Dewdrops
di
Luce
genere
feticismo
[premessa: questo racconto è anche di genere fetish, ma non solo...nelle parole qui scritte -a 4 mani- c'è maore romantico, dominazione, voyeurismo, pissing...un po' di tutto, ma con rara intensità, come dovrebbe essere ogni VERO rapporto]
Avevo rincontrato Riccardo dopo tanto tempo. Mi aveva detto che era stato in viaggio per l’Europa.
Ci siamo rivisti in quello splendido posto che sono i giardini della villa reale, a Milano. Non ricordo come ci fossi arrivato, forse seguivo Luce, forse…boh. Fatto sta che incontrai Riccardo e ci mettemmo a chiacchierare. Era strano. Si portava addosso - sotto le palpebre - i segni di qualcosa di intenso, come una malattia. Gli chiesi di raccontarmi. Ed ecco il suo racconto.
“…La prima volta che la ho incontrata era Agosto. Un Agosto caldo. A Madrid. Al giardino botanico reale.
Nel naso avevo ancora l’odore del’erba fresca tagliata. Venivo investito dal profumo dei fiori orientali, del grande baobab, delle palme da cocco, dall’aroma forte delle orchidee e di mille altri fiori di cui non conoscevo neppure il nome.
L’aria era umida. Di più: era bagnata. Bagnata del fiato degli alberi. Aveva la puzza dei visitatori, anche la mia. Anche la sua.
L’ho urtata mentre, sovrappensiero, portavo avanti i miei passi pensando ai colori violenti della dionea, alla sua lussuria. Sì, la lussuria di una pianta carnivora: bella tanto e seducente, al punto da farsi mordere, mangiare da lei. Aveva un vestito leggero a fiori, senza maniche, abbottonato sul davanti - sebbene fosse parecchio aperto sul suo seno - e alla lunghezza di metà coscia.
I capelli neri si incollavano alla nuca sudata. Come l’orlo della sua gonna. Il contatto aveva lasciato sul mio braccio l’umido del suo corpo accaldato. Era una donna calda.
Aveva i piedi nudi, se non fosse stato per le ciabattine infradito che indossava per camminare, ma non il reggiseno. L’ho notato perché era troppo bello indugiare sulla pelle abbronzata ed imperlata di sudore che copriva il suo sterno tra due seni rigogliosi, senza esagerare. “Perdone…” ho detto guardandola negli occhi, usando una delle pochissime parole spagnole che conoscevo. “Non è nulla” ha risposto lei in un italiano meno stentato del mio spagnolo “anche a me, qui dentro, capita sovente di distrarmi. Lei viene spesso in questo giardino?”, “E’ la prima volta che vengo a Madrid” le ho risposto, “Bene” dice sorridendo “dove alloggia?”.
Già, dove alloggiavo? “Non lo so ancora…sono appena arrivato e non ho cercato un albergo”.
“Vale! È ancora meglio. Madrid è umida in agosto. Prendo il treno questo pomeriggio per andare nel mio paese natale. Sono di Granada. Vieni con me. Ti piacerà l’Andalusia”. Era passata dal “lei” al “tu” in modo inaspettato e naturale, come inaspettata e naturale era stata la sua proposta di accompagnarla in quel viaggio.
Granada profumava di donne e di spezie. Aveva nei palazzi lo stesso colore delle sue gambe, che avevo guardato nel nostro viaggio di quasi cinque ore…”
Riccardo continuava a raccontare , io ascoltavo leccandomi una zampa, Luce mi guardava di sbieco.
“Eravamo usciti dalla vasca da bagno. Stavamo a mollo da ore ormai per scacciare la calura. Il sudore scendeva in languide gocce cristalline e salate sulla nostra fronte, sulla pelle, mischiandosi all’ acqua, acqua intorno e acqua che usciva da dentro. Lacrime di caldo soffocante, torrido. Niente cancellava gli odori che permeavano ormai la stanza.
Erano odori che venivano dall’interno, erano odori pungenti, di chi mangia speziato e non usa profumi artificiali.
Li respiravamo da tre giorni ormai, come se avessimo bombole da sub e boccagli collegati da un corpo all’altro.
Lei chissà come mai dietro al collo e tra i seni sapeva sempre, quasi sempre di fragola e biscotto. Tra le gambe il suo odore era più forte e umido, pregnante. Un miscuglio strano di orzata e carne alla brace quasi - forse era l’incontro tra i miei umori e i suoi che creava quella mistura - in realtà ormai sapeva solo di me, del mio sperma e della mia saliva mischiati.
Io - così mi disse allora - avevo un odore pungente , lo sentiva quando infilava la testa sotto le mie ascelle a trovare riposo e respiro. Un odore che sapeva di ferro e muschio e di qualcosa come di terra e chiodi di garofano - odore di maschio diceva - che ti rimaneva addosso e si mischiava all’aria.
La stanza era come la foresta pluviale, come il giardino botanico dove la avevo incontrata, umida ,torrida e a stento si respirava, aria d’ Agosto tropicale.
Il letto era come una zattera che attraversava un fiume che era il doppio del Rio della Amazzoni. Un fiume di perdizione e oblio. Di sesso e di sperma. Di sudore e umori uterini. Di lacrime e saliva. Il nostro Caronte si chiamava passione: ci traghettava da un riva all'altra di continuo... spossandoci e rigenerandoci senza sosta.
Ogni nostro gesto si svolgeva tra le perle di sudore che scivolavano sui nostri corpi nudi. L’afa rendeva il respiro affannoso, come in una sauna, come in una bolla di umidità, come in quella nostra realtà liquida fatta di sogno e scopate furiose, a volte lente e altalenanti , dondolanti, a volte vere e proprie battaglie con tanto di armi bianche fatte di unghie e lame. Attacchi e difese tra scudi di ossa e lance di denti.
Tutto è lecito in amore e in guerra, anche fare prigionieri e legarli con corde di seta accarezzandoli piano con petali di cuoio o percuotendoli forte, per farli confessare, con scudisci di baci.
Quella mattina mia aveva svegliato il rumore della pipì. Si, Isabel stava pisciando. A pochi metri dalle mie orecchie. Mi ero alzato, ma anziché cercare il caffè, avevo cercato lei. Isabel.
La avevo trovata seduta sul cesso di quel bagnetto piccolo, ma confortevole. Avevo appoggiato il culo al lavandino e stavo di fronte a lei. Che pisciava. La stanza da bagno permeava dell’odore di quell’urina. Isabel aveva aperto le gambe.
Vedevo le gocce d’oro scendere da lei. Le sentivo tuffarsi nell’acqua. Ne sentivo l’odore nel naso.
“Yo soy tu puta!” Isabel mi guardava come non aveva mai fatto. Mi sono avvicinato e le ho messo una mano sotto. La ho guardata negli occhi neri “Piscia”. E lei lo ha fatto.
Era calda. Come il suo sudore. Come quell’Agosto. Tra le dita come seta liquida. Le ho portate al naso. Sapevano di lei. Della parte più dentro, più “sporca” di lei.
Isabel mi ha preso la mano e la ha leccata. Anche io la ho leccata.
Isabel sapeva perché ero in bagno. Con le mani umide delle sue gambe mi ha preso. Inginocchiandosi a terra. “Piscia” mi ha detto. Ed io l’ho fatto. Su di lei. Sul suo viso. Sul suo seno. Sui suoi capelli.
L’urina le scivolava addosso come neve rovente, si depositava sul pavimento del bagno, mentre Isabel apriva la sua bocca per accogliere il mio risveglio duro. La avevo presa per i capelli, alzandole in viso e leccandole la faccia come fanno i cani. Poi la ho scopata a terra. Come fanno i cani. In mezzo a quell’acqua che lei aveva ripreso a mingere. Mentre io montavo la mia troia. Mi puta. Isabel.”
Avevo rincontrato Riccardo dopo tanto tempo. Mi aveva detto che era stato in viaggio per l’Europa.
Ci siamo rivisti in quello splendido posto che sono i giardini della villa reale, a Milano. Non ricordo come ci fossi arrivato, forse seguivo Luce, forse…boh. Fatto sta che incontrai Riccardo e ci mettemmo a chiacchierare. Era strano. Si portava addosso - sotto le palpebre - i segni di qualcosa di intenso, come una malattia. Gli chiesi di raccontarmi. Ed ecco il suo racconto.
“…La prima volta che la ho incontrata era Agosto. Un Agosto caldo. A Madrid. Al giardino botanico reale.
Nel naso avevo ancora l’odore del’erba fresca tagliata. Venivo investito dal profumo dei fiori orientali, del grande baobab, delle palme da cocco, dall’aroma forte delle orchidee e di mille altri fiori di cui non conoscevo neppure il nome.
L’aria era umida. Di più: era bagnata. Bagnata del fiato degli alberi. Aveva la puzza dei visitatori, anche la mia. Anche la sua.
L’ho urtata mentre, sovrappensiero, portavo avanti i miei passi pensando ai colori violenti della dionea, alla sua lussuria. Sì, la lussuria di una pianta carnivora: bella tanto e seducente, al punto da farsi mordere, mangiare da lei. Aveva un vestito leggero a fiori, senza maniche, abbottonato sul davanti - sebbene fosse parecchio aperto sul suo seno - e alla lunghezza di metà coscia.
I capelli neri si incollavano alla nuca sudata. Come l’orlo della sua gonna. Il contatto aveva lasciato sul mio braccio l’umido del suo corpo accaldato. Era una donna calda.
Aveva i piedi nudi, se non fosse stato per le ciabattine infradito che indossava per camminare, ma non il reggiseno. L’ho notato perché era troppo bello indugiare sulla pelle abbronzata ed imperlata di sudore che copriva il suo sterno tra due seni rigogliosi, senza esagerare. “Perdone…” ho detto guardandola negli occhi, usando una delle pochissime parole spagnole che conoscevo. “Non è nulla” ha risposto lei in un italiano meno stentato del mio spagnolo “anche a me, qui dentro, capita sovente di distrarmi. Lei viene spesso in questo giardino?”, “E’ la prima volta che vengo a Madrid” le ho risposto, “Bene” dice sorridendo “dove alloggia?”.
Già, dove alloggiavo? “Non lo so ancora…sono appena arrivato e non ho cercato un albergo”.
“Vale! È ancora meglio. Madrid è umida in agosto. Prendo il treno questo pomeriggio per andare nel mio paese natale. Sono di Granada. Vieni con me. Ti piacerà l’Andalusia”. Era passata dal “lei” al “tu” in modo inaspettato e naturale, come inaspettata e naturale era stata la sua proposta di accompagnarla in quel viaggio.
Granada profumava di donne e di spezie. Aveva nei palazzi lo stesso colore delle sue gambe, che avevo guardato nel nostro viaggio di quasi cinque ore…”
Riccardo continuava a raccontare , io ascoltavo leccandomi una zampa, Luce mi guardava di sbieco.
“Eravamo usciti dalla vasca da bagno. Stavamo a mollo da ore ormai per scacciare la calura. Il sudore scendeva in languide gocce cristalline e salate sulla nostra fronte, sulla pelle, mischiandosi all’ acqua, acqua intorno e acqua che usciva da dentro. Lacrime di caldo soffocante, torrido. Niente cancellava gli odori che permeavano ormai la stanza.
Erano odori che venivano dall’interno, erano odori pungenti, di chi mangia speziato e non usa profumi artificiali.
Li respiravamo da tre giorni ormai, come se avessimo bombole da sub e boccagli collegati da un corpo all’altro.
Lei chissà come mai dietro al collo e tra i seni sapeva sempre, quasi sempre di fragola e biscotto. Tra le gambe il suo odore era più forte e umido, pregnante. Un miscuglio strano di orzata e carne alla brace quasi - forse era l’incontro tra i miei umori e i suoi che creava quella mistura - in realtà ormai sapeva solo di me, del mio sperma e della mia saliva mischiati.
Io - così mi disse allora - avevo un odore pungente , lo sentiva quando infilava la testa sotto le mie ascelle a trovare riposo e respiro. Un odore che sapeva di ferro e muschio e di qualcosa come di terra e chiodi di garofano - odore di maschio diceva - che ti rimaneva addosso e si mischiava all’aria.
La stanza era come la foresta pluviale, come il giardino botanico dove la avevo incontrata, umida ,torrida e a stento si respirava, aria d’ Agosto tropicale.
Il letto era come una zattera che attraversava un fiume che era il doppio del Rio della Amazzoni. Un fiume di perdizione e oblio. Di sesso e di sperma. Di sudore e umori uterini. Di lacrime e saliva. Il nostro Caronte si chiamava passione: ci traghettava da un riva all'altra di continuo... spossandoci e rigenerandoci senza sosta.
Ogni nostro gesto si svolgeva tra le perle di sudore che scivolavano sui nostri corpi nudi. L’afa rendeva il respiro affannoso, come in una sauna, come in una bolla di umidità, come in quella nostra realtà liquida fatta di sogno e scopate furiose, a volte lente e altalenanti , dondolanti, a volte vere e proprie battaglie con tanto di armi bianche fatte di unghie e lame. Attacchi e difese tra scudi di ossa e lance di denti.
Tutto è lecito in amore e in guerra, anche fare prigionieri e legarli con corde di seta accarezzandoli piano con petali di cuoio o percuotendoli forte, per farli confessare, con scudisci di baci.
Quella mattina mia aveva svegliato il rumore della pipì. Si, Isabel stava pisciando. A pochi metri dalle mie orecchie. Mi ero alzato, ma anziché cercare il caffè, avevo cercato lei. Isabel.
La avevo trovata seduta sul cesso di quel bagnetto piccolo, ma confortevole. Avevo appoggiato il culo al lavandino e stavo di fronte a lei. Che pisciava. La stanza da bagno permeava dell’odore di quell’urina. Isabel aveva aperto le gambe.
Vedevo le gocce d’oro scendere da lei. Le sentivo tuffarsi nell’acqua. Ne sentivo l’odore nel naso.
“Yo soy tu puta!” Isabel mi guardava come non aveva mai fatto. Mi sono avvicinato e le ho messo una mano sotto. La ho guardata negli occhi neri “Piscia”. E lei lo ha fatto.
Era calda. Come il suo sudore. Come quell’Agosto. Tra le dita come seta liquida. Le ho portate al naso. Sapevano di lei. Della parte più dentro, più “sporca” di lei.
Isabel mi ha preso la mano e la ha leccata. Anche io la ho leccata.
Isabel sapeva perché ero in bagno. Con le mani umide delle sue gambe mi ha preso. Inginocchiandosi a terra. “Piscia” mi ha detto. Ed io l’ho fatto. Su di lei. Sul suo viso. Sul suo seno. Sui suoi capelli.
L’urina le scivolava addosso come neve rovente, si depositava sul pavimento del bagno, mentre Isabel apriva la sua bocca per accogliere il mio risveglio duro. La avevo presa per i capelli, alzandole in viso e leccandole la faccia come fanno i cani. Poi la ho scopata a terra. Come fanno i cani. In mezzo a quell’acqua che lei aveva ripreso a mingere. Mentre io montavo la mia troia. Mi puta. Isabel.”
0
voti
voti
valutazione
0
0
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
Maledetta svegliaracconto sucessivo
Dewdrops 3
Commenti dei lettori al racconto erotico