Linda
di
genio di razza 604
genere
saffico
Se dovessi tentare di definirmi con una sola espressione, direi che Linda non ha molti problemi, è tutta una massa di problemi che cammina su due gambe: bellissime, per fortuna, eleganti, sottili e nervose, piene quanto si deve e che lasciano passare un po’ di luce quando accosto le ginocchia, come è detto in tutti i trattati sulla bellezza femminile; e sostengono fianchi armoniosi, ricchi, rotondi da pensare a un compasso che li ha disegnati, con natiche piene e leggermente spinte in alto, in stile ‘brasiliano’, direi, coi glutei che invitano ad accarezzare; il seno è abbondante, forse molto abbondante (ma nessuno ha mai detto che fosse troppo) con mammelle piene, carnose, aureole emergenti di un colore bruno vivace e due capezzoli che sembrano ciucciotti per neonati: molti vi si sono attaccati per succhiare amore, invece che latte per alimentarsi.
Il mio viso è quello di una dama rinascimentale come quelle che si vedono in quadri famosi; la sensazione è favorita anche dalla chioma folta, libera e mossa, di un colore rosso, guarda caso proprio tizianesco, che mi piace portare spesso libera di muoversi come una nuvola al vento e che, quando faccio l’amore, diventa uno strumento irresistibile di lussuria e godimento, quando la passo delicatamente sul corpo di chi sto amando o con cui sto solo copulando.
I problemi … dicevo; quelli sono quasi connaturati a me; i più concreti, forse i più seri, sono cominciati all’alba della mia vita, quando da ragazzina cominciai a frequentare la scuola, con enorme riluttanza, e la palestra dove mi comportavo da maschiaccio forse perché i miei si aspettavano che nascesse un maschio e invece si erano trovati di fronte ad una ‘pel di carota’ che esulava da ogni loro desiderio: vedermi allenare nella lotta libera e ‘mettere sotto’ ragazzi anche più grandi di me era motivo di orgoglio, per mio padre.
Per me era la radice del dolore: tutte le mie compagne di scuola, anche quelle più piccole di me, avevano già fatto le loro prime esperienze coi maschietti e ne parlavano in gran segreto nei bagni; io non riuscivo neanche ad immaginare il pisello di un ragazzo manipolato da me per farlo eccitare come risultava dai racconti delle altre, perché nessuno dei ragazzi era disposto a mettersi con una che ‘menava’ e mi sfuggivano come la peste.
Colmai il gap assai rapidamente, facendomi ‘svezzare’ dal più giovane dei bidelli che ci mise poco a farsi concupire da me e accettò volentieri di aprire la patta; di tirar fuori un fallo notevole, almeno per me e per la mia inesperienza; di appoggiarvi la mia mano e guidarmi nelle prime mosse della masturbazione; quando si sparse la voce che ero ‘veramente divina’ a masturbare, divenni la più ricercata della scuola e credo di essermi passati tutti i maschietti che la frequentavano.
Le cose, in classe, non andavano per il verso giusto ed ero costretta a salti mortali per tenermi al passo con gli altri; invece di applicarmi a quello che gli insegnanti dicevano, passavo più volentieri molte ore all’ultimo bianco, a tenere in mano gli uccelli dei ragazzi, che si alternavano nel mio banco e mi consentivano di infilare la mano in una tasca che, opportunamente tagliata dentro, consentiva l’accesso al fallo ed una masturbazione spesso lunghissima e lussuriosissima, al termine della quale, quelli che già ci riuscivano, eiaculavano nella mia mano e nel pantalone.
Le cose peggiorarono poco prima di affrontare l’istituto superiore, dopo aver superato con enormi difficoltà le medie; di punto in bianco, mio padre decise che dovevamo emigrare in un altro Paese, la Germania, e che lì avremmo dato vita ad una nuova attività, un ristorante italiano per il quale non arrivavo proprio a capire da dove prendesse i capitali per avviarlo; ma il suo sguardo severo e l’accettazione supina di mia madre bloccarono ogni mia domanda.
Cominciò così la seconda fase della mia educazione, scolastica ma anche e soprattutto sessuale: sul terreno della didattica, dovetti ricominciare da zero perché la lingua non mi ‘entrava’ e mi impediva di procedere; soffrii l’inferno, sotto la minaccia di essere tagliata fuori da qualunque corso scolastico e di essere ridotta all’analfabetismo più brutale; ma in qualche modo sopperii con una grande tenacia e con l’impegno alla lettura per mio conto, per cui riuscii anche a leggere e a parlare correntemente il tedesco; per la scrittura, le difficoltà durarono più a lungo.
Ma è sul terreno dell’educazione sessuale che mi trovai a dover effettuare una rincorsa con handicap: le ragazze tedesche erano molto più evolute e smaliziate di quelle calabresi (per di più di una provincia arretrata come quella del Silano) vincolate ad una condizione arcaica della donna nella società e imbrigliate da norme religiose, costumi atavici ed insegnamenti della nonna; tra le coetanee tedesche, trovai di quelle che addirittura si portavano in casa il ragazzo e copulavano allegramente nella loro cameretta con la benedizione del papà e della mamma, senza considerare le perversioni di cui avevo notizia nei ‘consulti’ che quasi ogni giorno si facevano nei bagni.
Trovai però il solito bidello giovane che non disdegnò, prima, di farsi masturbare e scoprire che avevo un naturale talento per la manipolazione del fallo; e, poi, mi avviò alla fellatio con tutta la calma e la sensibilità di cui fu capace, invitandomi delicatamente ad appoggiare prima le labbra, poi la lingua, sul suo membro ritto come un obelisco; appena mi fui avvezzata, mi convinse a prenderlo in bocca e succhiarlo con golosità, come fosse un dolce saporito; nel giro di due settimane, succhiavo, leccavo, ingoiavo e facevo impazzire la sua asta, i testicoli gonfi di sperma e il ventre tutto portandolo ad esplodere in orgasmi che lo sconvolgevano.
Perfino inutile dire che in pochissimo tempo si sparse la voce che ero una fellatrice eccezionale, naturalmente dotata; tutti i ragazzi del liceo, dai più piccoli agli ultraripetenti, vollero godere allora delle gioie delle mie labbra amorose; uno dei più anziani della scuola (uno che aveva ripetuto quasi metodicamente tutte le classi del corso) mi chiese se ero vergine di vulva e di sedere; gli dissi con estrema naturalezza che nessuno ci aveva provato; avevo solo sedici anni e neanche lui se la sentiva di rischiare un’accusa di pedofilia, se mi avesse violato l’imene: mi chiese allora se fossi disposta a farmi rompere il sedere con il suo fallo: con la massima incoscienza, pensando ad una ulteriore sfida di cui nessuno mi aveva mai parlato, gli dissi di si.
Quello stesso pomeriggio, in un turno di recupero, sparimmo nei bagni; lui si era premunito con un gel lubrificante con cui mi unse il perineo e l’ano, penetrando per alcuni centimetri nel canale rettale; poi infilò progressivamente da uno a tre dita nel retto e distese le pieghe dell’ano verificando la penetrabilità; quando vide che ero disponibile, con alcune avvertenze e raccomandazioni, mi infilò la mazza nel retto, tappandomi la bocca perché i miei urli non insospettissero i bidelli; quando mi fui assuefatta, spostai la mano e lo invitai a montarmi; il movimento nel retto mi mandò alle stelle: nel pieno di una libidine mai provata, sentii il sesso stimolarmi il retto ed esplodere in mille colori d’arcobaleno; fui quasi felice.
Da quel momento, il mio didietro diventò la sede meravigliosa in cui tutti i ragazzi del Liceo venivano a cercare il paradiso di Allah, scaricandomi nell’intestino la violenza delle loro tempeste ormonali; ed io mi sentii quasi completa come donna, anche se un minimo di rimorso mi nasceva ancora dalla parte che in me era rimasta sedimentata dell’educazione ricevuta in fanciullezza e dalla situazione familiare che ancora vedeva mio padre imperare su di noi e prono di fronte a qualcuno in Calabria, mia madre pronta a farsi tappetino alle sue voglie e mio fratello, con tutto il personale del ristorante, obbedire più a un capo quasi militare che a un padrone o, ancor più, a un padre; io non ci riuscivo affatto e le liti erano quotidiane, quasi.
Quando smisi con la scuola e accettai di lavorare con i miei nel loro locale, dovetti innanzitutto piegarmi ai dictat di mio padre che continuava a fare il calabrese in una terra dove certi costumi erano per lo meno improponibili; cambiai amicizie e frequentazioni, perdendo di vista anche il mio personale bengodi del sesso nell’istituto scolastico, nei bagni, nelle aule vuote, nei laboratori o nel gabbiotto dei bidelli; per un periodo che per me fu di eterna, inutile sofferenza, dovetti ‘restare a secco’ limitandomi a lunghe, esasperanti masturbazioni che non mi facevano mai raggiungere l’orgasmo desiderato, quello che avrebbe potuto procurarmi solo una mazza di carne piantata nel retto, che sollecitasse per qualche minuto le pareti interne e la mia sensibilità sessuale ed esplodesse poi in un arcobaleno di piacere dall’ano, dal ventre, dal cuore.
L’estate di quell’anno, il diciannovesimo per me, decidemmo di passarla in Italia, tra il paese d’origine e la località marina vicina; l’occasione valse a mio padre per incontrare persone, personaggi e personalità del suo ambiente e del suo lavoro: ritenevo anche che avesse incontrato i capi della struttura da cui dipendeva il suo ristorante; ma erano solo mie illazioni e le scacciai come pensieri molesti.
Io invece cercai di trarre vantaggio per rigenerarmi un poco, dopo il freddo del nord, al sole della Calabria; quasi per una cattiva sorte, mi trovai però a stretto contatto con alcuni ragazzi che erano emigrati, per lo più in Svizzera, e che come noi erano venuti a riprendere contatto con la realtà di provenienza, quasi una sorta di ‘pellegrinaggio laico sulle vestigia dei padri’; anche per loro, sospettai fortemente che il viaggio fosse una sorta di omaggio ad un ‘padrino’ o la ‘chiamata all’ordine’ da parte di qualcuno; anche in questo caso, seppellii i sospetti sotto un tappeto di disinteresse e lasciai stare.
In compenso, non ebbi né forza né voglia di rifiutarmi quando un ragazzo del gruppo mi invitò a passeggiare nella pineta che delimitava la spiaggia accompagnandola per un breve tratto: anche se sono passati relativamente pochi anni, non ricordo più neanche il nome di quel tizio sparito nelle nebbie delle memorie da cancellare subito dopo l’evento; eppure fu quello che baciai per la prima volta con un’intensità diversa, non con la voglia di sesso con cui lo avevo fatto prima, né con l’intenzione di fargli scoppiare il pene nelle mutande, per la libidine, come mi capitava spesso quando mi appartavo con uno che mi piacesse; stavolta la sensazione era che davvero con lui sarebbe stato diverso: senza saperlo, stavo passando dalla passione all’amore; e la cosa non mi disturbava, ma mi eccitava in maniera diversa e più profonda, nella testa, nel cuore, prima che nella vagina.
Quando ci appartammo dietro un pino più grosso degli altri, quasi non riuscivo ad immaginarmi cosa aspettarmi; non ci pensai mentre lo baciavo con immenso trasporto impossessandomi della sua lingua ed usandola come un piccolo pene per succhiarlo fino a fargli una fellatio anomala; e nemmeno mentre sentivo le sue mani artigliarmi le natiche e spingere il pube sul mio per strofinarli fino a che io mi sentii bagnata e lui sentì la sua asta gonfiarsi fino a scoppiare contro il mio monte di venere.
Non so e non voglio ricordare come fece a stendere sul pavimento di aghi di pino un largo telo da mare: mi ci trovai sdraiata completamente rilassata, incapace di iniziativa, aperta e a sua disposizione: l’unica cosa che mi faceva sentire viva erano le palpitazioni della mia vulva che sembrava ansiosa di prendere dentro il bastone di carne che picchiava contro e stimolava piaceri ancora sconosciuti; a malapena mi resi conto che mi sfilava il bikini, prima il reggiseno poi lo slip, e che ero completamente nuda fra le sue braccia: forse era quello che avevo voluto sin dal momento che l’avevo incontrato; sentii con profonda partecipazione che mi baciava appassionatamente, palpandomi le tette, infilando una mano tra di noi per titillarmi la vulva: non era una masturbazione né precisa né tecnica ma mi esaltava ai limiti della felicità e mi portò all’orgasmo.
Poi sentii che si rilassava un tantino, che prendeva ad accarezzarmi su tutto il corpo con minore agitazione, continuando senza sosta a baciarmi e a succhiare la mia lingua nella sua bocca, quasi mi stesse mangiando il clitoride; poi la sua mano passò dalla mia vulva al suo fallo e lo spostò delicatamente per appoggiare la cappella contro l’ingresso alla vagina; un colpo secco, quasi violento, una fitta di dolore, un piccolo bruciore e neppure mi resi conto che mi aveva sverginato; ci feci caso dopo, quando si staccò da me dopo avere eiaculato, rimproverandosi solo adesso di non aver usato un preservativo; le tracce di sangue sul mio e sul suo ventre mi procurarono un piacere suppletivo, all’idea che ormai ero veramente donna; lui si spaventò, accorgendosi solo allora di aver violato una vergine.
Non so se fu sopraffatto da quella che considerava un’enormità, se ebbe paura delle possibili conseguenze o se fu semplicemente richiamato ai suoi obblighi: fatto sta che sparì completamente dal mio orizzonte di vita e non ebbi mai più occasione di rivederlo: non provai nessun rimpianto; in compenso, da un lato, mi sentii libera adesso di copulare anche in vagina, visto che l’imene era stato eliminato; e, dall’altro lato, si acuì in me il senso di sfiducia e di disprezzo per i maschi tutti: fino a quel momento ero stata ostile perché ‘leggevo’ nel loro comportamento una grossa dose di ottusa e stupida bestialità, perché approfittavano della mia presunta debolezza per possedermi in ogni dove: più li trovavo bestie, più mi divertivo a consumare la loro ferocia; adesso potevo aggiungerci la vigliaccheria di fronte a qualcosa che avevano fatto e di cui lasciavano la responsabilità solo a me; il maschio cominciava a diventare, per me, un orpello addirittura inutile.
Me ne resi conto con maggiore coscienza quando, tornando a casa, in Germania, mi guardai intorno e non vidi brillare un sprazzo di luce tra i giovani che frequentavano il ristorante e quelli che incrociavo nelle ‘zingarate’ che organizzavamo tra amiche fedeli e vicine, quelle insomma alle quali si confessava tutto, anche l’indicibile a noi stesse, senza timore di essere giudicate o viste con sospetto: proprio questo particolare mi portava a guardare a loro come all’unico riferimento possibile.
Un paio di volte mi ero lasciata andare al ristorante e mi ero portata nei bagni dei bei ragazzi, ai quali avevo concesso una copula rapida, in piedi, di spalle, obbligandoli ad usare il preservativo per evitare pericoli di qualunque sorta; una volta, in particolare, mi ero accorta che mio padre, uscendo dal bagno degli uomini, aveva visto uscire da quello delle donne me e un avventore passato per caso: la faccia che fece era tutto un programma di minacce e punizioni, ma sostenni altera il suo sguardo e tirai via; poco dopo, vidi che mia madre gli parlava animatamente e capii che forse era riuscita a placare la sua ira; non mi disse niente e, in seguito, non fece nessun cenno all’episodio, segno che aveva digerito la novità che ‘sua figlia copulava’ e non si faceva più problemi su come passassi le serate e le notti: ormai ero maggiorenne e sapeva bene che non poteva interferire con la mia vita privata.
Invece, durante le famigerate ‘zingarate’, una sera che ci eravamo trattenute a bere con maggiore passione del solito, Joan, una delle amiche del gruppo, una bellissima bionda molto ben strutturata, muscolosa ma anche bella e femminile nei punti giusti, mi prese scherzosamente tra le braccia e mi sollevò in alto quasi come un fuscello: non rimasi impressionata dalla grande forza dimostrata (non sono un fuscello) ma piuttosto dal senso di calore che avevo sentito promanare dal suo corpo, fino ad inondare il mio e a provocarmi sensazioni ed emozioni dolcissime: per un attimo mi sentii languida, mi abbandonai a lei e avvertii qualcosa che avevo provato solo in pineta, in Calabria, quando lasciai che l’imbecille mi deflorasse: non so se in ambedue i casi fosse amore, ma certo ci andava molto vicino.
Mentre mi portava giù, Joan mi strofinava la schiena, a partire dalle natiche, e faceva in modo che le sue tette mi accarezzassero tutto il corpo, dal basso all’alto; quando il mio volto fu in corrispondenza del suo, mi trattenni a stento dal baciarla come se mi avesse colpito un fulmine.
“Quanto sei dolce!”
Mi sussurrò Joan.
“Ma non hai assaggiato niente!”
Risposi, non so perché provocatoria.
“Attenta che Joan su queste cose non scherza.”
Mi ammonì un’amica comune.
“Perché, credi che voglia scherzare?”
“Attenta, piccola che davvero mi piaci e io, quello che mi piace, me lo prendo!”
“Joan, perché continui a parlare come se fossimo su due lunghezze d’onda?”
“Tu hai già fatto l’amore con una donna?”
“No; ma non mi dispiacerebbe provarlo; e, se fosse con te, sono certa che mi piacerebbe.”
“Puoi fermarti a dormire da me, stanotte?”
“Nessun problema; basta che telefono a casa e avverto.”
“Chiama, allora; stasera stai con me; se reggi stiamo insieme; se non ce la fai, stasera non succede niente e domani mattina torni a casa tua.”
Joan aveva qualche anno più di noi, ma da tempo aveva fatto la sua scelta omosessuale e lo aveva comunicato a tutti; quindi sapevo perfettamente cosa era capitato e cosa mi aspettava; ma l’odio contro il maschio, la diffidenza in famiglia, il mio bisogno di trovare un affetto a cui vincolarmi, tutto mi portava inesorabilmente a valutare con estremo interesse l’ipotesi di trovare in Joan quel riferimento di cui avevo estremo bisogno; telefonai a casa e avvertii mia madre che mi fermavo a dormire da un’amica; poi presi Joan per la vita e la feci girare verso di me; mi fermò, forse per evitare il pubblico scandalo, e mi guidò verso il bagno delle donne,
“Te la senti davvero di essere la mia ragazza?”
“Mi fai fare una prova, per favore, prima di decidere?”
“Ma è proprio quello che ti chiedo. Te la senti di fare una prova?”
La spinsi dentro quasi con forza, chiusi la porta alle nostre spalle e mi trovai avvinta a lei che mi aveva abbracciato con forza: le sue labbra avevano il sapore delle fragole fresche, nascosto sotto l’aroma del tabacco che fumava, insieme a vago sentore di campo, a voglia di sesso e memoria di orgasmi ricevuti in bocca: o almeno così mi sembrava di cogliere da quel contatto straordinario, per me almeno; il suo ventre che si agitava sul mio mi provocava scosse di libidine mai sentite prima; una mano era scivolata sotto il bordo della minigonna e ora saliva verso l’inguine, afferrò con forza la vulva dal monte di venere all’ano e prese a frizionarmi con l’effetto di brividi enormi come da scosse elettriche, che mi agitarono il ventre per qualche secondo e mi fecero esplodere in un orgasmo mai provato prima.
“Intanto, mi fai godere come non mi è mai capitato; mi pare proprio che la chimica giusta ci possa essere.”
“Ragazza, non scherzare; l’amore è una cosa assai seria; se arrivo ad innamorarmi di te, posso renderti la vita difficile, perché decido che mi appartieni e tu non puoi più sottrarti al mio amore.”
“Joan, ascoltami; io non ho mai amato in vita mia; se mi innamoro di te sarà la prima ed unica volta, sarà per sempre; adesso, non parlare più; amami e fammi sentire cosa è un amore vero!”
“Non qui, ti prego, non in questa situazione squallida e provvisoria. Andiamo a casa, lascia che ti ami come è giusto e bello che sia, nella casa che, se vuoi, sarà anche la tua. Vieni via con me.”
Salutammo le amiche e andammo a casa sua: Joan viveva da anni da sola nel quartiere vecchio, alquanto malfamato, in un ambiente ricavato da un vecchio magazzino, un locale unico, soppalcato su un lato per ricavare la zona notte; la luce era data da ampi finestroni su un lato corto che affacciava sulla strada; a protezione, c’erano delle tende assai spesse che garantivano una certa penombra sufficiente a dormire o anche a stare svegli e a guardarsi senza vedersi bene, specialmente mentre si faceva l’amore: mi affascinarono subito la struttura dell’abitazione e il gusto che aveva dimostrato nell’arredarlo con poche cose, forse recuperate.
Joan mi fece sedere ad un tavolo, prese delle birre dal frigo e brindammo ‘al nostro amore’ come disse con una certa enfasi; mi alzai in piedi e la presi tra le braccia; posò la birra e mi catturò la bocca in un bacio che mi parve infinito; per molti secondi sentii la mia lingua catturata dalla sua bocca e succhiata come se fosse il clitoride: gli orgasmi, se non furono gli stessi, certamente furono intensi e numerosi; contemporaneamente, le sue mani correvano su tutto il corpo e il vestito veniva a mano a mano aperto e messo giù, sulla sedia; in breve, ero praticamente nuda, sul letto con lei.
In un crescendo delizioso di sensazioni e di percezioni, mi fece scoprire tutti i modi con cui, strusciando la pelle sul mio corpo, manipolando sapientemente tutte le zone erogene, riusciva a farmi toccare i vertici del piacere più intenso; quando la sua coscia muscolosa premeva sulla mia vulva, catturando in mezzo il clitoride, arrivavo all’orgasmo ancora prima che cominciasse a succhiarmi con voglia i capezzoli gonfi; quando si dedicava con cura quasi minuziosa a manipolarmi la vulva in cerca dei punti erogeni, anche quelli più nascosti e di cui non avevo mai avuto sentore, io cercavo inutilmente di prendere tra le mani il suo sesso, sperando di ricambiare una presa, una carezza, un titillamento: quasi sempre, lei era più lesta a provocarmi un nuovo orgasmo che mi faceva sballare.
Dopo meno di mezz’ora da che ci eravamo sdraiate, non sapevo neppure quante volte ero arrivata all’orgasmo; poi, quando prese da un comodino a fianco al letto un bastone nero, di plastica, che avevo solo intravisto qualche volta in mano a non so chi e per quale scopo, dovetti fare mente locale per rendermi conto che aveva la forma proprio di un fallo e che quindi si trattava di un dildo che stava per usare con me; subito dopo, vidi che lo succhiava quasi fosse davvero un membro, che me lo accostava alla vulva spalancata davanti a lei e che mi penetrava con calma e metodo.
Ancora una volta mi faceva godere e si risparmiava; in un momento di stasi, col dildo ben piantato in vagina, le chiesi perché non lasciasse che lo facevo io a lei; mi rispose che non occorreva e che, cambiando strumento, poteva accontentare tutte e due; difatti, mise da parte il dildo e prelevò dallo stesso cassetto una mutandina che recava in cima un arnese simile al precedente però incastrato nell’indumento; indossò le mutande, stando attenta a far coincidere la base del fallo artificiale, che sporgeva per molti centimetri verso l’interno, con l’accesso alla sua vagina; quando mi venne addosso, quasi come un maschio, e mi penetrò nella posizione conosciuta come ‘alla missionaria’, io avvertii nettamente la penetrazione della protesi fallica nella mia vagina fino all’utero, ma mi resi conto che, contemporaneamente, lei per effetto dello strofinio contro il mio sesso, si faceva stimolare dalla parte del fallo artificiale che era nella mutanda.
Poiché non dovevo tornare a casa, passammo la notte a copulare, Joan comportandosi da perfetto maschio, quasi con la stessa aggressività ma senza violenza, ed io comportandomi da perfetta moglie calabrese, supinamente prona alle voglie di un marito allupato ed aggressivo: mi possedette in tutti i modi, in tutti i buchi e con tutta la voglia di un amante voglioso; era quasi l’alba quando si accasciò affranta sul letto e cadde addormentata; mi strinsi a lei, l’abbracciai piantandole contro l’osso sacro il monte di venere che per qualche minuto stimolai col contatto; poi caddi pure io in un sonno profondo.
La mia storia con Joan cominciò quella sera e divenne progressivamente più impegnativa: non andai a vivere con lei, come pure avrebbe voluto, per non abbandonare la casa dei miei che era ancora il rifugio più sicuro; alcune sere, più fiacche per il lavoro al ristorante, mi esimevo dal servizio e scappavo a casa di Joan dove passavo anche la notte; ogni volta, le sessioni amorose erano di altissimo livello con pratiche sempre più avanzate, sempre più raffinate, sempre più lunghe; mio padre, dopo avere scoperto la figlia troia che copulava nei bagni del ristorante, si trovò a dover accettare anche la figlia lesbica che passava molte notti a settimana con l’altra troia, la sua amante, alla quale la figlia pareva legata più che ai genitori; la tenacia di mia madre e le pressioni dall’alto, a non creare scandali, lo fecero sopportare e zittire.
La cosa però sembrava tornare a suo vantaggio quando, un giorno, ebbe notizia dalla Calabria che sarebbe arrivato un giovane importante, figlio di un mammasantissima, al quale bisognava assicurare la migliore accoglienza possibile: non era detto chiaramente, ma si leggeva tra le righe che, nei desideri di ‘chi poteva’ era anche compresa una ‘dolce compagnia’ che rallegrasse le notti del ragazzo in visita alle attività all’estero: inutile dire che doveva trattarsi di una ragazza assai fidata e di indiscutibile fedeltà alla causa.
Mio padre colse l’occasione per piegarmi a sé: visto che mi comportavo da prostituta, almeno una volta facessi la libertina per favorire i suoi commerci: mettere a disposizione del rampollo importante addirittura sua figlia, poteva significare guadagnare tanti punti nella stima dei suoi capi che senza dubbio ne avrebbe garantito il ruolo e il potere ancora per molti anni; peraltro, per me non sarebbe stato certo un problema copulare con uno, piuttosto che con i tanti che incontravo nei bagni; mia madre, che all’inizio si sentiva ribellare all’ipotesi di usare la figlia in una trattativa così abietta, dovette però convincersi presto che, non avendo per figlia Maria Goretti, in fondo l’opinione del marito poteva anche essere tenuta in conto visto che, tra l’altro, io continuavo a vivere in casa e mio padre mi assicurava anche il lavoro per mantenermi.
Il mio recente innamoramento mi poneva però di fronte ad un grosso interrogativo di coscienza: fosse stato un maschio, il mio compagno, forse avrebbe potuto essere anche più semplice copulare con un forestiero di passaggio piuttosto che con un altro; ma, in quel caso, si trattava di venir meno ad un principio di fondo: io ormai ero sull’altra barricata e copulare con un maschio avrebbe significato tradire i principi stessi della mia vita.
Furono giorni difficili, nel corso dei quali mio padre arrivò a dettare più volte un ultimatum: se non accettavo di prostituirmi per la ‘famiglia’ questa mi avrebbe abbandonata, da sola, senza lavoro, con un curriculum approssimato senza titoli di studio o di lavoro e sarei veramente finita male; io tentavo di resistere facendo aggio sull’affetto paterno che, secondo me, non poteva arrivare a quegli eccessi; ma mia madre mi fece osservare che già in altre occasioni, padri come il mio avevano fatto scelte assolutamente impensate ed impreviste, creando precedenti pericolosissimi di figli allo sbando, di famiglie sfasciate e di faide intestine protrattesi nei decenni.
Ne parlai, doverosamente secondo me, anche con Joan per chiederle consiglio, e dovette convenire con mia madre che una corda troppo tirata poteva facilmente spezzarsi: mio padre aveva accettato da me troppi bocconi amari e indigesti che a stento era riuscito a mandare giù; stavolta, come appariva ormai chiaro, doveva scegliere tra la difesa di una figlia tutt’altro che ‘perbene’ e i dictat di un potere assoluto a cui era diventato suddito non appena aveva accettato l’incarico del ristorante; l’idea di mandare a monte il lavoro di anni per costruirsi una credibilità in Calabria prima che in Germania, gli toglieva letteralmente il sonno e la tensione che si toccava con le mani non faceva certo bene all’attività: se non avessi deciso in fretta, rischiavo di far scoppiare una guerra familiare; in quegli stessi giorni, venne notizia, dalla nostra provincia di origine, di una storia di sangue che aveva interessato per l’appunto una famiglia risultata ‘sgradita’ al punto che due giovani figli erano stati sorpresi mentre agivano alle spalle e contro il ‘sistema’ ed erano stati barbaramente trucidati in piazza.
Mio padre tremava letteralmente, quando udimmo la notizia dal telegiornale regionale che ricevevamo regolarmente grazie a potenti antenne installate, credo con una spesa notevole; immediatamente si mise al telefono e chiamò tutti i compaesani del territorio informandosi su figlie, nipoti e parenti varie per intercettare quella utile a fornire al ‘capo’ quello che aveva richiesto per il figlio; intanto, di sott’occhi, guardava me con un’aria tra il feroce e il disperato: mi vergognavo molto e corsi in cucina, trovai mia madre e le parlai; non intendevo affatto mettere nei guai mio padre e la famiglia ed avrei accettato di farmi possedere dallo sconosciuto calabrese, chiunque fosse, anche per tutta la durata del suo soggiorno; ma, subito dopo, me ne sarei andata per sempre e non avrei voluto più saperne di mio padre che disponeva di me come se fossi un mobile della cucina.
Mia madre mi invitò a riflettere su quest’ultima considerazione, perché, mi disse, lui aveva già sacrificato tutto il suo orgoglio per accettare la mia ‘ubriacatura di libertà’ che sicuramente non aveva niente né di logico né di razionale e forse neppure di corretto o di umano; toccava a me, adesso, abbassare un poco la cresta e andare incontro a una sua esigenza; inoltre, se avessi saputo scegliere l’atteggiamento col giovane ospite, niente mi impediva di chiedere proprio a lui una sistemazione successiva che mi liberasse dall’asservimento economico a mio padre.
“Se proprio devi prostituirti, almeno fallo con intelligenza; è uno stupido maschio; per quello che ne so è anche un bel ragazzo: con cinque giorni di frequentazione, oltre alle inevitabili copule, c’è tempo per circuirlo, irretirlo e farti garantire un posto di lavoro, anche di prestigio, che ti assicuri il futuro. Hai a che fare con un autentico potere, mafioso ma potere; se ti sai gestire, forse raddrizzi anche la tua vita.”
Ebbe ragione, mia madre; e non ci volle molto per capire che era stata molto oculata: il ragazzo non era il calabrese classico che mi aspettavo: uomo di gran bell’aspetto, elegante, garbato, dai modi raffinati mi piacque subito molto e, riflettendo, forse ci avrei fatto sesso anche senza le pressioni di mio padre; mi sentii una carogna, ma ormai tutto era spianato; riuscimmo perfino a far sembrare che, casualmente, io diventassi la sua accompagnatrice e la sua ombra; ne fu felice, e non lo diceva per cortesia: veramente sentivo che godeva a tenermi accanto, a toccarmi anche senza motivo, a cercare di sentire il calore del mio corpo.
Quando si trattò di sistemarsi per la notte, per un attimo lo guardai quasi interrogandolo.
“Ti va di dormire con me?”
“A te fa piacere?”
Non ci fu bisogno di altro; dopo neanche mezz’ora mi stava spogliando con una delicatezza che non ricordavo pari ed io facevo altrettanto; mi accarezzò a lungo e mi leccò dappertutto, prima di decidere di penetrarmi con un arnese bello grosso e bello duro; copulammo per tutta la notte e ci svegliammo all’alba col caffè che mi madre ci portò, ammiccando complice: con un largo sorriso le comunicai che era andata benissimo; mentre facevamo colazione a letto, il mio amante occasionale mi chiese dei rapporti con mio padre; gli dissi che aspettavo una qualsiasi sistemazione per rendermi indipendente ma che non c’erano molte prospettive; sorrise quasi con superiorità, prese il telefono e formò un numero; parlò a lungo, in stretto calabrese, e alla fine si limitò a comunicarmi.
“La prossima settimana un nostro uomo viene trasferito per motivi logistici ad altra sede; attualmente è il rappresentante della Concessionaria Alfa Romeo in città, ma non fa niente; in realtà coordina i nostri gruppi e di tanto in tanto organizza riunioni operative. Se ti va, dalla prossima settimana tu sarai la direttrice della concessionaria e risponderai poi solo a me di quello che fai o non fai; ti va di essere la mia sostituta in città?”
“Mi chiedi di entrare nell’organizzazione?”
“Perché? Ti illudi forse di esserne fuori? Quando si nasce in certe zone si è marchiati dalla nascita. Credi che mi faccia piacere quello che faccio? Devo ed ho imparato ad adeguarmi. Ti ripeto la domanda: te la senti di rappresentarmi qui in città a di essermi vicino ogni volta che vengo qui?”
“Messa così, essere la tua amante in questa città, mi sta anche meglio; io però ho già una compagna, una donna.”
“Bellissimo!!! E … dimmi … Credi che ci starebbe a fare qualcosa in tre? … Farlo con una lesbica sarebbe meraviglioso!”
“Perché pensi che sia lesbica?”
“Perché te ti ho verificato e sei femmina al cubo, anzi all’ennesima potenza; quindi lei deve per forza essere lesbica e, se mi procuri un appuntamento per un incontro a tre, ti faccio un trono d’oro come mia regina qui.”
Il mio viso è quello di una dama rinascimentale come quelle che si vedono in quadri famosi; la sensazione è favorita anche dalla chioma folta, libera e mossa, di un colore rosso, guarda caso proprio tizianesco, che mi piace portare spesso libera di muoversi come una nuvola al vento e che, quando faccio l’amore, diventa uno strumento irresistibile di lussuria e godimento, quando la passo delicatamente sul corpo di chi sto amando o con cui sto solo copulando.
I problemi … dicevo; quelli sono quasi connaturati a me; i più concreti, forse i più seri, sono cominciati all’alba della mia vita, quando da ragazzina cominciai a frequentare la scuola, con enorme riluttanza, e la palestra dove mi comportavo da maschiaccio forse perché i miei si aspettavano che nascesse un maschio e invece si erano trovati di fronte ad una ‘pel di carota’ che esulava da ogni loro desiderio: vedermi allenare nella lotta libera e ‘mettere sotto’ ragazzi anche più grandi di me era motivo di orgoglio, per mio padre.
Per me era la radice del dolore: tutte le mie compagne di scuola, anche quelle più piccole di me, avevano già fatto le loro prime esperienze coi maschietti e ne parlavano in gran segreto nei bagni; io non riuscivo neanche ad immaginare il pisello di un ragazzo manipolato da me per farlo eccitare come risultava dai racconti delle altre, perché nessuno dei ragazzi era disposto a mettersi con una che ‘menava’ e mi sfuggivano come la peste.
Colmai il gap assai rapidamente, facendomi ‘svezzare’ dal più giovane dei bidelli che ci mise poco a farsi concupire da me e accettò volentieri di aprire la patta; di tirar fuori un fallo notevole, almeno per me e per la mia inesperienza; di appoggiarvi la mia mano e guidarmi nelle prime mosse della masturbazione; quando si sparse la voce che ero ‘veramente divina’ a masturbare, divenni la più ricercata della scuola e credo di essermi passati tutti i maschietti che la frequentavano.
Le cose, in classe, non andavano per il verso giusto ed ero costretta a salti mortali per tenermi al passo con gli altri; invece di applicarmi a quello che gli insegnanti dicevano, passavo più volentieri molte ore all’ultimo bianco, a tenere in mano gli uccelli dei ragazzi, che si alternavano nel mio banco e mi consentivano di infilare la mano in una tasca che, opportunamente tagliata dentro, consentiva l’accesso al fallo ed una masturbazione spesso lunghissima e lussuriosissima, al termine della quale, quelli che già ci riuscivano, eiaculavano nella mia mano e nel pantalone.
Le cose peggiorarono poco prima di affrontare l’istituto superiore, dopo aver superato con enormi difficoltà le medie; di punto in bianco, mio padre decise che dovevamo emigrare in un altro Paese, la Germania, e che lì avremmo dato vita ad una nuova attività, un ristorante italiano per il quale non arrivavo proprio a capire da dove prendesse i capitali per avviarlo; ma il suo sguardo severo e l’accettazione supina di mia madre bloccarono ogni mia domanda.
Cominciò così la seconda fase della mia educazione, scolastica ma anche e soprattutto sessuale: sul terreno della didattica, dovetti ricominciare da zero perché la lingua non mi ‘entrava’ e mi impediva di procedere; soffrii l’inferno, sotto la minaccia di essere tagliata fuori da qualunque corso scolastico e di essere ridotta all’analfabetismo più brutale; ma in qualche modo sopperii con una grande tenacia e con l’impegno alla lettura per mio conto, per cui riuscii anche a leggere e a parlare correntemente il tedesco; per la scrittura, le difficoltà durarono più a lungo.
Ma è sul terreno dell’educazione sessuale che mi trovai a dover effettuare una rincorsa con handicap: le ragazze tedesche erano molto più evolute e smaliziate di quelle calabresi (per di più di una provincia arretrata come quella del Silano) vincolate ad una condizione arcaica della donna nella società e imbrigliate da norme religiose, costumi atavici ed insegnamenti della nonna; tra le coetanee tedesche, trovai di quelle che addirittura si portavano in casa il ragazzo e copulavano allegramente nella loro cameretta con la benedizione del papà e della mamma, senza considerare le perversioni di cui avevo notizia nei ‘consulti’ che quasi ogni giorno si facevano nei bagni.
Trovai però il solito bidello giovane che non disdegnò, prima, di farsi masturbare e scoprire che avevo un naturale talento per la manipolazione del fallo; e, poi, mi avviò alla fellatio con tutta la calma e la sensibilità di cui fu capace, invitandomi delicatamente ad appoggiare prima le labbra, poi la lingua, sul suo membro ritto come un obelisco; appena mi fui avvezzata, mi convinse a prenderlo in bocca e succhiarlo con golosità, come fosse un dolce saporito; nel giro di due settimane, succhiavo, leccavo, ingoiavo e facevo impazzire la sua asta, i testicoli gonfi di sperma e il ventre tutto portandolo ad esplodere in orgasmi che lo sconvolgevano.
Perfino inutile dire che in pochissimo tempo si sparse la voce che ero una fellatrice eccezionale, naturalmente dotata; tutti i ragazzi del liceo, dai più piccoli agli ultraripetenti, vollero godere allora delle gioie delle mie labbra amorose; uno dei più anziani della scuola (uno che aveva ripetuto quasi metodicamente tutte le classi del corso) mi chiese se ero vergine di vulva e di sedere; gli dissi con estrema naturalezza che nessuno ci aveva provato; avevo solo sedici anni e neanche lui se la sentiva di rischiare un’accusa di pedofilia, se mi avesse violato l’imene: mi chiese allora se fossi disposta a farmi rompere il sedere con il suo fallo: con la massima incoscienza, pensando ad una ulteriore sfida di cui nessuno mi aveva mai parlato, gli dissi di si.
Quello stesso pomeriggio, in un turno di recupero, sparimmo nei bagni; lui si era premunito con un gel lubrificante con cui mi unse il perineo e l’ano, penetrando per alcuni centimetri nel canale rettale; poi infilò progressivamente da uno a tre dita nel retto e distese le pieghe dell’ano verificando la penetrabilità; quando vide che ero disponibile, con alcune avvertenze e raccomandazioni, mi infilò la mazza nel retto, tappandomi la bocca perché i miei urli non insospettissero i bidelli; quando mi fui assuefatta, spostai la mano e lo invitai a montarmi; il movimento nel retto mi mandò alle stelle: nel pieno di una libidine mai provata, sentii il sesso stimolarmi il retto ed esplodere in mille colori d’arcobaleno; fui quasi felice.
Da quel momento, il mio didietro diventò la sede meravigliosa in cui tutti i ragazzi del Liceo venivano a cercare il paradiso di Allah, scaricandomi nell’intestino la violenza delle loro tempeste ormonali; ed io mi sentii quasi completa come donna, anche se un minimo di rimorso mi nasceva ancora dalla parte che in me era rimasta sedimentata dell’educazione ricevuta in fanciullezza e dalla situazione familiare che ancora vedeva mio padre imperare su di noi e prono di fronte a qualcuno in Calabria, mia madre pronta a farsi tappetino alle sue voglie e mio fratello, con tutto il personale del ristorante, obbedire più a un capo quasi militare che a un padrone o, ancor più, a un padre; io non ci riuscivo affatto e le liti erano quotidiane, quasi.
Quando smisi con la scuola e accettai di lavorare con i miei nel loro locale, dovetti innanzitutto piegarmi ai dictat di mio padre che continuava a fare il calabrese in una terra dove certi costumi erano per lo meno improponibili; cambiai amicizie e frequentazioni, perdendo di vista anche il mio personale bengodi del sesso nell’istituto scolastico, nei bagni, nelle aule vuote, nei laboratori o nel gabbiotto dei bidelli; per un periodo che per me fu di eterna, inutile sofferenza, dovetti ‘restare a secco’ limitandomi a lunghe, esasperanti masturbazioni che non mi facevano mai raggiungere l’orgasmo desiderato, quello che avrebbe potuto procurarmi solo una mazza di carne piantata nel retto, che sollecitasse per qualche minuto le pareti interne e la mia sensibilità sessuale ed esplodesse poi in un arcobaleno di piacere dall’ano, dal ventre, dal cuore.
L’estate di quell’anno, il diciannovesimo per me, decidemmo di passarla in Italia, tra il paese d’origine e la località marina vicina; l’occasione valse a mio padre per incontrare persone, personaggi e personalità del suo ambiente e del suo lavoro: ritenevo anche che avesse incontrato i capi della struttura da cui dipendeva il suo ristorante; ma erano solo mie illazioni e le scacciai come pensieri molesti.
Io invece cercai di trarre vantaggio per rigenerarmi un poco, dopo il freddo del nord, al sole della Calabria; quasi per una cattiva sorte, mi trovai però a stretto contatto con alcuni ragazzi che erano emigrati, per lo più in Svizzera, e che come noi erano venuti a riprendere contatto con la realtà di provenienza, quasi una sorta di ‘pellegrinaggio laico sulle vestigia dei padri’; anche per loro, sospettai fortemente che il viaggio fosse una sorta di omaggio ad un ‘padrino’ o la ‘chiamata all’ordine’ da parte di qualcuno; anche in questo caso, seppellii i sospetti sotto un tappeto di disinteresse e lasciai stare.
In compenso, non ebbi né forza né voglia di rifiutarmi quando un ragazzo del gruppo mi invitò a passeggiare nella pineta che delimitava la spiaggia accompagnandola per un breve tratto: anche se sono passati relativamente pochi anni, non ricordo più neanche il nome di quel tizio sparito nelle nebbie delle memorie da cancellare subito dopo l’evento; eppure fu quello che baciai per la prima volta con un’intensità diversa, non con la voglia di sesso con cui lo avevo fatto prima, né con l’intenzione di fargli scoppiare il pene nelle mutande, per la libidine, come mi capitava spesso quando mi appartavo con uno che mi piacesse; stavolta la sensazione era che davvero con lui sarebbe stato diverso: senza saperlo, stavo passando dalla passione all’amore; e la cosa non mi disturbava, ma mi eccitava in maniera diversa e più profonda, nella testa, nel cuore, prima che nella vagina.
Quando ci appartammo dietro un pino più grosso degli altri, quasi non riuscivo ad immaginarmi cosa aspettarmi; non ci pensai mentre lo baciavo con immenso trasporto impossessandomi della sua lingua ed usandola come un piccolo pene per succhiarlo fino a fargli una fellatio anomala; e nemmeno mentre sentivo le sue mani artigliarmi le natiche e spingere il pube sul mio per strofinarli fino a che io mi sentii bagnata e lui sentì la sua asta gonfiarsi fino a scoppiare contro il mio monte di venere.
Non so e non voglio ricordare come fece a stendere sul pavimento di aghi di pino un largo telo da mare: mi ci trovai sdraiata completamente rilassata, incapace di iniziativa, aperta e a sua disposizione: l’unica cosa che mi faceva sentire viva erano le palpitazioni della mia vulva che sembrava ansiosa di prendere dentro il bastone di carne che picchiava contro e stimolava piaceri ancora sconosciuti; a malapena mi resi conto che mi sfilava il bikini, prima il reggiseno poi lo slip, e che ero completamente nuda fra le sue braccia: forse era quello che avevo voluto sin dal momento che l’avevo incontrato; sentii con profonda partecipazione che mi baciava appassionatamente, palpandomi le tette, infilando una mano tra di noi per titillarmi la vulva: non era una masturbazione né precisa né tecnica ma mi esaltava ai limiti della felicità e mi portò all’orgasmo.
Poi sentii che si rilassava un tantino, che prendeva ad accarezzarmi su tutto il corpo con minore agitazione, continuando senza sosta a baciarmi e a succhiare la mia lingua nella sua bocca, quasi mi stesse mangiando il clitoride; poi la sua mano passò dalla mia vulva al suo fallo e lo spostò delicatamente per appoggiare la cappella contro l’ingresso alla vagina; un colpo secco, quasi violento, una fitta di dolore, un piccolo bruciore e neppure mi resi conto che mi aveva sverginato; ci feci caso dopo, quando si staccò da me dopo avere eiaculato, rimproverandosi solo adesso di non aver usato un preservativo; le tracce di sangue sul mio e sul suo ventre mi procurarono un piacere suppletivo, all’idea che ormai ero veramente donna; lui si spaventò, accorgendosi solo allora di aver violato una vergine.
Non so se fu sopraffatto da quella che considerava un’enormità, se ebbe paura delle possibili conseguenze o se fu semplicemente richiamato ai suoi obblighi: fatto sta che sparì completamente dal mio orizzonte di vita e non ebbi mai più occasione di rivederlo: non provai nessun rimpianto; in compenso, da un lato, mi sentii libera adesso di copulare anche in vagina, visto che l’imene era stato eliminato; e, dall’altro lato, si acuì in me il senso di sfiducia e di disprezzo per i maschi tutti: fino a quel momento ero stata ostile perché ‘leggevo’ nel loro comportamento una grossa dose di ottusa e stupida bestialità, perché approfittavano della mia presunta debolezza per possedermi in ogni dove: più li trovavo bestie, più mi divertivo a consumare la loro ferocia; adesso potevo aggiungerci la vigliaccheria di fronte a qualcosa che avevano fatto e di cui lasciavano la responsabilità solo a me; il maschio cominciava a diventare, per me, un orpello addirittura inutile.
Me ne resi conto con maggiore coscienza quando, tornando a casa, in Germania, mi guardai intorno e non vidi brillare un sprazzo di luce tra i giovani che frequentavano il ristorante e quelli che incrociavo nelle ‘zingarate’ che organizzavamo tra amiche fedeli e vicine, quelle insomma alle quali si confessava tutto, anche l’indicibile a noi stesse, senza timore di essere giudicate o viste con sospetto: proprio questo particolare mi portava a guardare a loro come all’unico riferimento possibile.
Un paio di volte mi ero lasciata andare al ristorante e mi ero portata nei bagni dei bei ragazzi, ai quali avevo concesso una copula rapida, in piedi, di spalle, obbligandoli ad usare il preservativo per evitare pericoli di qualunque sorta; una volta, in particolare, mi ero accorta che mio padre, uscendo dal bagno degli uomini, aveva visto uscire da quello delle donne me e un avventore passato per caso: la faccia che fece era tutto un programma di minacce e punizioni, ma sostenni altera il suo sguardo e tirai via; poco dopo, vidi che mia madre gli parlava animatamente e capii che forse era riuscita a placare la sua ira; non mi disse niente e, in seguito, non fece nessun cenno all’episodio, segno che aveva digerito la novità che ‘sua figlia copulava’ e non si faceva più problemi su come passassi le serate e le notti: ormai ero maggiorenne e sapeva bene che non poteva interferire con la mia vita privata.
Invece, durante le famigerate ‘zingarate’, una sera che ci eravamo trattenute a bere con maggiore passione del solito, Joan, una delle amiche del gruppo, una bellissima bionda molto ben strutturata, muscolosa ma anche bella e femminile nei punti giusti, mi prese scherzosamente tra le braccia e mi sollevò in alto quasi come un fuscello: non rimasi impressionata dalla grande forza dimostrata (non sono un fuscello) ma piuttosto dal senso di calore che avevo sentito promanare dal suo corpo, fino ad inondare il mio e a provocarmi sensazioni ed emozioni dolcissime: per un attimo mi sentii languida, mi abbandonai a lei e avvertii qualcosa che avevo provato solo in pineta, in Calabria, quando lasciai che l’imbecille mi deflorasse: non so se in ambedue i casi fosse amore, ma certo ci andava molto vicino.
Mentre mi portava giù, Joan mi strofinava la schiena, a partire dalle natiche, e faceva in modo che le sue tette mi accarezzassero tutto il corpo, dal basso all’alto; quando il mio volto fu in corrispondenza del suo, mi trattenni a stento dal baciarla come se mi avesse colpito un fulmine.
“Quanto sei dolce!”
Mi sussurrò Joan.
“Ma non hai assaggiato niente!”
Risposi, non so perché provocatoria.
“Attenta che Joan su queste cose non scherza.”
Mi ammonì un’amica comune.
“Perché, credi che voglia scherzare?”
“Attenta, piccola che davvero mi piaci e io, quello che mi piace, me lo prendo!”
“Joan, perché continui a parlare come se fossimo su due lunghezze d’onda?”
“Tu hai già fatto l’amore con una donna?”
“No; ma non mi dispiacerebbe provarlo; e, se fosse con te, sono certa che mi piacerebbe.”
“Puoi fermarti a dormire da me, stanotte?”
“Nessun problema; basta che telefono a casa e avverto.”
“Chiama, allora; stasera stai con me; se reggi stiamo insieme; se non ce la fai, stasera non succede niente e domani mattina torni a casa tua.”
Joan aveva qualche anno più di noi, ma da tempo aveva fatto la sua scelta omosessuale e lo aveva comunicato a tutti; quindi sapevo perfettamente cosa era capitato e cosa mi aspettava; ma l’odio contro il maschio, la diffidenza in famiglia, il mio bisogno di trovare un affetto a cui vincolarmi, tutto mi portava inesorabilmente a valutare con estremo interesse l’ipotesi di trovare in Joan quel riferimento di cui avevo estremo bisogno; telefonai a casa e avvertii mia madre che mi fermavo a dormire da un’amica; poi presi Joan per la vita e la feci girare verso di me; mi fermò, forse per evitare il pubblico scandalo, e mi guidò verso il bagno delle donne,
“Te la senti davvero di essere la mia ragazza?”
“Mi fai fare una prova, per favore, prima di decidere?”
“Ma è proprio quello che ti chiedo. Te la senti di fare una prova?”
La spinsi dentro quasi con forza, chiusi la porta alle nostre spalle e mi trovai avvinta a lei che mi aveva abbracciato con forza: le sue labbra avevano il sapore delle fragole fresche, nascosto sotto l’aroma del tabacco che fumava, insieme a vago sentore di campo, a voglia di sesso e memoria di orgasmi ricevuti in bocca: o almeno così mi sembrava di cogliere da quel contatto straordinario, per me almeno; il suo ventre che si agitava sul mio mi provocava scosse di libidine mai sentite prima; una mano era scivolata sotto il bordo della minigonna e ora saliva verso l’inguine, afferrò con forza la vulva dal monte di venere all’ano e prese a frizionarmi con l’effetto di brividi enormi come da scosse elettriche, che mi agitarono il ventre per qualche secondo e mi fecero esplodere in un orgasmo mai provato prima.
“Intanto, mi fai godere come non mi è mai capitato; mi pare proprio che la chimica giusta ci possa essere.”
“Ragazza, non scherzare; l’amore è una cosa assai seria; se arrivo ad innamorarmi di te, posso renderti la vita difficile, perché decido che mi appartieni e tu non puoi più sottrarti al mio amore.”
“Joan, ascoltami; io non ho mai amato in vita mia; se mi innamoro di te sarà la prima ed unica volta, sarà per sempre; adesso, non parlare più; amami e fammi sentire cosa è un amore vero!”
“Non qui, ti prego, non in questa situazione squallida e provvisoria. Andiamo a casa, lascia che ti ami come è giusto e bello che sia, nella casa che, se vuoi, sarà anche la tua. Vieni via con me.”
Salutammo le amiche e andammo a casa sua: Joan viveva da anni da sola nel quartiere vecchio, alquanto malfamato, in un ambiente ricavato da un vecchio magazzino, un locale unico, soppalcato su un lato per ricavare la zona notte; la luce era data da ampi finestroni su un lato corto che affacciava sulla strada; a protezione, c’erano delle tende assai spesse che garantivano una certa penombra sufficiente a dormire o anche a stare svegli e a guardarsi senza vedersi bene, specialmente mentre si faceva l’amore: mi affascinarono subito la struttura dell’abitazione e il gusto che aveva dimostrato nell’arredarlo con poche cose, forse recuperate.
Joan mi fece sedere ad un tavolo, prese delle birre dal frigo e brindammo ‘al nostro amore’ come disse con una certa enfasi; mi alzai in piedi e la presi tra le braccia; posò la birra e mi catturò la bocca in un bacio che mi parve infinito; per molti secondi sentii la mia lingua catturata dalla sua bocca e succhiata come se fosse il clitoride: gli orgasmi, se non furono gli stessi, certamente furono intensi e numerosi; contemporaneamente, le sue mani correvano su tutto il corpo e il vestito veniva a mano a mano aperto e messo giù, sulla sedia; in breve, ero praticamente nuda, sul letto con lei.
In un crescendo delizioso di sensazioni e di percezioni, mi fece scoprire tutti i modi con cui, strusciando la pelle sul mio corpo, manipolando sapientemente tutte le zone erogene, riusciva a farmi toccare i vertici del piacere più intenso; quando la sua coscia muscolosa premeva sulla mia vulva, catturando in mezzo il clitoride, arrivavo all’orgasmo ancora prima che cominciasse a succhiarmi con voglia i capezzoli gonfi; quando si dedicava con cura quasi minuziosa a manipolarmi la vulva in cerca dei punti erogeni, anche quelli più nascosti e di cui non avevo mai avuto sentore, io cercavo inutilmente di prendere tra le mani il suo sesso, sperando di ricambiare una presa, una carezza, un titillamento: quasi sempre, lei era più lesta a provocarmi un nuovo orgasmo che mi faceva sballare.
Dopo meno di mezz’ora da che ci eravamo sdraiate, non sapevo neppure quante volte ero arrivata all’orgasmo; poi, quando prese da un comodino a fianco al letto un bastone nero, di plastica, che avevo solo intravisto qualche volta in mano a non so chi e per quale scopo, dovetti fare mente locale per rendermi conto che aveva la forma proprio di un fallo e che quindi si trattava di un dildo che stava per usare con me; subito dopo, vidi che lo succhiava quasi fosse davvero un membro, che me lo accostava alla vulva spalancata davanti a lei e che mi penetrava con calma e metodo.
Ancora una volta mi faceva godere e si risparmiava; in un momento di stasi, col dildo ben piantato in vagina, le chiesi perché non lasciasse che lo facevo io a lei; mi rispose che non occorreva e che, cambiando strumento, poteva accontentare tutte e due; difatti, mise da parte il dildo e prelevò dallo stesso cassetto una mutandina che recava in cima un arnese simile al precedente però incastrato nell’indumento; indossò le mutande, stando attenta a far coincidere la base del fallo artificiale, che sporgeva per molti centimetri verso l’interno, con l’accesso alla sua vagina; quando mi venne addosso, quasi come un maschio, e mi penetrò nella posizione conosciuta come ‘alla missionaria’, io avvertii nettamente la penetrazione della protesi fallica nella mia vagina fino all’utero, ma mi resi conto che, contemporaneamente, lei per effetto dello strofinio contro il mio sesso, si faceva stimolare dalla parte del fallo artificiale che era nella mutanda.
Poiché non dovevo tornare a casa, passammo la notte a copulare, Joan comportandosi da perfetto maschio, quasi con la stessa aggressività ma senza violenza, ed io comportandomi da perfetta moglie calabrese, supinamente prona alle voglie di un marito allupato ed aggressivo: mi possedette in tutti i modi, in tutti i buchi e con tutta la voglia di un amante voglioso; era quasi l’alba quando si accasciò affranta sul letto e cadde addormentata; mi strinsi a lei, l’abbracciai piantandole contro l’osso sacro il monte di venere che per qualche minuto stimolai col contatto; poi caddi pure io in un sonno profondo.
La mia storia con Joan cominciò quella sera e divenne progressivamente più impegnativa: non andai a vivere con lei, come pure avrebbe voluto, per non abbandonare la casa dei miei che era ancora il rifugio più sicuro; alcune sere, più fiacche per il lavoro al ristorante, mi esimevo dal servizio e scappavo a casa di Joan dove passavo anche la notte; ogni volta, le sessioni amorose erano di altissimo livello con pratiche sempre più avanzate, sempre più raffinate, sempre più lunghe; mio padre, dopo avere scoperto la figlia troia che copulava nei bagni del ristorante, si trovò a dover accettare anche la figlia lesbica che passava molte notti a settimana con l’altra troia, la sua amante, alla quale la figlia pareva legata più che ai genitori; la tenacia di mia madre e le pressioni dall’alto, a non creare scandali, lo fecero sopportare e zittire.
La cosa però sembrava tornare a suo vantaggio quando, un giorno, ebbe notizia dalla Calabria che sarebbe arrivato un giovane importante, figlio di un mammasantissima, al quale bisognava assicurare la migliore accoglienza possibile: non era detto chiaramente, ma si leggeva tra le righe che, nei desideri di ‘chi poteva’ era anche compresa una ‘dolce compagnia’ che rallegrasse le notti del ragazzo in visita alle attività all’estero: inutile dire che doveva trattarsi di una ragazza assai fidata e di indiscutibile fedeltà alla causa.
Mio padre colse l’occasione per piegarmi a sé: visto che mi comportavo da prostituta, almeno una volta facessi la libertina per favorire i suoi commerci: mettere a disposizione del rampollo importante addirittura sua figlia, poteva significare guadagnare tanti punti nella stima dei suoi capi che senza dubbio ne avrebbe garantito il ruolo e il potere ancora per molti anni; peraltro, per me non sarebbe stato certo un problema copulare con uno, piuttosto che con i tanti che incontravo nei bagni; mia madre, che all’inizio si sentiva ribellare all’ipotesi di usare la figlia in una trattativa così abietta, dovette però convincersi presto che, non avendo per figlia Maria Goretti, in fondo l’opinione del marito poteva anche essere tenuta in conto visto che, tra l’altro, io continuavo a vivere in casa e mio padre mi assicurava anche il lavoro per mantenermi.
Il mio recente innamoramento mi poneva però di fronte ad un grosso interrogativo di coscienza: fosse stato un maschio, il mio compagno, forse avrebbe potuto essere anche più semplice copulare con un forestiero di passaggio piuttosto che con un altro; ma, in quel caso, si trattava di venir meno ad un principio di fondo: io ormai ero sull’altra barricata e copulare con un maschio avrebbe significato tradire i principi stessi della mia vita.
Furono giorni difficili, nel corso dei quali mio padre arrivò a dettare più volte un ultimatum: se non accettavo di prostituirmi per la ‘famiglia’ questa mi avrebbe abbandonata, da sola, senza lavoro, con un curriculum approssimato senza titoli di studio o di lavoro e sarei veramente finita male; io tentavo di resistere facendo aggio sull’affetto paterno che, secondo me, non poteva arrivare a quegli eccessi; ma mia madre mi fece osservare che già in altre occasioni, padri come il mio avevano fatto scelte assolutamente impensate ed impreviste, creando precedenti pericolosissimi di figli allo sbando, di famiglie sfasciate e di faide intestine protrattesi nei decenni.
Ne parlai, doverosamente secondo me, anche con Joan per chiederle consiglio, e dovette convenire con mia madre che una corda troppo tirata poteva facilmente spezzarsi: mio padre aveva accettato da me troppi bocconi amari e indigesti che a stento era riuscito a mandare giù; stavolta, come appariva ormai chiaro, doveva scegliere tra la difesa di una figlia tutt’altro che ‘perbene’ e i dictat di un potere assoluto a cui era diventato suddito non appena aveva accettato l’incarico del ristorante; l’idea di mandare a monte il lavoro di anni per costruirsi una credibilità in Calabria prima che in Germania, gli toglieva letteralmente il sonno e la tensione che si toccava con le mani non faceva certo bene all’attività: se non avessi deciso in fretta, rischiavo di far scoppiare una guerra familiare; in quegli stessi giorni, venne notizia, dalla nostra provincia di origine, di una storia di sangue che aveva interessato per l’appunto una famiglia risultata ‘sgradita’ al punto che due giovani figli erano stati sorpresi mentre agivano alle spalle e contro il ‘sistema’ ed erano stati barbaramente trucidati in piazza.
Mio padre tremava letteralmente, quando udimmo la notizia dal telegiornale regionale che ricevevamo regolarmente grazie a potenti antenne installate, credo con una spesa notevole; immediatamente si mise al telefono e chiamò tutti i compaesani del territorio informandosi su figlie, nipoti e parenti varie per intercettare quella utile a fornire al ‘capo’ quello che aveva richiesto per il figlio; intanto, di sott’occhi, guardava me con un’aria tra il feroce e il disperato: mi vergognavo molto e corsi in cucina, trovai mia madre e le parlai; non intendevo affatto mettere nei guai mio padre e la famiglia ed avrei accettato di farmi possedere dallo sconosciuto calabrese, chiunque fosse, anche per tutta la durata del suo soggiorno; ma, subito dopo, me ne sarei andata per sempre e non avrei voluto più saperne di mio padre che disponeva di me come se fossi un mobile della cucina.
Mia madre mi invitò a riflettere su quest’ultima considerazione, perché, mi disse, lui aveva già sacrificato tutto il suo orgoglio per accettare la mia ‘ubriacatura di libertà’ che sicuramente non aveva niente né di logico né di razionale e forse neppure di corretto o di umano; toccava a me, adesso, abbassare un poco la cresta e andare incontro a una sua esigenza; inoltre, se avessi saputo scegliere l’atteggiamento col giovane ospite, niente mi impediva di chiedere proprio a lui una sistemazione successiva che mi liberasse dall’asservimento economico a mio padre.
“Se proprio devi prostituirti, almeno fallo con intelligenza; è uno stupido maschio; per quello che ne so è anche un bel ragazzo: con cinque giorni di frequentazione, oltre alle inevitabili copule, c’è tempo per circuirlo, irretirlo e farti garantire un posto di lavoro, anche di prestigio, che ti assicuri il futuro. Hai a che fare con un autentico potere, mafioso ma potere; se ti sai gestire, forse raddrizzi anche la tua vita.”
Ebbe ragione, mia madre; e non ci volle molto per capire che era stata molto oculata: il ragazzo non era il calabrese classico che mi aspettavo: uomo di gran bell’aspetto, elegante, garbato, dai modi raffinati mi piacque subito molto e, riflettendo, forse ci avrei fatto sesso anche senza le pressioni di mio padre; mi sentii una carogna, ma ormai tutto era spianato; riuscimmo perfino a far sembrare che, casualmente, io diventassi la sua accompagnatrice e la sua ombra; ne fu felice, e non lo diceva per cortesia: veramente sentivo che godeva a tenermi accanto, a toccarmi anche senza motivo, a cercare di sentire il calore del mio corpo.
Quando si trattò di sistemarsi per la notte, per un attimo lo guardai quasi interrogandolo.
“Ti va di dormire con me?”
“A te fa piacere?”
Non ci fu bisogno di altro; dopo neanche mezz’ora mi stava spogliando con una delicatezza che non ricordavo pari ed io facevo altrettanto; mi accarezzò a lungo e mi leccò dappertutto, prima di decidere di penetrarmi con un arnese bello grosso e bello duro; copulammo per tutta la notte e ci svegliammo all’alba col caffè che mi madre ci portò, ammiccando complice: con un largo sorriso le comunicai che era andata benissimo; mentre facevamo colazione a letto, il mio amante occasionale mi chiese dei rapporti con mio padre; gli dissi che aspettavo una qualsiasi sistemazione per rendermi indipendente ma che non c’erano molte prospettive; sorrise quasi con superiorità, prese il telefono e formò un numero; parlò a lungo, in stretto calabrese, e alla fine si limitò a comunicarmi.
“La prossima settimana un nostro uomo viene trasferito per motivi logistici ad altra sede; attualmente è il rappresentante della Concessionaria Alfa Romeo in città, ma non fa niente; in realtà coordina i nostri gruppi e di tanto in tanto organizza riunioni operative. Se ti va, dalla prossima settimana tu sarai la direttrice della concessionaria e risponderai poi solo a me di quello che fai o non fai; ti va di essere la mia sostituta in città?”
“Mi chiedi di entrare nell’organizzazione?”
“Perché? Ti illudi forse di esserne fuori? Quando si nasce in certe zone si è marchiati dalla nascita. Credi che mi faccia piacere quello che faccio? Devo ed ho imparato ad adeguarmi. Ti ripeto la domanda: te la senti di rappresentarmi qui in città a di essermi vicino ogni volta che vengo qui?”
“Messa così, essere la tua amante in questa città, mi sta anche meglio; io però ho già una compagna, una donna.”
“Bellissimo!!! E … dimmi … Credi che ci starebbe a fare qualcosa in tre? … Farlo con una lesbica sarebbe meraviglioso!”
“Perché pensi che sia lesbica?”
“Perché te ti ho verificato e sei femmina al cubo, anzi all’ennesima potenza; quindi lei deve per forza essere lesbica e, se mi procuri un appuntamento per un incontro a tre, ti faccio un trono d’oro come mia regina qui.”
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