Marche”.
“Scemo”.
"Cos’hai contro le Marche?”
“Niente, mai stata”.
“Ma sai che, forse, neanche io?”
“E allora perché proprio Civitanova Marche?” ride
La bacio. Due volte.
“Perché sei bella” rispondo. E la bacio di nuovo.
“Sei scemo” sussurra, e mi bacia, venendomi vicino con il corpo. Ne sento l’afrore femminile, delicato, e il leggero tepore. Vuole essere abbracciata. Mi guardo attorno, non c’è ancora nessuno, l’abbraccio e lei si lascia andare, incollandosi a me. Sento i suoi seni schiacciati contro il mio petto. Le carezzo il sedere, la bacio languidamente tenendola stretta. Quando riapro gli occhi e mi stacco i suoi sono ancora chiusi, e sorride. Ti stai prendendo una bella sbandata, eh?, penso. Non so se rivolto a lei o a me stesso. Le do un altro bacetto, me ne rende due. Ho un’erezione imperiale.
“Come facciamo?” mi chiede, riscuotendosi un attimo.
“Ti fidi di me? E no, non è la frase del film. Ti fidi un po’”?
"Certo. Non starei limonando con te se non mi piacessi e se non volessi fidarmi”.
“Allora dammi il tempo di capire bene, di fare il punto, ok? Adesso ho in mente una sola cosa, e cioè che mi piaci e che ti voglio e che voglio stare da solo con te”.
“Anch’io voglio stare da sola con te. Ma come si fa? Che casino. Che stronza che sono”.
“Lasciamici pensare. E non farti venire sensi di colpa. Ho insistito io. Lo stronzo, nel caso, sono io. Ma non c’è da essere stronzi, io non ho una tipa da un po’, ma di tipe con cui sfogarmi ne trovo. Con te è diverso” picchiare un altro po’ sul chiodo, in modo che entri bene in profondità. Lei è rassicurata, sempre di più. Lo farebbe solo in cambio di una cosa seria, ovvio. E le piaccio ‘da cosa seria': più grande, più esperto, auto-munito Aggiungici che sa che ho anche studiato e che conosco autori che non conosce lei, che studia letteratura. É il tipo di storia complicata che una come lei sogna di notte, dai. Non potevo non piacergli.
“La sai gestire, tu?”
“Sì. Se mi lasci gestire, sì”.
“Non chiedo altro. Io sono proprio in confusione. Già non so gestirmi, gestire in genere. Se per una volta c’è qualcuno che sa…”
“A me piace, gestire”.
Mi guarda con un’espressione diversa, incerta.
“Gestire questo genere di cose?”
“Gestire, nella relazione. O anche una relazione”.
“Gestire tipo tutto? Cosa?” ha uno sguardo improvvisamente luminoso, ma al tempo stesso timoroso. Non la devo spaventare con tutti i discorsi D/s che mi vengono in mente, ma devo farle capire che può fidarsi di un uomo più adulto, che ha voglia di prendersi delle responsabilità. La voglio rassicurare, ma la voglio anche convincere ad abbassare la guardia.
"Sarebbe un discorso molto lungo. E lo faremo, quando vuoi. Verrà naturalmente dopo un po’ penso. È un fatto di caratteri. Diciamo che c’è chi ama che l’altro prenda l’iniziativa, che lo guidi un po’, e a volte l’altro ama guidare. E a volte funziona”.
"Quella che vorrebbe essere guidata sono io?” chiede, arrossendo.
“Non ti conosco così bene. Non so. Però a istinto, sì”.
“Beh…” guarda un attimo altrove, poi mi guardategli occhi, arrossisce e poi abbassa lo sguardo: “sembra una cosa carina. Quando c’è questa compatibilità”.
“Eh sì. Ma accade di rado”.
“Io non ho la patente” ride Chiara.
“Io sì” dico, tornando serio. E la bacio, sussurrandole: "E se serve ti metto anche la cintura, così non mi scappi”.
Sento un fremito nel suo corpo, di nuovo incollato al mio.
“Sul serio, non ce l’ho. Credo neanche quella per le coppie, non solo quella per l’auto” dice timidamente e quasi tra sé.
Finalmente l’hai detto. È una cosa che rende dolorosa la mia erezione. Perché una ragazza così carina e colta mi fa sesso, ma se ci aggiungi che ha proprio l’aria timida e innocente mi fa ancora più sesso, e se poi ci metti anche che è consapevole di essere timida e ammette di non voler guidare ma di voler essere guidata, in una relazione… beh… mi vien solo voglia di sbatterti qui e ora. E poi coccolarti, un sacco.
La afferro per le spalle, me la metto davanti ed è trepida e sexy, profumata e dannatamente attraente, con i suoi occhioni blu, il nasino, la bocca da baci, le cosce bianche, i seni morbidi e un corpo portentosamente ben fatto e proporzionato, elegante e slanciato nonostante sia piuttosto piccola, forse uno e sessantacinque. Un pasticcino alla crema. Le faccio alzare il mento sfiorandolo con due dita, per guardarla negli occhi:
“Se davvero sei una che preferisce essere guidata, diventa tutto ancora più interessante”.
“Non l’ho mai trovato, uno che sapesse guidare. Che volesse, forse. Che sapesse, nessuno. Che meritasse la mia stima e la mia ammirazione, per guidare me, nessuno. Ma Dio solo sa quanto sono stanca di dover guidare me stessa e spesso anche una relazione, e quanto mi piacerebbe potermi riposare”.
E’ un bel modo di metterla.
“Stai tranquilla ok? Lasciati andare. E’ come ballare, lasciati condurre”.
“Magari! Anche ballare, mi piace. Tu sai?”
“Un po’, ma solo balli classici”.
“Tipo?”
“Il Valzer”.
Ride.
“Sei scemo”.
“No , davvero. Davvero so ballare il valzer”.
Mi guarda incerta se credermi o no.
“Giuro”.
“Davvero? Non mi prendi in giro?”
“No, davvero. Non chiedermi perché, è una lunga storia di bali di debuttanti, ma ho fatto un corso”.
Mi guarda stupita, attratta. Il valzer non se l’aspettava. E’ a un passo dallo scivolare tra le mie braccia.
“Mi… mi insegni? Mi porti a ballare il valzer?”
“Con un vestito da valzer tu saresti la più bella del mondo. Non scherzo. Hai la pelle così deliziosamente chiara e un’espressione perennemente sorpresa, e bella. Sembri fatta apposta per essere fatta ruotare, leggera, in un vestito bianco, al crepuscolo dell’impero austroungarico.
Mi bacia, quest’ultima frase l’ha stesa. Si vede così e s’immagina bellissima. La sto facendo sentire bellissima. E lo è, diamine, e in questo preciso istante ha dimenticato il senso di colpa ed è eccitata e felice. Anch’io sono eccitato.
“Non è che mi stai prendendo in giro solo per portarmi a letto?” chiede all’improvviso, mentre una nuvoletta di delizioso broncio le attraversa il viso.
“Io scherzo sempre, ho spesso un tono leggero. Ma adesso non sto scherzando. Tu saresti davvero perfetta nella Vienna di fine Ottocento. Avrei voluto conoscerti allora. Staremmo benissimo insieme”.
“Tu saresti perfetto. Non ti conosco ma hai mille letture, si sente. Non me lo aspettavo. Sei colto, sei.. insolito. Nel modo di parlare, mi prendi alla sprovvista. Sei carino... Dio, sto parlando troppo”.
“Io credo che io e te dovremmo andare a casa mia, e domani dovremmo andare al mare, mangiare un piatto di spaghetti con le vongole e poi tornare a casa mia. Penso che sia il programma più giusto. E visto che mi hai chiesto di guidare, è ciò che faremo. Riviera, we’re coming”.
“E’ un bellissimo programma. Ma come facciamo… ad andare via insieme? E poi, la prima sera….?”
“Ah no, niente storie. Tu stasera dormi con me. Perché domattina ti svegli riposata e struccata accanto a me, e sono certo sia il momento in cui sei più bella. Su cosa facciamo stanotte, sono disposto a negoziare”.
Sorride. Mi dà un bacetto.
“Sei scemo, oppure sei un gentleman. Oppure mi prendi in giro e io ci resterò malissimo”.
“Sono sia scemo che gentleman, ma non ti prendo in giro. Seriamente, Chiara: non ho più tempo per queste cose. Se mi serve sesso, non ci incollo diecimila parole”.
“Mi porti da te?”.
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