Lo zingaro

di
genere
gay

È un pomeriggio qualunque, il sole che picchia ancora nonostante sia settembre. Sto passeggiando lungo la stradina sterrata vicino casa, quella che costeggia l’accampamento dei romeni, un ammasso di baracche, teli di plastica e fumo che sale da qualche fuoco acceso. Ci passo spesso, quasi per abitudine e ormai lo conosco bene: il ragazzo che sta sempre lì, vicino a una catasta di legna. Si chiama Andrei, me l’ha detto una volta, con quella voce morbida e un accento che rotola sulle parole. È diverso dagli altri: non chiede soldi, non urla, se ne sta lì con quel viso delicato, quasi femmineo, occhi scuri grandi e capelli castani spettinati che gli cadono sulla fronte. È magro, la pelle abbronzata ma liscia, e ha un culo che si intravede nei jeans logori, tondo e invitante, che mi fa girare la testa ogni volta che passo.

Col tempo ci siamo abituati l’uno all’altro. Prima un cenno, poi un “ciao” timido, qualche sorriso che mi fa accelerare il battito. Abbiamo anche chiacchierato; robe semplici, il tempo, le sue galline, il casino dell’accampamento. È sempre scalzo o con delle infradito lerce, i piedi neri di polvere, ma c’è qualcosa in lui, in quel suo modo di guardarmi, che mi fa venire voglia di fermarmi più a lungo.

Oggi è diverso. Passo come al solito, e lui è lì, accovacciato vicino a un secchio d’acqua, a lavare qualcosa. Mi vede, si alza e mi saluta con quel sorriso storto che mi manda in tilt. “Ciao, vieni un attimo?” mi dice, e c’è un tono nuovo nella sua voce; un invito. Io annuisco, il cuore che già pompa, e lo seguo. Mi porta dietro la loro baracca, verso un capanno malandato; legno marcio, un tetto di lamiera bucato, l’odore di terra umida e galline che si mischia a quello di sudore e sporco. Dentro è un casino: paglia sul pavimento, qualche uovo sparso, un materasso vecchio buttato in un angolo. Mi mostra le galline, indica una che zoppica e ride: “Questa è stupida, cade sempre.” Io rido con lui, ma sento già l’aria che si carica.

Parliamo ancora un po’, appoggiati al muro di legno ruvido. Poi, senza preavviso, succede; mi mette una mano sul fianco, leggera ma decisa, mentre sto blaterando non so cosa. Sussulto, ma non mi sposto. Lui mi guarda, quegli occhi scuri che brillano, e sorride; un sorriso che sa di guai. Io ricambio, il respiro corto, e lui non aspetta altro. La sua mano scivola giù, dritta sul mio cazzo, sopra i jeans. Lo stringe piano, tastandolo, e io mi indurisco subito sotto quel tocco. “Ti piace?” sussurra, e io annuisco, la voce che non mi esce.

Da lì è un casino. Mi spinge contro il muro, il legno che mi graffia la schiena, e mi bacia; un bacio sporco, con la lingua che sa di fumo e cibo, che mi invade la bocca senza chiedere permesso. Ha le labbra screpolate, ma morbide, e geme piano mentre mi succhia la lingua, la saliva che ci cola sul mento. È lurido; la maglietta strappata che gli puzza di sudore, i piedi neri di polvere che strusciano sul pavimento; butta un odore che mi eccita da morire. Gli afferro i capelli, lo tiro più vicino, e gli mordo il collo, lasciandogli un segno rosso sulla pelle abbronzata.
Gli calo i jeans logori (no mutande, ovviamente) e il suo culo si offre a me, tondo e liscio nonostante la sporcizia. È polveroso, con una patina di sudore che lo rende lucido, e io non resisto. Mi inginocchio lì, in quel capanno schifoso, e gli apro le chiappe; il buco è stretto, scuro, con un odore forte di pelle e terra che mi manda il sangue al cazzo. Ci sputo sopra, un filo grosso che gli cola lento e ci passo la lingua; un colpo lungo, dal basso verso l’alto, succhiandogli il bordo del buco del culo. Lui geme, un suono acuto e spezzato, e spinge il culo indietro, contro la mia faccia. Lecco ancora, più forte; ancora e ancora, infilandoci la lingua dentro, allargandolo per bene. Il sapore salato e crudo che mi fa impazzire. La polvere mi si attacca alle ginocchia, ma non me ne frega niente; è troppo eccitante.

Mi alzo, il cazzo che mi scoppia nei pantaloni. Me lo tiro fuori; duro, gonfio, già bagnato sulla punta e glielo appoggio al buco bagnato di sputo e lingua. “Lo vuoi?” gli chiedo, la voce roca, e lui annuisce, tremando: “Sì, dai.” Spingo dentro, lento, sentendo ogni centimetro di quel culo stretto che mi avvolge. Lui mugola, si aggrappa al muro, e io lo scopo; prima piano, poi forte, il rumore della mia pelle che sbatte contro la sua che rimbomba nel capanno. La sporcizia mi si attacca addosso, il sudore mi cola sulla fronte, ma è perfetto; il suo culo che mi stringe, i suoi gemiti delicati che si mescolano al casino delle galline fuori.
Lo giro, lo faccio inginocchiare sulla paglia lurida. “Apri la bocca,” gli ordino, e lui obbedisce; la spalanca, la lingua fuori, gli occhi lucidi che mi guardano dal basso. Gli schiaffeggio il cazzo sulla faccia; sulle guance, sul naso; lasciandogli strisce di liquido sulla pelle sporca. Poi glielo infilo in bocca, e lui succhia le labbra morbide che scivolano, la lingua che mi lecca la cappella, un rumore bagnato e osceno che mi fa tremare. Gli tengo la testa, gli scopo la bocca, e lui gorgoglia, la saliva che gli cola sul mento e sul collo polveroso.

Sto per venire, lo sento. “Dove lo vuoi?” gli chiedo, ansimando. “In bocca,” biascica lui, la voce strozzata, e io esplodo; un fiotto caldo e denso che gli riempie la gola, gli cola sulle labbra mentre lui ingoia e continua a succhiare. Quando finisco, mi tira a sé e mi bacia; un bacio lurido, con la sua bocca che sa di me, di terra, di tutto quello che abbiamo fatto. Restiamo lì, sudati e sporchi, il capanno che puzza di sesso e galline, e lui mi sorride, con i piedi neri che strusciano sulla paglia.
“Torna a trovarmi,” mi dice, con quel tono morbido che mi fa già venire voglia di rifarlo.
CHe giornata pazzesca.
di
scritto il
2025-02-21
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