La Clessidra - Secondo
di
vengeance
genere
pulp
«»
Era ormai quasi buio quando Rodolfo fu condotto al grande ingresso del municipio. Portava in mano una busta in cui erano stati riposti i suoi oggetti personali, e un agente lo sorreggeva, poiche' egli a malapena riusciva a fare qualche passo.
Giunti entrambi sulla soglia l'agente ordino': «Legato, non le e' consentito lasciare la citta' per adesso. La chiameremo di nuovo», e si volto' immergendosi nel buio dell'oscuro edificio.
Rodolfo poggio' la schiena al lucido marmo del muro esterno, mentre affondava il viso tra le mani, stravolto. Si sedette sul pavimento cercando di ritrovare qualche energia, ma non voleva rimanere vicino all'ingresso di quel luogo da incubo. Cosi', con le sue ultime forze, si alzo' e si trascino' un paio di isolati piu' a sud. Poi, molto lentamente, percorse la strada verso casa.
I Legato abitavano in una graziosa palazzina rosa, insieme ad altre tre famiglie. Avevano potuto comprarla quella casa, dopo una vita di sacrifici, e non avevano neanche dei debiti.
Una volta giunto al portone egli apri' la busta di carta; aveva bisogno delle chiavi per rientrare senza svegliare nessuno.
Le chiavi, l'orologio e ogni moneta che aveva portato con se' quel giorno erano li' dove erano stati riposti al momento dell'arresto.
Rodolfo aperse il portone, percorse le scale fino all'ingresso di casa e silenziosamente fece scattare la serratura.
Solo la luna illuminava di una luce pallida il piccolo salotto. Con il pensiero unicamente rivolto a non svegliare le figlie egli si diresse nella camera da letto.
Poggiata sulle lenzuola bianche, anche lei illuminata dalla luna, Francesca dormiva sul fianco, girata verso la finestra con la mano sotto al cuscino.
«Dobbiamo fare qualcosa per andar via da qui», penso' Rodolfo. Si poggio' sul letto vicino alla sua sposa e in breve fu vinto dal sonno.
Il mattino della domenica giunse portando una bellissima giornata di sole.
Rodolfo, una volta svegliato, trovo' tutte le donne della casa intente a preparare la tavola. Le figlie chiacchieravano rumorosamente e in allegria.
Si sedettero tutti per il pranzo. Francesca non parlava, mangiava con gli occhi bassi e appariva assente. In cuor suo era determinata a mantenere il segreto su cio' che era successo il pomeriggio del giorno prima. Per sempre, per tutta la vita.
Ma perche' questa vita fosse possibile - pensava - era necessario lasciare quel paese, fuggire.
Anche Rodolfo era silenzioso e, come Francesca, guardava le figlie e in cuor suo le desiderava gia' lontane. Sarebbero partiti, avrebbero lasciato tutto indietro, al diavolo la resistenza.
Cristina e Valeria non avevano conosciuto l'epoca della guerra. Cristina, che era la maggiore ed aveva ventidue anni, ricordava un po' gli anni tumultuosi dei governi provvisori, duranti i quali i vari gruppi della resistenza avevano cercato di dare un nuovo assetto al paese. Quando era piccola non esisteva neanche una vera scuola elementare con dei maestri ed era stata educata a casa. Era una ragazza esile e bruna, aveva ereditato i lineamenti della madre, ma aveva un viso piu' affilato, la carnagione piu' scura e, durante l'estate, il suo viso si copriva di graziose efelidi.
Valeria, la minore, aveva diciotto anni. Piu' bassa e piu' in carne della sorella, dalla carnagione rosea e dei capelli che naturalmente sfumavano dal biondo al castano. Per lei la vita nel paese era sempre stata quella scandita dal controllo sempre piu' pressante del nuovo ordine: la scuola, le attivita' sociali obbligatorie, i corsi di formazione. Non se ne lamentava mai, anzi, per lei era naturale che qualcun altro desse forma alla sua vita per lei.
Rodolfo e Francesca le lasciarono nel salottino intiepidito dal sole, a leggere. Marito e moglie usavano uscire per una passeggiata alla domenica pomeriggio e, soprattutto quel giorno, era come se si leggessero nel pensiero; come se sapessero di aver qualcosa di importante di cui discutere.
Uscirono di casa. Dopo qualche decina di metri presero a camminare mano nella mano, mentre una brezza piacevole li conduceva nel parco.
Nessuno aveva ancora detto una parola quando Rodolfo vide in lontananza delle persone che non gradiva mai incontrare. Tre dei suoi amici della lontana giovinezza. Avevano fatto la guerra nella stessa squadriglia, poi loro erano entati nelle forze armate, per vocazione uno e per uno stipendio sicuro gli altri due. Il Nuovo Ordine aveva fatto largo uso degli uomini gia' arruolati e ne aveva sicuramente tirato fuori il peggio.
Rodolfo avrebbe preferito evitarli, ma ormai era sulla loro strada. Ad ogni modo affretto' il passo cercando di ignorarli.
Una voce lo raggiunse alle spalle: «Rodolfo! Non si salutano gli amici? Come stai? La tua signora?».
Era Franco, con un tono beffardo che Rodolfo non gradiva affatto. Gli altri, Manfredi (l'idealista) e Stefano, guardavano la scena distrattamente.
Rodolfo si volto', facendo un cenno col capo e mormorando un mezzo saluto. Poi lui e Francesca si allontanarono.
Camminarono per dieci minuti lungo i sentieri del giardino pubblico, ognuno cercando il coraggio di iniziare una conversazione.
Finalmente Rodolfo esordi': «Francesca, noi dobbiamo andare via da questo paese.»
«Lo so», rispose lei dopo una lunga pausa.
Poi, quasi singhiozzando aggiunse: «Cosa ti hanno fatto. Cosa ti hanno fatto...».
Lui la abbraccio': «Non devi preoccuparti di me, quel che conta e' che noi dobbiamo crescere le nostre figlie lontano da questa oppressione, da questo regime schifoso. Domani parlero' con il mio contatto nella vecchia resistenza, troveremo il modo di andar via».
Camminavano ancora tenendosi per mano, di nuovo in silenzio. Davanti a loro ricomparve il gruppetto di amici. Era chiaro che avevano fatto un giro apposta per incrociarli di nuovo, probabilmente un'idea di Franco che quel giorno aveva voglia di crear guai.
Ma Rodolfo non aveva intenzione di lasciarsi provocare, ormai i suoi pensieri dovevano essere rivolti a un futuro diverso, lontano.
Fecero qualche altro passo, Franco lo squadro' sorridendo e poi, giunto ormai vicino a loro, porto' il pugno vicino alla bocca agitandolo ritmicamente, come a simulare un rapporto orale.
Rodolfo lo guardo' sbigottito mentre gli passava oltre. Poi, dopo qualche passo, senti' gli altri due mormorare qualcosa e ridere. Allora si volto' apostrofandoli: «Cosa cazzo significa?».
I tre, con l'aria di chi aveva ottenuto finalmente qualcosa, si fecero avanti. Stefano fece qualche altro passo verso Rodolfo, mentre Francesca si ritraeva, quasi facendosi scudo del marito.
«Be'... ho sentito che ieri i ragazzi del sotterraneo si sono divertiti un po' con te.» - disse Stefano con una vena di compiacimento che a Rodolfo suonava ripugnante.
«Per fortuna poi Mirone ha preferito lasciarti andare» - continuo' - «Forse perche', mentre ti torturavano, Francesca era li' nel suo ufficio a fare la troia», disse ripetendo il gesto osceno di prima.
Come udi' queste parole Rodolfo lo colpi' violentemente al viso con un pugno. Stefano ando' a terra, tramortito.
«Sei impazzito? Cosa fai??» - urlo' Francesca.
Lui la prese per un braccio e la porto' via, allontandosi furiosamente. «Andiamo via, andiamo!».
Franco e Manfredi erano rimasti intimiditi dallo scontro fisico. Sapevano bene, fin da quando erano stati tutti insieme sotto le armi, che Rodolfo era il piu' forte tra loro.
In un certo senso ancora lo rispettavano per questo.
Franco gli urlo' contro da lontano: «Sei un bastardo! Ma le pagherai tutte!». Manfredi era inginocchiato accanto all'amico cercando di fargli riprendere i sensi.
Rodolfo e Francesca piombarono a casa dopo appena due minuti. Entrarono rumorosamente. Rodolfo aveva deciso di rompere qualunque indugio: «Presto, prepara una valigia con l'essenziale.»
«Perche', cosa vuoi che facciamo?» - si interrogo' Francesca.
«Andiamo via. Francesca, dobbiamo andare via subito. Tu non sai di cosa sono capaci questi uomini».
«Rodolfo...», mormoro' lei, come a volergli dire che in realta' lo sapeva molto bene.
Cristina e Valeria, spaventate, non capivano cosa stesse succedendo. Non c'era tempo di spiegare.
«Andiamo via», ripeteva ossessivamente Rodolfo.
Non avevano neanche chiuso la porta di casa dopo essere rientrati, e da quella stessa porta, quasi come se le loro paure li avessero materializzati, entrarono degli agenti, un'intera squadra. Erano passati solo sei minuti da quanto successo nel parco.
Due di loro si gettarono su Rodolfo, un terzo gli arrivo' alle spalle colpendolo con una ginocchiata sulla schiena. Rodolfo ando' a terra in un attimo. L'urlo di Valeria, che era con lui nel salotto al momento dell'irruzione, fu agghiacciante e richiamo' Francesca e Cristina dalle altre stanze. In pochi attimi anche Francesca, Cristina e Valeria erano state immobilizzate e ammanettate.
Gli agenti indossavano un casco scuro che li rendeva irriconoscibili. Il piu' alto in grado scandi' a voce alta: «Legato Rodolfo, lei e' in arresto per aggressione a pubblico ufficiale e sedizione, per aver disatteso gli ordini dell'autorita' cercando di allontanarsi dalla propria residenza insieme a tutta la sua famiglia. Portateli via.»
Gli agenti spinsero le donne fuori dall'appartamento. Rodolfo era ancora inginocchiato in mezzo al salotto, trattenuto da due agenti, quando udi' proprio la voce di Franco provenire da una delle divise. L'agente conduceva Valeria fuori dalla porta, sul pianerottolo e giu' per le scale; Rodolfo lo vide mentre faceva scendere la mano lungo i fianchi della figlia, scendendo giu' giu' a toccarla e dicendole: «Che bel culo che hai...».
«Franco, bastardo! Se la tocchi ti ammazzo!», esplose. Ma fu subito raggiunto da un pugno che lo fece vacillare.
I due agenti lo tirarono su, ammanettato, e lo condussero in strada davanti a due furgoni blindati. Su uno furono fatte salire le donne. Valeria e Cristina chiamavano disperatamente il padre, Francesca invece era come pietrificata mentre Rodolfo veniva trascinato a forza nell'altro mezzo. Partirono. In un attimo le loro vite erano state stravolte.
Era ormai quasi buio quando Rodolfo fu condotto al grande ingresso del municipio. Portava in mano una busta in cui erano stati riposti i suoi oggetti personali, e un agente lo sorreggeva, poiche' egli a malapena riusciva a fare qualche passo.
Giunti entrambi sulla soglia l'agente ordino': «Legato, non le e' consentito lasciare la citta' per adesso. La chiameremo di nuovo», e si volto' immergendosi nel buio dell'oscuro edificio.
Rodolfo poggio' la schiena al lucido marmo del muro esterno, mentre affondava il viso tra le mani, stravolto. Si sedette sul pavimento cercando di ritrovare qualche energia, ma non voleva rimanere vicino all'ingresso di quel luogo da incubo. Cosi', con le sue ultime forze, si alzo' e si trascino' un paio di isolati piu' a sud. Poi, molto lentamente, percorse la strada verso casa.
I Legato abitavano in una graziosa palazzina rosa, insieme ad altre tre famiglie. Avevano potuto comprarla quella casa, dopo una vita di sacrifici, e non avevano neanche dei debiti.
Una volta giunto al portone egli apri' la busta di carta; aveva bisogno delle chiavi per rientrare senza svegliare nessuno.
Le chiavi, l'orologio e ogni moneta che aveva portato con se' quel giorno erano li' dove erano stati riposti al momento dell'arresto.
Rodolfo aperse il portone, percorse le scale fino all'ingresso di casa e silenziosamente fece scattare la serratura.
Solo la luna illuminava di una luce pallida il piccolo salotto. Con il pensiero unicamente rivolto a non svegliare le figlie egli si diresse nella camera da letto.
Poggiata sulle lenzuola bianche, anche lei illuminata dalla luna, Francesca dormiva sul fianco, girata verso la finestra con la mano sotto al cuscino.
«Dobbiamo fare qualcosa per andar via da qui», penso' Rodolfo. Si poggio' sul letto vicino alla sua sposa e in breve fu vinto dal sonno.
Il mattino della domenica giunse portando una bellissima giornata di sole.
Rodolfo, una volta svegliato, trovo' tutte le donne della casa intente a preparare la tavola. Le figlie chiacchieravano rumorosamente e in allegria.
Si sedettero tutti per il pranzo. Francesca non parlava, mangiava con gli occhi bassi e appariva assente. In cuor suo era determinata a mantenere il segreto su cio' che era successo il pomeriggio del giorno prima. Per sempre, per tutta la vita.
Ma perche' questa vita fosse possibile - pensava - era necessario lasciare quel paese, fuggire.
Anche Rodolfo era silenzioso e, come Francesca, guardava le figlie e in cuor suo le desiderava gia' lontane. Sarebbero partiti, avrebbero lasciato tutto indietro, al diavolo la resistenza.
Cristina e Valeria non avevano conosciuto l'epoca della guerra. Cristina, che era la maggiore ed aveva ventidue anni, ricordava un po' gli anni tumultuosi dei governi provvisori, duranti i quali i vari gruppi della resistenza avevano cercato di dare un nuovo assetto al paese. Quando era piccola non esisteva neanche una vera scuola elementare con dei maestri ed era stata educata a casa. Era una ragazza esile e bruna, aveva ereditato i lineamenti della madre, ma aveva un viso piu' affilato, la carnagione piu' scura e, durante l'estate, il suo viso si copriva di graziose efelidi.
Valeria, la minore, aveva diciotto anni. Piu' bassa e piu' in carne della sorella, dalla carnagione rosea e dei capelli che naturalmente sfumavano dal biondo al castano. Per lei la vita nel paese era sempre stata quella scandita dal controllo sempre piu' pressante del nuovo ordine: la scuola, le attivita' sociali obbligatorie, i corsi di formazione. Non se ne lamentava mai, anzi, per lei era naturale che qualcun altro desse forma alla sua vita per lei.
Rodolfo e Francesca le lasciarono nel salottino intiepidito dal sole, a leggere. Marito e moglie usavano uscire per una passeggiata alla domenica pomeriggio e, soprattutto quel giorno, era come se si leggessero nel pensiero; come se sapessero di aver qualcosa di importante di cui discutere.
Uscirono di casa. Dopo qualche decina di metri presero a camminare mano nella mano, mentre una brezza piacevole li conduceva nel parco.
Nessuno aveva ancora detto una parola quando Rodolfo vide in lontananza delle persone che non gradiva mai incontrare. Tre dei suoi amici della lontana giovinezza. Avevano fatto la guerra nella stessa squadriglia, poi loro erano entati nelle forze armate, per vocazione uno e per uno stipendio sicuro gli altri due. Il Nuovo Ordine aveva fatto largo uso degli uomini gia' arruolati e ne aveva sicuramente tirato fuori il peggio.
Rodolfo avrebbe preferito evitarli, ma ormai era sulla loro strada. Ad ogni modo affretto' il passo cercando di ignorarli.
Una voce lo raggiunse alle spalle: «Rodolfo! Non si salutano gli amici? Come stai? La tua signora?».
Era Franco, con un tono beffardo che Rodolfo non gradiva affatto. Gli altri, Manfredi (l'idealista) e Stefano, guardavano la scena distrattamente.
Rodolfo si volto', facendo un cenno col capo e mormorando un mezzo saluto. Poi lui e Francesca si allontanarono.
Camminarono per dieci minuti lungo i sentieri del giardino pubblico, ognuno cercando il coraggio di iniziare una conversazione.
Finalmente Rodolfo esordi': «Francesca, noi dobbiamo andare via da questo paese.»
«Lo so», rispose lei dopo una lunga pausa.
Poi, quasi singhiozzando aggiunse: «Cosa ti hanno fatto. Cosa ti hanno fatto...».
Lui la abbraccio': «Non devi preoccuparti di me, quel che conta e' che noi dobbiamo crescere le nostre figlie lontano da questa oppressione, da questo regime schifoso. Domani parlero' con il mio contatto nella vecchia resistenza, troveremo il modo di andar via».
Camminavano ancora tenendosi per mano, di nuovo in silenzio. Davanti a loro ricomparve il gruppetto di amici. Era chiaro che avevano fatto un giro apposta per incrociarli di nuovo, probabilmente un'idea di Franco che quel giorno aveva voglia di crear guai.
Ma Rodolfo non aveva intenzione di lasciarsi provocare, ormai i suoi pensieri dovevano essere rivolti a un futuro diverso, lontano.
Fecero qualche altro passo, Franco lo squadro' sorridendo e poi, giunto ormai vicino a loro, porto' il pugno vicino alla bocca agitandolo ritmicamente, come a simulare un rapporto orale.
Rodolfo lo guardo' sbigottito mentre gli passava oltre. Poi, dopo qualche passo, senti' gli altri due mormorare qualcosa e ridere. Allora si volto' apostrofandoli: «Cosa cazzo significa?».
I tre, con l'aria di chi aveva ottenuto finalmente qualcosa, si fecero avanti. Stefano fece qualche altro passo verso Rodolfo, mentre Francesca si ritraeva, quasi facendosi scudo del marito.
«Be'... ho sentito che ieri i ragazzi del sotterraneo si sono divertiti un po' con te.» - disse Stefano con una vena di compiacimento che a Rodolfo suonava ripugnante.
«Per fortuna poi Mirone ha preferito lasciarti andare» - continuo' - «Forse perche', mentre ti torturavano, Francesca era li' nel suo ufficio a fare la troia», disse ripetendo il gesto osceno di prima.
Come udi' queste parole Rodolfo lo colpi' violentemente al viso con un pugno. Stefano ando' a terra, tramortito.
«Sei impazzito? Cosa fai??» - urlo' Francesca.
Lui la prese per un braccio e la porto' via, allontandosi furiosamente. «Andiamo via, andiamo!».
Franco e Manfredi erano rimasti intimiditi dallo scontro fisico. Sapevano bene, fin da quando erano stati tutti insieme sotto le armi, che Rodolfo era il piu' forte tra loro.
In un certo senso ancora lo rispettavano per questo.
Franco gli urlo' contro da lontano: «Sei un bastardo! Ma le pagherai tutte!». Manfredi era inginocchiato accanto all'amico cercando di fargli riprendere i sensi.
Rodolfo e Francesca piombarono a casa dopo appena due minuti. Entrarono rumorosamente. Rodolfo aveva deciso di rompere qualunque indugio: «Presto, prepara una valigia con l'essenziale.»
«Perche', cosa vuoi che facciamo?» - si interrogo' Francesca.
«Andiamo via. Francesca, dobbiamo andare via subito. Tu non sai di cosa sono capaci questi uomini».
«Rodolfo...», mormoro' lei, come a volergli dire che in realta' lo sapeva molto bene.
Cristina e Valeria, spaventate, non capivano cosa stesse succedendo. Non c'era tempo di spiegare.
«Andiamo via», ripeteva ossessivamente Rodolfo.
Non avevano neanche chiuso la porta di casa dopo essere rientrati, e da quella stessa porta, quasi come se le loro paure li avessero materializzati, entrarono degli agenti, un'intera squadra. Erano passati solo sei minuti da quanto successo nel parco.
Due di loro si gettarono su Rodolfo, un terzo gli arrivo' alle spalle colpendolo con una ginocchiata sulla schiena. Rodolfo ando' a terra in un attimo. L'urlo di Valeria, che era con lui nel salotto al momento dell'irruzione, fu agghiacciante e richiamo' Francesca e Cristina dalle altre stanze. In pochi attimi anche Francesca, Cristina e Valeria erano state immobilizzate e ammanettate.
Gli agenti indossavano un casco scuro che li rendeva irriconoscibili. Il piu' alto in grado scandi' a voce alta: «Legato Rodolfo, lei e' in arresto per aggressione a pubblico ufficiale e sedizione, per aver disatteso gli ordini dell'autorita' cercando di allontanarsi dalla propria residenza insieme a tutta la sua famiglia. Portateli via.»
Gli agenti spinsero le donne fuori dall'appartamento. Rodolfo era ancora inginocchiato in mezzo al salotto, trattenuto da due agenti, quando udi' proprio la voce di Franco provenire da una delle divise. L'agente conduceva Valeria fuori dalla porta, sul pianerottolo e giu' per le scale; Rodolfo lo vide mentre faceva scendere la mano lungo i fianchi della figlia, scendendo giu' giu' a toccarla e dicendole: «Che bel culo che hai...».
«Franco, bastardo! Se la tocchi ti ammazzo!», esplose. Ma fu subito raggiunto da un pugno che lo fece vacillare.
I due agenti lo tirarono su, ammanettato, e lo condussero in strada davanti a due furgoni blindati. Su uno furono fatte salire le donne. Valeria e Cristina chiamavano disperatamente il padre, Francesca invece era come pietrificata mentre Rodolfo veniva trascinato a forza nell'altro mezzo. Partirono. In un attimo le loro vite erano state stravolte.
0
voti
voti
valutazione
0
0
Continua a leggere racconti dello stesso autore
racconto precedente
La Clessidra - Primoracconto sucessivo
La Clessidra - Terzo
Commenti dei lettori al racconto erotico