La Clessidra - Primo
di
vengeance
genere
pulp
I
Francesca camminava a passi rapidi verso il vecchio municipio, portando sotto braccio la vecchia clessidra d’argento, un ricordo di sua madre, racchiusa in una modesta scatola. Era la quarta volta che si recava lì negli ultimi due anni, da quando era cominciata l’occupazione. Suo marito Rodolfo era stato tratto in arresto e sempre interrogato in quell’edificio per via della sua antica militanza politica e per i sospetti su possibili legami con la resistenza organizzata. Ma egli si cacciava nei guai soprattutto perché era una testa calda, come si dice, e non riusciva a non attaccar briga con gli agenti del Nuovo Ordine. Del resto li conosceva da una vita, dall’infanzia, e ai suoi occhi si erano venduti ad un regime di oppressori.
Il procuratore De Marco era un uomo insignificante e avido: nel passato tra le sue mani erano finiti tanti oggetti di famiglia che Francesca aveva portato nel suo ufficio per convincerlo a rilasciare il marito ogni qual volta era stato trattenuto. Tutte le famiglie più disgraziate del paese avevano fatto così e con il passare del tempo l’ufficio di De Marco si era trasformato in una specie di museo.
De Marco era morto da quasi un mese, ed era stato sostituito prontamente da un nuovo procuratore. Il Nuovo Ordine stava provvedendo a collocare uomini fidati. Era stato scritto: “incorruttibili, d’esempio morale per tutta la nazione”. Mirone, questo era il nome dell’uomo che ricopriva adesso l’incarico. Del suo passato non si conosceva granché; veniva definito esperto militare ma non faceva parte di nessun corpo armato. Egli aveva cominciato a svolgere il suo ruolo nell’indifferenza generale e l’unica azione degna di nota fino a quel momento era stato un bando per l’assunzione di un gran numero di operai chiamati per la ristrutturazione dei piani dismessi del Municipio, cioè quello sotterraneo e l’ultimo piano.
Francesca attraversava i grandi corridoi del palazzo, diretta verso l’ufficio del procuratore. L’usciere l’aveva fatta passare subito e aveva provveduto a farla annunciare.
Nell’edificio erano presenti molte più guardie adesso, disposte in coppia a destra e a sinistra delle grandi arcate. Francesca incrociava i loro sguardi mentre nel cuore le si insinuava una vaga paura. Il rumore dei suoi tacchi risuonava per le sale; la gonna dell’abito blu, decorato da piccoli pallini bianchi, si agitava spinta dalle sue gambe, mentre i lunghi capelli neri e ondulati cercavano continuamente tregua sulle sue spalle. La sua pelle era candida, di riflessi ambrati, e il suo viso era dolcemente femminile e regolare. Era sempre stata molto bella e quando, giovanissima, aveva sposato Rodolfo, lo aveva reso il bersaglio delle invidie di molto compaesani.
Francesca entrò nel grande ufficio che ormai conosceva bene. I numerosi oggetti preziosi erano tutti al loro posto; dalla grande finestra entrava la luce del pomeriggio. Alla scrivania la attendeva Mirone, che ella vedeva allora per la prima volta.
Era seduto, ma si vedeva ugualmente che era un uomo alto e possente, con i curatissimi capelli tirati da un lato.
«Prego, si accomodi », disse con voce sicura. Francesca si sedette composta, poggiando la scatola su un angolino della grande scrivania.
«Mi dica in cosa posso aiutarla».
Francesca cominciò a spiegare, con un filo di voce: «Sono qui perché stamattina mio marito è stato tratto in arresto... ». A Mirone la spiegazione bastò, e la interruppe subito: « Ah, sì. Legato Rodolfo, fermato questa mattina alle dieci. Ritengo che dovremo trattenerlo qualche giorno. »
« Qualche giorno? Ma cosa ha fatto!?”, domandò angosciata Francesca.
« Vede, gentile signora, abbiamo ottime ragioni per credere che suo marito sia in contatto con i criminali che hanno colpito di recente il paese con azioni terroristiche. Adesso si trova in una camera di sicurezza al piano sotterraneo. Dobbiamo interrogarlo ». Poi aggiunse: « Io sono destinato a questo incarico per il bene di questa comunità ed è mio dovere usare tutti i poteri per estrarre informazioni dai soggetti che ne minacciano la quiete ».
Estrarre. Quella parola raggelò Francesca. Si trattava forse di tortura? Da altre parti della regione da un po’ di tempo avevano cominciato a correre voci agghiaccianti sui metodi di questi “uomini nuovi”.
Non sapeva cosa dire. Istintivamente toccò con la mano la scatola con la clessidra e la spinse avanti. Mirone rivolse lo sguardo alla mano di lei e poi energicamente prese l’involucro e lo aprì.
« Una clessidra di argento e platino, opera della bottega Ranieri di Fontecava, ultimo decennio del secolo scorso », disse osservando l’oggetto, continuando ad elencare una serie di particolari che a Francesca erano del tutto sconosciuti.
Dopodiché sollevò la clessidra portandola davanti agli occhi della donna e la lasciò cadere rumorosamente sul pavimento ai piedi della scrivania. Il fragore risuonò per la grande sala. Francesca col cuore in gola abbassò gli occhi e per molti secondi non ebbe il coraggio di dire una parola.
« La raccolga », ordinò Mirone. Francesca si alzò e poggiò le ginocchia nude sul pavimento gelido, abbassandosi a recuperare la clessidra rotolata per un tratto sotto la scrivania. A quel punto fu raggiunta da un nuovo ordine: « Rimanga lì dov’è».
Rimase nella penombra e nell’agitazione, sentendo pulsare il sangue nel viso. Mirone si mosse, spostandosi poco sulla sedia e appoggiando verso il lato una gamba; poi lentamente sfibbiò i pantaloni di lino chiaro. « Se vuole portare a termine il suo tentativo di corruzione», disse con tono serio.
Francesca rimase paralizzata. Non capiva quell’uomo, ogni sua frase le appariva come una trappola. Tentò di ricordare gli squallidi scambi avvenuti in passato con De Marco per capire se potesse fare qualcosa ma i pensieri le si offuscarono ancor di più, mentre il buio cominciava a farle girare la testa.
«Una sua testimonianza di fedeltà al Nuovo Ordine potrebbe costituire un elemento a discolpa del sospettato. L’interrogatorio dopotutto si sta rivelando più elaborato del previsto, dall’ora di pranzo, momento in cui abbiamo cominciato».
Questa volta a Francesca Mirone apparve esplicito. Stavano torturando suo marito da più di due ore e quell’uomo voleva essere masturbato da lei. Una volta soddisfatto avrebbe lasciato andare Rodolfo. Francesca raccolse velocemente le idee e con inaspettata freddezza valutò le alternative. Non aveva molto scelta e cominciò ad agire come un automa.
In ginocchio avanzò di un passo e, mentre Mirone rimaneva in silenzio, infilò una mano nei suoi pantaloni sbottonati. Sentì al tatto una massa di peli ordinati e poi un pene pesante e morbido. Lo tirò fuori completamente dalla stoffa e cominciò a masturbarlo con una mano. Era enorme e non era neanche completamente in erezione. Mirone abbassò del tutto i pantaloni e scivolò lungo la sedia, portando il membro e i suoi grandi testicoli più vicini alla donna che quel pomeriggio lo avrebbe fatto godere.
Il pene di Mirone diventò sempre più turgido e grande. Francesca aveva cominciato a pomparlo energicamente con la mano e il respiro di lui si era fatto più rumoroso. Egli spostò man mano la sedia sempre più indietro, finché Francesca fu costretta a sbucare dall’altro lato della scrivania per continuare a soddisfare l’uomo. Adesso potevano guardarsi. Lei però non osava e lui non sembrava scomporsi più di tanto. La luce del pomeriggio si era fatta sempre più calda, attraverso le tende tirate.
Erano passati dieci minuti e Francesca continuava la sua azione meccanicamente, cercando di estranearsi dal presente. Poi, spostatasi un po’ più di fronte a lui, poggiò anche la mano sinistra sull’asta del pene di Mirone. « Ha un cazzo enorme, non riesco quasi a prenderlo con una mano», pensava.
Suo marito. All’improvviso si ricordò di suo marito. Ogni minuto che passava era un minuto di sofferenza per Rodolfo e di godimento per Mirone.
Cominciò a segarlo energicamente con due mani.
«Deve usare la bocca, signora». Disse Mirone, rompendo il silenzio che gravava sulla stanza da quando era cominciato tutto. Francesca sentì arrivare le lacrime agli occhi, e nello stesso momento in cui lo sconforto la scuoteva, sollevò la testa e piombò decisa con le labbra sopra il pene di lui, prendendolo in bocca in un solo gesto di disperazione mentre i capelli neri ricadevano sopra le gambe dell’uomo. Lui ebbe un sussulto. Aveva cominciato a sbocchinarlo come se fosse stato un suo desiderio fin da quando era arrivata. La stanza cominciò a riempirsi dei rumori di lei che succhiava e faceva colare la saliva lungo l’asta e le palle.
Era impossibile prendere quel pene realmente in bocca ma a più riprese Francesca cominciò a sollevarsi, lasciandosi guardare dal carceriere di suo marito, per ripiombare giù facendo affondare quel membro in fondo alla gola, di slancio una, due, tre volte, e poi ricominciare ritmicamente a spompinare. Mirone respirava sempre più forte.
La luce del pomeriggio diventava più obliqua. A un tratto i rumori della bocca di Francesca furono coperti da un rintocco, e un altro, e un altro diverso. Erano le sei, e i numerosi orologi del lussuoso ufficio cominciarono a suonare.
Era un’ora che Francesca dava piacere a quell’uomo. Da un’ora lei pure era diventata attrice nella sofferenza di suo marito. Pensò che doveva finire subito. Prese il cazzo di Mirone tra le mani e cominciò a pomparlo furiosamente, mentre la parte superiore dell’asta scivolava su e giù dentro la sua bocca. Lui godeva, Francesca lo sentiva e lo percepiva, ma quell’uomo possente sembrava non voler finire mai di approfittarsi di lei.
Il ritmo di quel pompino ormai aumentava sempre di più. Francesca spingeva il cazzo più in fondo alla gola; poi massaggiando i testicoli lo strofinava sul proprio viso, bagnandosi tutta di saliva e del liquido di lui. Sapeva come vincere anche l’ultima resistenza.
Per la prima volta sollevò la testa cercando gli occhi di Mirone. «Voglio il tuo sperma», gli disse fugacemente, eccitandolo. Torno giù a prendere la sua cappella tra le labbra, e la sentì sempre più grossa e pulsante. La leccava ormai in un fiume di saliva; l’asta, le sue mani e la sedia erano fradicie. Si sollevò ancora: «Voglio il tuo spermaaa...», ripetè con un mugolio, e rovesciò la testa verso l’alto, pompando il cazzo di Mirone con entrambe le mani e guardandolo negli occhi mentre con la lingua protesa in avanti non aspettava altro che lui le venisse in faccia.
Bastarono pochi attimi e Francesca si sentì investire dai suoi schizzi caldi, mentre l’espressione di Mirone per la prima volta veniva stravolta. Eiaculava copiosamente, riempendole la bocca e ricoprendole il viso del suo seme, e anche il collo e la scollatura del vestito. Infine ricadde ansimante sullo schienale.
Francesca era in ginocchio, con la testa bassa. Una spallina dell’abito era scivolata giù scoprendole un po’ un seno. Anche l’abito era tutto sporco.
Mirone si spostò con la sedia verso un lato della scrivania e prese il telefono. «Passatemi il capitano Vanni», ordinò. A Francesca batteva il cuore all’impazzata mentre aspettava che quell’uomo pronunciasse le parole che avrebbero liberato suo marito. E arrivarono.
«Con Legato avete finito, potete mandarlo via», disse Mirone, e posò bruscamente la cornetta.
Francesca si era rialzata, e stava cercando di ricomporsi e nascondere le macchie di sperma sul vestito. Mirone si alzò un momento per tirarsi su i pantaloni e subito si risedette. Congedò la sua ospite mentre già rassettava le carte sulla propria scrivania: «Può andare». Francesca si voltò incamminandosi verso la porta. Chiudendo il battente mormorò: “Arrivederci”.
Mirone, rimasto solo, riprese il suo posto con la consueta sicurezza. Avvicinandosi alla scrivania urtò un oggetto pesante e duro con il piede. La clessidra. La raccolse da sotto il tavolo e la portò alla luce della finestra. « Un bell’oggetto davvero », disse tra sé e sé, e gli fece spazio su uno degli eleganti mobili, tra i soprammobili e le antichità varie ricevute in eredità dal suo precedessore.
Francesca camminava a passi rapidi verso il vecchio municipio, portando sotto braccio la vecchia clessidra d’argento, un ricordo di sua madre, racchiusa in una modesta scatola. Era la quarta volta che si recava lì negli ultimi due anni, da quando era cominciata l’occupazione. Suo marito Rodolfo era stato tratto in arresto e sempre interrogato in quell’edificio per via della sua antica militanza politica e per i sospetti su possibili legami con la resistenza organizzata. Ma egli si cacciava nei guai soprattutto perché era una testa calda, come si dice, e non riusciva a non attaccar briga con gli agenti del Nuovo Ordine. Del resto li conosceva da una vita, dall’infanzia, e ai suoi occhi si erano venduti ad un regime di oppressori.
Il procuratore De Marco era un uomo insignificante e avido: nel passato tra le sue mani erano finiti tanti oggetti di famiglia che Francesca aveva portato nel suo ufficio per convincerlo a rilasciare il marito ogni qual volta era stato trattenuto. Tutte le famiglie più disgraziate del paese avevano fatto così e con il passare del tempo l’ufficio di De Marco si era trasformato in una specie di museo.
De Marco era morto da quasi un mese, ed era stato sostituito prontamente da un nuovo procuratore. Il Nuovo Ordine stava provvedendo a collocare uomini fidati. Era stato scritto: “incorruttibili, d’esempio morale per tutta la nazione”. Mirone, questo era il nome dell’uomo che ricopriva adesso l’incarico. Del suo passato non si conosceva granché; veniva definito esperto militare ma non faceva parte di nessun corpo armato. Egli aveva cominciato a svolgere il suo ruolo nell’indifferenza generale e l’unica azione degna di nota fino a quel momento era stato un bando per l’assunzione di un gran numero di operai chiamati per la ristrutturazione dei piani dismessi del Municipio, cioè quello sotterraneo e l’ultimo piano.
Francesca attraversava i grandi corridoi del palazzo, diretta verso l’ufficio del procuratore. L’usciere l’aveva fatta passare subito e aveva provveduto a farla annunciare.
Nell’edificio erano presenti molte più guardie adesso, disposte in coppia a destra e a sinistra delle grandi arcate. Francesca incrociava i loro sguardi mentre nel cuore le si insinuava una vaga paura. Il rumore dei suoi tacchi risuonava per le sale; la gonna dell’abito blu, decorato da piccoli pallini bianchi, si agitava spinta dalle sue gambe, mentre i lunghi capelli neri e ondulati cercavano continuamente tregua sulle sue spalle. La sua pelle era candida, di riflessi ambrati, e il suo viso era dolcemente femminile e regolare. Era sempre stata molto bella e quando, giovanissima, aveva sposato Rodolfo, lo aveva reso il bersaglio delle invidie di molto compaesani.
Francesca entrò nel grande ufficio che ormai conosceva bene. I numerosi oggetti preziosi erano tutti al loro posto; dalla grande finestra entrava la luce del pomeriggio. Alla scrivania la attendeva Mirone, che ella vedeva allora per la prima volta.
Era seduto, ma si vedeva ugualmente che era un uomo alto e possente, con i curatissimi capelli tirati da un lato.
«Prego, si accomodi », disse con voce sicura. Francesca si sedette composta, poggiando la scatola su un angolino della grande scrivania.
«Mi dica in cosa posso aiutarla».
Francesca cominciò a spiegare, con un filo di voce: «Sono qui perché stamattina mio marito è stato tratto in arresto... ». A Mirone la spiegazione bastò, e la interruppe subito: « Ah, sì. Legato Rodolfo, fermato questa mattina alle dieci. Ritengo che dovremo trattenerlo qualche giorno. »
« Qualche giorno? Ma cosa ha fatto!?”, domandò angosciata Francesca.
« Vede, gentile signora, abbiamo ottime ragioni per credere che suo marito sia in contatto con i criminali che hanno colpito di recente il paese con azioni terroristiche. Adesso si trova in una camera di sicurezza al piano sotterraneo. Dobbiamo interrogarlo ». Poi aggiunse: « Io sono destinato a questo incarico per il bene di questa comunità ed è mio dovere usare tutti i poteri per estrarre informazioni dai soggetti che ne minacciano la quiete ».
Estrarre. Quella parola raggelò Francesca. Si trattava forse di tortura? Da altre parti della regione da un po’ di tempo avevano cominciato a correre voci agghiaccianti sui metodi di questi “uomini nuovi”.
Non sapeva cosa dire. Istintivamente toccò con la mano la scatola con la clessidra e la spinse avanti. Mirone rivolse lo sguardo alla mano di lei e poi energicamente prese l’involucro e lo aprì.
« Una clessidra di argento e platino, opera della bottega Ranieri di Fontecava, ultimo decennio del secolo scorso », disse osservando l’oggetto, continuando ad elencare una serie di particolari che a Francesca erano del tutto sconosciuti.
Dopodiché sollevò la clessidra portandola davanti agli occhi della donna e la lasciò cadere rumorosamente sul pavimento ai piedi della scrivania. Il fragore risuonò per la grande sala. Francesca col cuore in gola abbassò gli occhi e per molti secondi non ebbe il coraggio di dire una parola.
« La raccolga », ordinò Mirone. Francesca si alzò e poggiò le ginocchia nude sul pavimento gelido, abbassandosi a recuperare la clessidra rotolata per un tratto sotto la scrivania. A quel punto fu raggiunta da un nuovo ordine: « Rimanga lì dov’è».
Rimase nella penombra e nell’agitazione, sentendo pulsare il sangue nel viso. Mirone si mosse, spostandosi poco sulla sedia e appoggiando verso il lato una gamba; poi lentamente sfibbiò i pantaloni di lino chiaro. « Se vuole portare a termine il suo tentativo di corruzione», disse con tono serio.
Francesca rimase paralizzata. Non capiva quell’uomo, ogni sua frase le appariva come una trappola. Tentò di ricordare gli squallidi scambi avvenuti in passato con De Marco per capire se potesse fare qualcosa ma i pensieri le si offuscarono ancor di più, mentre il buio cominciava a farle girare la testa.
«Una sua testimonianza di fedeltà al Nuovo Ordine potrebbe costituire un elemento a discolpa del sospettato. L’interrogatorio dopotutto si sta rivelando più elaborato del previsto, dall’ora di pranzo, momento in cui abbiamo cominciato».
Questa volta a Francesca Mirone apparve esplicito. Stavano torturando suo marito da più di due ore e quell’uomo voleva essere masturbato da lei. Una volta soddisfatto avrebbe lasciato andare Rodolfo. Francesca raccolse velocemente le idee e con inaspettata freddezza valutò le alternative. Non aveva molto scelta e cominciò ad agire come un automa.
In ginocchio avanzò di un passo e, mentre Mirone rimaneva in silenzio, infilò una mano nei suoi pantaloni sbottonati. Sentì al tatto una massa di peli ordinati e poi un pene pesante e morbido. Lo tirò fuori completamente dalla stoffa e cominciò a masturbarlo con una mano. Era enorme e non era neanche completamente in erezione. Mirone abbassò del tutto i pantaloni e scivolò lungo la sedia, portando il membro e i suoi grandi testicoli più vicini alla donna che quel pomeriggio lo avrebbe fatto godere.
Il pene di Mirone diventò sempre più turgido e grande. Francesca aveva cominciato a pomparlo energicamente con la mano e il respiro di lui si era fatto più rumoroso. Egli spostò man mano la sedia sempre più indietro, finché Francesca fu costretta a sbucare dall’altro lato della scrivania per continuare a soddisfare l’uomo. Adesso potevano guardarsi. Lei però non osava e lui non sembrava scomporsi più di tanto. La luce del pomeriggio si era fatta sempre più calda, attraverso le tende tirate.
Erano passati dieci minuti e Francesca continuava la sua azione meccanicamente, cercando di estranearsi dal presente. Poi, spostatasi un po’ più di fronte a lui, poggiò anche la mano sinistra sull’asta del pene di Mirone. « Ha un cazzo enorme, non riesco quasi a prenderlo con una mano», pensava.
Suo marito. All’improvviso si ricordò di suo marito. Ogni minuto che passava era un minuto di sofferenza per Rodolfo e di godimento per Mirone.
Cominciò a segarlo energicamente con due mani.
«Deve usare la bocca, signora». Disse Mirone, rompendo il silenzio che gravava sulla stanza da quando era cominciato tutto. Francesca sentì arrivare le lacrime agli occhi, e nello stesso momento in cui lo sconforto la scuoteva, sollevò la testa e piombò decisa con le labbra sopra il pene di lui, prendendolo in bocca in un solo gesto di disperazione mentre i capelli neri ricadevano sopra le gambe dell’uomo. Lui ebbe un sussulto. Aveva cominciato a sbocchinarlo come se fosse stato un suo desiderio fin da quando era arrivata. La stanza cominciò a riempirsi dei rumori di lei che succhiava e faceva colare la saliva lungo l’asta e le palle.
Era impossibile prendere quel pene realmente in bocca ma a più riprese Francesca cominciò a sollevarsi, lasciandosi guardare dal carceriere di suo marito, per ripiombare giù facendo affondare quel membro in fondo alla gola, di slancio una, due, tre volte, e poi ricominciare ritmicamente a spompinare. Mirone respirava sempre più forte.
La luce del pomeriggio diventava più obliqua. A un tratto i rumori della bocca di Francesca furono coperti da un rintocco, e un altro, e un altro diverso. Erano le sei, e i numerosi orologi del lussuoso ufficio cominciarono a suonare.
Era un’ora che Francesca dava piacere a quell’uomo. Da un’ora lei pure era diventata attrice nella sofferenza di suo marito. Pensò che doveva finire subito. Prese il cazzo di Mirone tra le mani e cominciò a pomparlo furiosamente, mentre la parte superiore dell’asta scivolava su e giù dentro la sua bocca. Lui godeva, Francesca lo sentiva e lo percepiva, ma quell’uomo possente sembrava non voler finire mai di approfittarsi di lei.
Il ritmo di quel pompino ormai aumentava sempre di più. Francesca spingeva il cazzo più in fondo alla gola; poi massaggiando i testicoli lo strofinava sul proprio viso, bagnandosi tutta di saliva e del liquido di lui. Sapeva come vincere anche l’ultima resistenza.
Per la prima volta sollevò la testa cercando gli occhi di Mirone. «Voglio il tuo sperma», gli disse fugacemente, eccitandolo. Torno giù a prendere la sua cappella tra le labbra, e la sentì sempre più grossa e pulsante. La leccava ormai in un fiume di saliva; l’asta, le sue mani e la sedia erano fradicie. Si sollevò ancora: «Voglio il tuo spermaaa...», ripetè con un mugolio, e rovesciò la testa verso l’alto, pompando il cazzo di Mirone con entrambe le mani e guardandolo negli occhi mentre con la lingua protesa in avanti non aspettava altro che lui le venisse in faccia.
Bastarono pochi attimi e Francesca si sentì investire dai suoi schizzi caldi, mentre l’espressione di Mirone per la prima volta veniva stravolta. Eiaculava copiosamente, riempendole la bocca e ricoprendole il viso del suo seme, e anche il collo e la scollatura del vestito. Infine ricadde ansimante sullo schienale.
Francesca era in ginocchio, con la testa bassa. Una spallina dell’abito era scivolata giù scoprendole un po’ un seno. Anche l’abito era tutto sporco.
Mirone si spostò con la sedia verso un lato della scrivania e prese il telefono. «Passatemi il capitano Vanni», ordinò. A Francesca batteva il cuore all’impazzata mentre aspettava che quell’uomo pronunciasse le parole che avrebbero liberato suo marito. E arrivarono.
«Con Legato avete finito, potete mandarlo via», disse Mirone, e posò bruscamente la cornetta.
Francesca si era rialzata, e stava cercando di ricomporsi e nascondere le macchie di sperma sul vestito. Mirone si alzò un momento per tirarsi su i pantaloni e subito si risedette. Congedò la sua ospite mentre già rassettava le carte sulla propria scrivania: «Può andare». Francesca si voltò incamminandosi verso la porta. Chiudendo il battente mormorò: “Arrivederci”.
Mirone, rimasto solo, riprese il suo posto con la consueta sicurezza. Avvicinandosi alla scrivania urtò un oggetto pesante e duro con il piede. La clessidra. La raccolse da sotto il tavolo e la portò alla luce della finestra. « Un bell’oggetto davvero », disse tra sé e sé, e gli fece spazio su uno degli eleganti mobili, tra i soprammobili e le antichità varie ricevute in eredità dal suo precedessore.
0
voti
voti
valutazione
0
0
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto sucessivo
La Clessidra - Secondo
Commenti dei lettori al racconto erotico