Luciana [3]
di
Foreignpress
genere
etero
Sentivo la lingua di Luciana che mi leccava dal buco del culo alle palle, a lente lappate, mentre oltre la balaustra del nostro terrazzino il sole di Fuerteventura si divideva tra il cielo e il mare. «Allarga le gambe», diceva, e io le allargavo. Avevo il pisello già duro, ma non voleva farmi un pompino. Si era affacciata sul terrazzo mentre prendevo il sole con l’intento, subito chiarito, di leccarmi un po’, e magari eccitarmi per una scopata, o per farmi segare da solo. Aveva cominciato dalle palle, era scesa al culo, e ora che avevo tirato le gambe indietro tenendole con le mani, come faceva lei quando voleva che alternassi fica e ano, mi leccava i piedi. Lentamente, con adorazione, dito dopo dito e interstizi, succhiando gli alluci e accarezzandomi, con la mano libera, i polpacci. Sentivo una brezza fresca sui punti bagnati, cioè culo, testicoli e piante dei piedi (leccati da lei) e punta del cazzo (eccitata, scappellata, sgocciolante di pre-sperma). Appena passò al secondo piede, le passai l’altro sul seno, stringendo i capezzoli tra l’alluce e il secondo dito: quando lo facevo, gemeva come se le stessi succhiando il clitoride: occhi chiusi-bocca aperta-rantolo animale.
«Come si chiama, questo dito?», mi chiese, la voce roca, poco prima di indicarmi il secondo dito del piede con la punta della lingua.
«Secondo dito», risposi. «Perché?»
Lei fece spallucce e se lo infilò in bocca come fosse un piccolo cazzo, e guardandomi negli occhi cominciò a succhiare, e a fare su e giù, insomma a simulare un pompino, con tanto di leccatine finali, di rapidi colpetti sul polpastrello. Poi diede un’ultima rapida lappata alla pianta, prima di interrompersi e guardarmi il cazzo, duro e sgocciolante, sulla pancia.
«Beh, che facciamo. Me lo metti dentro, quello?», disse indicandolo.
«Non ho capito bene», risposi.
Lei sorrise, alzò il suo piede destro e me lo passò delicatamente sulle palle, a mo’ di carezza. Poi, con lentezza, si sfilò le mutande. Amavo la sua fica, follemente: era curata, sì, ma molto più pelosa di quando l’avevo conosciuta; come il mio cazzo, d’altronde: era un segno di confidenza, forse, o di routine positiva. Non lo so, ma quella vagina schiusa sopra le mie labbra o a un passo dalla mia cappella gonfia mi arrapava molto più dei primi tempi.
«Mi infili il cazzo qui? Per piacere», disse, allargando di poco le gambe come per pulirsi dopo la pipì, e indicandosi col dito.
«Qui dove?»
«Qui, nella fica. Dai, che stiamo sgocciolando come due termosifoni rotti».
Risi, e la guardai. In piedi, contro quel tramonto spagnolo, la pancia di quasi sette mesi (alta, piena, senza smagliature), l’ombelico all’infuori, i seni appesantiti, rigogliosi, e i capezzoli larghi e scuri come la parte gommata di un ciuccio.
«Aspetta», le dissi. Poi presi il cellulare dalla tasca del costume, acciambellato a terra, le misi i piedi sul pancione. Lei me li strinse, e io fotografai l’insieme: le sue mani, i miei piedi sul suo ventre, il seno, la vagina. «Il mio nuovo sfondo», le dissi, «per tutto il tempo che trascorreremo a Fuerteventura».
Un attimo dopo stavamo scopando a smorzacandela sulla mia sdraio, mentre il sole tramontava. Durammo poco, e i miei colpi di cazzo furono violentissimi. Lei, da sotto la pancia, si torturava il clitoride, e urlava come al solito il mio nome e altre cose un po’ più banali, come «Godo», «Me la sfondi», «Riempimi di sborra», «Sono una mignotta»: cose così, grandi classici. Io mi limitavo a insultarla, a dirle che la scopavo solo perché l’avevo ingravidata, e le imponevo di urlare più forte perché volevo che ci sentissero, che gli altri ospiti del residence sapessero quanto la facevo godere. «Così, uno di questi giorni, una bella coppietta ci fa visita e si unisce».
Era vero, almeno l’ultima parte: nel senso che mi frullava in testa da un po’ la fantasia di lei che succhiava un altro cazzo, che soppesava le palle di un altro. Anche più prestante di me, chissenefrega, a condizione che io mi facessi spompinare dalla sua compagna. Nei momenti di eccitazione più dissoluta, quando cioè bevevo un bicchiere in più e la possedevo senza curarmi troppo del suo piacere, generalmente mettendoglielo in culo, le sussurravo che volevo vederla scopare col suo ex marito, mentre prendevano entrambi ordini da me. Volevo vederla ingoiare altra sborra mentre, con uno sguardo neanche troppo furtivo, mi chiedeva il permesso.
Intanto ingoiava la mia. O meglio, trovava modi fantasiosi per non farmi rimpiangere il fatto che non ingoiasse più, da quando era incinta: veniva, poi si sfilava e mi masturbava (benissimo, devo dire) o mi spompinava (meno bene, ma con un impegno ammirevole) e, al momento dell’orgasmo, si metteva a pecora allargava le natiche per dirmi di centrare il buco del culo, o improvvisava una spagnola da gravidanza (ovvero più fruttuosa, vista l’abbondanza mammaria) e mi faceva eiaculare tra i suoi seni, o mi sfidava a schizzare a caso sul mio stesso corpo, promettendomi che avrebbe leccato tutto: l’ultimo caso era per me il più sgradito, visto che la prima volta mi ero inondato la faccia.
Quel giorno, il giorno della terrazza e delle urla e dello smorzacandela, il giorno in cui io ero steso e lei stava di sopra che mi segava a un passo dal cielo ormai scuro delle Canarie, mi allargò nuovamente le gambe e con delicatezza portò il mio piede sinistro accanto alla cappella; poi mi massaggiò il pisello (gonfissimo, al limite) sulla pianta, contro l’interno delle dita, fino a che non sborrai. Lei aspettò che mi svuotassi (in silenzio, come faccio di solito, a parte qualche grugnito) e, con dolcezza, si portò il piede in bocca e leccò tutto.
Avevo organizzato quella vacanza con due finanziamenti di Dario. Il primo, quattrocento euro, quando gli permisi di vederla nuda. Il secondo, stessa somma, tre giorni dopo, quando per un’intera domenica acconsentii alla richiesta di girare senza vestiti per il nostro appartamento, e di scopare davanti a lui in salone. Fu particolarmente eccitante, e venni con un piacere e una forza tali che quasi rimasi indolenzito, dopo. Al mattino, incontratici in cucina, lui aveva poggiato i soldi sul tavolo. Poi, dopo una stretta di mano, noi due c’eravamo tolti gli slip e Luciana, più lentamente, il reggiseno e le mutande. A Dario era venuto subito duro, e Luciana aveva sorriso. «Non mi tocco, non faccio niente, giuro: ti guardo e basta», aveva detto. E così fu, per tutto il giorno: un pomeriggio inebriante, fitto di sbirciatine ed erezioni frequenti, impossibili da nascondere. Dario guardava Luciana senza sosta, dal seno ai piedi, e io guardavo Luciana che si faceva guardare da Dario, e godeva del suo (evidentissimo) apprezzamento. Poco prima di cena, mentre io e Dario bevevamo una birra davanti a una serie tv, seduti sul pavimento, Luciana entrò in salone con lo smalto e il separa-dita. Avvicinò il pouf al divano e, sedutasi a gambe larghe, inforcò il separatore allargando le dita, poi prese a passare lo smalto. Davanti a me lo faceva spesso, per cui non aveva una gran presa: sentivo questo odore invadente che copriva quello del suo corpo (e dei suoi piedi, soprattutto, che amavo), e in più la vedevo distratta, con lo sguardo fisso su se stessa: a volte si mordeva le labbra, addirittura, nello sforzo di concentrazione. Insomma, per me era una cosa ordinaria, ma per Dario mi resi conto di no. Quando Luciana iniziò, lo sentii sussurrare «Dio mio». Ci voltammo entrambi verso di lei. Io in particolare, più vicino al divano, mi sporsi per sentire l’odore del suo sesso, umido e intenso: come ho già detto, Luciana aveva una vagina molto solcata, quindi quasi sempre schiusa, e il suo profumo era viscerale, direi, profondo, organico. Non saprei dirlo meglio. Al classico sentore di urina (vago, perché era pulitissima, ma inevitabile) di tutti i genitali, si univa una nota silvestre, tutta sua e piuttosto selvaggia: come se fosse cresciuta nuda e scellerata tra gli animali di una foresta, e insieme ad essi si fosse rotolata per anni tra le foglie, e i fiori bagnati di pioggia. Poteva non piacere, lo ammetto: ma, in un senso o nell’altro, era davvero un odore indimenticabile, e io (come tutti quelli che lo provarono, sia quando eravamo insieme che separatamente) lo adoravo.
Spinsi Dario verso di lei: «Annusale la fica».
Lui si avvicinò, col pisello già scappellato e semi-duro, e si mise accovacciato il più possibile alle gambe di lei.
«Sento solo lo smalto», disse sconfortato.
Luciana sorrise, e interruppe ciò che stava facendo. Richiuse lo smalto e, spingendosi sul divano, si avvicinò al volto di Dario. Dopo che si fu assicurata che, a quella distanza, poteva persino leccarla, gli chiese «Ora lo senti?», e lui rantolò «Sì», e lei rispose «Spero che ti piaccia, è un odore forte».
Ma a Dario piaceva. Aveva il cazzo così duro che temetti di vederlo venire senza farsi una sega, come capitava da ragazzini davanti a certe scene inedite di insostenibile provocazione. Luciana fu dolce, come al solito, e gli carezzò la testa; era divertente da vedere: una quarantenne incinta a gambe aperte sul divano che accarezza la testa al ragazzo che, nudo pure lui, le sta annusando la fica. Scavalcai lui, mi fiondai su di lei e, in piedi sul divano, le porsi le palle. Lei ci passò la lingua, poi li ciucciò. Dopo un pompino dolce e una passata di alluce sulla fica che Dario ancora annusava, per farla bagnare, dissi una cosa che non dicevo mai, e cioè «Facciamo l’amore». Ci mettemmo alla missionaria sul divano e lentamente entrai dentro di lei. Poi spinsi, e spinsi con pacata regolarità per circa dieci minuti, baciandole la fronte e il seno (e facendo attenzione a non pesare sulla pancia). Volevo eccitare Dario con una prova di tenerezza, ma fu talmente eccitante anche per me che quasi venni senza passare a un’altra posizione: quando esaurimmo quella performance di dolcezza, vidi Luciana che lanciava uno sguardo al mio amico seduto a gambe incrociate sul tappeto, che si segava con gli occhi spalancati ed emettendo piccoli, incontrollati rantoli. Mi ingelosii. La misi a pecorina e la penetrai con forza, tenendole la pancia e carezzandole un seno alla volta, i capezzoli stretti tra le dita; quando sentii che ne aveva abbastanza la feci mettere in piedi sul pavimento, giù dal divano, e le ordinai di divaricare le gambe a mo’ di ponte sulla testa di Dario. Poi mi inginocchiai e le leccai il culo, a lungo, mentre lei, sopra lo sguardo del mio coinquilino, si tormentava la fica. Venne mormorando, e mi pregò di penetrarla ancora, stavolta stesi a terra. Andò avanti così per un po’, perlopiù a pecorina, finché io pretesi il mio solito lusso: che, girata di culo, mi facesse una sega coi piedi mentre leccava i miei. Dopo pochissimo (ormai era brava) le annunciai che stavo venendo, e si voltò di corsa per infilarsi il cazzo in fica: allora sborrai, copiosamente, e quando ebbi finito lei si alzò e disse a Dario, ancora col pisello duro «Avvicinati, guarda»: si sedette sul divano, divaricò le gambe e aspettò che i fiotti del mio sperma colassero fuori. Al primo rigurgito, non so se per l’accumulo, per la visuale o per l’odore, sempre più forte, della fica usurata di Luciana, eiaculò sul pavimento, digrignando i denti.
«Siete matti», mi disse dopo un po’, pulendosi la cappella, mentre con l’altra mano cercava i soldi nel portafogli. «Tu sei fissato con i piedi, lei col culo: sembra che alla scopata preferiate leccarvi a vicenda le cose più strane». “Forse è vero”, pensai mentre accettavo il denaro e, romanticamente, mi dedicavo ad asciugare la vagina di Luciana, con uno scottex: “vogliamo sfidare la reciproca adorazione, e vedere dove si ferma”. In ogni caso, l’ingresso di casa puzzò di sperma e di fica finché noi partimmo, circa una settimana dopo, ma con quei soldi mi ci pagai il ritorno.
Torniamo a noi. La mattina dopo della scopata sulla sdraio, mi svegliai prima di Luciana. Mi preparai un caffè, ne misi in caldo uno per lei e tornai in camera a guardarla: dormiva con le sole mutandine, mentre i seni, schiacciati contro il petto dalla gravità, sembravano due taglie in meno: tette dipinte, spalmate sulla cute. Quante volte, da quando la conoscevo, avevo spruzzato il mio sperma tra quei seni? Quanti litri di seme avevo riversato sulla sua pelle, dentro di lei, dentro la curva del sedere? Conosceva la mia sborra meglio di me, e mi avrebbe dato un figlio: meritava di essere felice. Le diedi un bacio leggero sul pancione, poi scesi nel bar del residence a cercarle croissant, frutta, qualche dolce da accompagnare al caffè. Quando lo raggiunsi, oltre a me c’era una coppia che fino a quel momento non avevo mai visto: lui era un uomo di circa 40 anni, molto bello, alto, in tenuta estiva (sandali, una maglietta blu e dei pantaloncini kaki) ma elegante nel portamento; lei era una ragazza carina, magra, molto più ordinaria, con splendidi occhi e una bella abbronzatura, alta quasi quaranta centimetri meno di lui e con dei bei seni piccoli e ben tesi di cui mi accorsi di sentire la mancanza, come ne sentii per la pancia piatta e quasi muscolosa. Lei aveva shorts, ciabatte a fascia e un top che le lasciava scoperta la parte addominale. Quando entrai nella sala bar lei era in piedi accanto al distributore di spremute, mentre lui stava seduto al tavolino, a gambe larghe, in attesa. Quando ebbe riempito il bicchiere, lei si accorse di me e mi sorrise, poi raggiunse l’uomo e, invece di sederglisi di fronte, si accomodò su una delle sue gambe, parlandogli in italiano del cielo grigio e deludente, oltre la finestra. Io avevo quasi finito, quando mi accorsi che lui mi stava guardando.
Mi voltai, ricambiai lo sguardo e sorrisi. Sorrise anche lui.
«Voi siete quelli dell’ultimo piano», mi disse. «Vero?»
Annuii.
«Avete una splendida terrazza. Ogni giorno, quando c’è il tramonto, vi guardiamo invidiosi».
Lui rise, lei sorrise, io arrossii.
«Invidiamo il panorama», specificò. «Siamo negli appartamentini di fronte, ma non abbiamo terrazze. Vediamo solo voi».
«Beh, mi spiace», dissi. Dovevo sembrare ridicolo. Avevo mezzo bar tra le mani e l’arco degli avambracci.
«No, macché. Si sdebiti invitandoci a vedere il tramonto su da voi, ed è fatta. Porto qualche birra».
«Volentieri», risposi.
«Solo per noi tre, le birre. La sua compagna è incinta, dico bene?»
«Dice bene».
«Sesto mese».
«Più o meno. Si capisce?»
«Lo capisco io», disse, sorridendo. «Sono un medico. Riccardo G., piacere. E lei è Camilla».
Mi avvicinai, gli porsi l’avambraccio, rischiai di far crollare tre crostatine, rinunciai. Mi fecero cenno di non preoccuparmi, poi scambiammo due parole di circostanza sul tempo e sull’isola. Poi salutai, diedi appuntamento per quella sera al tramonto e tornai in camera da Luciana, che dormiva ancora.
Pensai a quei due, che avevano una differenza d’età simile alla nostra. Mi chiesi se ci avessero visto mentre scopavamo, e se scopassero così appassionatamente a loro volta. Mi eccitai. Abbassai il costume, mi tolsi la maglietta e mi chinai in coda al letto, per leccare i piedi di Luciana. Lo feci con dolcezza, senza svegliarla, ma godendomi ogni singolo dito, ogni curva, ogni punta acre del sapore della pelle, l’odore leggero. Mi rialzai e, con poche, rapide scrollate, eiaculai, rilasciandole lunghe strisce di sperma che partivano dallo smalto nero e le arrivavano alle caviglie. Fu un bell’orgasmo, e nei secondi immediatamente precedenti al picco di piacere pensai a quei due che fottevano contro il vetro della loro finestra, mentre io e Luciana, a nostra volta, facevamo l’amore sulla mia sdraio. Il mondo mi sembrò completamente interconnesso e legato dal sesso.
«Buongiorno», sentii.
«Buongiorno», risposi sorridente. «Oggi, colazione a letto».
[Continua]
«Come si chiama, questo dito?», mi chiese, la voce roca, poco prima di indicarmi il secondo dito del piede con la punta della lingua.
«Secondo dito», risposi. «Perché?»
Lei fece spallucce e se lo infilò in bocca come fosse un piccolo cazzo, e guardandomi negli occhi cominciò a succhiare, e a fare su e giù, insomma a simulare un pompino, con tanto di leccatine finali, di rapidi colpetti sul polpastrello. Poi diede un’ultima rapida lappata alla pianta, prima di interrompersi e guardarmi il cazzo, duro e sgocciolante, sulla pancia.
«Beh, che facciamo. Me lo metti dentro, quello?», disse indicandolo.
«Non ho capito bene», risposi.
Lei sorrise, alzò il suo piede destro e me lo passò delicatamente sulle palle, a mo’ di carezza. Poi, con lentezza, si sfilò le mutande. Amavo la sua fica, follemente: era curata, sì, ma molto più pelosa di quando l’avevo conosciuta; come il mio cazzo, d’altronde: era un segno di confidenza, forse, o di routine positiva. Non lo so, ma quella vagina schiusa sopra le mie labbra o a un passo dalla mia cappella gonfia mi arrapava molto più dei primi tempi.
«Mi infili il cazzo qui? Per piacere», disse, allargando di poco le gambe come per pulirsi dopo la pipì, e indicandosi col dito.
«Qui dove?»
«Qui, nella fica. Dai, che stiamo sgocciolando come due termosifoni rotti».
Risi, e la guardai. In piedi, contro quel tramonto spagnolo, la pancia di quasi sette mesi (alta, piena, senza smagliature), l’ombelico all’infuori, i seni appesantiti, rigogliosi, e i capezzoli larghi e scuri come la parte gommata di un ciuccio.
«Aspetta», le dissi. Poi presi il cellulare dalla tasca del costume, acciambellato a terra, le misi i piedi sul pancione. Lei me li strinse, e io fotografai l’insieme: le sue mani, i miei piedi sul suo ventre, il seno, la vagina. «Il mio nuovo sfondo», le dissi, «per tutto il tempo che trascorreremo a Fuerteventura».
Un attimo dopo stavamo scopando a smorzacandela sulla mia sdraio, mentre il sole tramontava. Durammo poco, e i miei colpi di cazzo furono violentissimi. Lei, da sotto la pancia, si torturava il clitoride, e urlava come al solito il mio nome e altre cose un po’ più banali, come «Godo», «Me la sfondi», «Riempimi di sborra», «Sono una mignotta»: cose così, grandi classici. Io mi limitavo a insultarla, a dirle che la scopavo solo perché l’avevo ingravidata, e le imponevo di urlare più forte perché volevo che ci sentissero, che gli altri ospiti del residence sapessero quanto la facevo godere. «Così, uno di questi giorni, una bella coppietta ci fa visita e si unisce».
Era vero, almeno l’ultima parte: nel senso che mi frullava in testa da un po’ la fantasia di lei che succhiava un altro cazzo, che soppesava le palle di un altro. Anche più prestante di me, chissenefrega, a condizione che io mi facessi spompinare dalla sua compagna. Nei momenti di eccitazione più dissoluta, quando cioè bevevo un bicchiere in più e la possedevo senza curarmi troppo del suo piacere, generalmente mettendoglielo in culo, le sussurravo che volevo vederla scopare col suo ex marito, mentre prendevano entrambi ordini da me. Volevo vederla ingoiare altra sborra mentre, con uno sguardo neanche troppo furtivo, mi chiedeva il permesso.
Intanto ingoiava la mia. O meglio, trovava modi fantasiosi per non farmi rimpiangere il fatto che non ingoiasse più, da quando era incinta: veniva, poi si sfilava e mi masturbava (benissimo, devo dire) o mi spompinava (meno bene, ma con un impegno ammirevole) e, al momento dell’orgasmo, si metteva a pecora allargava le natiche per dirmi di centrare il buco del culo, o improvvisava una spagnola da gravidanza (ovvero più fruttuosa, vista l’abbondanza mammaria) e mi faceva eiaculare tra i suoi seni, o mi sfidava a schizzare a caso sul mio stesso corpo, promettendomi che avrebbe leccato tutto: l’ultimo caso era per me il più sgradito, visto che la prima volta mi ero inondato la faccia.
Quel giorno, il giorno della terrazza e delle urla e dello smorzacandela, il giorno in cui io ero steso e lei stava di sopra che mi segava a un passo dal cielo ormai scuro delle Canarie, mi allargò nuovamente le gambe e con delicatezza portò il mio piede sinistro accanto alla cappella; poi mi massaggiò il pisello (gonfissimo, al limite) sulla pianta, contro l’interno delle dita, fino a che non sborrai. Lei aspettò che mi svuotassi (in silenzio, come faccio di solito, a parte qualche grugnito) e, con dolcezza, si portò il piede in bocca e leccò tutto.
Avevo organizzato quella vacanza con due finanziamenti di Dario. Il primo, quattrocento euro, quando gli permisi di vederla nuda. Il secondo, stessa somma, tre giorni dopo, quando per un’intera domenica acconsentii alla richiesta di girare senza vestiti per il nostro appartamento, e di scopare davanti a lui in salone. Fu particolarmente eccitante, e venni con un piacere e una forza tali che quasi rimasi indolenzito, dopo. Al mattino, incontratici in cucina, lui aveva poggiato i soldi sul tavolo. Poi, dopo una stretta di mano, noi due c’eravamo tolti gli slip e Luciana, più lentamente, il reggiseno e le mutande. A Dario era venuto subito duro, e Luciana aveva sorriso. «Non mi tocco, non faccio niente, giuro: ti guardo e basta», aveva detto. E così fu, per tutto il giorno: un pomeriggio inebriante, fitto di sbirciatine ed erezioni frequenti, impossibili da nascondere. Dario guardava Luciana senza sosta, dal seno ai piedi, e io guardavo Luciana che si faceva guardare da Dario, e godeva del suo (evidentissimo) apprezzamento. Poco prima di cena, mentre io e Dario bevevamo una birra davanti a una serie tv, seduti sul pavimento, Luciana entrò in salone con lo smalto e il separa-dita. Avvicinò il pouf al divano e, sedutasi a gambe larghe, inforcò il separatore allargando le dita, poi prese a passare lo smalto. Davanti a me lo faceva spesso, per cui non aveva una gran presa: sentivo questo odore invadente che copriva quello del suo corpo (e dei suoi piedi, soprattutto, che amavo), e in più la vedevo distratta, con lo sguardo fisso su se stessa: a volte si mordeva le labbra, addirittura, nello sforzo di concentrazione. Insomma, per me era una cosa ordinaria, ma per Dario mi resi conto di no. Quando Luciana iniziò, lo sentii sussurrare «Dio mio». Ci voltammo entrambi verso di lei. Io in particolare, più vicino al divano, mi sporsi per sentire l’odore del suo sesso, umido e intenso: come ho già detto, Luciana aveva una vagina molto solcata, quindi quasi sempre schiusa, e il suo profumo era viscerale, direi, profondo, organico. Non saprei dirlo meglio. Al classico sentore di urina (vago, perché era pulitissima, ma inevitabile) di tutti i genitali, si univa una nota silvestre, tutta sua e piuttosto selvaggia: come se fosse cresciuta nuda e scellerata tra gli animali di una foresta, e insieme ad essi si fosse rotolata per anni tra le foglie, e i fiori bagnati di pioggia. Poteva non piacere, lo ammetto: ma, in un senso o nell’altro, era davvero un odore indimenticabile, e io (come tutti quelli che lo provarono, sia quando eravamo insieme che separatamente) lo adoravo.
Spinsi Dario verso di lei: «Annusale la fica».
Lui si avvicinò, col pisello già scappellato e semi-duro, e si mise accovacciato il più possibile alle gambe di lei.
«Sento solo lo smalto», disse sconfortato.
Luciana sorrise, e interruppe ciò che stava facendo. Richiuse lo smalto e, spingendosi sul divano, si avvicinò al volto di Dario. Dopo che si fu assicurata che, a quella distanza, poteva persino leccarla, gli chiese «Ora lo senti?», e lui rantolò «Sì», e lei rispose «Spero che ti piaccia, è un odore forte».
Ma a Dario piaceva. Aveva il cazzo così duro che temetti di vederlo venire senza farsi una sega, come capitava da ragazzini davanti a certe scene inedite di insostenibile provocazione. Luciana fu dolce, come al solito, e gli carezzò la testa; era divertente da vedere: una quarantenne incinta a gambe aperte sul divano che accarezza la testa al ragazzo che, nudo pure lui, le sta annusando la fica. Scavalcai lui, mi fiondai su di lei e, in piedi sul divano, le porsi le palle. Lei ci passò la lingua, poi li ciucciò. Dopo un pompino dolce e una passata di alluce sulla fica che Dario ancora annusava, per farla bagnare, dissi una cosa che non dicevo mai, e cioè «Facciamo l’amore». Ci mettemmo alla missionaria sul divano e lentamente entrai dentro di lei. Poi spinsi, e spinsi con pacata regolarità per circa dieci minuti, baciandole la fronte e il seno (e facendo attenzione a non pesare sulla pancia). Volevo eccitare Dario con una prova di tenerezza, ma fu talmente eccitante anche per me che quasi venni senza passare a un’altra posizione: quando esaurimmo quella performance di dolcezza, vidi Luciana che lanciava uno sguardo al mio amico seduto a gambe incrociate sul tappeto, che si segava con gli occhi spalancati ed emettendo piccoli, incontrollati rantoli. Mi ingelosii. La misi a pecorina e la penetrai con forza, tenendole la pancia e carezzandole un seno alla volta, i capezzoli stretti tra le dita; quando sentii che ne aveva abbastanza la feci mettere in piedi sul pavimento, giù dal divano, e le ordinai di divaricare le gambe a mo’ di ponte sulla testa di Dario. Poi mi inginocchiai e le leccai il culo, a lungo, mentre lei, sopra lo sguardo del mio coinquilino, si tormentava la fica. Venne mormorando, e mi pregò di penetrarla ancora, stavolta stesi a terra. Andò avanti così per un po’, perlopiù a pecorina, finché io pretesi il mio solito lusso: che, girata di culo, mi facesse una sega coi piedi mentre leccava i miei. Dopo pochissimo (ormai era brava) le annunciai che stavo venendo, e si voltò di corsa per infilarsi il cazzo in fica: allora sborrai, copiosamente, e quando ebbi finito lei si alzò e disse a Dario, ancora col pisello duro «Avvicinati, guarda»: si sedette sul divano, divaricò le gambe e aspettò che i fiotti del mio sperma colassero fuori. Al primo rigurgito, non so se per l’accumulo, per la visuale o per l’odore, sempre più forte, della fica usurata di Luciana, eiaculò sul pavimento, digrignando i denti.
«Siete matti», mi disse dopo un po’, pulendosi la cappella, mentre con l’altra mano cercava i soldi nel portafogli. «Tu sei fissato con i piedi, lei col culo: sembra che alla scopata preferiate leccarvi a vicenda le cose più strane». “Forse è vero”, pensai mentre accettavo il denaro e, romanticamente, mi dedicavo ad asciugare la vagina di Luciana, con uno scottex: “vogliamo sfidare la reciproca adorazione, e vedere dove si ferma”. In ogni caso, l’ingresso di casa puzzò di sperma e di fica finché noi partimmo, circa una settimana dopo, ma con quei soldi mi ci pagai il ritorno.
Torniamo a noi. La mattina dopo della scopata sulla sdraio, mi svegliai prima di Luciana. Mi preparai un caffè, ne misi in caldo uno per lei e tornai in camera a guardarla: dormiva con le sole mutandine, mentre i seni, schiacciati contro il petto dalla gravità, sembravano due taglie in meno: tette dipinte, spalmate sulla cute. Quante volte, da quando la conoscevo, avevo spruzzato il mio sperma tra quei seni? Quanti litri di seme avevo riversato sulla sua pelle, dentro di lei, dentro la curva del sedere? Conosceva la mia sborra meglio di me, e mi avrebbe dato un figlio: meritava di essere felice. Le diedi un bacio leggero sul pancione, poi scesi nel bar del residence a cercarle croissant, frutta, qualche dolce da accompagnare al caffè. Quando lo raggiunsi, oltre a me c’era una coppia che fino a quel momento non avevo mai visto: lui era un uomo di circa 40 anni, molto bello, alto, in tenuta estiva (sandali, una maglietta blu e dei pantaloncini kaki) ma elegante nel portamento; lei era una ragazza carina, magra, molto più ordinaria, con splendidi occhi e una bella abbronzatura, alta quasi quaranta centimetri meno di lui e con dei bei seni piccoli e ben tesi di cui mi accorsi di sentire la mancanza, come ne sentii per la pancia piatta e quasi muscolosa. Lei aveva shorts, ciabatte a fascia e un top che le lasciava scoperta la parte addominale. Quando entrai nella sala bar lei era in piedi accanto al distributore di spremute, mentre lui stava seduto al tavolino, a gambe larghe, in attesa. Quando ebbe riempito il bicchiere, lei si accorse di me e mi sorrise, poi raggiunse l’uomo e, invece di sederglisi di fronte, si accomodò su una delle sue gambe, parlandogli in italiano del cielo grigio e deludente, oltre la finestra. Io avevo quasi finito, quando mi accorsi che lui mi stava guardando.
Mi voltai, ricambiai lo sguardo e sorrisi. Sorrise anche lui.
«Voi siete quelli dell’ultimo piano», mi disse. «Vero?»
Annuii.
«Avete una splendida terrazza. Ogni giorno, quando c’è il tramonto, vi guardiamo invidiosi».
Lui rise, lei sorrise, io arrossii.
«Invidiamo il panorama», specificò. «Siamo negli appartamentini di fronte, ma non abbiamo terrazze. Vediamo solo voi».
«Beh, mi spiace», dissi. Dovevo sembrare ridicolo. Avevo mezzo bar tra le mani e l’arco degli avambracci.
«No, macché. Si sdebiti invitandoci a vedere il tramonto su da voi, ed è fatta. Porto qualche birra».
«Volentieri», risposi.
«Solo per noi tre, le birre. La sua compagna è incinta, dico bene?»
«Dice bene».
«Sesto mese».
«Più o meno. Si capisce?»
«Lo capisco io», disse, sorridendo. «Sono un medico. Riccardo G., piacere. E lei è Camilla».
Mi avvicinai, gli porsi l’avambraccio, rischiai di far crollare tre crostatine, rinunciai. Mi fecero cenno di non preoccuparmi, poi scambiammo due parole di circostanza sul tempo e sull’isola. Poi salutai, diedi appuntamento per quella sera al tramonto e tornai in camera da Luciana, che dormiva ancora.
Pensai a quei due, che avevano una differenza d’età simile alla nostra. Mi chiesi se ci avessero visto mentre scopavamo, e se scopassero così appassionatamente a loro volta. Mi eccitai. Abbassai il costume, mi tolsi la maglietta e mi chinai in coda al letto, per leccare i piedi di Luciana. Lo feci con dolcezza, senza svegliarla, ma godendomi ogni singolo dito, ogni curva, ogni punta acre del sapore della pelle, l’odore leggero. Mi rialzai e, con poche, rapide scrollate, eiaculai, rilasciandole lunghe strisce di sperma che partivano dallo smalto nero e le arrivavano alle caviglie. Fu un bell’orgasmo, e nei secondi immediatamente precedenti al picco di piacere pensai a quei due che fottevano contro il vetro della loro finestra, mentre io e Luciana, a nostra volta, facevamo l’amore sulla mia sdraio. Il mondo mi sembrò completamente interconnesso e legato dal sesso.
«Buongiorno», sentii.
«Buongiorno», risposi sorridente. «Oggi, colazione a letto».
[Continua]
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