La libreria
di
Lingham
genere
etero
Il fatto strano era che lui non amava i libri. Aveva sempre preferito sporcarsi le mani. Forse in parte perché aveva dovuto. Quando non hai scelta. Ti fai piacere la minestra che devi sorbire come fosse un risotto al tartufo. Ma quel luogo. Nascosto. Piccolo. In buona sostanza invisibile, per chi non lo cercasse esplicitamente. Quel luogo gli piaceva. Ci si sentiva a casa. Il profumo del cuoio. Quello si che gli era famigliare. Gli ricordava i suoi cavalli. Il suo piccolo laboratorio. Lassù tra le montagne, dove passava quasi tutti i suoi fine settimana. Spesso di notte amava starsene sdraiato sull’erba a guardare le stelle, ad immaginare disegni fantastici e fantasiosi unendo con linee immaginarie tutti quei puntini. Il libraio osservava con un sorriso sornione il giovane uomo, che sfiorava con reverente stupore quel libro di astronomia che si ritrovò improvvisamente sotto gli occhi, in cima alla pila di libri di cui quel piccolo regno di sapere era stracolmo. Gli era bastata un’occhiata. Una frazione di secondo in più del consentito. E aveva capito. Un’altra missione si preparava. Un’altra anima cercava un senso. Il fondo degli occhi di quel giovane bruciava. C’era tutto in quegli occhi trasparenti: dolore, rabbia, passione, orgoglio. Il librario in fondo lo invidiava. Avrebbe voluto anche lui avere ancora qualcosa per cui vibrare. Qualcosa che gli mangiasse le viscere. Gli mozzasse il respiro. Placasse le sue notti e tormentasse i suoi giorni. Avrebbe voluto che ci fosse ancora una Signora per lui. Una come Lei. Quella, da cui il giovane uomo stava cercando di allontanarsi. Quella, per la quale era approdato lì. Da lui.
Era inquieto. La schiena rigida. Le mani leggermente tremanti. Qualcosa lo divorava internamente. Piagava la sua anima e ossessionava la sua mente. Le Signore quelle vere fanno così. Pensava con una punta di ironica comprensione per il giovane il libraio. Ecco. Aveva trovato la scala. Il corrimano di lucido ebano. I gradini di legno coperti dalla moquette rosso carminio. Sorrideva. Ora. Al librario sembrava chiaramente di vederlo. Anche se di fatto il giovane gli dava le spalle. Sicuramente le lampade ad olio dalle elaborate volute in ferro battuto lo avevano affascinato. Aveva l’occhio dell’artista. Anche se forse ancora non lo sapeva. Scendeva sicuro. Nonostante la luce fosse fioca. Non c’era paura nel suo avanzare. Solo decisa curiosità. Si in quel giovane c’era molto di più . Più di quanto poteva apparire. Più di quanto lui stesso amasse mostrare.
Era arrivato in fondo alla scala. Davanti a lui si apriva una piccola stanza circolare. Completamente ricoperta di assi di legno scuro. Dal pavimento alle pareti. Due candelabri in argento molato spiccavano su un tavolo in lucido mogano che occupava il centro della stanza. Erano l’unica fonte luminosa in quello spazio. Una sedia dall’alto rigido schienale era collocata ad un lato del tavolo. Il cuoio scuro si accendeva di bagliori rossastri alla luce dei candelabri. Alcuni libri dai dorsi stampigliati in caratteri gotici giacevano negligentemente impilati al lato opposto del tavolo rispetto a quello in cui si trovava il giovane. E poi c’era lei. Cosa diavolo facesse lì. Come potesse sapere. Anche solo immaginare. Prevedere. Era cosa che colmava di rabbioso e ammirato stupore il giovane uomo. Era splendida. Ovviamente. Una gonna nera a tubino, con uno spacco dietro che le arrivava oltre la balza delle autoreggenti, l’elaborata camicia bianca di seta accarezzava lieve le curve dei suoi seni orgogliosi, le punte dei capezzoli che apparivano in penombra, il collo esile e slanciato che le conferiva un aspetto quasi altero su un viso perfetto contornato da riccioli mossi di capelli ramati, e labbra carnose e nervose, carne viva sotto quel rossetto dal colore terra di Siena. Dio se era bella. Sfrontatamente audace. Decisa. Violenta. Indomabile. Accidenti a lui. Chissà cosa gli era preso, quando aveva deciso di sfidarla. Non che avesse paura. Non di lei almeno. Ma di lui. Di se stesso. Di quello che avrebbe potuto fare. Del dove sarebbe potuto arrivare. Se solo lei avesse chiesto. Invece ordinava. E la belva in lui ruggiva in risposta. Sorrideva ironica al suo ruggire. E ordinava ancora. Ad ogni ordine ignorato. I segni sulla sua pelle fiorivano.
Se n’era andato. Aveva bisogno di spazio. Di mettere distanza tra se e il profumo di lei. Inebriante. Come i suoi occhi d’onice. E quel corpo dorato. Sorseggiava un liquido ambrato in un calice di cristallo, appoggiata alla parete. Sembrava un rapace in agguato. Sorrideva. Naturalmente. Tutto in lei sorrideva. A lui. I suoi occhi. Le sue labbra. I suoi seni. Il vertice sublime delle sue cosce. Quasi la odiava, quando lo avvolgeva in quel dannato sorriso. Totale. Lo disarmava. Cercò di darsi un contegno. Anche se, istintivamente, gli venivano due reazioni contrapposte: cadere in ginocchio, affondando il volto tra quelle cosce oppure afferrala e sbatterla contro la parete incollandosi con ogni centimetro di pelle al suo corpo. Solo che entrambe sarebbero state per lei una vittoria.
Lei si mosse repentina. Nello spazio di un sospiro il giovane si ritrovò riverso sul tavolo con la bocca della donna che affondava nei muscoli tesi del suo collo. E i denti. Assalto ferino. Affondati nella pelle chiara. Una. Due. Tre volte. Un sospiro di rabbioso piacere lo attraversò come una scossa. Il corpo della donna si premette contro il suo. Schiacciandolo.
Le gambe intrecciate. I polsi bloccati dalle mani di lei. I suoi seni spinti insistentemente contro il suo petto. I capezzoli turgidi erano una tortura. E quelle labbra. Dio voleva morderle. Vederle sanguinare. E poi leccare lentamente il sangue.
Le afferrò con la bocca, mentre aveva quei pensieri, e le succhiò prepotentemente i capezzoli, facendola gemere istintivamente. Questo non se lo aspettava, la Signora. incredula si lasciò leccare e succhiare da quella bocca veemente ed ingorda, e brividi inaspettati la invasero, unendosi e concentrandosi tutti tra le sue cosce, intimamente.
Appena riprese il possesso delle sue facoltà si divincolò e guardandolo fisso negli occhi gli disse: “Portami via, anche a casa tua, purché non sia distante. Devi scoparmi, subito, adesso!” La furia selvaggia. Il dominio istintivo. La bellezza avvolgente di quella iena rivestita di pizzo e cuoio nero erano le sue vere manette. Il suo guinzaglio quelli occhi di onice. Il suo collare il turgore di quella bocca dischiusa a marchiargli pelle e anima.
E lo fece rialzare, incurante della sue evidente erezione, e tenendolo per un braccio andò verso l’uscita, sotto lo sguardo quasi complice del libraio.
Un isolato li separava dall’appartamento di lui, ed appena si chiuse la porta dell’ascensore, lei gli si buttò addosso, divorandogli la bocca, e prendendogli la mano per portarsela sul pube, in mezzo alle cosce dove era infuocata all’inverosimile. Le dita la toccavano mentre lei quasi lo soffocava con la sua lingua invadente ed umida di saliva.
La porta di casa sbattè con un rumore secco dietro di loro e lui la buttò sul divano, e rispondendo a quei baci violenti, affondò la bocce sul collo, graffiandole la pelle con la barba, mentre si strappavano i vestiti di dosso.
Era quasi un peccato strapparle via quell’intimo così raffinato, fatto di pizzi e seta, ma lo faceva perché voleva farle capire che intendeva tenere le redini in mano, in quella corsa senza fiato.
Tornò ad inginocchiarsi in mezzo alle sue cosce, divaricandogliele completamente, e senza incontrare nessuna resistenza, strappando quel sottile tessuto imbevuto di umori che racchiudevano quel frutto odoroso e maturo.
Prese a leccarla, a succhiarla, sentendo con la lingua quelle labbra gonfie e carnose che non aveva mai conosciuto prima, e si sentiva tirare i capelli dalle mani di quella femmina in preda all’eccitazione ed alla lussuria più sfrenata.
“Mordimela, stronzo! Fammi male, strappamela, mangiamela! Così è troppo poco!”
La guardò e si chiese che cosa potesse fare più di quello che stava facendo.
E seguì quella voce, quegli ordini, perché erano ordini quelli.
Lei spingeva, muovendo i fianchi, gli andava contro col suo sesso bagnato per farsi sbranare, e lui faceva del suo meglio per soddisfarla.
Ad un certo punto, lei lo spostò via con un piede, e guardando,o gli disse “Devi scoparmi, devi sbattermi, voglio essere posseduta con violenza, devi farmi gridare dal dolore e dal piacere”. E dicendolo si voltò per essere presa da dietro.
Lui le accarezzò le natiche, e si chinò per leccarle la schiena attraversandole il solco fino a raggiungere nuovamente la carne umida che colava gocce di umori di un odore intenso. Con un movimento del bacino la penetrò, scivolando completamente dentro di lei, e tenendola per i fianchi cominciò a scoparla.
Respiri affannati, densi, di entrambi. Quel rumore secco dell’incontro tra pelle e pelle, tra carne e carne.
I colpi aumentavano e le sensazioni con essi.
Con le dita lei si toccava e sentiva che toccava anche lui mentre entrava ed usciva.
“Scopami, sbattimi, fammi male! Voglio tutto il tuo cazzo!” era quello che udiva dalla voce di lei, mentre affondava colpi furiosi dentro di lei, accarezzandole le natiche con una mano, e toccandole i seni con l’altra, per strizzarle i capezzoli duri e turgidi.
Ma non riusciva a dire una parola, era ipnotizzato da quella donna davanti a lui, oscenamente aperta davanti a lui, con la schiena inarcata, che ansimava e pronunciava frasi di delirante lussuria.
La scopava in silenzio, come se dovesse fare bella figura per non deluderla, senza pensare al suo piacere, ma solo al piacere di quella dea del sesso.
Avevano entrambi la pelle sudata, e l’odore di sesso in quella stanza era fortissimo. Il soggiorno ne era pieno, così come ne erano impregnati i cuscini del divano.
Lo fece sdraiare e gli fu sopra, ed iniziò a cavalcarlo, di fronte a lui, occhi negli occhi, entrando ed uscendo da quella donna infuocata! I seni che ondeggiavano paurosamente, la sentiva ancor più frenetica adesso, perché stava per godere, e non sapeva che cosa fare. Voleva resistere, per non deluderla, ma stava lottando con tutte le sue forse per trattenersi dal godere come stava per fare lei.
E nell’attimo in cui la senti tremare ed urlare sentendosi inondare dal suo orgasmo, la inondò rabbiosamente, prepotentemente, iniziando a singhiozzare, inspiegabilmente. Godeva e piangeva, riempiendola con i suoi fiotti densi e roventi.
Fu quello l’unico attimo di dolcezza che vide negli occhi e nei gesti di lei, mentre si sentì accarezzare quelle lacrime e si sentì baciare gli occhi, mentre erano ancora fusi insieme da quel momento di piacere inimmaginabile.
Era stato la sua preda.
E non sapeva nemmeno chi fosse.
Lei si sfilò da lui, esausta, lasciando che quel miele iniziasse a fuoriuscire mentre iniziava una lentissima danza sui fianchi di lui, che ancora ad occhi chiusi e bagnati stava ascoltando quelle sensazioni che non aveva mai provato prima.
Lo lasciò così, disteso sul tappeto, mentre si rivestiva, lasciando a terra l’intimo strappato che era ormai inservibile.
E se ne andò, chiudendosi la porta alle spalle.
In silenzio.
Tutto era silenzio ormai, lì dentro, ed anche fuori.
Solo sensazioni silenziose adesso.
La notte stava terminando, spegnendo tutte le stelle.
Non aveva fatto in tempo a tracciare quelle linee tra una stella e l’altra, quella sera.
Se lo avesse fatto, avrebbe scoperto che stava disegnando un buco nero, nel quale era caduto e dal quale non sarebbe più uscito, nonostante quella donna ormai era andata via da quella stanza.
Non era stato all’altezza, pensò. Non era stato così spietato come la Signora voleva.
Forse anche per lei, quello, era stato un buco nero, un buco nell’acqua.
Era inquieto. La schiena rigida. Le mani leggermente tremanti. Qualcosa lo divorava internamente. Piagava la sua anima e ossessionava la sua mente. Le Signore quelle vere fanno così. Pensava con una punta di ironica comprensione per il giovane il libraio. Ecco. Aveva trovato la scala. Il corrimano di lucido ebano. I gradini di legno coperti dalla moquette rosso carminio. Sorrideva. Ora. Al librario sembrava chiaramente di vederlo. Anche se di fatto il giovane gli dava le spalle. Sicuramente le lampade ad olio dalle elaborate volute in ferro battuto lo avevano affascinato. Aveva l’occhio dell’artista. Anche se forse ancora non lo sapeva. Scendeva sicuro. Nonostante la luce fosse fioca. Non c’era paura nel suo avanzare. Solo decisa curiosità. Si in quel giovane c’era molto di più . Più di quanto poteva apparire. Più di quanto lui stesso amasse mostrare.
Era arrivato in fondo alla scala. Davanti a lui si apriva una piccola stanza circolare. Completamente ricoperta di assi di legno scuro. Dal pavimento alle pareti. Due candelabri in argento molato spiccavano su un tavolo in lucido mogano che occupava il centro della stanza. Erano l’unica fonte luminosa in quello spazio. Una sedia dall’alto rigido schienale era collocata ad un lato del tavolo. Il cuoio scuro si accendeva di bagliori rossastri alla luce dei candelabri. Alcuni libri dai dorsi stampigliati in caratteri gotici giacevano negligentemente impilati al lato opposto del tavolo rispetto a quello in cui si trovava il giovane. E poi c’era lei. Cosa diavolo facesse lì. Come potesse sapere. Anche solo immaginare. Prevedere. Era cosa che colmava di rabbioso e ammirato stupore il giovane uomo. Era splendida. Ovviamente. Una gonna nera a tubino, con uno spacco dietro che le arrivava oltre la balza delle autoreggenti, l’elaborata camicia bianca di seta accarezzava lieve le curve dei suoi seni orgogliosi, le punte dei capezzoli che apparivano in penombra, il collo esile e slanciato che le conferiva un aspetto quasi altero su un viso perfetto contornato da riccioli mossi di capelli ramati, e labbra carnose e nervose, carne viva sotto quel rossetto dal colore terra di Siena. Dio se era bella. Sfrontatamente audace. Decisa. Violenta. Indomabile. Accidenti a lui. Chissà cosa gli era preso, quando aveva deciso di sfidarla. Non che avesse paura. Non di lei almeno. Ma di lui. Di se stesso. Di quello che avrebbe potuto fare. Del dove sarebbe potuto arrivare. Se solo lei avesse chiesto. Invece ordinava. E la belva in lui ruggiva in risposta. Sorrideva ironica al suo ruggire. E ordinava ancora. Ad ogni ordine ignorato. I segni sulla sua pelle fiorivano.
Se n’era andato. Aveva bisogno di spazio. Di mettere distanza tra se e il profumo di lei. Inebriante. Come i suoi occhi d’onice. E quel corpo dorato. Sorseggiava un liquido ambrato in un calice di cristallo, appoggiata alla parete. Sembrava un rapace in agguato. Sorrideva. Naturalmente. Tutto in lei sorrideva. A lui. I suoi occhi. Le sue labbra. I suoi seni. Il vertice sublime delle sue cosce. Quasi la odiava, quando lo avvolgeva in quel dannato sorriso. Totale. Lo disarmava. Cercò di darsi un contegno. Anche se, istintivamente, gli venivano due reazioni contrapposte: cadere in ginocchio, affondando il volto tra quelle cosce oppure afferrala e sbatterla contro la parete incollandosi con ogni centimetro di pelle al suo corpo. Solo che entrambe sarebbero state per lei una vittoria.
Lei si mosse repentina. Nello spazio di un sospiro il giovane si ritrovò riverso sul tavolo con la bocca della donna che affondava nei muscoli tesi del suo collo. E i denti. Assalto ferino. Affondati nella pelle chiara. Una. Due. Tre volte. Un sospiro di rabbioso piacere lo attraversò come una scossa. Il corpo della donna si premette contro il suo. Schiacciandolo.
Le gambe intrecciate. I polsi bloccati dalle mani di lei. I suoi seni spinti insistentemente contro il suo petto. I capezzoli turgidi erano una tortura. E quelle labbra. Dio voleva morderle. Vederle sanguinare. E poi leccare lentamente il sangue.
Le afferrò con la bocca, mentre aveva quei pensieri, e le succhiò prepotentemente i capezzoli, facendola gemere istintivamente. Questo non se lo aspettava, la Signora. incredula si lasciò leccare e succhiare da quella bocca veemente ed ingorda, e brividi inaspettati la invasero, unendosi e concentrandosi tutti tra le sue cosce, intimamente.
Appena riprese il possesso delle sue facoltà si divincolò e guardandolo fisso negli occhi gli disse: “Portami via, anche a casa tua, purché non sia distante. Devi scoparmi, subito, adesso!” La furia selvaggia. Il dominio istintivo. La bellezza avvolgente di quella iena rivestita di pizzo e cuoio nero erano le sue vere manette. Il suo guinzaglio quelli occhi di onice. Il suo collare il turgore di quella bocca dischiusa a marchiargli pelle e anima.
E lo fece rialzare, incurante della sue evidente erezione, e tenendolo per un braccio andò verso l’uscita, sotto lo sguardo quasi complice del libraio.
Un isolato li separava dall’appartamento di lui, ed appena si chiuse la porta dell’ascensore, lei gli si buttò addosso, divorandogli la bocca, e prendendogli la mano per portarsela sul pube, in mezzo alle cosce dove era infuocata all’inverosimile. Le dita la toccavano mentre lei quasi lo soffocava con la sua lingua invadente ed umida di saliva.
La porta di casa sbattè con un rumore secco dietro di loro e lui la buttò sul divano, e rispondendo a quei baci violenti, affondò la bocce sul collo, graffiandole la pelle con la barba, mentre si strappavano i vestiti di dosso.
Era quasi un peccato strapparle via quell’intimo così raffinato, fatto di pizzi e seta, ma lo faceva perché voleva farle capire che intendeva tenere le redini in mano, in quella corsa senza fiato.
Tornò ad inginocchiarsi in mezzo alle sue cosce, divaricandogliele completamente, e senza incontrare nessuna resistenza, strappando quel sottile tessuto imbevuto di umori che racchiudevano quel frutto odoroso e maturo.
Prese a leccarla, a succhiarla, sentendo con la lingua quelle labbra gonfie e carnose che non aveva mai conosciuto prima, e si sentiva tirare i capelli dalle mani di quella femmina in preda all’eccitazione ed alla lussuria più sfrenata.
“Mordimela, stronzo! Fammi male, strappamela, mangiamela! Così è troppo poco!”
La guardò e si chiese che cosa potesse fare più di quello che stava facendo.
E seguì quella voce, quegli ordini, perché erano ordini quelli.
Lei spingeva, muovendo i fianchi, gli andava contro col suo sesso bagnato per farsi sbranare, e lui faceva del suo meglio per soddisfarla.
Ad un certo punto, lei lo spostò via con un piede, e guardando,o gli disse “Devi scoparmi, devi sbattermi, voglio essere posseduta con violenza, devi farmi gridare dal dolore e dal piacere”. E dicendolo si voltò per essere presa da dietro.
Lui le accarezzò le natiche, e si chinò per leccarle la schiena attraversandole il solco fino a raggiungere nuovamente la carne umida che colava gocce di umori di un odore intenso. Con un movimento del bacino la penetrò, scivolando completamente dentro di lei, e tenendola per i fianchi cominciò a scoparla.
Respiri affannati, densi, di entrambi. Quel rumore secco dell’incontro tra pelle e pelle, tra carne e carne.
I colpi aumentavano e le sensazioni con essi.
Con le dita lei si toccava e sentiva che toccava anche lui mentre entrava ed usciva.
“Scopami, sbattimi, fammi male! Voglio tutto il tuo cazzo!” era quello che udiva dalla voce di lei, mentre affondava colpi furiosi dentro di lei, accarezzandole le natiche con una mano, e toccandole i seni con l’altra, per strizzarle i capezzoli duri e turgidi.
Ma non riusciva a dire una parola, era ipnotizzato da quella donna davanti a lui, oscenamente aperta davanti a lui, con la schiena inarcata, che ansimava e pronunciava frasi di delirante lussuria.
La scopava in silenzio, come se dovesse fare bella figura per non deluderla, senza pensare al suo piacere, ma solo al piacere di quella dea del sesso.
Avevano entrambi la pelle sudata, e l’odore di sesso in quella stanza era fortissimo. Il soggiorno ne era pieno, così come ne erano impregnati i cuscini del divano.
Lo fece sdraiare e gli fu sopra, ed iniziò a cavalcarlo, di fronte a lui, occhi negli occhi, entrando ed uscendo da quella donna infuocata! I seni che ondeggiavano paurosamente, la sentiva ancor più frenetica adesso, perché stava per godere, e non sapeva che cosa fare. Voleva resistere, per non deluderla, ma stava lottando con tutte le sue forse per trattenersi dal godere come stava per fare lei.
E nell’attimo in cui la senti tremare ed urlare sentendosi inondare dal suo orgasmo, la inondò rabbiosamente, prepotentemente, iniziando a singhiozzare, inspiegabilmente. Godeva e piangeva, riempiendola con i suoi fiotti densi e roventi.
Fu quello l’unico attimo di dolcezza che vide negli occhi e nei gesti di lei, mentre si sentì accarezzare quelle lacrime e si sentì baciare gli occhi, mentre erano ancora fusi insieme da quel momento di piacere inimmaginabile.
Era stato la sua preda.
E non sapeva nemmeno chi fosse.
Lei si sfilò da lui, esausta, lasciando che quel miele iniziasse a fuoriuscire mentre iniziava una lentissima danza sui fianchi di lui, che ancora ad occhi chiusi e bagnati stava ascoltando quelle sensazioni che non aveva mai provato prima.
Lo lasciò così, disteso sul tappeto, mentre si rivestiva, lasciando a terra l’intimo strappato che era ormai inservibile.
E se ne andò, chiudendosi la porta alle spalle.
In silenzio.
Tutto era silenzio ormai, lì dentro, ed anche fuori.
Solo sensazioni silenziose adesso.
La notte stava terminando, spegnendo tutte le stelle.
Non aveva fatto in tempo a tracciare quelle linee tra una stella e l’altra, quella sera.
Se lo avesse fatto, avrebbe scoperto che stava disegnando un buco nero, nel quale era caduto e dal quale non sarebbe più uscito, nonostante quella donna ormai era andata via da quella stanza.
Non era stato all’altezza, pensò. Non era stato così spietato come la Signora voleva.
Forse anche per lei, quello, era stato un buco nero, un buco nell’acqua.
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