L'amore che non sapevamo
di
1Maiky.1
genere
etero
Salve, è la prima volta che scrivo un racconto di genere erotico. Voglio raccontarvi la storia della mia relazione che tutt'oggi va avanti.
Ho deciso di narrare i fatti in modo sentimentale quindi le cose si evolveranno ma a tempo debito.
Quando Evelyn mi scrisse, ero in macchina diretto verso casa dopo una giornata lunga e stancante. I vetri, rigati dalla pioggia, riflettevano i neon tremolanti della città, e la mia mente ondeggiava tra la stanchezza e la monotonia. Poi vibrò il telefono.
Ciao Michael, scusa il messaggio inaspettato, ha un secondo? Avrei bisogno di un favore...
Evelyn. Il suo nome lampeggiava sullo schermo come una parola appartenente a un’altra vita.
Non ci sentivamo da mesi. Anni fa, avevamo condiviso risate soffocate nei corridoi del liceo, confessioni sussurrate tra una lezione e l’altra, canzoni divise a metà da un auricolare e sogni troppo grandi per restare nei margini di un quaderno. Poi la vita ci aveva separati, com’è naturale che accada: strade diverse, città diverse. Ma vederla riemergere ora, dal nulla, mi disorientò.
Le chiesi cosa fosse successo. Rispose con una sincerità che spiazzava.
«Sto attraversando un periodo un po’ complicato. Il lavoro traballa, l’affitto è diventato impossibile… Non so dove andare. Qui a Lisbona non ho nessuno oltre a qualche amica, ma possono ospitarmi solo per qualche giorno.»
Il suo tono era esitante. Cercava di mascherare la fragilità, ma io la conoscevo. Sapevo leggere tra le pause.
Puoi stare da me, le scrissi. Almeno finona quando troverai qualcosa.
Quando arrivò con quella valigia malandata e lo sguardo carico di tutto quello che non diceva, mi sembrò irreale averla lì. Eppure non mi sentivo fuori posto. Anzi, sembrava che un pezzo mancante avesse ritrovato il suo incastro.
Rivederla dopo tutto questo tempo mi face una certa impressione, forse perché l'avevo vista sempre come qualcosa di più, un qualcosa che fino ad allora non si era concretizzato.
Leì è magra, non ha un grandissimo seno, appena una seconda. Un fondo schiena molto invitante con una bella forma. Capelli biondi lunghi e occhi marroni.
I primi giorni scorsero silenziosi, quasi timidi. Evelyn si muoveva per casa con la leggerezza di chi non vuole disturbare. Preparava il caffè al mattino, tornava tardi la sera, si chiudeva nella sua stanza lasciandosi dietro una scia di profumo e malinconia.
Io la osservavo, senza invadere. Ogni tanto le lasciavo un biscotto sul tavolo. Lei, a volte, mi preparava una tisana la sera. I nostri sguardi si incrociavano in cucina, brevi, a volte sfuggenti, come se ci studiassimo da lontano.
Una sera cucinò lei. Pasta al pomodoro, semplice, buona. Cenammo sul divano, le gambe incrociate, il piatto in bilico sulle ginocchia.
«Ti ricordi quando ci beccarono a copiare l’interrogazione di filosofia?» disse ridendo, la forchetta a mezz’aria.
«Tu te la cavasti con un sette. Io con un tre.»
«Era merito dei miei occhi, dai.»
«No. Era merito tuo. Lo è sempre stato.»
Ci fu una pausa. Lei distolse lo sguardo, ma sorrise. E quel sorriso... lo avrei riconosciuto anche al buio.
Quella notte non dormii. Sentii i suoi passi leggeri nel corridoio, un bicchiere riempito d’acqua, poi silenzio. E il pensiero di lei che camminava nella mia casa, nella mia vita, come se ci fosse sempre stata.
Il giorno dopo, tornati entrambi da lavoro, mi sedetti accanto a lei. I nostri corpi non si toccavano, ma il calore era già lì, sospeso tra centimetri che sembravano chiedere il permesso.
«Posso?» chiesi, indicando la sua mano.
Lei annuì. Le dita si intrecciarono alle mie con una naturalezza che mi fece venire voglia di stringerla forte, come se avessi atteso quel contatto da sempre. La sua pelle era morbida, calda, viva.
Rimanemmo così qualche secondo. Poi lei parlò, con voce bassa:
«Mi fa strano stare qui con te, adesso.»
«In che senso?»
«Non lo so. È come… se non fossimo mai stati lontani. Ma allo stesso tempo, non ti conosco più davvero.»
«Nemmeno io ti conosco più. Ma è strano quanto mi manchi una versione di te che non ho ancora scoperto.»
Lei sorrise appena. Ma non guardava me, guardava le nostre mani intrecciate.
«E se stessi solo cercando conforto?» mormorò.
«E se anch’io lo stessi facendo?» risposi, con sincerità.
Lei alzò lo sguardo, finalmente. Gli occhi negli occhi. Non era solo attrazione, non solo nostalgia. Era quella linea sottile tra ciò che potrebbe succedere e ciò che potrebbe farci male.
«Ho paura di rovinare tutto,» disse.
«Io ho paura di non provarci.»
Il silenzio che seguì non era vuoto. Era carico. Come una pausa trattenuta troppo a lungo.
Evelyn si avvicinò appena. Fu un movimento lieve, ma bastò. Appoggiai la fronte alla sua. Sentii il suo respiro accelerare, il mio cuore battere più forte.
«Michael…»
«Dimmi.»
«Non dire niente.»
E allora la baciai. Non fu un bacio impetuoso. Fu lento, quasi esitante, come se avessimo entrambi paura di svegliarci da un sogno. Le sue labbra erano morbide, e il modo in cui si abbandonava a quel gesto mi fece capire quanto anche lei ne avesse bisogno.
Ma poi il bacio cambiò. Non divenne più urgente, ma più profondo. Le sue mani si posarono leggere sulle mie spalle, e io le sfiorai la guancia, tracciando con le dita la linea dell’orecchio fino al collo. Lei chiuse gli occhi, come se quel tocco le togliesse il respiro.
Rimase così, vicina, con il viso poggiato contro il mio. Ascoltavamo il nostro silenzio, le pause tra un respiro e l’altro. Avremmo potuto fare un passo oltre, ma nessuno lo fece. Non per mancanza di desiderio. Per rispetto, forse. Per paura di rompere qualcosa che non era pronto a essere toccato.
Il giorno dopo, ci comportammo come se nulla fosse successo. Ma solo in apparenza. Ogni gesto aveva un retrogusto di ieri. Ogni sguardo sembrava chiedere: Lo rifaremmo? O era solo un errore da dimenticare in silenzio?
Lei uscì presto quella mattina, lasciandomi solo con il suo profumo nell’aria. Tornò nel tardo pomeriggio, i capelli leggermente spettinati, le guance arrossate dal vento. Si infilò in cucina con la sua solita discrezione, mise su l’acqua per la pasta e aprì il frigo come se fosse sempre vissuta lì.
Io la raggiunsi senza far rumore. Lei si voltò di scatto, con un sorriso a metà, e per un attimo ci fissammo. Nessuno parlò.
Poi, come se qualcosa si fosse spezzato nel silenzio, mi avvicinai. Lei non si mosse. Aveva ancora le mani bagnate per aver lavato i pomodori, eppure una di esse cercò la mia.
Il bacio venne quasi da solo, senza preavviso. Diverso dal primo. Meno esitante, più intenso. Le mie mani le cercarono la vita, le sue si aggrapparono alla mia maglietta. Ci fu un respiro trattenuto, un piccolo gemito soffocato tra le labbra.
La schiena le urtò leggermente il bordo del lavandino. Non ci fermammo. Per un momento, tutto sembrava cedere: il tempo, il controllo, il raziocinio.
Ma poi lei si bloccò.
Solo un secondo. Forse meno. Ma lo sentii. Come un freno improvviso nel cuore del desiderio.
Si staccò, senza fretta, senza scuse.
«Scusa,» disse, fissando un punto indefinito oltre la mia spalla.
«Per cosa?» chiesi, con il fiato ancora corto.
«Perché… non lo so. Mi fa paura quanto mi viene naturale con te.»
Rimasi in silenzio. Non volevo forzarla. Non volevo nemmeno farla scappare.
«Va tutto bene,» dissi alla fine. «Quando vuoi, se vuoi. Ma non fingiamo che non sia successo.»
Lei annuì. Ma non tornò a baciarmi. Non quella sera.
Il giorno seguente ci fu una strana distanza. Nessuno dei due la nominò, ma era lì. Un velo sottile tra noi. Continuavamo a fare le stesse cose, ma con più attenzione, più prudenza. Come se qualcosa potesse rompersi al minimo passo falso.
Una sera la trovai seduta sul balcone, avvolta nella mia giacca. Fumava una sigaretta che non finiva mai.
«Non ti ricordavo fumatrice.»
«Nemmeno io,» disse. «È colpa dei pensieri.»
Mi sedetti accanto a lei. Il freddo ci mordeva le mani, ma nessuno si muoveva.
«A volte ho la sensazione che la mia vita sia un mazzo di chiavi, e nessuna apra la porta giusta.»
Avrei voluto dirle che magari quella porta era questa, la nostra. Ma restai in silenzio.
Passarono altri giorni. Una domenica piovosa rimanemmo a letto a lungo, ognuno nella propria stanza. Poi bussai alla sua porta.
«Colazione?» chiesi.
«Solo se la prepari tu.»
Mangiammo cereali, latte e qualche biscotto con una canzone malinconica in sottofondo. I suoi piedi nudi sfioravano i miei sotto al tavolo. Le nostre mani non si toccavano. Ma c’era una tensione dolce, difficile da ignorare.
Quella sera mi raccontò di quando era andata via di casa a vent’anni, di quanto fosse stato duro mantenersi da sola, di un amore finito male che ancora le faceva male, anche se non lo ammetteva. Io ascoltai. E nel suo modo di raccontarsi, c’era una fiducia che mi commuoveva.
Poi accadde qualcosa.
Cominciò a essere più distante. Tornava ancora più tardi. Un giorno la trovai seduta sul letto, assorta. Il suo telefono in mano, lo sguardo perso.
«Tutto ok?» chiesi.
«Sì, certo.» Ma non lo era.
Solo dopo due giorni, quando il silenzio tra noi era diventato troppo pesante, parlò.
«Mi ha scritto il mio ex. Dice che vuole vedermi. Sta per trasferirsi a Lisbona… dice che ha bisogno di parlare, di chiarire. Non so perché gli ho detto sì.»
Il mondo si fermò un secondo.
«Hai intenzione di vederlo?»
Lei annuì. «Non perché voglia tornare con lui. Ma… è come se avessi bisogno di chiudere un cerchio.»
Mi alzai in piedi, lentamente. Non volevo esplodere, non volevo dirle che dentro mi sentivo tremare.
«Ti chiedo solo una cosa. Qualunque cosa succeda, non mentirmi.»
«Non voglio farti male, Michael. Ma non pensavo che… noi…»
«Nemmeno io. Eppure è successo.»
Silenzio. Poi aggiunse piano: «Vado da una mia amica. Solo qualche giorno.»
Feci cenno con la testa. Le presi il viso tra le mani. Le diedi un bacio sulla fronte.
«Torna solo se capisci che vuoi davvero restare.»
Questa era la prima parte, fatemi sapere cosa ne pensate. Se il ritmo va bene o è troppo lento. Cercherò di accontentarvi nella seconda parte.
Ho deciso di narrare i fatti in modo sentimentale quindi le cose si evolveranno ma a tempo debito.
Quando Evelyn mi scrisse, ero in macchina diretto verso casa dopo una giornata lunga e stancante. I vetri, rigati dalla pioggia, riflettevano i neon tremolanti della città, e la mia mente ondeggiava tra la stanchezza e la monotonia. Poi vibrò il telefono.
Ciao Michael, scusa il messaggio inaspettato, ha un secondo? Avrei bisogno di un favore...
Evelyn. Il suo nome lampeggiava sullo schermo come una parola appartenente a un’altra vita.
Non ci sentivamo da mesi. Anni fa, avevamo condiviso risate soffocate nei corridoi del liceo, confessioni sussurrate tra una lezione e l’altra, canzoni divise a metà da un auricolare e sogni troppo grandi per restare nei margini di un quaderno. Poi la vita ci aveva separati, com’è naturale che accada: strade diverse, città diverse. Ma vederla riemergere ora, dal nulla, mi disorientò.
Le chiesi cosa fosse successo. Rispose con una sincerità che spiazzava.
«Sto attraversando un periodo un po’ complicato. Il lavoro traballa, l’affitto è diventato impossibile… Non so dove andare. Qui a Lisbona non ho nessuno oltre a qualche amica, ma possono ospitarmi solo per qualche giorno.»
Il suo tono era esitante. Cercava di mascherare la fragilità, ma io la conoscevo. Sapevo leggere tra le pause.
Puoi stare da me, le scrissi. Almeno finona quando troverai qualcosa.
Quando arrivò con quella valigia malandata e lo sguardo carico di tutto quello che non diceva, mi sembrò irreale averla lì. Eppure non mi sentivo fuori posto. Anzi, sembrava che un pezzo mancante avesse ritrovato il suo incastro.
Rivederla dopo tutto questo tempo mi face una certa impressione, forse perché l'avevo vista sempre come qualcosa di più, un qualcosa che fino ad allora non si era concretizzato.
Leì è magra, non ha un grandissimo seno, appena una seconda. Un fondo schiena molto invitante con una bella forma. Capelli biondi lunghi e occhi marroni.
I primi giorni scorsero silenziosi, quasi timidi. Evelyn si muoveva per casa con la leggerezza di chi non vuole disturbare. Preparava il caffè al mattino, tornava tardi la sera, si chiudeva nella sua stanza lasciandosi dietro una scia di profumo e malinconia.
Io la osservavo, senza invadere. Ogni tanto le lasciavo un biscotto sul tavolo. Lei, a volte, mi preparava una tisana la sera. I nostri sguardi si incrociavano in cucina, brevi, a volte sfuggenti, come se ci studiassimo da lontano.
Una sera cucinò lei. Pasta al pomodoro, semplice, buona. Cenammo sul divano, le gambe incrociate, il piatto in bilico sulle ginocchia.
«Ti ricordi quando ci beccarono a copiare l’interrogazione di filosofia?» disse ridendo, la forchetta a mezz’aria.
«Tu te la cavasti con un sette. Io con un tre.»
«Era merito dei miei occhi, dai.»
«No. Era merito tuo. Lo è sempre stato.»
Ci fu una pausa. Lei distolse lo sguardo, ma sorrise. E quel sorriso... lo avrei riconosciuto anche al buio.
Quella notte non dormii. Sentii i suoi passi leggeri nel corridoio, un bicchiere riempito d’acqua, poi silenzio. E il pensiero di lei che camminava nella mia casa, nella mia vita, come se ci fosse sempre stata.
Il giorno dopo, tornati entrambi da lavoro, mi sedetti accanto a lei. I nostri corpi non si toccavano, ma il calore era già lì, sospeso tra centimetri che sembravano chiedere il permesso.
«Posso?» chiesi, indicando la sua mano.
Lei annuì. Le dita si intrecciarono alle mie con una naturalezza che mi fece venire voglia di stringerla forte, come se avessi atteso quel contatto da sempre. La sua pelle era morbida, calda, viva.
Rimanemmo così qualche secondo. Poi lei parlò, con voce bassa:
«Mi fa strano stare qui con te, adesso.»
«In che senso?»
«Non lo so. È come… se non fossimo mai stati lontani. Ma allo stesso tempo, non ti conosco più davvero.»
«Nemmeno io ti conosco più. Ma è strano quanto mi manchi una versione di te che non ho ancora scoperto.»
Lei sorrise appena. Ma non guardava me, guardava le nostre mani intrecciate.
«E se stessi solo cercando conforto?» mormorò.
«E se anch’io lo stessi facendo?» risposi, con sincerità.
Lei alzò lo sguardo, finalmente. Gli occhi negli occhi. Non era solo attrazione, non solo nostalgia. Era quella linea sottile tra ciò che potrebbe succedere e ciò che potrebbe farci male.
«Ho paura di rovinare tutto,» disse.
«Io ho paura di non provarci.»
Il silenzio che seguì non era vuoto. Era carico. Come una pausa trattenuta troppo a lungo.
Evelyn si avvicinò appena. Fu un movimento lieve, ma bastò. Appoggiai la fronte alla sua. Sentii il suo respiro accelerare, il mio cuore battere più forte.
«Michael…»
«Dimmi.»
«Non dire niente.»
E allora la baciai. Non fu un bacio impetuoso. Fu lento, quasi esitante, come se avessimo entrambi paura di svegliarci da un sogno. Le sue labbra erano morbide, e il modo in cui si abbandonava a quel gesto mi fece capire quanto anche lei ne avesse bisogno.
Ma poi il bacio cambiò. Non divenne più urgente, ma più profondo. Le sue mani si posarono leggere sulle mie spalle, e io le sfiorai la guancia, tracciando con le dita la linea dell’orecchio fino al collo. Lei chiuse gli occhi, come se quel tocco le togliesse il respiro.
Rimase così, vicina, con il viso poggiato contro il mio. Ascoltavamo il nostro silenzio, le pause tra un respiro e l’altro. Avremmo potuto fare un passo oltre, ma nessuno lo fece. Non per mancanza di desiderio. Per rispetto, forse. Per paura di rompere qualcosa che non era pronto a essere toccato.
Il giorno dopo, ci comportammo come se nulla fosse successo. Ma solo in apparenza. Ogni gesto aveva un retrogusto di ieri. Ogni sguardo sembrava chiedere: Lo rifaremmo? O era solo un errore da dimenticare in silenzio?
Lei uscì presto quella mattina, lasciandomi solo con il suo profumo nell’aria. Tornò nel tardo pomeriggio, i capelli leggermente spettinati, le guance arrossate dal vento. Si infilò in cucina con la sua solita discrezione, mise su l’acqua per la pasta e aprì il frigo come se fosse sempre vissuta lì.
Io la raggiunsi senza far rumore. Lei si voltò di scatto, con un sorriso a metà, e per un attimo ci fissammo. Nessuno parlò.
Poi, come se qualcosa si fosse spezzato nel silenzio, mi avvicinai. Lei non si mosse. Aveva ancora le mani bagnate per aver lavato i pomodori, eppure una di esse cercò la mia.
Il bacio venne quasi da solo, senza preavviso. Diverso dal primo. Meno esitante, più intenso. Le mie mani le cercarono la vita, le sue si aggrapparono alla mia maglietta. Ci fu un respiro trattenuto, un piccolo gemito soffocato tra le labbra.
La schiena le urtò leggermente il bordo del lavandino. Non ci fermammo. Per un momento, tutto sembrava cedere: il tempo, il controllo, il raziocinio.
Ma poi lei si bloccò.
Solo un secondo. Forse meno. Ma lo sentii. Come un freno improvviso nel cuore del desiderio.
Si staccò, senza fretta, senza scuse.
«Scusa,» disse, fissando un punto indefinito oltre la mia spalla.
«Per cosa?» chiesi, con il fiato ancora corto.
«Perché… non lo so. Mi fa paura quanto mi viene naturale con te.»
Rimasi in silenzio. Non volevo forzarla. Non volevo nemmeno farla scappare.
«Va tutto bene,» dissi alla fine. «Quando vuoi, se vuoi. Ma non fingiamo che non sia successo.»
Lei annuì. Ma non tornò a baciarmi. Non quella sera.
Il giorno seguente ci fu una strana distanza. Nessuno dei due la nominò, ma era lì. Un velo sottile tra noi. Continuavamo a fare le stesse cose, ma con più attenzione, più prudenza. Come se qualcosa potesse rompersi al minimo passo falso.
Una sera la trovai seduta sul balcone, avvolta nella mia giacca. Fumava una sigaretta che non finiva mai.
«Non ti ricordavo fumatrice.»
«Nemmeno io,» disse. «È colpa dei pensieri.»
Mi sedetti accanto a lei. Il freddo ci mordeva le mani, ma nessuno si muoveva.
«A volte ho la sensazione che la mia vita sia un mazzo di chiavi, e nessuna apra la porta giusta.»
Avrei voluto dirle che magari quella porta era questa, la nostra. Ma restai in silenzio.
Passarono altri giorni. Una domenica piovosa rimanemmo a letto a lungo, ognuno nella propria stanza. Poi bussai alla sua porta.
«Colazione?» chiesi.
«Solo se la prepari tu.»
Mangiammo cereali, latte e qualche biscotto con una canzone malinconica in sottofondo. I suoi piedi nudi sfioravano i miei sotto al tavolo. Le nostre mani non si toccavano. Ma c’era una tensione dolce, difficile da ignorare.
Quella sera mi raccontò di quando era andata via di casa a vent’anni, di quanto fosse stato duro mantenersi da sola, di un amore finito male che ancora le faceva male, anche se non lo ammetteva. Io ascoltai. E nel suo modo di raccontarsi, c’era una fiducia che mi commuoveva.
Poi accadde qualcosa.
Cominciò a essere più distante. Tornava ancora più tardi. Un giorno la trovai seduta sul letto, assorta. Il suo telefono in mano, lo sguardo perso.
«Tutto ok?» chiesi.
«Sì, certo.» Ma non lo era.
Solo dopo due giorni, quando il silenzio tra noi era diventato troppo pesante, parlò.
«Mi ha scritto il mio ex. Dice che vuole vedermi. Sta per trasferirsi a Lisbona… dice che ha bisogno di parlare, di chiarire. Non so perché gli ho detto sì.»
Il mondo si fermò un secondo.
«Hai intenzione di vederlo?»
Lei annuì. «Non perché voglia tornare con lui. Ma… è come se avessi bisogno di chiudere un cerchio.»
Mi alzai in piedi, lentamente. Non volevo esplodere, non volevo dirle che dentro mi sentivo tremare.
«Ti chiedo solo una cosa. Qualunque cosa succeda, non mentirmi.»
«Non voglio farti male, Michael. Ma non pensavo che… noi…»
«Nemmeno io. Eppure è successo.»
Silenzio. Poi aggiunse piano: «Vado da una mia amica. Solo qualche giorno.»
Feci cenno con la testa. Le presi il viso tra le mani. Le diedi un bacio sulla fronte.
«Torna solo se capisci che vuoi davvero restare.»
Questa era la prima parte, fatemi sapere cosa ne pensate. Se il ritmo va bene o è troppo lento. Cercherò di accontentarvi nella seconda parte.
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Commenti dei lettori al racconto erotico